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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione IX |
| << | < | > | >> |Pagina IXPerché un libro sul regime proprio quando il regime sembra declinare? Conosciamo l'obiezione: l'Italia di Berlusconi non è mai stata un regime, né tantomeno lo è oggi che Berlusconi è in difficoltà e rischia di perdere le elezioni politiche del 2006, dopo aver perduto le europee e le amministrative del 2004. Noi invece pensiamo che il regime ci sia, e che proprio ora, più che mai ora, sia il caso di descriverlo per quello che è, di mettere nero su bianco le sue imprese di questi primi tre anni. Conoscerlo meglio senza dimenticare nulla può essere utile per combatterlo meglio, finché siamo in tempo: l'idea di aspettare che caschi da solo pare riduttiva. Se poi, nel 2006 o quando sarà, il regime cadrà, ricorderemo com'era nato e si era consolidato, magari per sviluppare quel vaccino che Montanelli invocava per immunizzarci dal rischio di una ricaduta. Se invece sventuratamente il regime non cadrà, capiremo meglio perché. Parlare di «regime» nel 2004 significa descrivere un sistema politico che viola il primo comandamento della democrazia liberale: la separazione dei poteri e il reciproco controllo degli uni sugli altri. Non significa evocare il ritorno del fascismo. Quello è un ferrovecchio, figlio del suo tempo e della sua ideologia bacata. Questo è un regime moderno, anzi postmoderno e postideologico. La prima degenerazione di una democrazia occidentale dopo il crollo del muro di Berlino. Un «regime mediatico», per dirla con Indro Montanelli e Giovanni Sartori. «Plutomediatico», come lo chiama Franco Cordero. Un regime fondato sullo strapotere del denaro e sul monopolio dell'informazione. Infinitamente meno trucido e meno tragico dei totalitarismi del XX secolo, anche perché nella storia le tragedie si ripetono sotto forma di farse. Ma, a suo modo, più subdolo e insidioso, proprio per il suo volto sorridente, anzi ridanciano, e per le sue virtù innate di camuffamento. Il regime berlusconiano è come il diavolo di Baudelaire: riesce a convincere i suoi nemici che non esiste. Al massimo - si dice - è un cattivo governo, perché è «di destra» e perché fa disastri. Ma non un regime, per carità. Dunque non lo si combatte per quello è. Lo si affronta dialogando quando fa cose buone e contestando quando ne fa di cattive. Come fanno le sinistre in Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti quando governano i conservatori, e viceversa. Ma questo atteggiamento delle opposizioni è proprio quello auspicato dal regime. Il regime mediatico non ha bisogno di carri armati, squadracce, spedizioni punitive, manganelli, olio di ricino e confino. Provvede a tutto, con i medesimi risultati, la tv. I golpisti di un tempo, molto più sinceri ed espliciti, per prima cosa occupavano le sedi del Parlamento, del governo e della televisione. Berlusconi le possiede e/o controlla tutte, dunque non ha bisogno di occuparne alcuna. E quel poco che non possiede e/o non controlla riesce a condizionarlo con mille armi. Come fece con Montanelli nel '94, addirittura prima della «discesa in campo» ufficiale, quando costrinse il più grande giornalista d'Italia a lasciare il giornale che aveva fondato vent'anni prima. Pareva dovesse accadere un cataclisma, invece non accadde nulla. Così, nel 2001, il Cavaliere ricominciò da dove aveva interrotto eliminando gli altri ostacoli. Allungò persino le grinfie sul «Corriere della Sera», rendendo la vita impossibile al direttore de Bortoli, colpevole soltanto di lasciar liberi i cronisti dei processi «toghe sporche», fino a indurlo alle dimissioni. Perché mai un simile concentrato di poteri dovrebbe sguinzagliare miliziani e picchiatori? Sarebbe, oltreché inutile, controproducente. La gente capirebbe di vivere in un regime e si comporterebbe di conseguenza. Oggi le epurazioni non si fanno più col sistema obsoleto del confino nelle isole: i cittadini aprirebbero gli occhi. Molto più semplice cancellare dal video i personaggi sgraditi, perché il loro esempio serva di lezione a tutti coloro che non vogliono fare la stessa fine. Perché spedire Biagi a Ventotene, quando si può lasciarlo tranquillamente nel suo ufficetto di galleria Vittorio Emanuele a Milano, col risultato di farlo comunque sparire? Perché confinare Santoro in qualche isoletta, quando si ottiene lo stesso risultato lasciandolo in via Teulada, a Roma, avendo cura di non farlo più avvicinare a una telecamera accesa? Se poi qualcuno parla di censura, il regime dispone di un serbatoio inesauribile di alibi, di scuse, di false giustificazioni per dimostrare che censura non è, e di sinonimi per chiamarla in un altro modo.
Analogamente, per punire e neutralizzare gli oppositori (almeno quelli
sgraditi) non occorrono manganelli, olio di ricino e altri arnesi ormai fuori
moda e troppo vistosi. Bastano i telekiller, con le loro campagne mediatiche
fondate sulla calunnia per distruggere la reputazione e piegare la schiena ai
magistrati, ai giornalisti, ai politici, agli intellettuali, agli attori
scomodi. Il manganello degli anni 2000 è il tubo catodico. È più efficace
l'operazione Telekom Serbia con il calunniatore di Stato Igor Marini (il
peracottaro dipinto per mesi a reti unificate come «supertestimone» di sicure
tangenti finite nelle tasche dei leader dell'opposizione) che una manganellata
in una strada buia. In una democrazia matura l'informazione televisiva avrebbe
smascherato quella patacca in mezza giornata e sottolineato che i beneficiari
dell'operazione sono coinvolti nel più grave caso di corruzione giudiziaria
(documentalmente provata, non inventata) della storia d'Europa. In Italia c'è
voluta una lunga indagine della magistratura torinese, del tutto ignorata dalle
tv, tant'è che tutt'oggi milioni di italiani sono convinti o almeno nutrono il
dubbio che il falso testimone Marini avesse ragione e sia stato ridotto al
silenzio da un oscuro complotto delle toghe rosse, mentre la vera testimone
Stefania Ariosto passa per una poco di buono insieme a chi le ha dato retta.
Guardiamo il secondo governo Berlusconi. Il curriculum dei ministri e lo scarto fra promesse elettorali e risultati ottenuti ne fanno il peggiore della storia della Repubblica: nemmeno il primo, non foss'altro che per la breve durata, era riuscito a fare peggio. Eppure, nonostante i continui smottamenti, il Padrone riesce a tenerlo in piedi. Con una terapia a base di lusinghe e minacce. Appena qualcuno, come Marco Follini, dà segni di indipendenza, ecco la voce del Padrone: ti faccio sparare e poi sparire dalle mie tv. Una frase che nessun capo di governo democratico al mondo potrebbe mai pronunciare, perché non c'è al mondo un solo capo di governo democratico che possieda anche lo zero virgola uno di una televisione. Infatti, nelle democrazie normali, i cattivi governi - anche molto meno cattivi del nostro - cadono in breve tempo. Il nostro no. Il nostro stabilisce il record di longevità della storia della Repubblica. E anche quando il premier, al minimo storico di popolarità, perde 4 milioni di voti e 9 punti percentuali, questi finiscono nelle tasche dei suoi alleati: nemmeno uno in quelle delle opposizioni. Il tutto mentre nel resto d'Europa governi molto meno infami perdono molti più voti. Non sarà perché i governi del resto d'Europa non controllano le televisioni e quello italiano sì? Il caso spagnolo è emblematico: Aznar, alla vigilia del voto, racconta che gli attentati di Madrid sono opera dell'Eta pur sapendo che sono targati Al Qaeda. Tutte le televisioni, anche quelle di area governativa, lo sbugiardano a reti unificate. E il partito di Aznar, ultrafavorito fino alla vigilia, viene sconfitto dall'outsider Zapatero. Circostanza che semina il panico in Italia, dove la prospettiva di perdere le elezioni per una sola bugia del premier è piuttosto agghiacciante. Ma quali televisioni potrebbero mai sbugiardare il premier, in un paese dove non sono le tv a controllare il premier, ma è il premier a controllare le tv? «Nelle dittature - scrive Sartori - il dittatore mente quanto vuole senza tema di smentite. Manca il modo per smentirlo: il dittatore comanda su tutti i media, e ne dispone a suo piacimento [...]. In Italia anche la tv "di tutti" è imbavagliata; il che consente a Berlusconi e alla sua squadra di mentire senza "spazio di controprova", senza par condicio per le smentite. Si capisce, a mentire ci provano tutti. Ma dove la tv è autenticamente libera le bugie hanno le gambe corte, mentre da noi hanno gambe lunghissime. La verità, sulla nostra tv, non è accertabile». Anche qui conosciamo l'obiezione: ma Berlusconi, nel '96, le elezioni le ha perse. Certo. Ma un'elezione può essere truccata a prescindere dal risultato. Se anche fosse vero - come sostengono i minimalisti - che il monopolio tv «vale» pochi punti percentuali, in un paese dove due terzi dell'elettorato usano soltanto la tv per informarsi e farsi un'opinione senza mai aprire un giornale né un libro, ciò basterebbe a concludere che le elezioni del '94, del '96 e del 2001 non furono regolari: perché uno dei due candidati ne controllava, nel migliore dei casi, quattro su sei e, nel peggiore, cinque su sei. E il suo avversario non ne possedeva nessuna e ne influenzava, al massimo, una o due. «Se Mussolini avesse avuto la tv» diceva Montanelli «sarebbe ancora qui». E allora la vera domanda è: quanto «vale» Berlusconi al netto delle televisioni? Quanto avrebbe perso Berlusconi nel '96 senza le tv? E siamo certi che, nel '94 e nel 2001, avrebbe vinto ugualmente? Nel '94 le tv gli servirono per «vendere» il prodotto di un partito messo in piedi in pochi mesi contro un pericolo - quello «comunista» - del tutto virtuale: impresa proibitiva anche per un De Gaulle, senza l'ausilio dei teleschermi. Nel 1996, dopo cotanto fallimento, al Cavaliere mancarono i voti della Lega Nord, non certo i suoi. Nel 2001 la minestra era due volte riscaldata, viste le prove penose fornite nel '94 quando Berlusconi era al governo e fra il '96 e il 2001 quando era all'opposizione: eppure gli elettori decisero di mangiarsela un'altra volta, come se fosse la prima («bisogna provarlo», «lasciamolo lavorare»), perché in televisione nessuno aveva raccontato fino in fondo quei disastri. Così come, in questi tre anni, nessuno ha illustrato agli italiani la catastrofe del Berlusconi 2. Il che rende non del tutto improbabile un Berlusconi 3. Se le elezioni del 2004 l'hanno punito, è soltanto perché l'Italia s'è ritrovata più povera e in sicura dopo tre anni di un governo che le aveva promesso più ricchezza e più sicurezza. L'impoverimento del paese, nonostante gli sforzi delle tv per dipingerlo come il regno di Bengodi, lo toccano con mano tutti: ciascuno i conti li fa in tasca propria, senza chiedere lumi al Tg1 o a Vespa. Ma che cosa sanno gli italiani - esclusi gli addetti ai lavori - degli esiti rovinosi della politica scolastica, previdenziale, giudiziaria, sanitaria, internazionale di questo esecutivo? Quello che racconta loro la televisione: cioè poco o nulla; anzi, spesso il contrario della realtà. Senza la crisi economica, probabilmente dalle urne sarebbe uscito tutt'altro responso. Se dovesse arrivare la famosa «ripresina», consentendo a Berlusconi qualche trucchetto contabile per regalare qualche manciata di quattrini alla vigilia delle elezioni sotto forma di riduzione fiscale, il trend negativo potrebbe facilmente ribaltarsi. Anche perché non abbiamo ancora conosciuto il peggio: i prossimi due anni di regime potrebbero farci rimpiangere i primi tre. Già si annunciano nuovi colpi di mano, come l'abrogazione della par condicio e la resa dei conti con l'ultimo villaggio di Asterix che ancora sfugge (almeno formalmente) al controllo: quello di Rai3 e Tg3. A quel punto quanti sorridono alla parola «regime» cambierebbero umore. Il monopolio televisivo è una formidabile arma intimidatoria e corruttrice non solo per gli alleati riottosi, ma anche per le opposizioni. Per questo, paradossalmente, Berlusconi vince anche quando perde le elezioni. Negli ultimi vent'anni, che lui stesse in maggioranza o in minoranza, che lui stesse dentro o fuori dal Parlamento, non è mai passata una legge in materia di televisione o di giustizia a lui sgradita. Anzi, su questi due fronti, che sono poi gli unici che gli interessano, passano sempre e soltanto le leggi che vuole lui. Dai decreti craxiani salva-Fininvest del 1984-85, alla legge Mammì del '90; dalle proroghe incostituzionali della legge Maccanico (1998, Ulivo) per neutralizzare la sentenza della Consulta del '94, alle leggi sulla giustizia scritte da Previti e approvate da destra e sinistra nella legislatura 1996-2001, giù fino agli inciuci della Bicamerale, senza dimenticare il Lodo Maccanico (ancora lui) per immunizzare il premier dai suoi processi, la storia degli anni Ottanta e Novanta è costellata di trasversalismi che, alla resa dei conti e a dispetto delle polemiche di facciata, fanno di Berlusconi un premier ombra che governa non da tre anni, ma da venti. E non perde mai. Nemmeno quando vincono gli odiati «comunisti». Qualche ingenuo pensa che il monopolio televisivo serva a Berlusconi per apparire in video più dei politici concorrenti, e si inerpica in inutili dibattiti sul «minutaggio» dei leader. Quisquilie. Il controllo sulle televisioni (e sulla pubblicità) serve soprattutto ad altro. Primo: distribuire posti e favori; condizionare anche tacitamente la carriera di migliaia di giornalisti, direttori, editori, intellettuali; scatenare o far balenare attacchi; vellicare la vanità e l'ambizione di chi per andare in video venderebbe sua madre; premiare chi si comporta bene, punire chi si comporta male, blandire chi è in dubbio sul da farsi. Secondo: il monopolio televisivo serve a manipolare le notizie, a nascondere quelle sgradite senza il timore che qualche televisione concorrente le riveli (nel monopolio, non esiste concorrenza), a enfatizzare quelle gradite, a distrarre l'attenzione dai problemi veri con diversivi fabbricati ad hoc (quelle che Sabina Guzzanti chiama «armi di distrazione di massa»), a inventare scuse per i pochi insuccessi del governo che l'opinione pubblica riesce a notare. Nell'Italia del 2004 il regime può ancora attribuire la mancata ripresa economica e la mancata riduzione fiscale all'l1 settembre 2001, quasi che un attentato negli Stati Uniti potesse danneggiare l'economia italiana più di quella americana, che nel frattempo ha conosciuto due successive riprese. Ancora: quanti hanno visto, al Tg1, il ministro Tremonti illustrare il presunto «buco» da 60 mila miliardi lasciato dall'Ulivo? Una decina di milioni. Quanti hanno poi saputo che quel buco non esisteva, a differenza di quello poi lasciato da tre anni di cura Tremanti (accusato dal vicepremier Fini di avere presentato «conti truccati» e, implicitamente, dal suo ex collaboratore e successore Domenico Siniscalco, che si appresta a una serie di supermanovre finanziarie per coprire una voragine di 60 mila miliardi)? Pochissimi. Così gli italiani galleggiano in una realtà virtuale preconfezionata dal regime: una placenta fasulla, fittizia, che non ha alcuna attinenza con la vita reale, creata in laboratorio come la finta guerra dell'America all'Albania nel film Sesso e potere. Un mondo dei sogni, anzi degli incubi, dove le missioni di guerra diventano missioni di pace, dove i poveri che non arrivano a fine mese sono ricchi con una scarsa percezione del proprio benessere, dove gli imputati diventano giudici dei loro giudici e i giudici diventano imputati dei loro imputati, dove governano i ladri travestiti da guardie dopo aver travestito le guardie da ladri. Un mondo alla rovescia che però sembra perfetto, anche perché milioni di persone guardano Porta a Porta e il Tg1, pensando che Vespa e Mimun abbiano qualcosa a che fare con l'informazione. Il che, tecnicamente, si chiama ossimoro. Terzo: il monopolio televisivo serve a dettare l'«agenda» ai cittadini-telespettatori-elettori. A imporre l'unità di misura - una sola, quella del Padrone - per valutare gli avvenimenti, graduare la scala dei valori, calare dall'alto il modello di vita, fissare la priorità nelle aspettative, preoccupazioni, gioie, dolori, bisogni, ansie, paure. Se di un fatto o di un argomento la televisione non parla mai, la gente si convince che non esiste, o non è importante. Dunque non è il caso di spenderci del tempo. Nessuna persona normale ha mai sentito l'impellente esigenza del premierato forte, della devolution, dell'immunità per il capo del governo e magari per tutti i politici, del legittimo sospetto per traslocare i processi da un tribunale all'altro, della separazione delle carriere dei magistrati o del ponte sullo stretto di Messina. Eppure è di queste astruserie che si occupa il regime con la sottostante «informazione», fino a convincere tanta brava gente di averne un fottuto bisogno. Il Tg5 del libero e indipendente Enrico Mentana, negli ultimi mesi prima delle elezioni del 2001, era un bollettino di guerra a base di sbarchi di clandestini, omicidi per le strade e rapine nelle ville. L'«emergenza criminalità» era una rubrica fissa. Quando poi s'insediò il governo delle «città più sicure», sbarchi, rapine, omicidi continuarono come prima e più di prima. Ma sparirono (o quasi) dal video. L'Agenda Unica condiziona pesantemente anche l'opposizione, peraltro ben felice di farsene condizionare. Se la televisione ignora i processi di Berlusconi, le liaisons dangereuses di Berlusconi, il conflitto d'interessi di Berlusconi, chiunque ne parli è visto come un marziano appena atterrato, un mattoide clamans in deserto, un soggetto bizzarro in preda a fissazioni e ossessioni. Infatti, di quegli scandali, l'opposizione parla sempre più raramente e malvolentieri. Per non uscire mai dal recinto dell'Agenda Unica che il regime ha tracciato per lei: un recinto di filo spinato denominato «riformismo» che distingue l'opposizione buona e dialogante da quella cattiva, «estremista», «massimalista», «giacobina», «girotondina», «giustizialista». L'Agenda Unica ingabbia l'informazione: dalla truffa del «riformismo» all'italiana discende, per la legge degli opposti, quella della «demonizzazione» per squalificare chiunque descriva o persegua gli scandali berlusconiani. La «demonizzazione» è un'altra categoria del tutto sconosciuta nelle democrazie vere, dove scandali infinitamente meno gravi suscitano reazioni infinitamente più accese. E dove nessun giornalista che se ne occupi viene considerato altro da quel che è: un giornalista che fa il suo mestiere. In Italia il regime ha delegittimato tutte le istituzioni di garanzia - magistratura, corte costituzionale, informazione - scaraventandole a forza nella mischia del gioco politico. I giudici vengono etichettati politicamente a seconda del colore dei loro imputati. Le sentenze sono «politiche» (e dunque non valgono) se non piacciono al regime. Idem per l'informazione. A ogni notizia scomoda, anziché domandarsi se è vera o falsa, ci si domanda a chi conviene e chi è il mandante del giornalista che l'ha data. Così, per sfuggire all'accusa di fare il gioco di questo o di quello, la stragrande maggioranza dei giornalisti si astengono dai temi tabù, che diventano esclusiva di pochi iniziati: i fissati, appunto, i demonizzatori, i marziani, i malati. Sempre più isolati anche nella loro categoria. Ciò che nelle democrazie vere è normalità, in Italia diventa eccezione. Patologia. Devianza.
Più ci si allontana dall'Italia e ci si avvicina
alle democrazie vere, più l'anomalia italiana viene colta e denunciata in tutta
la sua drammaticità: dalla stampa estera di ogni orientamento, dalle istituzioni
come il Parlamento europeo, il Consiglio d'Europa e l'Osce, dagli organismi
internazionali come Reporters sans frontières e Freedom House. Per timore del
contagio. Soltanto nella Thailandia del presidente Thaksin Shinawatra il capo
del governo è proprietario delle televisioni, mentre quello del Kazakistan ha
pensato bene di privatizzare la tv di Stato intestandola alla figlia. Soltanto
nella Russia di Putin il Cavaliere si sente davvero a casa sua e trova la
massima comprensione: Putin e Berlusconi sono, in questo senso, gli ultimi
epigoni del socialismo reale, con un controllo capillare sui media che contano.
Solo uno psicanalista potrebbe spiegare la scelta della Bulgaria per il
famigerato
ukase
berlusconiano contro Biagi, Santoro e Luttazzi.
Il regime mediatico, illegale e incostituzionale, si trincera continuamente dietro una patina di pseudolegalità, svuotando l'informazione e invertendo il significato delle parole. Dopo aver abrogato i fatti e coloro che li raccontavano, ha confiscato e cancellato il vocabolario. La notizia, com'è noto, è la somma di fatti e parole. Senza fatti né parole, l'informazione sparisce. Il regime ne ha brevettata una versione altamente innovativa, che prescinde dalla realtà e si riduce a comunicazione, propaganda, spot. Solo così riesce a occultare le sue vergogne quotidiane, senza mai chiamarle con il loro nome. Epurazioni e censure vengono regolarmente giustificate in nome dell'«obiettività» contro la «faziosità». Ma obiettività non significa non avere idee: significa partire dal proprio punto di vista e applicarlo imparzialmente a tutti. Fazioso non è chi ha delle idee: è chi le cambia a seconda delle convenienze, usando due pesi e due misure. Obiettivo è Santoro, giornalista di sinistra che va sul ponte di Belgrado per denunciare la guerra di un governo di sinistra (D'Alema) dalla parte delle vittime. Fazioso è Ferrara che fa il moralista contro Di Pietro e Prodi sui (falsi) scandali di La Spezia e Telekom Serbia e il difensore d'ufficio di Berlusconi sul (vero) scandalo delle toghe sporche. Infatti Santoro in tv non c'è più, Ferrara c'è ogni sera. Altro esempio, altro alibi: la par condicio. È una legge emergenziale varata per garantire parità di accesso alla televisione a tutte le forze politiche in campagna elettorale, in un paese dove il leader di uno dei due schieramenti è proprietario di tre televisioni su sei e ne controlla ora un'altra, ora altre due. Bene: questa legge viene continuamente violata dal regime. In compenso il concetto di par condicio viene invocato a sproposito per tappare la bocca a giornalisti, comici, intellettuali. La par condicio nella satira (una battuta di qua, una di là). E la par condicio nei dibattiti: non per dar voce a tutti, ma per bloccare gli argomenti scomodi anche se di bruciante attualità. Mentre il Padrone monologa da mane a sera, a reti unificate o a Porta a Porta, sfuggendo a qualsiasi confronto, tutti gli altri devono parlare circondati da un cordone sanitario di contraddittori che urlano «comunisti, comunisti, comunisti». Così la par condicio, calpestata laddove dovrebbe valere, viene applicata abusivamente a tutti coloro che non vi dovrebbero sottostare. Così, nella campagna elettorale del 2004, viene soppresso un programma sulla mafia e l'assassinio di Giovanni Falcone perché manca il contraddittorio: e chi sarebbe la controparte di un giudice antimafia, per giunta morto ammazzato? Totò Riina che l'ha fatto saltare?
Di argomenti sgraditi a Berlusconi, in tv, non si può parlare in assenza di
Berlusconi. Ma, visto che Berlusconi si sottrae al contraddittorio da dieci
anni, di argomenti sgraditi a Berlusconi non si parla in tv da dieci anni. Fanno
eccezione un paio di programmi,
subito denunciati all'Authority e alla Vigilanza (organismi superlottizzati,
tipici prodotti della cultura illiberale che in Italia accomuna destra e
sinistra), trascinati in tribunale con richieste di decine di miliardi e
sanzionati con brutali epurazioni. Le denunce, anche le più pretestuose,
diventano un'altra arma di censura. Basta una querela perché la Rai smetta di
occuparsi di un certo tema scomodo e punisca chi aveva osato trattarlo. Purché
sia sgradito al regime. Le denunce contro Vespa, per dire, non hanno mai
provocato censure né sanzioni. Solo promozioni.
Il regime mediatico, per affermarsi e consolidarsi, necessita della collaborazione dell'opposizione, o almeno di una parte di essa: quella cosiddetta «riformista». I fatti dimostrano che l'ha avuta spesso: l'ispezione al Tg3 avallata dall'Annunziata, la censura della Guzzanti firmata da Ruffini, l'uscita di scena di de Bortoli minimizzata da Fassino e Bertinotti, le reazioni tutto sommato blande dal centrosinistra alle epurazioni di Biagi, Santoro, Luttazzi, Freccero, Fini, Guzzanti, Rossi e così via, dopo le quali nessuna iniziativa eclatante è stata adottata dalle minoranze. Nemmeno quando la Rai, presieduta dalla stessa Annunziata, ha ignorato le sentenze della magistratura che imponevano il reintegro di Santoro. In una democrazia vera, se il premier avesse licenziato dalla Bulgaria i migliori giornalisti e artisti dalla tv pubblica, essendo oltretutto proprietario delle reti concorrenti, le opposizioni avrebbero occupato il Parlamento, disertato i teleschermi, mobilitato le piazze, proclamato lo sciopero del canone, denunciato lo scandalo in tutte le sedi internazionali, fino a ottenere la rimessa in onda dei personaggi epurati. In Italia nulla di tutto questo: nemmeno un'ora di Aventino televisivo in segno di solidarietà con gli epurati e di protesta contro le epurazioni. Solo vuote e inutili esercitazioni retoriche, peraltro durate pochi giorni. Nessuna reazione proporzionata alla gravità dei fatti. In fondo gli epurati non piacciono nemmeno a sinistra: personaggi troppo liberi, incontrollabili, riottosi agli ordini di scuderia. Anche il centrosinistra discende perlopiù da culture autoritarie (comunismo, craxismo, clericalismo), impermeabili a valori liberali come la divisione dei poteri. Per questo non avverte gli attacchi alla libertà d'informazione e all'indipendenza della magistratura come attentati alla democrazia. Perché soffre di un'insofferenza congenita verso i controlli di autorità terze di garanzia. I leader del centrosinistra misurano la libertà d'informazione non dal numero di notizie vere e di giornalisti liberi in circolazione, ma dal numero di poltrone a loro riservate nei talk show di Vespa e Costanzo (amatissimi anche a sinistra) e dal numero di amici presenti ai vertici delle televisioni e dei giornali. Le sole mobilitazioni contro epurazioni e censure di regime le hanno promosse i girotondi e i movimenti, guardati con crescente fastidio dalla stessa opposizione, e alcuni comitati e associazioni messi in piedi da politici «anomali» (Articolo 21 di Federico Orlando e Beppe Giulietti, Opposizione civile di Sylos Labini, Veltri e Marzo, La legge è uguale per tutti di Nando Dalla Chiesa). La stessa categoria dei giornalisti, a parte l'impegno di alcuni leader sindacali come Paolo Serventi Longhi, ha seguito il tutto con indifferenza e distrazione, come se si trattasse di spiacevoli casi personali che riguardavano alcuni giornalisti famosi e non fossero invece in gioco la libertà di tutta la stampa e il diritto di tutti i cittadini (ed elettori) a essere informati. Il regime mediatico produce autocensura, conformismo, servilismo, piaggeria in quantità ancora superiori a quelle già presenti in una cultura cortigiana come quella italiana. Per un giovane neoassunto alla Rai, la scena di Biagi, Santoro & C. cacciati a pedate su mandato del premier vale più di tanti ordini e di tante censure: se il regime impiega così poco a silurare i grandi, le migliaia di piccoli sanno che cosa devono (e non devono) fare per mantenere il posto di lavoro e progredire in carriera. La logica è la stessa delle Br, solo leggermente aggiornata: colpirne qualcuno per educarli tutti. Il regime mediatico, come ogni sistema autoritario, è il regno della mediocrità e la negazione del talento. Vince Salieri e perde Mozart. Perché il libero mercato non esiste. Se vigesse la concorrenza, Biagi, Santoro, Luttazzi, Sabina Guzzanti e Paolo Rossi, tutti fuoriclasse, tutti re dell'audience, una volta cacciati dalla Rai avrebbero impiegato un paio di minuti a ricevere offerte principesche da altre televisioni. Ma nel regime mediatico non esistono altre televisioni. Esiste la Televisione Unica controllata dal Padrone Unico e suddivisa convenzionalmente in sei canali (più uno finto, La7, di cui racconteremo la storia particolarmente istruttiva) che riflettono tutti lo stesso pensiero, gli stessi interessi, la stessa visione del mondo. Si dirà: le censure e le epurazioni ci sono sempre state. E in parte è vero. Ce ne sono sempre state. Ma un sistema fondato sulla censura scientifica e sull'epurazione sistematica elevate a regola senza possibilità di scampo, questo no, non c'era mai stato. L'orrenda spartizione denominata «lottizzazione» garantiva quantomeno una pluralità di voci, sia pure all'interno delle culture rappresentate in Parlamento (outsider, cani sciolti, disobbedienti e anarchici alla Massimo Fini erano esclusi a priori). Ora regna l'occupazione di uno solo al servizio di uno solo, come dimostra la metamorfosi del Tg1 dopo la cura Mimun: da megafono di tutti i poteri forti a trombetta di un solo uomo, sempre lo stesso, sempre Lui. Viale Mazzini è oggi occupata da uomini Mediaset: infatti continua a perdere ascolti a vantaggio di Mediaset. Quando un giornalista francese chiede alla Rai di acquistare le immagini del processo Dell'Utri, si sente rispondere che bisognerebbe chiedere il permesso a Dell'Utri e anche a Berlusconi, come se i padroni fossero loro. E quando la televisione tedesca chiede le riprese del processo Andreotti, la risposta è la stessa: non si può. Anche se il tribunale di Palermo ha incaricato la Rai di filmare le udienze per conto di tutte le altre emittenti interessate. Segreto di Stato. Negli anni della televisione lottizzata, lavoravano insieme Montanelli, Biagi, Santoro, Minoli, Lerner, Barbato, Zavoli, Ferrara, Funari, Feltri, Zucconi, Letta, Bisiach, Augias, Vespa, Deaglio, Riotta, Annunziata, Cugia, Beha, Gabanelli, Guzzanti (padre e figli), Grillo, Fo, Luttazzi, Paolo Rossi, Chiambretti, Fazio e così via. Il regime, in tre anni, ha desertificato e narcotizzato tutto e tutti. I suoi figli migliori sono i Del Noce e i Marano, protagonisti del tracollo del servizio pubblico di pari passo con la censura più sfrontata. Il modello di giornalismo è Bruno Vespa, il più grande anestesista del secolo, con i suoi nipotini in sedicesimo: i Giorgino, i Pionati e le La Rosa in tv, i Socillo e i Mensurati alla radio, e altre maschere che i lettori di questo libro impareranno a conoscere. Giù giù fino ad Antonio Socci, il re del non-ascolto, il campione della non-televisione, uno che ha sbancato l'Auditel all'incontrario riuscendo a far peggio del monoscopio, uno a cui Mediaset non si sognerebbe mai di affidare un programma, né tantomeno una rete. E non perché sia di destra, o cattolico. Ma perché non è capace. Ecco: non è vero che il regime abbia sostituito l'informazione di sinistra con l'informazione di destra. Ha semplicemente eliminato l'informazione, spazzando via i giornalisti bravi e liberi, indipendentemente dal loro colore. Il denominatore comune di Montanelli, Biagi, Santoro, Fini, de Bortoli e Mieli (bloccato sulla soglia della presidenza Rai) non è il colore politico: è il talento, la libertà, l'incontrollabilità. Per i «progressisti» alla Palombelli, alla Ruffini, alla Annunziata, alla Costanzo e alla Mentana un posto lo si troverà sempre. È venuto il momento di lasciar parlare i fatti degli ultimi tre anni. Alla fine, ciascuno potrà decidere con più cognizione di causa se questo è un regime o no. Basterà rispondere a due semplici domande. In quale democrazia accadono queste cose? E come si chiamano i posti dove queste cose accadono? P.G. e M.T. | << | < | > | >> |Pagina 74«Io non mi pento»
Mercoledì 17 aprile Baldassarre sale a Milano per incontrarlo. Un'ora di
colloquio per parlare della nuova stagione e ribadire che «Biagi rappresenta la
Rai». Ma l'indomani, in una conferenza stampa da Sofia, Berlusconi spara. Biagi
risponde a stretto giro, con una dichiarazione all' Ansa:
L'uso della lingua italiana non è il forte del presidente del Consiglio e la
frequentazione con Bossi non lo aiuta a esercitarlo, ma siccome ha detto «uso
criminoso della tv», vorrei sapere quale reato ho commesso: stupro, assassinio,
rapina? Non sono certo un suo estimatore, ma non credo di aver fatto niente.
Sono stupito che, mentre il mondo si preoccupa del Medioriente e
dell'Afghanistan, il presidente del Consiglio di un paese di circa 60 milioni di
abitanti in giro per il mondo si preoccupi invece di Santoro, Luttazzi e Biagi.
Sono atteggiamenti che fanno riflettere: il presidente del Consiglio ha un
concetto della libertà di stampa che mi pare ristretto. È un peccato che non si
possa querelare il presidente del Consiglio, perché lui ha diritto di critica.
Mi viene in mente quello che disse una volta John Kenneth Galbraith a proposito
di un certo personaggio: «In altri tempi sarebbe stato un fascista, ora è
soltanto un cretino». Uno che fa battute come quella di Berlusconi dimostra che,
nonostante si alzi i tacchi, non è all'altezza. Purtroppo si dimostra che
gestire un paese è un po' più complicato che gestire un'azienda. Continuo a
credere che un presidente del Consiglio che ha conti aperti con la giustizia
avrebbe dovuto avere la decenza di sbrigare prima le sue pratiche legali e poi
proporsi come guida del paese.
Poi prepara un editoriale straordinario, intitolato
Libertà e pluralismo,
che legge quella stessa sera a
Il fatto:
Non è un gran giorno per l'Italia: per quello che succede in casa e per quello che si dice fuori. A Milano, lo sapete, un piccolo aereo da turismo è andato a sbattere contro il Pirellone [...], Disgrazia. Ma c'è anche chi all'estero parla di crimine. Da Sofia il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non trova di meglio che segnalare tre biechi individui, in ordine alfabetico: Biagi, Luttazzi, Santoro che, cito tra virgolette, «hanno fatto un uso della televisione pubblica - pagata con i soldi di tutti - criminoso. Credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza Rai di non permettere più che questo avvenga». Chiuse le virgolette. Quale sarebbe il reato? Stupro, assassinio, rapina, furto, incitamento alla delinquenza, falso o diffamazione? Denunci. Poi il presidente Berlusconi, siccome non prevede nei tre biechi personaggi pentimento o redenzione - pur non avendo niente di personale -, lascerebbe intendere, se interpretiamo bene, che dovrebbero togliere il disturbo. Signor presidente Berlusconi, dia disposizione di procedere, perché la mia età e il senso di rispetto che ho per me stesso mi vietano di adeguarmi ai suoi desideri. Sono ancora convinto che in questa nostra Repubblica ci sia spazio per la libertà di stampa. E che ci sia perfino in questa azienda che, essendo proprio di tutti, come lei dice, vorrà sentire tutte le opinioni. Perché questo, signor presidente, è il principio della democrazia. Sta scritto, dia un'occhiata, nella Costituzione. In America, ne avrà sentito parlare, Richard Nixon dovette lasciare la Casa Bianca per un'operazione chiamata Watergate, condotta da giovani cronisti alle dipendenze di quel grande e libero editore che era la signora Katharine Graham proprietaria del «Washington Post». Questa, tra l'altro, viene presentata come televisione di Stato, anche se qualcuno tende a farla di governo, ma è il pubblico che giudica. Nove volte su dieci, controllare, Il fatto è la trasmissione più vista della Rai. Lavoro qui dal 1961 e sono affezionato a questa azienda. Le voglio bene. Ed è la prima volta che un presidente del Consiglio decide il palinsesto, cioè i programmi, e chiede che due giornalisti, Biagi e Santoro, dovrebbero entrare nella categoria dei disoccupati. L'idea poi di cacciare il comico Luttazzi è più da impresario, quale lei è del resto, che da statista. Cari telespettatori, questa potrebbe essere l'ultima puntata de Il fatto. Dopo 814 trasmissioni, non è il caso di commemorarci. Eventualmente, è meglio essere cacciati per aver detto qualche verità, che restare al prezzo di certi patteggiamenti. Signor presidente Berlusconi, non tocca a lei licenziarmi. Penso che qualcuno mi accuserà di un uso personale del mio programma che, del resto, faccio da anni, ma ho voluto raccontare una storia che va al di là della mia trascurabile persona e che coinvolge un problema fondamentale: quello della libertà di espressione. | << | < | > | >> |Pagina 186Fascisti su Roma
Al «Varietà di protesta» dell'Auditorium accorrono almeno 30 mila persone: 4
mila dentro e tutte le altre fuori, un lungo serpentone incollato ai
maxischermi. Nessun leader politico è presente: Fassino, Rutelli, Bertinotti e
Pecoraro Scanio inviano messaggi di solidarietà. Sul palco, presentati da Serena
Dandini, salgono Sabrina Impacciatore, Rosalia Porcaro, Marco Marzocca, Fiorella
Mannoia, Nicola Piovani, Neri Marcorè, Davide Riondino e Paolo Rossi. «Una volta
- dice quest'ultimo - facevo il comico, credevo di essere bravo, poi è arrivato
uno più bravo di me: Berlusconi». Inviano messaggi videoregistrati Luttazzi (che
incita al boicottaggio dei prodotti legati al gruppo Fininvest-Mediaset), Dario
Fo e Franca Rame. Grillo si collega al telefono da un teatro dov'è impegnato in
tournèe. «Vedo Santoro in sala, ma che stiamo facendo, una televisione?»,
domanda la Dandini. Sabina racconta il caso
RaiOt,
parla a ruota libera della guerra, di Sharon, di Previti, di Ferrara («dichiara
guerra alla Francia, alla Germania, all'Iran: bisognerebbe dirgli che è soltanto
grasso, ma non fa capoluogo»). E ancora di Lucia Annunziata, che «riesce a
essere sia di destra che di sinistra contemporaneamente» e «conosce quattro o
cinque lingue, ma non ne parla nemmeno una». Infine si cala nei panni di D'Alema
e di Berlusconi. Uno dei pezzi più applauditi è il monologo del fratello
Corrado, in orbace e fez mussoliniano, con mascella volitiva e busto del Duce
sotto braccio. Un inedito dalla saga
Fascisti su Marte:
A noi! Sovversivi di terra, di cielo e di mare, uomini, donne e balilla d'Italia, oggi, 23 novembre di romanissimo autunno, siamo qui alla presenza dei conti Motta, Buffo e Molliconi a difendere la satira e questa giovine italiana il cui solo delitto è di esser nervosa perché ancora non ha figliato. Noi ai tempi dell'Eiar mai si usarono le vistose formule liberal-giolittiane della sospesa, della prodotta ma non riprodotta: noi si cacciava! Ma non dalla radio: dall'Italia! Però il coraggio di dirlo, per Dio! Che cos'è quest'ipocrisia? Questo non è un vero regime, nulla hanno imparato dalla Storia. Anche noi, nei primi tempi, con Matteotti dicemmo: registra prima i tuoi interventi, poi noi li vediamo. Non funzionò! Ma io non voglio sentir parlare di regime, il regime è una cosa seria: quando noi facemmo le leggi fascistissime avevamo già fatto il colpo di Stato: prima il colpo e poi le leggi, sennò la gente non capisce. Uno straccio di marcia la vogliamo fare o ci si guasta il fondotinta? Quando da noi si parlò di televisione, il Duce non s'attardò su gasparrismi confusi e digitaloidi. Egli, intriso di patria fino alle volitive ascelle, da subito studiò la nuova riforma: tre canali al regime, quattro al fascismo e gli ultimi due liberi con forti disturbi elettromagnetici... Questo non è regime. Del fascismo essi hanno tutte le idee, ma non hanno il coraggio di sostenerle con littoria virilità. Sono vili! Quello dice le cose e poi le smentisce... Fanno, disfano e aggiustano a piacer loro ma ancora usano la parola par condicio. Cosa c'entra, cosa vuol dire, cos'è par condicio? È una bestemmia venuta male? Il Duce non smentiva mai! Egli, dopo il delitto Cirami o il delitto lodo Schifani, avrebbe sfidato il Parlamento. Dov'è il coraggio? Dov'è l'onore? Come motosi topi, essi si vergognano di ciò che fanno, si muovono nella notte, si passano i malanni attraverso i conti correnti. Vili! È facile nascondersi dietro Ferrara, io ci ho parcheggiato un'Audi! E da noi, fascisti veri e littori della storia d'Italia, che cosa vogliono poi, che cos'è questo cosiddetto revisionismo: il regime benevolo? «Il regime non ha mai fatto male a nessuno». Ma come? Cazzo! Io stesso ho picchiato e smanganellato a destra e a mancina tutti i giorni, dal '22 al '38! Me lo sono sognato? E si sarebbe subìta l'alleanza con l'imbianchino austriaco. Ma come! Scherziamo? Gli si è insegnato noi! Lo si è svezzato con l'amore di una mamma littoria, lo si veniva a prendere al treno come un bimbo al ritorno dalla villeggiatura. Cosa revisionano? Questa è una milizia di avvocatucoli, commercialisti col riporto cerchiobottaio, plutocrati senza ideali, corruttori semplici... senza neanche la crema! Oggi la nobile difesa della razza è un piagnucolio sconnesso da donnette. Ci si accende al riparo dei comizi padani, ma poi in Parlamento ci si nasconde dietro i farfuglli e le trepide quisquilie sul lavoro e la sicurezza. Ma cosa? Ma ditelo, per Dio! Non li vogliamo perché sono diversi, di-ver-si! Oggi sento dire: le leggi razziali furono un errore, quell'altro ha dato la mano a Sharon, chissà se gliel'ha restituita... Satira! E voi, voi non siete dei veri comunisti, voi non chiedete la rivoluzione, la dittatura del proletariato, chiedete solo libertà e giustizia, chiedete banalmente che vengano applicate le leggi già esistenti, che venga rispettata la Costituzione. Ma queste sono solo semplici battaglie civili, dov'è il bolscevismo? Vedo qui dei semplicissimi cittadini. Volete la democrazia, povere anime, ma non capite che il problema è aritmetico: se noi esportiamo tutta la democrazia, a noi quanta ce ne può restare? Comunisti veri qui neanche l'ombra e invece là si va a braccetto con quelli veri e li si difende pure! Che cos'è questa mezza frase: il problema ceceno non esiste? E dillo almeno bene: il problema ceceno non esiste più!... Satira! Italiani, questo non è un regime, ma durerà vent'anni e forse anche più perché voi li lascerete fare. Noi si ebbe contro quel diavolo di Turati, l'odioso Gramsci, i fratelli Rosselli. Voi chi avete? Un Aventino di post-baciapile, sornioni baffettisti, demopoltronari, margheroidi, damerini, marcondirondellisti! E non sperate nel piccolo Vittorio Emanuele Ciampi! Egli firma tutto. Forse pensa siano ancora cambiali! Basta, via... Il pezzo satirico è finito, manca la chiusa. Mi auguro stavolta che ce la mettiate voi. Per quel che ci concerne, noi s'offre ospitalità alla giovine italiana su Marte come fosse una sorella! E lì ce n'è di spazio e di calzerotti da lavare. Ella in fondo è colpevole solo d'aver detto cose dette e risapute, pubblicate e ripubblicate e ripubblicate! Quindi l'unica che può fare veramente causa è la Siae. Grazie. | << | < | > | >> |Pagina 217Pare a noi che il «Corriere» [...] potrebbe, ripigliando la sua antica tradizione di giudice pacato ed obiettivo, prestare al fascismo quella serena attesa che ormai gli è offerta dagli uomini più rappresentativi d'ogni colore politico affine al nostro, senza infliggergli continui colpi di spillo. L'editore Mario Crespi al direttore antifascista Luigi Albertini, giugno 1923Il primo allarme Ferruccio de Bortoli lo lancia la mattina del 22 febbraio 2002. Quel giorno il direttore del «Corriere della Sera» apre la riunione di redazione scuro in volto e, senza mai accennare al governo, dice ai capiredattori e ai capiservizio: «Le pressioni si fanno sentire. L'impressione è che vogliano un'informazione vassalla. È un problema: parlatene con i colleghi». Ai giornalisti di via Solferino non servono domande per capire. Dopo due articoli sul conflitto d'interessi firmati dal politologo liberalconservatore Giovanni Sartori, sono piovute le telefonate di protesta di Paolo Bonaiuti da Palazzo Chigi. E soprattutto una raffica di pressioni sempre più insistenti, tutte incentrate sui processi milanesi che vedono imputati il premier e il fido Cesare Previti per corruzione giudiziaria. È dal 1999 che Previti tempesta il «Corriere» con lettere su lettere (regolarmente pubblicate), in un crescendo di attacchi ai giudici e ai giornalisti. La Fininvest non è da meno: proteste e pressioni non solo a proposito dei processi, ma anche in difesa della legge Gasparri, molto apprezzata in casa del Biscione. Nel 2001 il quotidiano della borghesia milanese, ha guardato con simpatia alla vittoria di Berlusconi. Ma senza modificare la vecchia e sacra regola delle notizie: si danno sempre, si danno tutte. Per questo, nell'autunno 2001, quando la maggioranza approva a tappe forzate la legge sulle rogatorie per rendere inutilizzabile la documentazione bancaria giunta dalla Svizzera che inchioda Previti, la Fininvest e alcuni giudici romani, esplode il primo casus belli. Il cronista giudiziario Paolo Biondani pubblica due lunghi articoli che illustrano il contenuto di quelle carte. Insieme alla replica degli avvocati difensori, il «Corriere» mette in pagina anche le fotografie delle contabili bancarie che costituiscono la «prova regina» del processo: il doppio bonifico che il 6 marzo 1991 trasferì 434.404 dollari dal conto estero «Ferrido», gestito dal dirigente della tesoreria Fininvest Giuseppino Scabini, al conto estero «Mercier» di Cesare Previti, al conto estero «Rowena» del giudice Renato Squillante. Quella di Biondani è cronaca pura: spiega ai lettori perché la legge sulle rogatorie è così urgente per il premier imputato. La maggioranza, ovviamente, non la prende bene. Vedere stampate nero su bianco le prove documentali dei passaggi di denaro, cioè della corruzione dei giudici, è un brutto colpo. Difficile parlare ancora di «teoremi politici» o discettare sull'attendibilità di Stefania Ariosto. Carta canta. La Fininvest protesta, ma non smentisce. Né d'altronde potrebbe farlo, perché i documenti sono autentici, anche se il Parlamento vorrebbe cancellarli per legge. Ma in una nota l'azienda si dichiara «sconcertata di fronte a comportamenti giornalistici di questo tipo e si augura che le loro reali motivazioni nulla abbiano a che fare con inaccettabili speculazioni di carattere politico». «Sconcertati siamo noi», ribatte de Bortoli a chi «insinua un inaccettabile sospetto di speculazione politica» in un articolo di pura cronaca. Sembra un temporale d'autunno: uno di quegli scontri che costellano i rapporti spesso burrascosi fra stampa e potere. Già nel novembre '97 l'allora segretario del Pds Massimo D'Alema aveva denunciato all'Ordine dei giornalisti de Bortoli e altri due giornalisti del «Corriere», per una serie d'articoli su un presunto piano per «ulivizzare il sindacato», cioè per creare un'unica rappresentanza dei lavoratori e depotenziare la Cgil di Sergio Cofferati. L'Ordine aveva poi stabilito la correttezza del «Corriere» e del suo direttore. Ma D'Alema si era rivolto al tribunale civile, dicendosi diffamato da un editoriale di de Bortoli che definiva il suo esposto «l'ultimo di una serie di atti d'intimidazione nei confronti di un giornale libero da parte di un uomo politico: atti che ricordano il miglior Craxi». E la guerra era proseguita fino al gennaio '99, quando - auspice Indro Montanelli - il segretario e il direttore avevano fatto pace nel ristorante dell'Hotel Diana di Milano, davanti a un piatto di risotto. Ora però lo scontro con Berlusconi, Previti e i loro pretoriani è qualcosa di molto diverso. Tre anni di pressioni, ogni giorno più pesanti e minacciose. Al punto da indurre persino l'editore Cesare Romiti, uomo prudente e non certo antiberlusconiano, a uscire allo scoperto il 20 aprile 2002 alla presentazione del Premio Montanelli: «Mi sembra di vedere di nuovo una voglia di limitare la libertà». Da tempo ormai l'offensiva berlusconiana è passata agli attacchi ad personam contro i singoli giornalisti sgraditi. Non contro i commentatori per le loro opinioni. Ma contro i cronisti per i loro resoconti. Soprattutto quelli giudiziari, ma non solo. Nel mirino della maggioranza, e di Forza Italia in particolare, sono finiti Gian Antonio Stella, Giovanni Bianconi, Luigi Ferrarella e Paolo Biondani (oltre all'editorialista Francesco Merlo, per alcuni apprezzamenti poco graditi da Previti, che lo ha citato in giudizio). A palazzo di giustizia, l'onorevole avvocato Niccolò Ghedini saluta così l'ingresso di un cronista del «Corriere» nell'aula del processo Sme-Ariosto: «Ecco, arriva la disinformatjia...». Dietro le quinte, poi, accade ben di peggio. li 2 maggio 2002, all'assemblea dell'Hdp (la società che controlla la Rcs), gli azionisti ascoltano sbigottiti le parole di Raffele Fiengo, storico componente del comitato di redazione. Fiengo racconta le telefonate di protesta alla direzione del «Corriere» «anche di personaggi inquisiti» che definiscono il quotidiano «servo della Procura». Per i pasdaràn di Forza Italia, ogni notizia sgradita alla maggioranza non rientra nel diritto-dovere di cronaca, ma è frutto di un complotto politico della sinistra. E non solo per questioni giudiziarie. Quando, il 29 giugno 2002, il ministro dell'Interno Claudio Scajola si lascia sfuggire davanti agli inviati del «Sole 24 Ore» e del «Corriere» che Marco Biagi (appena assassinato dalle Br) era un «rompicoglioni» avido di denaro e di consulenze, Bonaiuti chiama fino a tarda notte via Solferino per tentar di bloccare la notizia. Ottiene solo un gentile, ma fermo rifiuto. | << | < | > | >> |Pagina 244Che cosa dà fastidio al Cavaliere? La quantità di informazioni che de Bortoli ha sempre cercato di dare non gli giova. Alcuni collaboratori di certo non gli piacciono, Giannelli e le sue vignette, qualcun altro, il professor Sartori, liberale autentico, che ha battuto per anni sull'incudine del conflitto di interessi e non si è stancato mai perché questo è l'insoluto problema generatore di tanti disastri reali e d'immagine per l'Italia in tutto il mondo. Il 15 maggio, Sartori ha avuto l'impudenza che non è stata perdonata né a lui né a de Bortoli di scrivere: «Lei ha dichiarato, signor presidente del Consiglio, che "non sarà consentito a chi è stato comunista di andare al potere". Queste cose le diceva Mussolini. Lei non ha nessun motivo di aver paura. Io sì». Figuriamoci il Cavaliere che con i suoi fedeli vassalii non ha mai dimenticato il no alla guerra di de Bortoli. Le pressioni governative sono state assillanti, padronali, offensive. A proposito dell'economia e di inchieste su questioni finanziarie. A proposito della giustizia, tema ossessivo. Il direttore de Bortoli l'ha affrontato nell'unico modo possibile per un giornalismo civile pubblicando gli articoli dei bravi, generosi e minacciati cronisti giudiziari che non ritengono il presidente del Consiglio e l'onorevole Previti al riparo dalle notizie documentate. Questi eminenti imputati dei processi di Milano che debbono rispondere di un reato comune così grave come la corruzione di magistrati e che stanno per ottenere l'impunità dalla maggioranza parlamentare con una legge ad personam che certo viola la Costituzione, vogliono essere liberati anche da ogni controllo dell'informazione. Sorretti dai loro avvocati-parlamentari che fanno il diavolo a quattro in difesa dei loro clienti. Le ricusazioni toccano anche alla stampa libera. Gli azionisti, poi. Quella del «Corriere» è una proprietà frantumata, un pentolone che contiene tutti i possibili beni e servizi, le auto, i cavi, le telecomunicazioni, i frigoriferi, la finanza, Mediobanca, le assicurazioni. Appassionati sostenitori del libero mercato, gli azionisti si sono rivelati fedifraghi, bisognosi come sono delle stampelle e dei favori del governo che certo non dà senza nulla ricevere in cambio. Anche loro hanno protestato infuriati ed esterrefatti - un reato di lesa maestà - quando l'informazione economica del giornale ha rivelato, per alcuni, oscure verità su traffici e affari. Il capitalismo democratico è di là da venire. Anche coloro che deprecano a parole i comportamenti di una società che opera solo in nome degli interessi e lamentano la mancanza di idee e l'assenza di ideali, in quest'occasione non hanno rotto un fronte comune che non li rappresenta.Il grido della foresta è stato più forte. Mentre nella mia passeggiata d'addio dentro il giornale deserto passavo davanti alle stanze dell'Economia, al secondo piano, nel vecchio fabbricone di vetro, mi venivano in mente «gli interessi inconfessabili» denunziati da un grande maestro non certo marxista-leninista, Luigi Einaudi, quando, forse proprio sul «Corriere», si riferiva ai traffici dei cotonieri, dei siderurgici, degli armatori, degli agrari che si servivano dei giornali di cui erano proprietari non certo per difendere idee, ma per calcoli mercantili e usavano i loro poteri e i loro denari per promuovere disegni di legge adatti agli interessi di casa. Quel che è accaduto al «Corriere» è grave. È sbagliato usare anche qui i criteri perdenti della tattica anziché cercare di aprire un po' la mente e capire quali possono essere le conseguenze rovinose di un «Corriere» del tutto addomesticato ai voleri di Berlusconi. E questo vale per la sinistra. Il cambio di un direttore di giornale avvenuto chiaramente per impulso governativo non è, come ha detto qualcuno dall'anima questurina, simile a un banale cambio di prefetti. Soprattutto in via Solferino, dove la forza della tradizione conta, nonostante la retorica, dove, malgrado tutto, anche se con fatica, il giornale ce l'ha quasi sempre fatta a uscire dalle tempeste. La P2 non era un club di gentiluomini: basta ricordare che Giuliano Turone e Gherardo Colombo, allora giudici istruttori, arrivarono alle liste di Gelli indagando sulla mafia, sul finto rapimento di Sindona in Sicilia, sull'assassinio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli. Ma nemmeno la partenza di de Bortoli basta a placare le ire e a soddisfare gli appetiti di Berlusconi & C. Se ne accorge Stefano Folli quando, a fine giugno 2003, riporta in prima pagina le bordate di tutta la stampa internazionale contro il premier italiano, nuovo presidente di turno dell'Unione europea. E viene subito attaccato sulla prima del «Giornale» berlusconiano. Titolo: È il «Corriere» ma sembra «l'Unità». Il quotidiano di via Solferino sulla scia del giornale postcomunista apre alle accuse della solita stampa estera contro Berlusconi. Il ministro Castelli: «È la prova di un attacco mediatico al premier». Seguono due editoriali di Paolo Guzzanti (Il megafono dei faziosi) e di Renato Brunetta (Girotondo in redazione).
Se ne accorge, nel gennaio-febbraio 2004, anche Lucia Annunziata: la
presidente «di garanzia» della Rai vorrebbe
affidare a de Bortoli la striscia quotidiana di approfondimento su Rai1 che era
stata di Enzo Biagi. In alternativa pensa a Giulio Anselmi, già direttore
dell'Ansa, del «Messaggero» e dell'«Espresso», ora editorialista di
«Repubblica».
Apriti cielo. Su entrambi i nomi pongono il veto i consiglieri Rai del
centrodestra, che ritengono quella di de Bortoli una scelta «non equilibrata».
Il 2 febbraio l'Annunziata tenta di sparigliare il gioco raccontando alla stampa
estera quei veti, e non solo quelli: «So per certo che Berlusconi alza il
telefono e chiama i consiglieri per suggerire le nomine e influenzare le scelte
dei programmi. Queste almeno sono le spiegazioni che mi vengono date in via non
ufficiale per giustificare alcune decisioni che vengono prese». Gli interessati,
ovviamente, smentiscono. Forza Italia accusa la presidente di fare campagna
elettorale per l'Ulivo. Alla fine la scelta per il dopo-Tg1 cadrà su Pierluigi
Battista, editorialista della «Stampa» nonché collaboratore fisso di «Panorama»
(di cui fu vicedirettore nella gestione militarizzata di Giuliano Ferrara),
presunto «terzista» molto vicino alle posizioni berlusconiane. De Bortoli non ha
mai parteggiato per nessuno: s'è limitato a dare spazio a tutte le notizie e a
tutte le opinioni. Dunque passa per «schierato» e «non equilibrato». Delitto di
cronaca.
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