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| << | < | > | >> |Indice9 Beethoven era per un sedicesimo nero 25 La lunghezza della solitudine 33 Sognando i morti 51 Una donna frivola 63 Gregor 71 Procedure di sicurezza 81 Madrelingua 93 Allesverloren 109 Storia 117 Un beneficiario 139 Finali alternativi 143 Il primo senso 157 Il secondo senso 169 Il terzo senso 181 Ringraziamenti |
| << | < | > | >> |Pagina 9Beethoven era per un sedicesimo nero annuncia il presentatore di un programma di musica classica alla radio prima di elencare i nomi dei musicisti che suoneranno i quartetti per archi n. 13, op. 130, e n. 16, op. 135. È una rivendicazione che il presentatore fa come gesto riparatore nei confronti di Beethoven? La sua voce e la sua cadenza lo rivelano irrimediabilmente bianco. Un sedicesimo è forse il tacito desiderio che nutre per sé? Un tempo c'erano neri che volevano essere bianchi. Ora ci sono bianchi che vogliono essere neri.
Il segreto è lo stesso.
Frederick Morris (ovviamente non è il suo nome, presto capirete che scrivo di me, un uomo con le stesse iniziali), ora un accademico che insegna Biologia, ai tempi dell'apartheid era un attivista e un vignettista dilettante non privo di talento che, fra le altre provocazioni illegali, disegnava manifesti in cui i leader del regime erano rappresentati come i macabri assassini che erano e, più arditamente, si univa ai gruppi che li affiggevano sui muri della città. All'università, nel nuovo millennio, non è uno dei professori che il corpo studenti (alto tasso di iscrizioni con una robusta percentuale nera, osserva lui con approvazione) enumera tra i docenti particolarmente biasimevoli durante le proteste contro il vecchio mondo accademico, bianco e maschio, che ostacola la trasformazione dell'università da country club per intellettuali bianchi in un'istituzione non razziale a maggioranza nera (definizione politicamente corretta). Né gli studenti apprezzano molto il sostegno di bianchi, come lui, dissidenti da quella che è vista come l'altra parte della barricata, il corpo docenti. Non si può stare dalla parte degli altri. È questo il ragionamento? La storia non smette mai di ripetersi: come la biologia, in azione all'interno di ogni essere. Un sedicesimo. Quel filo sottile sembrava sufficiente a essere attestato fuori contesto? Che importanza hanno remoti legami di sangue nella genesi di un genio? Allora prendiamo Puskin, volendo; la sua rivendicazione è sostanziale, basta guardare i suoi riccioli naturali: non la finta capigliatura afro alla moda che incornicia la testa di donne o uomini bianchi, ma una caratteristica proveniente – si dice – dall'Etiopia. Forse perché sta invecchiando – non sa di essere ancora abbastanza giovane per pensare che a cinquantadue anni si è vecchi – Morris di tanto in tanto riflette sulle vite vissute lungo il filo che ha preceduto la sua. Lui è divorziato, per la seconda volta; anche quello è passato, seppure piuttosto prossimo. Nemmeno suo padre era granché come uomo di famiglia. Famiglia: il bisnonno, morto molto prima che nascesse quel bambino, lui sì era un bell'uomo, una figura ritratta in una vecchia fotografia dalla cornice ovale, i cui lineamenti forti non sono stati tramandati. Esistono storie su quel progenitore, probabilmente raccontate ai raduni di famiglia, ma a malapena ascoltate da un ragazzino impaziente di alzarsi dalla tavola degli adulti. Aneddoti non inclusi nel libro di storia da imparare a memoria. Episodi che si poteva divertitamente accettare di definire avventure, circostanze affrontate di petto, bei tempi vissuti in quelli che altri avevano subìto come anni duri, personaggi – "non ne fanno più di uomini così" – che erano nemici impegnati a tramare, o veri amici con cui unire le forze. Non eventi da libri di storia: racconti di vicende private svoltesi tra le conseguenze della storia. Lui era una sorta di uomo di frontiera, non nella schiera eterogenea dell'esercito coloniale ma in quella dei cacciatori di fortuna. Discendendo dal ramo maschile della famiglia, Frederick Morris porta il suo cognome, naturalmente. Walter Benjamin Morris a quanto pare era sempre stato chiamato Ben, forse perché era in effetti il Beniamino in mezzo a una nidiata di fratelli che non erano, come lui, emigrati in Africa. Nessuno sembra sapere perché lo fece: puro amore dell'avventura, o forse l'ambizione a diventare ricco, che pareva realizzabile solo in un allettante Altrove. Avrebbe anche potuto scegliere lo Yukon. In patria, a Londra, aveva la prospettiva di ereditare la rosticceria di Hampstead, immaginatevela piena di salumi e sottaceti, che gestiva per un altro dei padri della famiglia, dal nome ormai dimenticato. Era sposato solo da un anno quando partì. Doveva aver convinto la giovane moglie che il loro futuro stava nel suo andare in cerca dei diamanti appena scoperti in un luogo lontano, chiamato Kimberley, da cui sarebbe presto tornato ricco. A mo' di saluto, le lasciò in grembo come pegno del loro amore un figlio da dare alla luce. Frederick sorprende la madre chiedendole se ha tenuto la vecchia borsa portadocumenti – una malconcia cartella nera, per essere precisi – che il padre una volta gli aveva detto contenere carte di famiglia da guardare insieme prima o poi; si erano dimenticati entrambi dell'appuntamento, suo padre era morto prima che arrivasse quel giorno. Frederick non nutriva grandi speranze che la madre conservasse ancora da qualche parte la cartella, lei aveva traslocato da quella che era stata la casa del suo matrimonio e si era sbarazzata di ciò per cui non c'era spazio, non c'era posto nella sua vita in un complesso di eleganti cottage dal design contemporaneo immersi nel verde. C'erano alcuni oggetti in un ripostiglio a uso comune dei residenti. Lì lui trovò la cartella e, accovacciato in mezzo ai detriti del passato altrui, soffiò via i pesciolini d'argento dalle lettere e dai foglietti di appunti per copiare i fatti riportati sopra. C'erano anche delle fotografie montate su cartoncino – troppo duro per le mandibole dei pesciolini d'argento, comunque fossero fatte – che lui si portò via, pensando che non fossero di un interesse tale per la madre da doverla informare. In particolare un ritratto con una raffinata cornice. Il bisnonno ha la stessa posa in tutte le fotografie, che sia solo, di fianco a una palma nello studio di un fotografo o in mezzo a cataste di terriccio magico, ai setacci che separavano dalla terra le pietre grezze dei diamanti nella loro forma primitiva e ai neri e ai meticci appoggiati alle pale con volto inespressivo. I cercatori provenienti da Londra, Parigi, Berlino – da ovunque non ci siano diamanti – non si lanciarono personalmente nella corsa per delimitare le proprie concessioni appena fu dato il via; gli uomini da loro ingaggiati, che appartenevano alla terra su cui correvano, furono più veloci di tutti gli stranieri bianchi, furono loro a delimitare le concessioni degli stranieri e a impugnare picconi e pale nelle miniere a cielo aperto così create. Anche quando è fotografato in mezzo alla folla di un bar improvvisato, Ben Morris sta seduto con il busto, i tendini del collo, la testa eretti, come fosse tanto irremovibilmente sicuro... di cosa? (Gli appunti rivelano che trovò solo poca roba. Carati trascurabili.) Della propria virilità. Quella è inconfondibile, intonsa dalla volubilità della fortuna. Altri nella foto sono incurviti e logorati dalla cattiva sorte. L'aura di virilità sessuale nel suo portamento, gli occhi scuri, brillanti, sempre vigili e ammiccanti: un richiamo lanciato all'altro sesso oltre che agli inafferrabili diamanti. Le donne dovevano sentirlo, dovevano leggerlo in lui come gli uomini non potevano, non erano destinati a fare. Le date sui fogli ricamati in pizzi delicati dagli insetti mostrano che Ben non tornò presto, continuò a cercare diamanti con fede ostinata nella propria impresa, e in se stesso, per cinque anni. Non fece ritorno a casa a Londra, dalla giovane moglie, vide il figlio una volta sola, durante un'unica visita in cui mise incinta la giovane moglie per poi lasciarla di nuovo. Non fece fortuna, ma le piccole pietre che i neri strappavano per lui alla loro terra dovevano avergli fruttato un certo profitto lentamente accumulato, perché dopo cinque anni a quanto pare tornò a Londra e usò la conoscenza acquisita nel campo delle pietre grezze per affermarsi nel mondo delle gemme e allacciare contatti ad Amsterdam. | << | < | > | >> |Pagina 61Se sei un lettore, sai che ciò che hai letto ti ha influenzato la vita. E intendo "lettore" sin dal giorno in cui hai cominciato, da solo, a distinguere le parole stampate sul libro che ti facevi leggere prima di addormentarti. (Un altro presupposto dato per scontato: che tu abbia imparato a leggere in un'era precedente a quella in cui il libro prima di addormentarsi è stato sostituito da mezz'ora davanti alla tivù.) L'adolescenza è il periodo cruciale in cui poeti e romanzieri intervengono nella formazione del senso di sé che si pone in relazione sessuale con gli altri, suggerendo — in modo emozionante, e a volte spaventoso — che l'ordine di tali relazioni così come è spiegato o sottinteso dall'autorità adulta non è tutta la verità. Negli anni quaranta, mi avevano dato a credere che: prima avrei incontrato un uomo, poi ci saremmo reciprocamente innamorati e ci saremmo sposati; questo processo preconfezionato prevede un certo ordine di emozioni. Questo è l'amore. Invece per me arrivò prima Marcel Proust. La strana ma ineluttabile malattia del tormentoso amore di Charles Swann per una donna che non era il suo tipo (e assolutamente non per colpa sua, lui si innamorò di lei così com'era, no?); la gelosia del Narratore che segue in modo straziante le tracce dei sotterfugi di Albertine. E così venne spazzato via il lancio del riso. Ormai avevo una prospettiva diversa su ciò che la vita poteva trovarsi a dover affrontare. Il mio apprendistato all'amore sessuale cambiò, per sempre. Volente o nolente, è questo che è l'amore. Terribile. Glorioso. Ma cosa succede se un elemento di un'opera letteraria invece di venir interiorizzato si materializza? Assume un'esistenza indipendente? Mi è appena capitato. Ogni anno rileggo alcuni dei libri che non voglio morire senza aver rivisitato. Quest'anno è toccato ai Diari di Kafka, e sono circa a metà. È una lettura serale straordinariamente straziante. Qualche mattina fa, quando mi sono seduta davanti alla macchina da scrivere come ora, non per aspettare il duende di Lorca ma per mettermi al lavoro, sotto la stretta finestrella su cui compaiono elettronicamente le parole mentre io le trasmetto ho visto uno scarafaggio. Era piuttosto piccolo, più o meno delle dimensioni e della sagoma da scarafaggio dell'unghia del mio anulare – mano di grandezza media. Dire che non potevo crederci è dir poco. Ma il mio primo pensiero è stato di natura pratica: era senza dubbio lì, come ci era entrato? Ho battuto sul vetro nel punto sotto cui era comparso. Ha confermato la propria esistenza, non muovendo il corpo ma facendo ondeggiare di qua e di là due vibrisse, antenne così sottili e pallide che non le avevo notate. Mi sono messa a sollevare tutte le parti della macchina che mi erano accessibili, ma la stretta striscia della finestrella di vetro non lo era. Ho consultato il manuale d'uso: non prevedeva l'eventualità che uno scarafaggio penetrasse nel rifugio sigillato destinato esclusivamente alle parole. Non riuscivo a trovare un modo in cui quel coso potesse essere entrato, ma mi sono detta che se ci era riuscito, con il lucido dorso marrone ghianda, le antenne dalla linea sottile, poteva anche andarsene quando voleva. Quando voleva lui o quando volevo io. Ho battuto di nuovo sul vetro che lo ricopriva e questa volta si è andato a ficcare – ah, il che significava che stava stretto lì sotto – all'estremità superiore dello spazio disponibile, rivelando così anche le nere zampe arcuate come segni di interpunzione. Ho telefonato a un'amica e la sua reazione è stata semplice: È impossibile. Non può essere. Be', invece era così. Ho un vicino, un giovane architetto, che nel weekend vedo con la testa infilata sotto il cofano ad aggiustare l'auto; non avevo altra scelta che aspettare l'ora in cui di solito tornava a casa. È un riparatore capace di aprire qualsiasi cosa, di tutto. E nel frattempo che fare? Riprendere da dove mi ero interrotta. Mandare le parole a proiettare ombre su quel corpo. Anzi, c'era la speranza che l'interferenza potesse spingere in qualche modo l'intruso a cercare una via d'uscita. Sono abituata a essere sola quando lavoro. Non potevo fare a meno di notare che non lo ero; qualcosa che volutamente non mi guardava – comunque fosse, non riuscivo a distinguere i suoi occhi – era intimamente coinvolto nel processo tramite il quale l'immaginazione trova espressione permanente, diventa manifesta. È stato allora che mi è giunto come non l'avevo mai udito prima: Non è possibile. Una sera dopo l'altra leggevo i diari di Franz Kafka, il subconscio della sua narrativa, che Max Brod si rifiutò di distruggere. Ed eccola tutta qui, la genesi segreta del processo creativo. Il subconscio di Kafka ogni sera mi conduceva dal livello della coscienza al subconscio del sonno. Ero stata io a causare quella creatura? Esiste un altro tipo di metamorfosi? Al risveglio non ti scopri trasformato in un'altra specie, costretto ad agitarti sul lucido dorso marrone chiaro e a esplorare il tuo spazio con sensori filiformi, ma l'atto di immaginare un essere simile ne crea un esemplare, indipendente dall'esistenza di un ospite, dalla genesi fisica? O l'immaginazione può evocare un tale essere vivente, spingendolo a uscire dall'oscurità e a manifestarsi? Che sciocchezze. Senza dubbio esistono i soliti parassiti domestici che vivono clandestini tra pile di carte e ritagli di giornale e si nutrono di qualsiasi cosa ci sia da rosicchiarvi. Chi altro mangia le lettere dorate sulla sovraccoperta dei libri? La mattina dopo, lui/lei era ancora lì appiattito sotto il vetro, non un ectoplasma della mia immaginazione, e tra lunghi intervalli di guardinga immobilità si spostava un po' di lato o verticalmente a mano a mano che la macchina si scaldava con l'uso. Il mio vicino era venuto e aveva studiato la situazione, o meglio la situazione di Gregor... avevo cominciato a chiamare così quella creatura, figuriamoci. Il giovane architetto aveva constatato che tutti i suoi vari attrezzi erano troppo grossolani per la finezza italiana impiegata nella costruzione della macchina. Avrebbe provato a farsi prestare degli attrezzi da gioielliere. Sono passati altri due giorni in cui ho continuato a non essere sola mentre scrivevo. Sulle prime volevo che quel coso lì dentro morisse: come poteva esistere senza acqua, senza cibo... e senz'aria. Dato che il vetro sembrava ermeticamente sigillato, ormai l'ossigeno rinchiuso lì dentro non doveva essere finito? Anche uno scarabeo, uno scarafaggio, qualsiasi cosa fosse, avrà i polmoni. Poi ho cominciato a desiderare che uscisse di lì incolume, un miracolato, esempio della volontà di vivere comprovata al di là delle sue umili dimensioni e della sua infima posizione nella scala degli esseri viventi. Mi vedevo riceverlo dal suo salvatore e liberarlo su una foglia in giardino. Ho telefonato alla ditta da cui due anni prima avevo comprato la macchina da scrivere per chiedere che mi mandassero un tecnico competente e mi sono sentita rispondere che non curavano più la manutenzione di apparecchiature da ufficio obsolete, si occupavano solo di computer. | << | < | > | >> |Pagina 93Con chi parlare. Dopo un po' di tempo il dolore del lutto diventa noioso, gravoso anche per gli intimi confidenti. Dopo pochissimo tempo, per loro. Invece il tempo del dolore si protrae. Un filo che si rifiuta di chiudere il cerchio, che non sa come risolversi stringendosi in un nodo. Quindi con chi parlare? Parlare. Si riduce all'impossibile, al ridicolo: allora parla, parlane! Ma con chi. Nessuno lo sapeva. No, di certo tra gli amici che ci sono stati vicini per tutti i nostri anni insieme doveva esserci chi sapeva; ma dato che loro non ne parlavano, non era mai successo. Quindi con chi parlare? Necessario; per riaverlo indietro, rimetterlo insieme, ricomporre la sua vita che deve continuare a esistere per lei che gli sopravvive. Parlare. Non c'è nessuno. Il vento fa scorrere un brivido lungo la plastica blu che copre la pergola della casa vicina. Il vento nel sole sopra il mare; vieni, rinuncia a quel folle elemento della tua ricerca e mettiti in viaggio per contemplare un oceano! Il vento fa scuotere la testa agli alberi. Nessun messaggio lì, per lei che gli sopravvive. Non c'è modo di evitarlo. C'è un'unica possibilità. Per fornire risposte a domande mai pronunciate, che non era mai stato necessario porre in un'intimità di corpi e menti che rassicurava, conteneva e trasformava tutto, tutte le storie passate, nel presente vivo? Risposte. Capire, accettare la perdita vorrà dire questo? Perché per il momento capire si è rivelato un atto senza senso. Vieni a pranzo, vieni a teatro, partecipa alla riunione, trova dei nuovi interessi, c'è il tuo lavoro, sei una storica... per l'amor di Dio, è importante. Il dolore del lutto parla una lingua che non arriva alle orecchie di nessuno, disegna geroglifici di cui non si conosce il codice. "Né paura né speranza assistono un animale morente / L'uomo ha creato la morte." Tutti temono la morte ma nessuno ammette di temere il dolore del lutto: la ripugnanza per quella presenza, che esiste in ciascuno di noi.
Pensarci (all'Unica possibilità) senza agire. I banali motivi di irritazione
che costituiscono la sola distrazione; per esempio, oggi niente più banane nel
portafrutta: regressione al facile conforto di un bambino che vuole mangiare
quello che gli piace di più.
Lei, che gli sopravvive, era divorziata quando aveva incontrato l'uomo destinato ad appartenerle, e lui lo stesso, il suo uomo che ora è morto... da mesi, il tempo che si protrae oltre il breve tempo in cui gli altri le parlavano ancora di lui. Nell'intervallo tra il divorzio e il matrimonio lei aveva avuto un paio di relazioni passeggere, lui una sola. Non era quella la differenza. Era stata una relazione con un uomo. Gliene aveva parlato nella segretezza delle confessioni che portano il sollievo di un altro genere di sacrosanto orgasmo dopo i primi raggiunti a letto. Una forma di profonda gratitudine destinata a far parte dell'amore per l'altro essere, se amore ci sarà. C'era stato amore e c'è ancora, ma solo da una parte; il corrispettivo destinatario se n'è andato. Andato? L'espressione implica un altro luogo. Non esiste nessun altro luogo in questa morte inventata dall'uomo. Perché se il poeta ha ragione ed è stato l'uomo a inventarla, non c'è la trovata divina di un aldilà in un paradiso ammobiliato o in una palestra infernale attrezzata per le torture. L'amato non è andato da nessuna parte. È morto. Non è in nessun luogo, tranne che nella possibilità del ricordo, nel richiamare alla memoria tutti i momenti, le fasi, i posti, le emozioni e le azioni di ciò che lui era, di come ha vissuto mentre era. Quasi metà di quella vita – senza contare l'infanzia, ovviamente – era loro. Pensavano a ciò che era venuto prima come a una specie di adolescenza prolungata... piena degli errori e delle illusioni propri di quello stato: i due matrimoni prematuri, di lui e di lei, assolutamente inconcepibili alla luce dell'altro, íl loro. Il solo e unico, le diceva lui, nei giorni in cui stava morendo. La conclusione raggiunta con l'incombente concludersi della sua vita. Lui non aveva avuto figli da quel suo primo matrimonio e non avevano idea di dove fosse la donna: trasferitasi in Sudamerica, l'ultima volta che chissà come era saltato fuori il suo nome. Era improbabile, stando alla disincantata esperienza del caos vissuto con lei, che stesse ancora con l'uomo con cui era andata in Perú o ovunque fosse. I due che avevano trovato un tesoro l'uno nell'altra riconoscevano concordi di essere stati entrambi ingenui e colpevoli – nessuna scusa – negli episodi di quei matrimoni; forse si era addirittura trattato di un'iniziazione: un'esperienza di tutto ciò che un'unione non dovrebbe essere, in modo da essere liberi di crearne una autentica, la loro. Quindi lei sapeva, dalla propria esperienza duplicata in quella di lui, quali emozioni, illusioni e disillusioni, reazioni impulsive, compromessi (com'era possibile che una persona intelligente si fosse fatta ingannare da contraddizioni tanto ovvie?) potevano sfociare in un cosiddetto matrimonio. La donna era una Bellezza, e un caso da manuale di infanzia traumatica mai superata che si vendica del mondo sull'uomo che l'ha scelta: la sua occasione di esprimere un feroce rifiuto. Lui aveva cercato di cavare qualcosa di positivo dai presupposti senza speranza di quel matrimonio, si era rifiutato di riconoscerli, aveva cercato di convincerla a recarsi con lui da psichiatri, psicoterapeuti, consulenti matrimoniali, e quando lei lo aveva insultato e deriso, era andato da solo a sdraiarsi sul lettino. Nel corso dei loro abbagli emotivi, quello che lei (possibile che ora, tra la gamma di Miss, Mrs, Ms, le si applichi l'arcaica categoria di Vedova?) diversamente da lui non aveva sperimentato era una relazione con una persona del proprio sesso. Come fosse successo era un argomento che avevano avuto modo di indagare e avevano effettivamente sviscerato insieme: la qualità "innaturale" di quell'episodio, non nel senso di un giudizio morale sugli omosessuali, ma perché lei sapeva, nell'intenso appagamento che il suo essere femmina gli dava, che quella era la propensione naturale della sua sessualità. Era successo come parte dell'atroce disperazione e dell'umiliazione del primo matrimonio. Lui avrebbe accettato qualsiasi distrazione, in quel momento. Qualsiasi invito a partecipare a riunioni e convegni, ovunque. Andarsene. A un convegno di architettura era stato coinvolto nell'immancabile foto di gruppo; a colazione il giorno dopo si era trovato a occupare l'unico posto libero, al tavolo del fotografo. Poi di nuovo a parlare con lui quando la sera lo aveva incontrato in piscina. Il fotografo era praticamente l'unica persona con cui aveva avuto uno scambio reale in quei tre giorni; non aveva partecipato alle discussioni, aveva ascoltato senza seguirli gli interventi dei colleghi architetti e urbanisti, era isolato nell'arida disperazione di non essere riuscito a creare un rapporto tollerabile con la donna che in teoria era sua moglie; e quel fallimento lo riempiva di disprezzo per se stesso. Il fotografo – be', naturalmente – aveva una prospettiva inaspettata sulla vita. Un uomo interessante. Vedeva guerre, inondazioni, disastri naturali, i volti di scioperanti e uomini politici, non una Furia la cui immagine oscurava tutto il resto. I due uomini avevano la stessa età in anni, ma non nella concezione che ciascuno aveva di sé. Al posto di un castrante, catastrofico rifiuto, il fotografo offriva la semplice accettazione di una cosa mai immaginata, impensabile in rapporto a se stesso come uomo: l'uomo che le apparteneva. In quello stato, immaginava lei, si poteva essere grati di un qualsiasi riconoscimento, una qualsiasi tenerezza da parte di un altro essere umano: poteva accadere anche ciò che sembrava praticamente impossibile. Non sono bisessuale, le aveva detto lui molto tempo prima, nel confessionale dei loro inizi. È stata l'unica volta. È durata qualche mese, ma per me è come l'amnesia con cui capita di svegliarsi da giovani, dopo aver passato la notte a bere, come ti raccontano gli amici. Ora che lo ha visto morto, sentito freddo al tatto, trova che c'è una cosa che lei non riesce a ricordare chiaramente (che importanza ha?): se aveva divorziato prima o dopo quell'intermezzo che era come l'amnesia da alcol. Doveva averle detto com'era andata, ma non aveva raccontato altro, lei non gli aveva chiesto altro. Né più né meno come lui non avrebbe ritenuto importante sentire i dettagli delle sue relazioni... e il matrimonio di lei, diversamente dal suo, non conteneva un dramma traumatico da narrare, si era chiuso in modo amichevole con l'accordo comune che ciascuno di loro lasciava la gioventù imboccando una direzione diversa e che non avrebbero dovuto scioccamente infilarsi in quel percorso a zigzag. Ma ora che il suo uomo può esistere e sopravvivere per lei solo rimettendolo insieme con ciò che è disponibile alla memoria, c'è un vuoto... sì, un'amnesia. Lei potrà completare il compito di ri-crearlo per sé solo se riuscirà a evocare ciò che non appartiene ai suoi ricordi. Con chi parlare? C'è un'unica possibilità. Un'unica persona che può ricordare. | << | < | > | >> |Pagina 138Quando gli chiesero in che modo gli autori di narrativa danno vita ai loro personaggi immaginari, Graham Greene rispose che gli scrittori creano vite alternative per persone che forse hanno incontrato, di fianco a cui si sono seduti sull'autobus, tra cui hanno colto per caso uno scambio affettuoso o un battibecco sulla spiaggia, in un bar, che hanno visto sorridere invece che piangere a un funerale, gridare a un raduno politico (gli esempi sono miei).
Uno scrittore, inoltre, prende la vita che immagina a un
certo punto del suo percorso e la lascia a un altro. Nemmeno una storia che va
dalla nascita alla morte è definitiva: quale accoppiamento, tra chi, ha causato
l'ingresso in scena, quali conseguenze seguono l'uscita di scena... queste cose
sono una parte della storia che si è scelto di non raccontare. La
continuità dell'esistenza va selettivamente interrotta dal senso di forma che è
l'arte. In particolare, quando si arriva a chiuderla, la storia ha Questa Fine,
è la scelta dello scrittore a seconda di ciò che gli è stato rivelato della
personalità degli individui creati, delle loro reazioni ed emozioni conosciute,
del loro senso di sé. Ma non avrebbe potuto avere Quella Fine?
Il momento, l'avvenimento, la consapevolezza non avrebbero potuto essere accolti
diversamente, significare qualcos'altro per l'individuo, qualcosa a cui lo
scrittore non ha pensato, di cui non gli è giunta l'intuizione? Per quanto la
situazione possa essere sedimentata, determinante, persino ovvia,
non potrebbe risolversi diversamente? In questo modo, non
in quello. C'è scelta nell'imprevedibilità degli esseri umani: le
forme della narrazione sono arbitrarie. Esistono finali alternativi. Li ho
sperimentati, qui, per me.
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