Autore David Graeber
Titolo Debito
SottotitoloI primi 5000 anni
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2012, La Cultura 770 , pag. 522, cop.fle., dim. 15,5x21,5x2,6 cm , Isbn 978-88-428-1797-0
OriginaleDebt [2011]
TraduttoreLuca Larcher, Alberto Prunetti
LettoreRenato di Stefano, 2017
Classe storia economica , storia sociale , antropologia , lavoro , economia , economia finanziaria , scienze sociali , sociologia












 

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Indice


1.  Sull'esperienza della confusione morale                               9

2.  Il mito del baratto                                                  27

3.  Debiti primordiali                                                   46

4.  Crudeltà e redenzione                                                74

5.  Breve trattato sui fondamenti morali delle relazioni economiche      88

6.  Giochi di sesso e di morte                                          125

7.  Onore e degradazione (o dei fondamenti della civiltà contemporanea) 162

8.  Credito vs. tesoro (e i cicli della storia)                         207

9.  L'Età assiale (800 a.C. - 600 d.C.)                                 217

10. Il Medioevo (600 - 1450 d.C.)                                       244

11. L'età dei grandi imperi capitalisti (1450 - 1971 d.C.)              298

12. L'inizio di qualcosa ancora da definire (1971 - ?)                  350


    Note                                                                381

    Bibliografia                                                        457

    Indice analitico                                                    513


 

 

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Pagina 9

1. Sull'esperienza della confusione morale


[...]

«Non c'è dubbio che bisogna ripagare i propri debiti.»

La frase sembra così inattaccabile perché non è un'affermazione economica: è un giudizio morale. Dopo tutto, che cos'è la moralità se non ripagare i propri debiti? Dare alla gente quel che le spetta. Accettare le proprie responsabilità. Adempiere ai propri doveri verso gli altri, così come ci si aspetta che gli altri facciano nei confronti altrui. Quale esempio più ovvio di una persona che si sottrae alle proprie responsabilità di chi rinnega una promessa o rifiuta di pagare un debito?

Mi resi conto che era la sua manifesta ovvietà a far sì che quell'asserzione fosse tanto insidiosa. Si tratta di una di quelle frasi che possono rendere ordinarie e poco rilevanti le cose più terribili. Può sembrare un giudizio pesante, ma è difficile non prendersela tanto a cuore una volta che si siano viste le conseguenze di una frase simile. E a me è successo. Per almeno due anni ho vissuto nelle regioni montuose del Madagascar. Poco prima del mio arrivo, c'era stata un'epidemia malarica. Si trattava di un'infezione molto virulenta, perché in quelle zone la malaria era stata debellata anni prima e la gente, dopo un paio di generazioni, aveva perso le proprie difese immunitarie. Il problema era questo: servivano soldi per tenere in vita il programma di eliminazione delle zanzare, perché bisognava fare una campionatura periodica per essere certi che l'anofele non si riproducesse e in caso contrario era necessario avviare dei cicli di irrorazione di agenti tossici. Non servivano troppi soldi. Ma a causa delle misure di austerità imposte dal Fondo monetario internazionale, il governo aveva tagliato i programmi di controllo della malaria. Morirono diecimila persone. Ho incontrato giovani madri addolorate per la morte dei loro bambini. Sembra difficile sostenere la tesi che la perdita di diecimila vite umane sia giustificata dal fine di garantire che la Citibank non debba ridurre le proprie perdite su un prestito concesso in modo irresponsabile, un prestito che in ogni caso non era una voce così importante sul proprio bilancio. Ma di fronte a me c'era una donna assolutamente rispettabile, che lavorava addirittura per un'organizzazione filantropica, che dava la frase per scontata: tutto sommato, dovevano quei soldi, e non ci sono dubbi che bisogna ripagare i propri debiti.


Nelle settimane successive, la frase non smetteva di ronzarmi in testa. Perché il debito? Che cosa rende questo concetto tanto potente? Il debito dei consumatori è la linfa vitale della nostra economia. Tutti i moderni stati-nazione sono stati eretti sulla spesa in deficit. Il debito è diventato la questione centrale della politica internazionale, eppure nessuno sembra sapere propriamente cosa sia, o come si debba pensarlo.

Il fatto che non sappiamo cosa sia il debito, la flessibilità di questo concetto, è il fondamento del suo potere. Se la storia c'insegna qualcosa, è che non c'è modo migliore per giustificare relazioni sociali fondate sulla violenza del farle sembrare morali per poi riformularle nel linguaggio del debito: soprattutto perché in questo modo sembra che sia stata la vittima a fare qualcosa di male. Lo sanno bene i mafiosi e i comandanti degli eserciti invasori. Per migliaia di anni, uomini violenti sono stati capaci di dire alle loro vittime che queste dovevano loro qualcosa. Se non altro «ci devono la vita», perché non sono state uccise. Una frase emblematica.

Ai nostri giorni, per esempio, l'aggressione militare è considerata un crimine contro l'umanità e le corti internazionali, quando sono chiamate in causa, di solito chiedono che gli aggressori siano puniti pagando un risarcimento. La Germania dopo la Prima guerra mondiale ha dovuto pagare enormi riparazioni di guerra e l'Iraq sta ancora indennizzando il Kuwait per l'invasione di Saddam Hussein del 1990. Ma il debito del Terzo mondo, quello di paesi come il Madagascar, la Bolivia e le Filippine, sembra funzionare all'incontrario. I paesi debitori del Terzo mondo sono quasi esclusivamente nazioni che un tempo sono state attaccate e conquistate da paesi europei (ovvero in molti casi gli stessi paesi a cui adesso devono denaro). Per esempio, nel 1895 la Francia ha invaso il Madagascar, sciolto il governo dell'allora regina Ranavalona III e dichiarato il paese colonia francese. Tra le prime cose che il generale Gallieni fece dopo la «pacificazione», come piacque chiamarla ai francesi, ci fu l'imposizione di pesanti tasse sulla popolazione malgascia, la quale doveva rimborsare i costi necessari all'invasione. Inoltre, dal momento che le colonie francesi erano obbligate all'autonomia finanziaria, le tasse servivano a sostenere le spese di ferrovie, strade, ponti, piantagioni, tutti progetti che il regime francese desiderava realizzare. Ai contribuenti malgasci nessuno ha mai chiesto se volessero ferrovie, strade, ponti e piantagioni, né i malgasci hanno mai avuto voce in capitolo su dove e come costruirle. Al contrario, per circa mezzo secolo l'esercito e la polizia francese trucidarono un rilevante numero di abitanti del Madagascar che avevano troppo risolutamente disapprovato quell'ordine di cose (più di mezzo milione di vittime, secondo alcuni resoconti, solo durante la rivolta del 1947). Nonostante il fatto che il Magadascar non avesse mai recato alcun danno comparabile alla Francia, la popolazione di quel paese, fin dal principio, si sentì dire che doveva soldi alla Francia. Anche ai nostri giorni il popolo malgascio deve soldi alla Francia e il resto del mondo riconosce la giustizia di questo principio. La «comunità internazionale» si rende pienamente conto che esiste un problema etico solo allorché realizza che il governo malgascio sta rallentando il pagamento del debito.

Ma il debito non è solo la giustizia del vincitore: può anche essere un modo per punire quei vincitori che non dovevano vincere. In questo senso l'esempio più spettacolare è quello della storia della Repubblica di Haiti, il primo paese povero collocato in una condizione di permanente schiavitù del debito. Haiti è una nazione fondata da ex schiavi delle piantagioni che trovarono il coraggio prima di ribellarsi formulando esemplari dichiarazioni di libertà e diritti universali e poi di sconfiggere gli eserciti di Napoleone inviati per ricondurli in schiavitù. La Francia sostenne senza esitazioni che la nuova repubblica le doveva centocinquanta milioni di danni per l'espropríazione delle piantagioni, oltre alle spese dell'equipaggiamento delle spedizioni militari sconfitte. Le altre nazioni, inclusi gli Stati Uniti, convennero sulla necessità di imporre a Haiti un embargo fino al pagamento di quel debito. Si trattava di una somma deliberatamente impossibile da restituire (l'equivalente corrente di circa diciotto miliardi di dollari) e l'embargo garantì che da quel momento il nome stesso di Haiti divenisse sinonimo di debito, povertà e miseria umana.

Eppure, a volte la parola «debito» sembra avere un significato completamente diverso. A partire dagli anni ottanta gli Stati Uniti, che avevano severamente richiesto ai paesi del Terzo mondo di ripagare i propri debiti, accumularono essi stessi debiti alimentati dalle spese militari, debiti che presto fecero apparire minuscoli quelli dell'intero Terzo mondo. Il debito estero americano, tuttavia, prende la forma di buoni del tesoro detenuti da investitori istituzionali in paesi (Germania, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Thailandia, i paesi del Golfo Persico) che in realtà sono spesso protettorati statunitensi, coperti da basi militari americane piene di armi e attrezzature acquistate con quello stesso deficit di spesa pubblica. Adesso che la Cina è riuscita a entrare nel gioco, le cose sono un po' cambiate (la Cina è un caso a parte, per ragioni che vedremo in seguito), ma non poi così tanto. Anche la Cina ritiene infatti che possedere troppi titoli del debito americano la collochi in posizione supina agli interessi americani, e non viceversa.

Qual è allora la natura di tutto questo denaro che viene continuamente riversato nelle casse del tesoro americano? Sono prestiti? O tributi? In passato, le potenze militari che mantenevano centinaia di basi militari al di fuori del territorio nazionale venivano definite «imperi» e gli imperi esigevano tributi dai popoli sudditi. Ovviamente il governo statunitense nega di essere un impero, ma si può sostenere facilmente che l'unico motivo per cui pretende di trattare questi pagamenti come «prestiti» e non come «tributi» è proprio per non ammettere la realtà di quel che sta accadendo.

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Pagina 15

Il debito è dibattuto da almeno cinquemila anni. Per gran parte della storia – almeno la storia degli stati e degli imperi – gli esseri umani si sono sentiti dire che devono considerarsi debitori. Gli storici – in particolare gli storici delle idee – stranamente sono stati molto riluttanti ad affrontare le conseguenze di questa situazione, che più di ogni altra ha causato risentimento e sdegno perpetui. Dite alla persone che sono inferiori: sarà poco probabile che ne saranno compiaciute, ma è sorprendente quanto di rado tale asserzione conduca a una rivolta armata. Dite alle persone che potenzialmente sono uguali, ma che hanno fallito e che non si meritano neanche quello che hanno, al punto che non è più nemmeno loro: sarà più facile alimentare la loro rabbia. Ce lo insegna la storia. Da migliaia di anni, la lotta tra ricchi e poveri prende la forma del conflitto tra debitore e creditore: contese tra i pro e i contro del pagamento degli interessi, schiavitù da debito, cancellazione del debito, restituzione, ripresa di possesso, confisca dei greggi, sequestro dei vigneti, riduzione in schiavitù e vendita dei figli del debitore. Analogamente negli ultimi cinquemila anni le insurrezioni popolari sono cominciate regolarmente nella stessa maniera: con la distruzione rituale dei registri del debito, siano stati tavolette, papiri o libri mastri, a seconda del periodo storico (dopodiché, di solito, i ribelli hanno dato la caccia ai registri di proprietà della terra e delle tasse). Come piaceva dire al grande classicista Moses Finley, tutti i movimenti rivoluzionari del mondo antico avevano un unico programma: «Cancellare il debito e redistribuire la terra».

Analizzare questa prospettiva pone in posizione privilegiata perché ci permette di considerare quanto del nostro linguaggio morale e religioso sia originariamente emerso proprio da questi conflitti. Termini come «pagare il fio» o «redenzione» sono i primi che vengono in mente, presi direttamente dal linguaggio dell'antica finanza. In senso più ampio, si possono trovare origini simili per espressioni come «colpevolezza», «libertà», «remissione» e addirittura «peccato». Le ragioni del debito hanno giocato un ruolo centrale nel dare forma al nostro vocabolario elementare di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

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Pagina 20

Siamo finalmente alla questione centrale di questo libro: che cosa significa esattamente dire che il nostro senso di moralità e giustizia si è ridotto a un linguaggio d'affari? Che cosa significa ridurre gli impegni morali a debiti? Cosa cambia quando i primi prendono la forma dei secondi? E come facciamo a parlarne quando il nostro linguaggio è stato plasmato tanto profondamente dal mercato? Da un certo punto di vista la differenza tra un impegno e un debito è semplice e scontata. Un debito è un impegno a pagare una certa somma di denaro. Di conseguenza un debito, al contrario di altre forme d'obbligazione, può essere stimato in maniera precisa. Questo consente ai debiti di diventare semplici, freddi e impersonali, il che a sua volta li rende trasferibili. Se qualcuno deve un favore, o la sua stessa vita, a un altro essere umano, è indebitato in maniera specifica con questa persona. Ma se qualcuno è in debito di quarantamila dollari con un interesse del 12 per cento, non importa davvero chi sia il creditore e i due attori in questione non devono neanche preoccuparsi dei bisogni dell'altro, di cosa desideri o cosa sappia fare, come accadrebbe invece se la cosa dovuta fosse un favore, il rispetto o la gratitudine. Qui non c'è bisogno di calcolare le conseguenze sugli esseri umani: bisogna calcolare solo il montante, i saldi, le penalità e il tasso d'interesse. Se finisci per ritrovarti a dover abbandonare la tua casa e vagare per altre province, se tua figlia si ritrova a fare la prostituta in un accampamento di minatori – be', che sfortuna – ma per il creditore è secondario. Il denaro è denaro e gli affari sono affari.

Da questo punto di vista l'elemento cruciale – tema che sarà esplorato a lungo nelle prossime pagine – è la capacità del denaro di trasformare la moralità in una faccenda di aritmetica impersonale e, così facendo, di giustificare cose che altrimenti potrebbero sembrare oscene o indecenti. Il fattore della violenza, a cui finora ho dato importanza, può risultare secondario. La differenza tra un «debito» e un semplice obbligo morale non va ricercata nella presenza o nell'assenza di uomini armati che possono far valere quell'impegno sequestrando le proprietà del debitore o minacciando di rompergli le gambe. La differenza sta nel fatto che il creditore ha i mezzi per stabilire in maniera esatta, numericamente, quanto gli deve il debitore.

[...]

Questo è un momento importante per riesaminare la storia del debito, per evidenti ragioni. Nel settembre 2008, è cominciata una crisi finanziaria che ha minacciato di bloccare l'intera economia mondiale. Per molti aspetti l'economia mondiale si è davvero fermata: le navi hanno smesso di attraversare gli oceani e sono finite a migliaia all'asciutto nei cantieri; le gru da costruzione sono state smantellate e non si sono più innalzati nuovi edifici, mentre le banche hanno perlopiù smesso di concedere prestiti. Sulla scia di tutto questo ci sono state manifestazioni di rabbia pubblica e sconcerto, e poi è anche iniziato un dibattito pubblico sulla natura del debito, del denaro, delle istituzioni finanziarie che tengono in pugno il destino delle nazioni.

Ma questa è stata solo l'ennesima istanza di un dibattito che non si è mai concluso.

La ragione per cui la gente era pronta alla ripresa di questo dibattito sta nel fatto che quanto ci è stato raccontato negli ultimi dieci anni (almeno) si è rivelato una colossale menzogna. Non si può dire in modo più educato. Per anni, abbiamo tutti sentito parlare di una schiera di nuove e sofisticate innovazioni finanziarie: derivati sul credito, derivati sui beni, derivati sui mutui, titoli ibridi, swap creditizi eccetera. Questi nuovi mercati del debito erano così elaborati, secondo una storia dura a morire, che un'importante società di investimenti ha dovuto assumere degli astrofisici per gestire dei programmi di contrattazione tanto complessi che neanche gli esperti di finanza riuscivano a comprendere. Il messaggio era chiaro: lasciate queste cose ai professionisti, voi non ci potete capire niente. Anche se non vi piacciono troppo i capitalisti finanziari (e in pochi erano disposti a sostenere che ci fosse qualcosa di piacevole al suono di queste due parole), essi non sono altro che persone di enormi capacità, così abili che non si può neanche concepire un controllo democratico dei mercati finanziari (rimasero agganciati all'amo anche molti accademici: ricordo, partecipando a certi convegni nel 2006 e nel 2007, di aver ascoltato teorici alla moda che presentavano relazioni in cui sostenevano che le nuove forme di cartolarizzazione del debito, rese possibili dalle tecnologie informatiche, annunciavano imminenti trasformazioni delle nozioni di tempo, di possibilità, della realtà stessa. Ricordo di aver pensato: «Che idioti!». Non mi sono sbagliato).

Poi, quando è venuto il momento di rovistare tra le macerie, è saltato fuori che molti (se non tutti) prodotti finanziari non erano altro che sofisticata spazzatura. Operazioni del tipo: vendere a famiglie impoverite mutui concessi a condizioni che rendevano inevitabile l'insolvenza; accettare scommesse su quanto tempo ci avrebbe messo l'intestatario del mutuo a fallire; confezionare mutuo e scommessa in un solo prodotto e rivenderlo a investitori istituzionali (che forse erano pure i fondi pensione dell'intestatario del mutuo) sostenendo che avrebbe sicuramente fruttato soldi in ogni caso, consentendo agli investitori di far circolare questi pacchetti come se fossero denaro; rovesciare la responsabilità di liquidare la scommessa su di un gigantesco gruppo assicurativo che, se fosse affondato sotto il peso dei debiti (cosa effettivamente successa), sarebbe allora stato soccorso con i soldi dei contribuenti (cosa effettivamente successa). In altre parole, tutto questo assomiglia a una versione insolitamente elaborata di quel che facevano le banche quando prestavano denaro ai dittatori in Bolivia e in Gabon nei tardi anni settanta; concedere prestiti assolutamente irresponsabili sapendo pienamente che, una volta che si fosse saputo, politici e burocrati si sarebbero dati da fare perché fossero comunque rimborsati, non importa quante vite umane avrebbero dovuto essere devastate a questo fine.

Ma la differenza era che stavolta i banchieri giocavano su una scala inconcepibile: l'ammontare totale del debito che avevano contratto era più grande del Prodotto interno lordo di ogni paese al mondo; il che fece andare il mondo in testacoda e quasi distrusse l'intero sistema.

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Pagina 25

Questo libro è una storia del debito, ma usa al tempo stesso questa storia per porre domande fondamentali su cosa sono e cosa potrebbero essere gli individui e le società umane: che cosa dobbiamo davvero l'un l'altro; che cosa significa il fatto stesso di porre questa domanda. Pertanto, il libro inizia col tentativo di sgonfiare una serie di miti – non solo il Mito del Baratto, affrontato nel primo capitolo, ma altri miti concorrenti sui debiti primordiali con gli dèi o con lo stato – che in un modo o in un altro formano la base del senso comune sulla natura dell'economia e della società. Secondo la visione del senso comune, lo stato e il mercato torreggiano sopra ogni altra cosa come principi diametralmente opposti. La realtà storica rivela, nondimeno, che sono nati assieme e sono sempre stati intrecciati tra loro. Quel che queste tesi erronee hanno in comune, come vedremo in seguito, è che tendono a ridurre le relazioni umane a scambi, come se i nostri legami con la società, addirittura con l'universo, possano essere descritti nei termini degli affari economici. Questo ci porta a un'altra domanda: se al centro non c'è lo scambio, allora che cosa c'è? Nel capitolo cinque, comincerò a rispondere alla domanda attingendo ai risultati dell'antropologia per descrivere lo scenario di una base morale della vita economica; poi tornerò alla questione delle origini della moneta per dimostrare come il principio stesso dello scambio sia emerso in gran parte come risultato della violenza e che le reali origini del denaro vadano rinvenute nel crimine e nella remunerazione, nella guerra e nella schiavitù, nell'onore, nel debito e nel riscatto. Tutto ciò a sua volta apre la strada, con il capitolo ottavo, a intraprendere una vera e propria storia degli ultimi cinquemila anni del debito e del credito, con le grandi alternative tra epoche di denaro fisico e virtuale. Molte delle scoperte qui riportate sono veramente inattese: dalle origini delle concezioni moderne di diritti e libertà nelle antiche leggi sulla schiavitù fino alle origini del capitale di investimento nel buddhismo medievale cinese, per arrivare al fatto che molte delle tesi più celebri di Adam Smith sembrano essere state rubacchiate dalle opere dei teorici del libero mercato della Persia medievale (una storia che, detto per inciso, solleva interessanti implicazioni per la comprensione dell'attuale forza d'attrazione dell'islam politico). Tutto ciò prepara la strada a un nuovo modo di affrontare la storia degli ultimi cinquemila anni, dominati da imperi capitalisti, e ci consente perlomeno di cominciare a chiederci quale sia davvero la posta in gioco ai giorni nostri.

Per molto tempo c'è stato un generale consenso nel mondo intellettuale sul fatto che non potessimo più porci «grandi questioni». Sembra invece che non abbiamo altra scelta che mettere sul tavolo queste domande irrisolte.

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Pagina 88

5. Breve trattato sui fondamenti morali delle relazioni economiche


Per raccontare la storia del debito, bisogna ricostruire la maniera in cui il linguaggio del mercato è arrivato a pervadere ogni aspetto della vita umana (fornendo persino la terminologia alle voci religiose e morali sollevate contro di esso). Abbiamo già visto come gli insegnamenti vedici e cristiani finiscano per fare la stessa curiosa mossa: prima descrivono ogni forma di moralità nelle dimensioni del debito e poi, in questo processo, dimostrano che non si può ridurre la moralità al debito, ma fondarla su altre basi.

Ma quali?


Le tradizioni religiose preferiscono grandi risposte cosmologiche: l'alternativa a una moralità sorta dal debito va cercata nell'ammissione della con- tinuità con l'universo, o nella subordinazione assoluta alla divinità, o in una fu- ga in un altro mondo. Le mie ambizioni sono più modeste, pertanto prenderò un'altra strada. Se vogliamo veramente comprendere i fondamenti morali della vita economica e in senso esteso della vita umana in genere, ritengo che si debba piuttosto partire dalle piccole cose: i dettagli quotidiani della vita sociale, la ma- niera in cui trattiamo i nostri amici, i nostri nemici e i nostri bambini, a comincia- re dai gesti meno rilevanti (passare il sale, scroccare una sigaretta) su cui di solito non ci fermiamo a riflettere. L'antropologia ci ha mostrato quanto siano diver- se e varie le maniere con cui gli umani organizzano le proprie esistenze. Ma met- te anche in luce molte similitudini significative; i principi morali fondamentali che sembrano esistere ovunque e che saranno sempre invocati ogni qualvolta le persone trasferiscano dei beni in un senso o nell'altro o discutano di cosa gli al- tri devono loro. La vita umana è tanto complicata perché molti di questi princi- pi si contraddicono. Come vedremo, essi ci spingono in direzioni radicalmente differenti. La logica morale dello scambio, e quindi del debito, è soltanto una: in ogni data situazione vengono sollevati principi completamente differenti. A tal proposito, la confusione morale discussa nel primo capitolo non è nuova. In un certo senso, il pensiero morale si fonda proprio su questa tensione. Per comprendere veramente che cos'è il debito, sarà necessario capire in che mi- sura differisce da altri tipi di obbligo che gli esseri umani possono avere gli uni con gli altri (il che a sua volta significa tracciare il profilo delle altre forme di ob- bligazione). Si tratta di una sfida impegnativa. La teoria sociale contemporanea – inclusa l'antropologia economica – non ci aiuta troppo. C'è un'enorme lettera- tura antropologica sul dono, per esempio, a cominciare dal saggio del 1925 del francese Marcel Mauss sulle «economie del dono», che funzionano in manie- ra completamente diversa dalle «economie di mercato». Ma alla fine quasi tut- ta questa letteratura si concentra sullo scambio di doni, a partire dal principio che ogni volta che qualcuno fa un dono, tale atto crea un debito, e chi lo riceve deve alla fine ricambiare in qualche modo. Soprattutto nel caso delle grandi re- ligioni, la logica del mercato si è insinuata fin dentro il pensiero di chi vorrebbe resistervi. Di conseguenza, dovrò ripartire da qui, quasi da zero, per costruire una nuova teoria. Una parte del problema è lo straordinario ruolo che l'economia oggi detiene nelle scienze sociali, dov'è considerata da molti una disciplina di rango superio- re. In America ci si aspetta che chiunque gestisca qualcosa di importante debba avere una qualche formazione in teoria economica, o perlomeno dimestichezza con i suoi principi basilari. Dí conseguenza, questi principi sono trattati come una forma di senso comune e non vengono mai messi in discussione (sai di esse- re in presenza di un luogo comune quando provi a sfidarlo e la prima reazione che ottieni è di essere trattato da ignorante: «Ovviamente non hai mai sentito parlare della curva di Laffer»; «Mi sembra chiaro che hai bisogno di un corso di economia di base»: la teoria sembra così manifestamente vera che chi la capi- sce non può metterla in discussione). Inoltre, le branche della teoria sociale che più ambiscono allo status di scientificità – la «teoria della scelta razionale», per esempio – muovono dagli stessi postulati sulla psicologia umana condivisi dagli economisti: che gli esseri umani siano attori egoisti decisi a calcolare come ot- tenere il miglior vantaggio in ogni data situazione, il massimo profitto o il mas- simo piacere o la felicità per il minor sacrificio o il miglior investimento. Tutto ciò è curioso, visto che gli psicologi sperimentali hanno dimostrato che tali as- sunti non sono veri.' Fin dagli inizi c'erano studiosi interessati a creare una teoria dell'interazio- ne sociale fondata su una visione più generosa della natura umana; studiosi che sostenevano che la vita morale si riduce a qualcosa di più del mutuo vantaggio, ovvero che è motivata soprattutto da un senso di giustizia. La parola chiave è «reciprocità», il senso di equità, equilibrio, correttezza e simmetria, incorpora- 92 Debito 5. Breve trattato sui fondamenti morali delle relazioni economiche 93 Se avete salvato la vita a un individuo, aspettatevi di ricevere presto la sua visita; siete ormai diventato suo debitore e non vi sbarazzerete di lui che a forza di do- ni e regali." Ora, sicuramente nel fatto di salvare una vita c'è sempre qualcosa di straordi- nario. Tutto ciò che circonda la vita e la morte serve a condividere una parte di infinito e pertanto fa saltare le forme quotidiane di calcolo morale. Forse è per questo che storie del genere sono diventate una sorta di cliché in America nel pe- riodo della mia infanzia. Ricordo che da bambino mi venne detto in più occasio- ni che tra gli inuit (o altre volte tra i buddhisti, o i cinesi, ma curiosamente mai tra gli africani) se uno salva la vita di qualcuno, è considerato responsabile del- la cura di quella persona per sempre. Si tratta di un'idea che sfida il nostro sen- so di reciprocità. A ogni modo è un'idea originale. In queste storie non sappiamo cosa frullasse nella mente dei pazienti o delle persone salvate, perché non abbiamo idee sulla loro identità e sulle loro aspetta- tive (per esempio, come interagivano di solito con i dottori). Ma possiamo fare delle congetture. Tentiamo un gioco mentale. Immaginiamo di avere a che fa- re con un posto in cui, se un uomo salva la vita di un altro, i due diventano co- me fratelli. Ci si aspetta che ognuno condivida tutto e che aiuti l'altro se si trova in difficoltà. In questo caso, il paziente si renderà subito conto che il suo nuovo fratello ha un aspetto estremamente agiato e non sembra aver bisogno di nien- te, mentre a lui mancano tante cose che il missionario potrebbe mettere a sua disposizione. In alternativa (e più probabilmente), immaginiamo di non avere a che fa- re con una relazione radicalmente egualitaria, quanto col suo opposto. In mol- te parti dell'Africa, i guaritori esperti sono anche importanti figure politiche con estese reti clientelari fatte di ex pazienti. Un aspirante seguace si presenta quindi per dichiarare la propria lealtà politica. In questo caso la faccenda si complica, perché i seguaci di grandi uomini, in questa parte dell'Africa, si trovano in una posizione relativamente forte dal punto di vista della contrattazione. Non è fa- cile trovarsi un buon tirapiedi e dalle persone importanti ci si aspetta generosità con i seguaci, per evitare che entrino in un gruppo rivale. Pertanto chiedere una camicia o un coltello è un modo di ottenere una conferma, per assicurarsi che il missionario accoglierà quell'uomo come suo seguace. Ripagarlo, al contrario, sarebbe, come il gesto di Seton con suo padre, un insulto: una maniera per dire che nonostante il missionario gli abbia salvato la vita, loro due non avranno pre- sto più nulla da condividere. Si tratta semplicemente di un gioco mentale. Perché non sappiamo cosa pen- sassero veramente i pazienti africani.

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Pagina 92

[...] Il punto è che forme di uguaglianza e disuguaglianza radicale esistono al mondo, che ognuno porta dentro di sé il suo tipo di moralità, cioè una maniera di pensare e discutere su cosa è giusto e cosa sbagliato in ogni situazione, e che queste forme di moralità sono completamente differenti da quelle dello scambio del tipo dente per dente. Nella parte rimanente del capitolo, indicherò una maniera per tracciare schematicamente altre possibilità, a partire dalla proposizione che ci sono tre principi morali su cui si possono fondare le relazioni economiche in ogni società umana: il comunismo, la gerarchia e lo scambio.




Comunismo


Definirò qui il comunismo come una qualsiasi relazione umana che operi secondo il principio «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni».

Ammetto che l'uso che ne faccio è un po' provocatorio. «Comunismo» è una parola che suscita forti reazioni emotive, soprattutto perché lo identifichiamo con i regimi «comunisti». Ma faccio ironicamente notare che i partiti comunisti che hanno governato l'Urss e i suoi satelliti e che ancora oggi governano Cina e Cuba non hanno mai descritto i loro sistemi come «comunisti». Li hanno definiti piuttosto come «socialisti». Il «comunismo» rimaneva vago, una sorta di distante ideale utopico, accompagnato di solito dall'estinzione dello stato (da raggiungere in un lontano futuro).

La nostra riflessione sul comunismo è dominata da un mito. C'era una volta un'epoca in cui gli esseri umani tenevano tutte le loro cose in comune (nel Giardino dell'Eden, nell'Età dell'oro di Saturno o nel Paleolitico delle bande di caccia e raccolta). Poi arrivò la Caduta dal Paradiso terrestre, con la conseguenza che adesso siamo tormentati dalla divisione del potere e dalla proprietà privata. Il sogno era che prima o poi, col progresso della tecnologia e con la prosperità generalizzata, con la rivoluzione sociale o con la guida del partito, ci saremmo alla fine trovati nella posizione di rimettere a posto le cose, ripristinando la proprietà comune e la gestione comunitaria delle risorse collettive. Nel corso degli ultimi due secoli, comunisti e anticomunisti hanno discusso sulla plausibilità di questo scenario: per gli uni era una benedizione, per gli altri un incubo. Ma concordavano su come il ragionamento veniva impostato: il comunismo aveva a che fare con la proprietà collettiva, il «comunismo primitivo» era esistito tanto tempo fa e un giorno o l'altro sarebbe potuto tornare.

Potremmo chiamarlo «comunismo mitico» – o anche «comunismo epico» – una storia che ci piace raccontare a noi stessi. Dai giorni della Rivoluzione francese, ha ispirato milioni di persone, ma anche arrecato enormi danni all'umanità. Credo che sia arrivato il momento di ragionare in modo completamente diverso. Infatti il «comunismo» non è una qualche utopia magica né ha a che fare con la proprietà dei mezzi di produzione. Θ qualcosa che esiste proprio adesso; che esiste, in certo modo, in ogni società umana, sebbene non ci sia mai stata una società in cui tutto fosse organizzato in maniera comunista e sarebbe difficile immaginare come potrebbe sussistere una società del genere. Infatti, per gran parte del nostro tempo, tutti noi agiamo da comunisti. Ma nessuno di noi agisce coerentemente da comunista. Una «società comunista» — nel senso di una società organizzata esclusivamente su quel singolo principio — non potrebbe mai realizzarsi. Ma tutti í sistemi sociali, inclusi quei sistemi economici ispirati al capitalismo, sono sempre stati costruiti su un substrato preesistente di comunismo.

Muoversi a partire dal principio che vuole «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», ci permette di andare oltre la questione della proprietà privata o individuale (che è spesso poco più che una questione di legalità formale), per rivolgere la nostra attenzione a faccende più pratiche e dirette di chi abbia accesso a una certa classe di cose e a quali condizioni. Qualunque sia il principio operativo, anche se abbiamo a che fare con solo due persone che interagiscono, possiamo dire di essere in presenza di una sorta di comunismo.

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Pagina 112

Non è poi tanto differente l'idea che esista qualcosa come «il mercato». Chiedetelo nella maniera giusta e lo ammetteranno anche gli economisti. I mercati non esistono nella realtà. Sono modelli matematici, creati immaginando un mondo chiuso in cui tutti hanno esattamente le stesse motivazioni e la stessa conoscenza, e sono impegnati nelle stesse pratiche egoistiche di calcolo. Gli economisti sanno che la realtà è sempre più complicata, ma sono consapevoli che per presentarsi con un modello matematico, bisogna ridurre il mondo a una sorta di cartone animato. Non c'è nulla di sbagliato in questo. I problemi si verificano quando si permette a qualcuno (di solito quegli stessi economisti) di dichiarare che chiunque ignori i dettami del mercato sarà sicuramente punito, o dal momento che viviamo in un sistema di mercato, ogni cosa (con l'eccezione dell'interferenza degli stati) si fonda su principi di giustizia: pertanto il nostro sistema economico sarebbe una vasta rete di relazioni reciproche in cui, alla fine, i bilanci si pareggiano e tutti i debiti vengono saldati.

Questi principi si intersecano gli uni con gli altri ed è quindi difficile dire quali predominano in una data situazione: è ridicolo pretendere di ridurre il comportamento umano, in campo economico o in altri campi, a una qualsiasi formula matematica. Tuttavia si possono individuare alcune forme di reciprocità potenzialmente presenti in ogni situazione. Pertanto un osservatore può sempre trovare una giustificazione per sostenere la bontà delle sue tesi sulla reciprocità. Inoltre, alcuni principi hanno la tendenza a sovrapporsi ad altri. Per esempio, alcune relazioni estremamente gerarchiche possono operare, almeno per qualche tempo, su principi comunisti. Se haí un ricco mecenate e ti rivolgi a lui in caso di bisogno, probabilmente ti sosterrà, ma solo fino a certo punto. Nessuno si aspetta che un mecenate fornisca così tanto aiuto al suo beneficiario da correre il rischio di mettere in discussione l'ineguaglianza di base della loro relazione.

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Pagina 117

[...] Il contratto di un lavoro salariato è, apparentemente, un libero contratto tra uguali, ma quest'accordo tra uguali prevede che entrambi concordino sul fatto che nel momento in cui uno di loro timbra il cartellino, non saranno più uguali. La legge riconosce il problema, per questo insiste sul fatto che non si può vendere in maniera permanente la propria uguaglianza (non sei libero di venderti come schiavo). Tali accordi sono accettabili solo se il potere del principale non è assoluto, ma limitato all'orario di lavoro, e se hai il diritto legale di rompere il contratto, quindi di recuperare la tua piena uguaglianza in qualsiasi momento.

A me sembra che l'accordo tra uguali che non sono più uguali (almeno per un certo tempo) abbia un'importanza fondamentale. Θ l'essenza stessa di quel che chiamiamo «debito».

Allora che cos'è il debito?

Il debito è qualcosa di molto specifico, originato da situazioni ancor più specifiche. Richiede innanzitutto una relazione tra due persone che non si considerano sostanzialmente differenti, che almeno potenzialmente sono uguali, almeno nelle cose importanti, e che in un dato momento non si trovano più in uno stato di uguaglianza, ma per i quali c'è la possibilità di risolvere la faccenda.

Nel caso dell'offerta di un dono, come abbiamo visto, è necessaria una certa uguaglianza di condizione sociale. Per questo i nostri professori di economia non percepiscono alcun senso di obbligazione, alcun debito d'onore, se invitati a cena da qualcuno di condizione sociale molto più alta o molto più bassa di loro. Con i prestiti di denaro si richiede che le due parti siano di uguale condizione legale (non si possono prestare soldi a un bambino o un folle. Be', in effetti si può, ma il tribunale non ti aiuterà a riaverli indietro). I debiti legali, più di quelli morali, hanno altre qualità specifiche. Per esempio, possono essere condonati, cosa non sempre possibile con i debiti morali.

Questo significa che non esiste debito assolutamente non saldabile. Se non ci fosse un qualsiasi mezzo per recuperare la situazione, non lo chiameremmo «debito».

[...]

Questo rende le situazioni in cui il debito effettivamente non è saldabile difficili e dolorose. Dal momento che creditore e debitore sono in ultima analisi uguali, se il debitore non può fare ciò che lo restituirebbe all'uguaglianza, allora c'è qualcosa di sbagliato in lui: dev'essere colpa sua.

Questa connessione diventa più chiara se prendiamo in considerazione l'etimologia delle parole con cui si traduce il concetto di «debito» nelle lingue europee. Molti sono sinonimi di «errore», «peccato» o «colpa»: come i criminali sono in debito con la società, il debitore è sempre una sorta di criminale. Nell'antica Creta, secondo Plutarco, era costume che chi contraeva un debito fingesse di rubare i soldi dalla borsa del creditore. «Perché?» si chiedeva l'autore. Probabilmente, «perché se non saldavano il debito, erano considerati imputabili di violenza e puniti in ogni caso». Per questo in così tanti periodi della storia i debitori insolventi potevano essere incarcerati o anche, come nella prima Roma repubblicana, giustiziati.

Un debito allora è solo uno scambio non portato a termine.

Ne consegue che il debito è il figlio diretto della reciprocità e ha poco a che fare con altre forme di moralità (il comunismo, con i suoi bisogni e le sue capacità; la gerarchia, con le sue consuetudini e le sue qualità). Certo, se fossimo veramente determinati, potremmo sostenere – e c'è chi lo fa – che il comunismo è una condizione di permanente e mutuo indebitamento o che la gerarchia è costruita attorno a debiti impagabili. Ma non è questa in fondo la solita vecchia storia che muove dall'ipotesi che tutte le interazioni umane debbano essere per definizione forme di scambio, con le conseguenti capriole mentali richieste a dimostrazione di tale ipotesi?

No, non tutte le interazioni umane sono forme di scambio. Solo alcune. Lo scambio incoraggia un particolare modo di concepire le relazioni umane: implica uguaglianza, ma anche separazione. Il debito è cancellato nel momento in cui il denaro cambia di mano, l'uguaglianza viene ripristinata ed entrambe le parti possono andarsene e non avere più nulla a che fare l'una con l'altra.

Il debito è ciò che accade prima, quando le due parti non possono andarsene, quando ancora non sono uguali. Ma è una relazione che viene portata avanti all'ombra di una eventuale uguaglianza. Perché raggiungere quell'uguaglianza, comunque, distrugge la ragione stessa per intrattenere una relazione: per questo qualsiasi cosa interessante su un piano umano si verifica negli interstizi di questi rapporti (anche se questo significa che tutte le relazioni umane portano con sé almeno un piccolo elemento di criminalità, di colpa o vergogna).

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Pagina 127

In ogni caso concentrare la nostra attenzione sull'industria del sesso sarebbe ingannevole. In passato, come oggi, le donne indebitate trascorrono la maggior parte del proprio tempo soprattutto cucinando zuppe, cucendo tessuti e ripulendo latrine. La stessa intimidazione biblica a «non desiderare la moglie del tuo prossimo», contenuta nei dieci comandamenti, si riferisce non alla lussuria (l'adulterio era già stato trattato nel settimo comandamento), ma alla prospettiva di prendere la donna del vicino come schiava per un debito non saldato, cioè come serva destinata a ripulire il cortile o a stendere panni ad asciugare. In casi del genere lo sfruttamento sessuale era un elemento secondario (di solito illegale, ma talvolta praticato: comunque simbolicamente importante). Di nuovo, una volta rimossi i nostri paraocchi, possiamo vedere quanto poco siano cambiate le cose nel corso degli ultimi cinquemila anni. Meno di quanto ci piace pensare.


Questi paraocchi sono tanto più ironici quando si prende in considerazione la letteratura antropologica su quello che un tempo veniva chiamato «moneta primitiva», cioè la forma di circolazione monetaria che si trova in posti in cui non esistono stati o mercati – sia il wampum irochese, la moneta di stoffa africana o le monete di piuma delle isole Salomone – e in cui si osserva che tale moneta è usata quasi esclusivamente per quei tipi di transazione di cui gli economisti non amano discutere.

Di fatto, l'espressione «moneta primitiva» è ingannevole, perché suggerisce che abbia a che fare con una versione grezza delle valute che usiamo oggi. Niente del genere, invece. La moneta in questione non viene mai adoperata per comprare o vendere alcunché. Al contrario, è usata per creare, conservare o riorganizzare relazioni tra persone: per contrarre matrimoni, stabilire la paternità di un bambino, mettere fine a una faida, consolare chi piange a un funerale, ottenere il perdono in caso di un crimine, negoziare un trattato e trovare seguaci, praticamente qualsiasi cosa a eccezione dello scambio di patate, pale, maiali e monili.

Queste monete sono estremamente importanti, dal momento che la vita sociale ruota attorno alla possibilità di ottenerne e disporne. Evidentemente caratterizzano un'idea completamente diversa di che cosa siano la moneta e un'economia. Pertanto ho deciso di riferirmi a questi fenomeni con l'espressione di «monete sociali», ribattezzando le economie che le impiegano «economie umane». Con ciò non voglio dire che queste società siano necessariamente più umane delle nostre (alcune sono piuttosto umane, altre straordinariamente brutali), ma solo che abbiamo a che fare con sistemi economici finalizzati in maniera prioritaria non all'accumulazione della ricchezza ma alla creazione, distruzione e riorganizzazione dei rapporti umani.

Storicamente, le economie commerciali – economie di mercato come ci piace chiamarle adesso – sono relativamente recenti. Per gran parte della storia umana hanno predominato le economie umane. Per scrivere una storia autentica del debito dobbiamo cominciare a chiederci: che tipo di debiti, che tipo di crediti le persone accumulano nelle società umane? E che cosa accade quando le economie umane iniziano a sfaldarsi o sono soppiantate dalle economie commerciali? O per metterla in altro modo: come può un impegno, un'obbligazione morale, trasformarsi in debito? Cercherò di rispondere a questa domanda non in forma astratta, ma esaminerò la documentazione storica per provare a ricostruire quel che veramente è successo.

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Pagina 164

[...] Gli studenti di diritto romano del primo anno un tempo dovevano imparare a memoria la seguente definizione:

SCHIAVITΩ istituzione in accordo allo ius gentium per cui una persona cade sotto i diritti di proprietà di un'altra, contrariamente al diritto di natura.


Perlomeno la schiavitù è sempre stata percepita come qualcosa di brutto e indecente. Chi era troppo vicino a quel mondo veniva considerato corrotto. In particolare i commercianti di schiavi erano disprezzati in quanto bruti inumani. Per tutto il corso della storia, le giustificazioni morali della schiavitù sono state prese sul serio molto raramente anche da chi la praticava. Molte persone vedevano la schiavitù allo stesso modo della guerra: un affare disdicevole, sicuramente, ma bisognava essere ingenui per pensare di poterlo eliminare.




L'onore è dignità in eccesso


Allora, che cos'è la schiavitù? Ho già cominciato a suggerire una risposta nel precedente capitolo. Schiavitù in ultima analisi significa essere strappati al proprio contesto e quindi da tutte quelle relazioni sociali che costituiscono un essere umano. Detto in altra maniera, uno schiavo è in un certo modo un morto.

Queste furono le conclusioni a cui è arrivato il primo studioso che condusse un'estesa rassegna di quest'istituto, un sociologo egiziano di nome Ali 'Abd al-Wahid Wafi, che viveva a Parigi nel 1931. Egli sosteneva che ovunque, dal mondo antico fino all'America meridionale dell'epoca, le ragioni per cui una persona poteva essere ridotta in schiavitù erano le stesse:


    1)  per la legge del più forte:
        a) per essersi arreso o catturato in guerra;
        b) per essere la vittima di un sequestro o un'incursione;
    2)  come sanzione legale per un crimine (incluso il debito);
    3)  per l'autorità paterna (un padre che vende i propri figli);
    4)  per la volontaria decisione di vendersi come schiavo;



Ovunque però la maniera considerata più legittima è quella della cattura in guerra. Tutte le altre implicano dei problemi morali. Il sequestro è evidentemente un atto criminale e i genitori che vendono i propri figli devono trovarsi in circostanze disperate. Abbiamo letto di carestie in Cina così gravi che in passato migliaia di uomini arrivarono a castrarsi nella speranza di potersi vendere a corte come eunuchi, ma questo è anche segno di completo collasso sociale. Anche i processi giudiziari potevano facilmente essere corrotti, cosa di cui gli antichi erano ben consapevoli, soprattutto quando si aveva a che fare con una riduzione in schiavitù per debito.

Per molti aspetti, la tesi di al-Wahid è un'ampia difesa del ruolo della schiavitù nell'islam (un fenomeno largamente criticato, dal momento che la legge islamica non ha mai eliminato la schiavitù, anche quando quell'istituto era in gran parte scomparso nel resto del mondo medievale). Secondo l'autore, è vero che Maometto non ha proibito la pratica della schiavitù, ma è anche vero che il primo califfato è il primo stato di cui abbiamo notizia, che sia veramente riuscito a eliminare certe pratiche (i sequestri, la vendita della prole e l'abuso giudiziario) riconosciute come un problema sociale da migliaia di anni, limitando la schiavitù ai prigionieri di guerra.

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Pagina 167

Ritengo che sia proprio questo a conferire al concetto di onore la sua evidente fragilità: gli uomini d'onore tendono a riunire in sé un senso di totale disinvoltura e fiducia nei propri mezzi, derivate dall'abitudine al comando, con un famigerato nervosismo, elevata permalosità verso gli insulti e mancanza di riguardi, la sensazione che un uomo (di solito è proprio un maschio) sia in certo modo umiliato e ridimensionato se si permette di lasciare insoluto anche un solo «debito d'onore». Questo perché l'onore non è la stessa cosa della dignità. Si potrebbe anche dire: l'onore è dignità in eccesso. Θ un'accresciuta consapevolezza del potere e dei suoi rischi, che deriva dall'aver deprivato altri di potere e dignità, o almeno dalla consapevolezza che si potrebbe essere capaci di farlo. In altri termini, l'onore è quella dignità in eccesso che deve essere difesa con la spada o con il coltello (gli uomini violenti, come sappiamo tutti, sono sempre ossessionati dall'onore). Da qui l' ethos del guerriero che considera una sfida e tratta di conseguenza qualsiasi cosa assomigli a una mancanza di rispetto, come una parola o uno sguardo sconvenienti. Ma anche quando la violenza esplicita è stata in gran parte spinta fuori di scena, la discussione si focalizza sull'onore e sul senso di dignità che potrebbero andare perduti e quindi costantemente da difendere.

Il risultato è che ai nostri giorni la parola «onore» ha due significati contraddittori. Da un lato possiamo parlare di «onore» semplicemente come una forma d'integrità. Le persone per bene onorano i propri impegni. Questo è evidentemente il senso di «onore» valido per Equiano: essere un uomo onorevole significava essere una persona che dice la verità, obbedisce alle leggi, mantiene le proprie promesse, è onesto e coscienzioso nei suoi affari commerciali. Ma il suo problema era che al tempo stesso «onore» significava qualcos'altro, che aveva a che fare con la violenza richiesta per ridurre gli esseri umani a beni.

Il lettore potrebbe obiettare: cosa c'entra tutto questo con le origini del denaro? La risposta, sorprendentemente, è: «Tutto». Alcune delle forme più arcaiche di denaro che conosciamo risultano essere state usate precisamente per misurare l'onore e la degradazione: vale a dire che il valore del denaro era, in definitiva, il valore del potere di trasformare gli altri in denaro. Il curioso caso delle cumal – la moneta di ragazze schiave dell'Irlanda medievale – ne è un'illustrazione drammatica.

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Pagina 182

Quando parliamo di donne «rispettabili» ci riferiamo a quelle i cui corpi non potevano essere comprati e venduti in alcun modo. Le loro persone fisiche erano tenute nascoste e relegate permanentemente nella sfera domestica di qualche uomo. Quando apparivano in pubblico, il velo garantiva che in realtà stessero ancora camminando all'interno di uno spazio privato, sebbene all'aperto. Al contrario, le donne che potevano essere scambiate con denaro, dovevano essere immediatamente riconoscibili in quanto tali.

Il codice legale assiro è un esempio isolato (il velo altrove non divenne obbligatorio fino a dopo il 1300 a.C.), ma ci illumina sugli sviluppi che si stavano verificando, sebbene in maniera diseguale, in tutta la regione, alimentati dall'intersezione di commercio, conflitti di classe, spavalde dichiarazioni di onore maschile e la costante minaccia di esodo dei poveri. Sembra che gli stati giocassero un ruolo complesso e duplice: da un lato favorivano la mercificazione, dall'altro intervenivano per mitigarne gli effetti; prima emanando leggi che sostenevano l'indebitamento e il potere dei padri, poi offrendo periodiche cancellazioni del debito. Ma nel corso dei millenni questa dinamica condusse a una sistematica degradazione della sessualità che da dono divino e incarnazione di elegante civiltà si ritrovò associata a concetti a noi più familiari: abiezione, corruzione, colpa.


Qui possiamo trovare la spiegazione per quel generale declino delle libertà femminili che si può osservare in tutte le grandi civiltà urbane nel corso della storia. Fenomeno che si realizza in maniera simile in luoghi diversi, anche se la dinamica può seguire percorsi differenti.

Nella storia della Cina, per esempio, vediamo continue e in gran parte fallimentari campagne governative volte ad abolire sia il «prezzo della sposa» che la schiavitù del debito, con periodici scandali (fino ai nostri giorni) sull'esistenza di «mercati delle figlie» in cui si vendono senza pudore figlie, mogli, concubine e prostitute, a discrezione del compratore.

In India il sistema delle caste permise di rendere esplicite e formali le differenze tra ricchi e poveri. I bramini e gli altri membri delle caste superiori custodivano gelosamente le proprie figlie e le davano in spose con doti molto generose, mentre le caste basse praticavano il prezzo della sposa permettendo ai membri delle caste più alte (i «nati due volte») di farsi beffe di loro perché vendevano le proprie figlie. I nati due volte erano perlopiù protetti dal rischio di cadere nella schiavitù del debito, mentre per gran parte dei poveri delle zone rurali la dipendenza dal debito era istituzionalizzata e le figlie dei debitori potevano ritrovarsi a lavorare nei bordelli o nelle cucine o nelle lavanderie dei ricchi. In ogni caso, tra spinta alla mercificazione, che cadeva in maniera sproporzionata sulle spalle delle figlie, e l'affermazione dei diritti patriarcali volti a «proteggere» le donne dal rischio di essere mercificate, le libertà formali e pratiche delle donne divennero – gradualmente ma in maniera sempre più consistente – ristrette o cancellate. Come conseguenza, si trasforma anche l'idea di onore, diventando una sorta di protesta contro le implicazioni del mercato, anche se al tempo stesso (come accade nelle principali religioni del pianeta) la logica del mercato si insinua anche in queste forme di dissenso.

Le fonti più dettagliate e uniche di cui disponiamo al riguardo sono quelle relative all'antica Grecia. In parte questo è dovuto al fatto che l'economia commerciale sia arrivata a quelle latitudini piuttosto tardi, quasi tremila anni dopo che a Sumer. Pertanto, la letteratura classica greca ci fornisce un'opportunità unica per osservare la trasformazione in corso quasi come se avvenisse in tempo reale.

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Pagina 194

L'antica Roma: proprietà e libertà


Se l'opera di Platone testimonia quanto profondamente la confusione morale introdotta dal debito abbia dato forma alla nostra tradizione di pensiero, il diritto romano rivela quanto sia stata fondamentale anche per le istituzioni che ci sono più familiari.

Il giurista tedesco Rudolf von Jhering osservò che l'antica Roma aveva conquistato il mondo tre volte: la prima attraverso i suoi eserciti, la seconda attraverso la sua religione e la terza attraverso le sue leggi. Avrebbe potuto aggiungere: ogni volta un po' di più. L'impero, dopo tutto, occupava solo una piccola porzione del globo: la Chiesa cattolica romana si è estesa oltre. Il diritto romano ha fornito il linguaggio e gli strumenti concettuali degli ordinamenti legali e costituzionali di ogni continente. Gli studenti di diritto dal Sudafrica al Perú sanno di dover trascorrere grossa parte del loro tempo a memorizzare termini tecnici in latino ed è il diritto romano a fornire quasi tutti i concetti di base su contratti, obbligazioni, atti illeciti, proprietà e giurisdizione e, in senso più ampio, sulla cittadinanza, i diritti e le libertà su cui si fonda la vita politica.

Questo è stato possibile, sostiene Jhering, perché i romani furono i primi a trasformare la giurisprudenza in scienza pura.

[...]

Nondimeno, il diritto romano sostiene che la forma base della proprietà sia la proprietà privata, e che la proprietà privata sia il potere assoluto del proprietario di fare tutto quel che vuole dei suoi beni. I giuristi medievali del XII secolo arrivarono a sistematizzare tutto ciò secondo tre principi, l' usus (l'uso di un bene), il fructus (il godimento dei prodotti di quel bene) e l' abusus (l'abuso o la distruzione di quello stesso bene). Ma i giuristi romani non erano neanche interessati a specificare così tanto le cose, dal momento che in un certo modo consideravano certi dettagli già al di fuori del dominio della legge. In effetti, gli studiosi hanno speso un mucchio di tempo a discutere se gli autori romani considerassero veramente la proprietà privata un diritto (ius), per la ragione stessa che i diritti erano in ultima analisi fondati su accordi tra persone, cosa che non valeva per il potere di disporre della propria proprietà: era solo la capacità naturale di un individuo di fare ciò che voleva in assenza d'impedimenti sociali.

A pensarci bene, questo libro è un posto un po' strano per cominciare a sviluppare una teoria del diritto della proprietà. Basti dire che in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi periodo storico, nell'antico Giappone o a Machu Picchu, chiunque avesse un pezzo di corda era libero di avvolgerla, di annodarla, di distruggerla o di gettarla nel fuoco, se ne aveva l'intenzione. Nessun teorico legale ha mai trovato questo fatto interessante o importante. Di sicuro nessun'altra tradizione ne ha fatto la base del diritto di proprietà, dal momento che tutto sommato questo ridurrebbe tutte le altre leggi a poco più di una serie di eccezioni.

Com'è successo tutto questo? E perché? La spiegazione più convincente che ho trovato è quella di Orlando Patterson: l'idea della proprietà privata deriva dalla schiavitù. Si può immaginare la proprietà non come una relazione tra persone, ma come una relazione tra una persona e una cosa, se il proprio punto di partenza è una relazione tra due persone, una delle quali è una cosa. (Questa è la maniera in cui venivano definiti gli schiavi nel diritto romano: persone che erano anche res, cioè cose.) In questo senso inizia ad avere un suo significato anche l'enfasi sul potere assoluto.

La parola dominium, riferita alla proprietà privata assoluta, non era particolarmente antica. Appare in latino solo nella tarda repubblica, proprio attorno all'epoca in cui centinaia di migliaia di lavoratori coatti cominciarono a riversarsi in Italia, quando pertanto Roma stava diventando una vera e propria società schiavista. Intorno al 50 a.C. gli autori romani davano per scontato che i lavoratori fossero proprietà di qualcuno: questo valeva sia per i contadini che raccoglievano piselli nelle piantagioni di campagna, sia per í mulattieri che portavano gli stessi piselli nei negozi di città, sia infine per i contabili che ne registravano la quantità. L'esistenza di milioni di creature che al tempo stesso erano persone e cose creò innumerevoli problemi legali e gran parte del genio creativo del diritto romano è stato impiegato nello studio delle infinite ramificazioni teoriche implicate da questa associazione. Basta aprire a caso un repertorio commentato di diritto romano per farsene un'idea. Leggiamo le parole del giurista Ulpiano, del II secolo:

Se taluno, nel giocare a palla con altri, abbia dato a questa un colpo troppo forte, facendola ricadere sulle mani di un barbiere, e lo schiavo che il barbiere stava radendo abbia avuto la gola tagliata dal rasoio, Mela scrive che quello fra loro che sia in colpa sarà imputabile in base alla legge Aquilia. Proculo sostiene la colpa del barbiere; e certo se egli si è posto a radere in un luogo dove si era soliti giocare o dove il transito era frequente, è il caso di fargliene una colpa; benché non sia neppure scorretto l'affermare che colui il quale si affidi a un barbiere che abbia posizionato la sua sedia in luogo pericoloso debba imputare a se stesso il male che ne può venire.

In altre parole, il signore non può pretendere danni civili contro i giocatori o contro il barbiere per aver distrutto la sua proprietà, se il vero problema era che aveva comprato uno schiavo stupido. Questi dibattiti possono colpirci per la loro bizzarria – puoi essere accusato di furto per aver convinto uno schiavo a fuggire? E se qualcuno ha ucciso uno schiavo che era anche tuo figlio, si possono prendere in considerazione quei sentimenti verso di lui nel conteggio dei danni o quel che conta è solo il suo valore di mercato? –, ma è proprio su questi dibatti che si basa la nostra tradizione giuridica.

La parola dominium deriva da dominus, ovvero «signore», cioè «proprietario di schiavi», ma in ultima analisi rimanda a domus, «casa». Ovviamente c'è un collegamento con il termine «domestico», che anche adesso può essere usato sia per riferirsi alla «vita privata» sia per indicare il servo che pulisce la casa. Il significato di domus si sovrappone a volte a quello di familia ma – forse potrebbe interessare ai sostenitori dei «valori della famiglia» – «famiglia» deriva dalla parola famulus, che significa «schiavo». La famiglia era in origine il gruppo di persone sottoposte all'autorità domestica di un pater familias, e quell'autorità era concepita come assoluta, almeno nell'antico diritto romano. Un uomo non aveva il potere assoluto sulla moglie, dal momento che questa era ancora in certo modo sotto la protezione di suo padre, ma i figli, gli schiavi e altri dipendenti erano a sua disposizione per tutto ciò che voleva e almeno nel primo diritto romano il pater familias era libero di frustarli, torturarli o venderli. Un padre poteva addirittura giustiziare i propri figli, nel caso che questi avessero commesso dei crimini capitali. Con i suoi schiavi, non aveva neanche bisogno di quella giustificazione.

I giuristi romani crearono il concetto di dominium e poi il principio moderno della proprietà privata assoluta, quindi estesero il principio di autorità domestica, di potere assoluto sulle persone definendo una parte di queste persone (gli schiavi) come cose, infine allargarono il dominio di quella logica che un tempo si applicava solo agli schiavi anche alle oche, ai carri, ai granai, alle scatole dei gioielli ecc, ovvero a ogni tipo di cosa con cui la legge avesse a che fare.

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Pagina 200

Ma l'effetto più insidioso della schiavitù romana è che attraverso il diritto romano ha devastato la nostra idea di libertà umana. Il significato della parola latina libertas è cambiato drammaticamente nel corso del tempo. Ovunque nel mondo antico essere «liberi» voleva dire soprattutto non essere schiavi. Dal momento che la schiavitù significava soprattutto la distruzione dei legami sociali e della capacità di formarli, «libertà» implicava la possibilità di creare e conservare impegni morali con gli altri. La parola inglese free, per esempio, deriva dalla radice germanica che significa friend, perché essere libero vuol dire essere capace di avere amici, di mantenere le promesse, di vivere all'interno di una comunità di uguali. Per questo gli schiavi liberati a Roma diventavano cittadini: essere liberi, per definizione, significava essere radicati in una comunità civica, con tutti i diritti e le responsabilità che ne derivavano.

Ma a partire dal II secolo d.C. ciò iniziò a cambiare. I giuristi lentamente ridefinirono la libertas fino al punto da renderla indistinguibile dal potere del padrone. Era il diritto di fare assolutamente qualsiasi cosa, con l'eccezione di tutto quel che non si poteva fare. In realtà, nel Digestum, le definizioni di libertà e di schiavitù sono contigue:

La libertà è la facoltà naturale di fare quel che si vuole allorché questo non sia vietato dalla forza o dalla legge. La schiavitù è un istituto conforme allo ius gentium per cui una persona diviene proprietà privata (dominium) di un'altra, in maniera contraria alla natura.

I commentatori medievali si resero subito conto di un problema. Questo non implica forse che tutti siano liberi? In fondo, anche gli schiavi sono liberi di fare tutto quel che è loro permesso. Dire che uno schiavo è libero (a parte che non è vero) è un po' come dire che la Terra è piatta (a parte che è rotonda) o che il sole è blu (a parte che è giallo) o che ancora una volta abbiamo il diritto assoluto di fare quel che vogliamo con la nostra sega a motore (a parte quelle cose che non possiamo fare).

In effetti questa definizione apre la porta a tutta una serie di complicazioni. Se la libertà è naturale, allora di sicuro la schiavitù è innaturale, ma se la libertà e la schiavitù sono solo una questione di gradi, allora logicamente non sono forse tutte le restrizioni della libertà in certo modo innaturali? Ciò non implica forse che la società, le regole sociali, di fatto anche i diritti di proprietà siano allo stesso modo innaturali? Sono queste le conclusioni a cui arrivarono molti giuristi romani quando si spinsero a commentare tali tematiche astratte, cosa che avvenne di rado. In origine, gli esseri umani vivevano nello stato di natura in cui tutte le cose erano tenute in comune. Poi la guerra ha diviso il pianeta con le conseguenti «leggi delle nazioni», lo ius gentium, le consuetudini comuni con cui l'umanità ha regolato faccende come la conquista, la schiavitù, i trattati e i confini, che erano responsabili anche delle disuguaglianze di proprietà.

Questo significò inoltre che non c'era una differenza caratteristica tra la proprietà privata e il potere politico, almeno fino a quando quel potere si basò sulla violenza. Con il passare del tempo, gli imperatori romani cominciarono anche a sostenere qualcosa come il dominium, affermando che all'interno dei loro domini avevano la libertà assoluta (e in effetti non erano vincolati dalle leggi). Al tempo stesso, la società romana passò da una repubblica di proprietari di schiavi a un sistema che assomigliava sempre più a quello successivo dell'Europa feudale, con magnati che vivevano nelle loro grandi proprietà circondati da dipendenti, contadini, servi indebitati e una varietà infinita di schiavi, con cui facevano praticamente quel che volevano. Le invasioni barbariche che rovesciarono l'impero si limitarono a formalizzare la situazione, eliminando in gran parte la schiavitù intesa come proprietà, ma introducendo al tempo stesso l'idea che le classi nobili discendessero dai conquistatori germanici e la gente comune fosse in condizione servile nei loro confronti.

Ma il concetto romano di libertà sopravvisse anche nel nuovo mondo medievale. La libertà non era altro che il potere.

[...]

Questo non è il luogo per dilungarsi su certi ragionamenti, ma credo che sia importante essere arrivati fin qui poiché ci permette di chiudere il cerchio e di comprendere perché liberali come Adam Smith riuscirono a concepire il mondo in una data maniera. C'è una tradizione che vuole che la libertà sia essenzialmente il diritto di fare quel che si vuole con la propria proprietà. Di fatto non rende solo la proprietà un diritto: tratta i diritti come una forma di proprietà. In un certo modo, è un grande paradosso. Siamo così abituati all'idea di «avere» dei diritti – che i diritti sono qualcosa che si possiede –, che di rado pensiamo al significato di questa espressione. Di fatto (e i giuristi medievali ne erano ben consapevoli) il diritto di un uomo è semplicemente il dovere di un altro. Il mio diritto di parola è il dovere di un altro di non punirmi per quel che dico. Il mio diritto a un processo equo è una responsabilità del governo di garantire un sistema di equità. Il problema è lo stesso dei diritti di proprietà: quando parliamo di impegni dovuti da qualcuno verso un mondo, è difficile esprimersi in questa maniera. Θ molto più facile parlare di «avere» diritti e libertà. Ma se la libertà è fondamentalmente il nostro diritto di possedere le cose o trattarle come se le possedessimo, allora che cosa significa «possedere» la libertà? Non significa forse che il nostro diritto a possedere la proprietà è esso stesso una forma di proprietà? Si tratta di un ragionamento eccezionalmente contorto: per quale ragione definire le cose in questo modo?

Da un punto di vista storico, c'è una risposta semplice, anche se in certo modo provocatoria. Chi ha sostenuto che siamo possessori naturali dei nostri diritti e della nostra libertà lo ha fatto per garantire che fossimo liberi di rivenderglieli.

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Conclusioni


I primi quattro capitoli di questo libro hanno descritto un dilemma. Non sappiamo davvero in che termini pensare il debito. O meglio, per essere più precisi, siamo intrappolati tra l'immagine di una società alla maniera di Adam Smith in cui non c'è quasi posto per il debito – la società come insieme di individui le cui sole relazioni significative sono quelle con i loro beni, che barattano felici per mutua convenienza – oppure sostenere la prospettiva per cui il debito è la sostanza stessa di ogni relazione umana – lasciandoci la sensazione spiacevole che le relazioni umane non siano altro che affari piuttosto disdicevoli e le nostre responsabilità verso gli altri siano in certo modo necessariamente fondate sul peccato e sul crimine. In ogni caso, non si tratta di alternative particolarmente piacevoli.

Negli ultimi tre capitoli ho cercato di mostrare che esiste un altro modo per affrontare il problema. Per questo ho sviluppato il concetto di economie umane: quelle in cui ciò che è ritenuto veramente importante degli esseri umani è il fatto che sono un unico nesso di relazioni gli uni con gli altri, e pertanto nessuno potrà mai essere considerato l'esatto equivalente di niente o nessun altro. In un'economia umana, la moneta non è un veicolo per comprare o scambiare gli esseri umani, ma una maniera per esprimere il fatto che ciò non può avvenire.

Poi ho proceduto descrivendo come lo scenario precedente abbia cominciato ad andare in pezzi, e gli esseri umani sono diventati oggetti di scambio: prima, forse, con le donne date in matrimonio; quindi, con gli schiavi catturati in guerra. Ciò che queste relazioni hanno in comune, ho osservato, è la violenza. Che si tratti di una ragazza tiv legata e picchiata per essere scappata da suo marito, o di un uomo imbarcato su una nave negriera per andare a morire in una piantagione lontana, il principio è sempre lo stesso: solo con la minaccia di bastoni, corde, lance e pistole si può strappare la gente da quella complicata ragnatela di relazioni con gli altri (sorelle, amici, rivali ecc.) che la rende unica, per poi ridurla a merce.

Bisogna sottolineare che tutto questo può succedere in posti in cui i mercati dei beni comuni, della vita quotidiana (abiti, attrezzi, alimenti) non esistono. In effetti, in molte economie umane, i beni più importanti di una persona non si possono comprare e vendere per la stessa regione per cui non si possono comprare le persone: perché sono oggetti unici, coinvolti in una rete di relazioni con gli esseri umani.

[...]

A questo punto possiamo finalmente vedere cos'è in gioco nella nostra peculiare abitudine di definirci allo stesso tempo come re e schiavi, ripetendo gli aspetti più brutali delle antiche famiglie romane nel concetto che abbiamo di noi stessi, come padroni delle nostre libertà o proprietari delle nostre personalità. Θ l'unica maniera per immaginarci come esseri completamente isolati. C'è una linea diretta che discende dalla nuova concezione romana di libertà – non come capacità di formare mutue relazioni con gli altri, ma come una sorta di potere assoluto di «uso e abuso» sullo schiavo vinto, che costituisce il nucleo principale della casa di un ricco uomo romano – fino alle strane fantasie di filosofi liberali vedi Hobbes, Locke e Smith sulle origini della società umana vista come una compagine di maschi di trenta-quarant'anni spuntati dal nulla che abbiano dovuto decidere se cominciare a uccidersi o scambiarsi pelli di castoro.

Gli intellettuali europei e americani, è vero, hanno trascorso gran parte degli ultimi duecento anni cercando di allontanarsi dalle implicazioni più compromettenti di questa tradizione di pensiero. Thomas Jefferson, proprietario di molti schiavi, decise di aprire la Dichiarazione d'indipendenza contraddicendo in maniera diretta la base morale della schiavitù: «Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili» scriveva attaccando così sia l'idea che gli africani fossero inferiori, sia che i loro antenati potessero essere stati privati della libertà in maniera giusta e legale. Ma Jefferson non ha proposto una nuova concezione radicale dei diritti e delle libertà, e neanche l'hanno fatto i successivi filosofi politici. Sono state perlopiù conservate le vecchie tesi aggiungendo qua e là la formula negativa «non». Molti dei nostri preziosi diritti e doveri sono una serie di eccezioni alla cornice legale e morale complessiva, il che quasi ci fa pensare di non essere abbastanza degni di averli.

La schiavitù formale è stata eliminata ma (come può testimoniare chiunque lavori ogni giorno otto ore) rimane l'idea che si possa alienare la propria libertà, almeno temporaneamente. In effetti, questo determina ciò che dobbiamo fare per gran parte delle ore in cui siamo svegli, a eccezione, di solito, del weekend. La violenza è adesso in gran parte occultata. Ma solo perché non siamo più in grado di immaginarci un mondo diverso, basato su accordi sociali che non richiedano la continua minaccia di pistole paralizzanti e videocamere di sorveglianza.

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8. Credito vs. tesoro (e i cicli della storia)


                Il tesoro è accessorio della guerra, non del commercio pacifico.

                                                            GEOFFREY W. GARDINER



Uno potrebbe benissimo chiedersi: se i nostri ideali politici e giuridici sono fondati sulla logica dello schiavismo, allora perché siamo riusciti ad abolire la schiavitù? Ovviamente, un cinico potrebbe sostenere che non l'abbiamo abolita affatto: ci siamo limitati a rinominarla. E il cinico avrebbe in parte ragione: un greco antico avrebbe sicuramente visto la distinzione tra schiavo e lavoratore salariato indebitato al massimo come una disquisizione legalistica. In ogni caso, anche l'abolizione dell'istituto della schiavitù domestica deve essere ritenuta una conquista notevole ed è opportuno considerare come ci si è arrivati. Soprattutto perché la schiavitù non è stata abolita una volta sola. Esaminando i documenti storici, la cosa veramente degna di nota è che la schiavitù è stata eliminata – o di fatto eliminata – molte volte nel corso della storia umana.

In Europa, per esempio, l'istituzione praticamente scomparve nei secoli che seguirono la caduta dell'Impero romano – una conquista storica, raramente riconosciuta da quelli di noi che si riferiscono a questi eventi come l'inizio dei «Secoli Bui». Nessuno è sicuro di come ciò avvenne. Molti concordano sul fatto che la diffusione del cristianesimo abbia avuto un ruolo, ma non può esserne stata la causa diretta, perché la Chiesa non si oppose mai esplicitamente alla schiavitù e in molti casi la difese. Invece, sembra che la schiavitù sia stata abolita nonostante i comportamenti degli intellettuali e delle autorità politiche del tempo. Eppure avvenne, e ha avuto effetti duraturi. A livello popolare, la schiavitù è rimasta così universalmente detestata che anche mille anni dopo, quando i mercanti europei iniziarono a tentare di ravvivare il mercato degli schiavi, scoprirono che i loro compatrioti non avrebbero tollerato lo schiavismo nei rispettivi paesi – una delle ragioni per cui i proprietari di piantagioni furono alla fine obbligati a comprare gli schiavi in Africa e a impiantare le coltivazioni nel Nuovo Mondo. Θ una delle grandi ironie della storia che il razzismo moderno – probabilmente il male peggiore degli ultimi due secoli – sia stato inventato in gran parte perché gli europei continuavano a rifiutarsi di ascoltare le tesi degli intellettuali e dei giuristi e non accettavano che chiunque ritenessero un essere umano di pari dignità potesse essere ridotto giustificatamente in schiavitù.

Inoltre, la fine della schiavitù antica non è un accadimento solo europeo. Sorprendentemente, all'incirca nello stesso periodo – intorno al 600 d.C. – troviamo lo stesso fenomeno in India e Cina, dove, nel corso dei secoli e con sollevazioni popolari, la schiavitù completamente legalizzata scomparve. Tutto questo ci suggerisce che i momenti di opportunità storica – periodi in cui il vero cambiamento è possibile – seguono una trama definita, persino ciclica, che è molto più coordinata tra i vari spazi geografici di quanto non avremmo mai immaginato. Il passato ha una sua logica, ed è solo comprendendola che possiamo avere una percezione delle opportunità storiche del presente.


Il modo più facile per rendere visibili questi cicli è di riesaminare il fenomeno su cui ci siamo concentrati nel corso del libro: la storia della moneta, del debito e del credito. Nel momento in cui iniziamo a mappare la storia della moneta negli ultimi cinquemila anni di storia eurasiatica, emergono regolarità sorprendenti. Nel caso della moneta, un evento svetta su tutti gli altri: l'invenzione del conio. Sembra che la coniazione nasca indipendentemente in tre luoghi diversi, quasi contemporaneamente: nelle grandi pianure del Nord della Cina, nella Valle del Gange nel Nordest dell'India e sulle coste del mar Egeo, sempre all'incirca tra il 600 e il 500 a.C. Questa contemporaneità non fu dovuta a un'improvvisa invenzione tecnologica: nei tre casi le tecniche usate per battere le prime monete erano completamente diverse. Fu invece una trasformazione sociale. Perché le cose andarono in questo modo rimane un mistero storico. Ma alcune notizie le sappiamo: per qualche ragione, in Lidia, Cina e India, i governanti locali decisero che qualunque fosse il sistema di credito che da lungo tempo esisteva nei loro regni, questo non era più adeguato, e iniziarono a emettere piccoli pezzi di metallo prezioso – metalli che prima erano usati principalmente nel commercio internazionale, in forma di lingotto – incoraggiando i sudditi a utilizzarli nelle loro transazioni quotidiane.

Da quell'inizio, l'innovazione si diffuse. Per più di un millennio, gli stati di ogni dove cominciarono a battere la loro moneta. Ma poi, intorno al 600 d.C., all'incirca quando stava sparendo la schiavitù, tutto il meccanismo prese all'improvviso a funzionare all'indietro. Il circolante scomparve. In tutto il mondo si assistette a un nuovo ritorno al credito.

Se guardiamo alla storia dell'Eurasia degli ultimi cinquemila anni, possiamo vedere delle ampie oscillazioni tra periodi dominati dalla moneta creditizia e periodi dominati dall'oro e dall'argento – ovvero periodi nei quali almeno larga parte delle transazioni era condotta tramite il passaggio di mano di metallo prezioso.

Perché? Il singolo fattore più importante sembra essere la guerra. Il metallo prezioso prevale soprattutto in periodi di violenza generalizzata. La spiegazione del fatto è molto semplice. Le monete d'oro e di argento si distinguono dai sistemi di credito per una caratteristica fondamentale: possono essere rubate. Un debito, per definizione, è una scrittura oltre che una relazione di fiducia. D'altra parte, chi accetta oro o argento in cambio di merce deve avere solamente fiducia nell'esattezza della bilancia, nella qualità del metallo e nella probabilità che un altro li accetti in pagamento. In un mondo dove la guerra e la minaccia di violenza sono costanti – e questa è una descrizione ugualmente accurata della Cina del periodo degli stati in guerra, della Grecia dell'Età del ferro e dell'India prima dell'Impero maurya – ci sono degli ovvi vantaggi a semplificare le transazioni. Soprattutto se si ha a che fare con soldati. Da una parte, i soldati tendono ad aver accesso a bottini di guerra, che consistono principalmente in oro e argento, e sono sempre in cerca di modi per scambiare i loro metalli preziosi con qualcosa di più utile. Dall'altra, un soldato itinerante ben armato incarna la definizione del soggetto ad alto rischio creditizio. La descrizione del baratto fatta dagli economisti può essere assurda se applicata alle transazioni di un gruppo di vicini della stessa comunità rurale, ma ha molto più senso se si considera la relazione tra un membro della comunità e un mercenario di passaggio.

Quindi, per gran parte della storia umana, un lingotto d'oro o d'argento, marchiato o meno, ha svolto la stessa funzione che oggi è riservata alla valigia piena di banconote non segnate di uno spacciatore di droga: un oggetto senza storia, prezioso perché il suo possessore sa che sarà accettato in pagamento in ogni dove, senza domande di sorta. Come risultato, mentre i sistemi creditizi tendono a dominare in periodi di relativa pace sociale, o all'interno di reti di fiducia (create dagli stati, oppure più frequentemente da istituzioni transnazionali come le gilde dei mercanti o le comunità di fede), nei periodi in cui la guerra e il saccheggio sono diffusi tendono a essere rimpiazzati dai metalli preziosi. Inoltre, mentre il prestito usuraio caratterizza ogni fase della storia umana, sembra che le crisi debitorie che ne risultano abbiano avuto gli effetti più devastanti quando il credito era più facilmente trasformabile in contanti.

Come punto di partenza per qualsiasi tentativo di individuare i grandi ritmi che definiscono il momento storico corrente, lasciatemi proporre la seguente divisione temporale della storia eurasiatica, a seconda dell'alternanza tra periodi di moneta virtuale e periodi di moneta metallica. Il ciclo comincia con l'età dei primi imperi agrari (3500-800 a.C.), dominata da monete creditizie virtuali. Segue l'Età assiale (800 a.C.-600 d.C.), esaminata nel prossimo capitolo, che vide la nascita della coniazione e un generale passaggio verso la tesaurizzazione. Il Medioevo (600-1450 d.C.), con il ritorno alla moneta creditizia e virtuale, sarà l'argomento del capitolo 10; il capitolo 11 sarà dedicato alla svolta del ciclo successivo, l'età dei grandi imperi capitalistici, iniziato intorno al 1450 con un significativo ritorno all'oro e all'argento in tutto il mondo, che terminò davvero solo nel 1971, quando Richard Nixon annunciò che il dollaro americano non era più convertibile in oro. Questo avvenimento diede avvio a un'altra fase di moneta virtuale, da poco cominciata, i cui contorni definitivi sono necessariamente invisibili. Il capitolo 12, che chiude il libro, sarà dedicato ad applicare quanto guadagnato nell'analisi storica per decifrare il significato della crisi odierna e le opportunità che può aprirci in futuro.

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9. L'Età assiale (800 a.C.-600 d.C.)


                                    Questo tempo può essere detto «Età assiale».
                                    In questa età lo straordinario premette da
                                    ogni parte. In Cina vissero Confucio e Lao
                                    Tzu, sorsero tutte le correnti della
                                    filosofia cinese [...] in India fu l'età
                                    degli Upanisad, visse Buddha e trovarono
                                    svolgimento tutte le possibilità
                                    filosofiche, dallo scetticismo al
                                    materialismo, dalla sofistica al nichilismo,
                                    come in Cina.
                                                                    KARL JASPERS



L'espressione «Età assiale» è stata coniata dal filosofo esistenzialista tedesco Karl Jaspers. Scrivendo una storia della filosofia, Jaspers rimase affascinato dal fatto che Pitagora (570-495 a.C.), il Buddha (563-483 a.C.) e Confucio (551-479 a.C.) fossero contemporanei e che in Grecia, India e Cina in quello stesso periodo fiorisse improvvisamente un vivace dibattito tra scuole di intellettuali contrapposte; sembra inoltre che i pensatori di ogni luogo non fossero al corrente dei dibattiti analoghi in altre parti del mondo. Come per la simultanea invenzione della moneta, perché questo sia successo rimane misterioso. Lo stesso Jaspers non ha una spiegazione definitiva. A un certo livello, suggerì, la causa deve essere stata una concomitanza di condizioni storiche simili. Per la maggior parte della grandi civiltà urbane del tempo, l'inizio dell'Età del ferro è stato una sorta di pausa tra imperi, un periodo in cui il paesaggio politico era frammentato in una scacchiera di regni, spesso minuscoli, e città-stato, in continua guerra fra loro e chiuse in un costante dibattito politico interno. In questi luoghi si è sviluppata una specie di cultura del ritiro spirituale, con asceti e saggi in fuga nella natura o in viaggio tra le città in cerca della saggezza; in ogni caso, questi furono poi riassorbiti nell'ordine politico come una nuova élite spirituale o intellettuale, che si tratti dei sofisti greci, dei profeti ebraici, dei saggi cinesi o dei santoni indiani.

Qualunque fossero le cause, secondo Jaspers il risultato fu il primo periodo della storia in cui gli esseri umani applicarono i principi della speculazione razionale alle grandi questioni dell'esistenza umana. Osservò che in tutte queste grandi regioni del mondo, Cina, India e Mediterraneo, emersero scuole filosofiche notevolmente simili, dallo scetticismo all'idealismo – infatti, quasi tutte le posizioni possibili sulla natura del cosmo, della mente, dell'azione e dei fini della vita umana, che sono ancora oggi argomento d'indagine filosofica, nacquero a quel tempo. Come un discepolo di Jaspers ha affermato in seguito, esagerando solo in parte, «da allora non è stata aggiunta nessuna idea veramente nuova».

Per Jaspers, il periodo inizia con il profeta persiano Zoroastro, intorno all'800 a.C. e finisce intorno al 200 a.C., per essere seguito dall'età spirituale incentrata su figure come Gesù e Maometto. Per il mio scopo, trovo più utile unire questi due periodi. Definiamo quindi l'Età assiale come l'epoca dall'800 a.C. al 600 d.C. Questa periodizzazione rende l'Età assiale il tempo in cui non solo sorsero tutte le maggiori tendenze filosofiche del mondo, ma anche tutte le più importanti religioni odierne: zoroastrismo, giudaismo profetico, buddhismo, giainismo, induismo, confucianesimo, taoismo, cristianesimo e islamismo.

Il lettore più attento può aver notato che il cuore dell'Età assiale di Jaspers - il periodo in cui vissero Pitagora, Confucio e Buddha - corrisponde quasi esattamente al periodo in cui nacque la coniazione. Inoltre, le tre regioni del mondo in cui ebbe luogo tale invenzione sono anche le stesse in cui vissero i tre saggi; infatti, questi luoghi divennero epicentri della creatività religiosa e filosofica dell'Età assiale: i regni e le città-stato lungo il Fiume Giallo in Cina, la Valle del Gange nel Nordest dell'India e le sponde del mar Egeo.

Qual era il legame che le univa? Potremmo iniziare chiedendoci: che cos'è una moneta? Questa la definizione normale: pezzo di metallo prezioso, nella forma di un'unità standard, con impresso un emblema o un marchio per autenticarla. Sembra che le prime monete al mondo siano state create nel regno di Lidia, nell'Anatolia occidentale (l'odierna Turchia), intorno al 600 a.C. Queste prime monete lidie erano sostanzialmente dei dischetti di elettro – una lega di oro e argento che si trova naturalmente vicino al fiume Pattolo – prima riscaldati e poi battuti con un'effigie di qualche tipo. Le primissime monete, con inscritte solo alcune lettere, sembrano essere state create da normali gioiellieri, ma scomparirono quasi istantaneamente, per essere sostituite da monete emesse dalla zecca reale appena istituita. Presto anche le città greche sulle coste dell'Anatolia iniziarono a battere le proprie monete, che poi furono accettate anche nella stessa Grecia; lo stesso accadde nell'Impero persiano, dopo aver assorbito la Lidia nel 547 a.C.

Tanto in India quanto in Cina possiamo vedere i medesimi eventi: la coniazione fu inventata da cittadini privati, ma presto venne monopolizzata dallo stato.

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Ciò che vediamo allora è uno strano movimento oscillatorio, una serie di attacchi e contrattacchi, dove mercato, stato, guerra e religione continuamente si separano e si fondono. Permettetemi di riassumere la questione nei termini più brevi possibili:


1. Sembra che i mercati siano dapprima comparsi, almeno nel Vicino Oriente, come effetti collaterali dei sistemi amministrativi di governo. Tuttavia, nel corso del tempo, la logica del mercato si è collegata alle questioni militari, divenendo quasi indistinguibile dalla logica mercenaria propria alle guerre dell'Età assiale, logica che infine conquista il governo stesso, arrivando a definirne lo scopo ultimo.

2. Come risultato, ovunque assistiamo all'emergere del complesso di coniazione militare schiavista, vediamo anche la nascita delle filosofie materialiste. Sono materialiste in entrambi i sensi del termine: da una parte prefigurano un mondo costituito di forze materiali piuttosto che divine, dall'altra sostengono che il fine ultimo dell'esistenza umana sia l'accumulazione di ricchezze materiali, utilizzando ideali quali la moralità e la giustizia come strumenti per tenere a bada le masse.

3. Inoltre, in questi luoghi vediamo anche svilupparsi una reazione filosofica, con scuole di pensiero che esplorano idee come l'umanità e l'anima, cercando una nuova fondazione per l'etica e la moralità.

4. Dovunque alcuni di tali filosofi si votano alla causa dei movimenti sociali, che inevitabilmente si formano in opposizione a queste nuove élite straordinariamente ciniche e violente. Il risultato fu qualcosa di nuovo per la storia umana: movimenti popolari che al contempo erano anche movimenti intellettuali, per il fatto che coloro che contrastavano strutture di potere esistenti lo facevano in nome di una qualche teoria sulla natura della realtà.

5. Dovunque, questi movimenti furono prima di tutto movimenti per la pace, poiché rifiutavano la nuova concezione della violenza, e specialmente la guerra d'aggressione, come fondamento della politica.

6. Inoltre sembra che in ogni dove ci sia stato un impulso iniziale a usare i nuovi strumenti intellettuali forniti dai mercati impersonali per trovare un nuovo fondamento della morale, tentativo che fallì ovunque. Il moismo, con la sua nozione di profitto sociale, ebbe un breve momento di gloria prima di scomparire. Fu sostituito dal confucianesimo, che rifiutava completamente queste idee. Abbiamo già visto come il tentativo di riconfigurare le responsabilità morali in termini di debito – un impulso manifestatosi tanto in Grecia quanto in India – per quanto quasi inevitabile dato il nuovo contesto economico, sembrò dimostrarsi uniformemente insoddisfacente. La spinta più forte fu verso l'immaginazione di un altro mondo dove i debiti fossero completamente annichiliti, e con loro tutti i legami terreni, perché i legami sociali erano a questo punto visti come catene, proprio come il corpo è una prigione.

7. I comportamenti dei governanti cambiarono nel tempo. All'inizio, la maggior parte sembrò mantenere un atteggiamento di confusa tolleranza nei confronti delle nuove scuole filosofiche e religiose, abbracciando però privatamente qualche versione di cinica Realpolitik. Ma come i piccoli stati e i principati vennero rimpiazzati dai grandi imperi, e specialmente quando questi imperi raggiunsero il limite della loro espansione, mandando in crisi il sistema di coniazione militare schiavista, tutto cambiò improvvisamente. In India, Ashoka tentò di rifondare il suo regno sul buddhismo; a Roma, Costantino si rivolse alla cristianità; in Cina, l'imperatore Han Wu-Ti (157-87 a.C.), di fronte a una crisi militare e finanziaria simile, fece del confucianesimo la religione di stato. Di loro tre, alla fine solo Wu-Ti ebbe successo: sotto qualche forma, l'Impero cinese durò per due millenni, mantenendo quasi sempre il confucianesimo come ideologia ufficiale. Nel caso di Costantino, l'Impero occidentale finì in pezzi, ma la Chiesa romana cattolica resistette. Possiamo dire che il progetto di Ashoka fu quello che ebbe meno fortuna. Non solo il suo impero si disgregò, sostituito da un'infinita serie di regni più deboli e frammentati, ma il buddhismo stesso fu in larga parte scacciato dal suo territorio d'origine, per stabilirsi molto più saldamente in Cina, Nepal, Tibet, Sri Lanka, Corea, Giappone e in gran parte del Sudest asiatico.

8. Il risultato finale fu una sorta di divisione ideale tra le sfere dell'attività umana che perdura ancora oggi: da una parte il mercato, dall'altra la religione. In parole povere: se qualcuno riserva lo spazio sociale alla semplice acquisizione egoistica di beni materiali, è quasi inevitabile che presto o tardi qualcun altro creerà un altro spazio sociale in cui poter predicare che, dalla prospettiva dei valori fondanti dell'animo umano, i beni materiali sono del tutto insignificanti; che l'egoismo – o persino l'individualità – è illusorio, e dare sia meglio che ricevere. Se non altro, è sicuramente importante sottolineare che tutte le religioni dell'Età assiale enfatizzano l'importanza della carità, un concetto di cui prima era in dubbio persino l'esistenza. La pura avarizia e la pura generosità sono concetti complementari; nessuno dei due potrebbe essere effettivamente immaginato senza l'altro; entrambi possono manifestarsi solo in contesti istituzionali che incentivano comportamenti così estremi e risoluti; e pare che entrambi siano apparsi insieme quando è entrata in scena l'impersonale moneta, coniata e liquida.

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10. Il Medioevo (600-1450 d.C.)


                                    La ricchezza artificiale comprende le cose
                                    che non soddisfano alcun bisogno naturale,
                                    come per esempio la moneta, che è un
                                    accidente umano.
                                                          SAN TOMMASO D'AQUINO



Se l'Età assiale fu il periodo storico in cui videro la luce i due ideali complementari di mercati per le merci e di religioni mondiali universali, nel Medioevo queste due istituzioni iniziarono a fondersi.

Il Medioevo comincia ovunque con la disgregazione degli imperi. Alla fine si formarono nuovi stati, ma in essi il nesso tra guerra, oro e schiavitù era rotto: la conquista e l'accumulazione non erano più celebrate come il fine ultimo della vita politica. Allo stesso tempo, la vita economica, dal commercio internazionale all'organizzazione dei mercati locali, venne regolata sempre più dalle autorità religiose. Una conseguenza di tale regolazione fu la campagna per controllare, o persino vietare, il prestito a interesse. Un'altra fu il ritorno a varie forme di moneta creditizia e virtuale, in tutta l'Eurasia.

Chiaramente, questo non è il modo in cui siamo abituati a pensare al Medioevo. Per molti di noi, «medievale» è un termine che richiama superstizione, intolleranza e oppressione. Eppure, per gran parte degli abitanti della terra, questo periodo fu visto come uno straordinario miglioramento rispetto al terrore e alla violenza dell'Età assiale.

Una delle cause della nostra percezione distorta è che siamo abituati a pensare al Medioevo come qualcosa che si riferisce soprattutto all'Europa occidentale, in territori che comunque erano poco più che avamposti di frontiera dell'Impero romano. Secondo l'opinione comunemente accettata, con íl collasso dell'Impero le città furono abbandonate, l'economia «ritornò al baratto», senza riprendersi per almeno cinque secoli. Tuttavia, anche nel caso dell'Europa, questa idea è basata su una serie di ipotesi che, come ho già detto, crollano non appena si inizia a esaminarle seriamente. La principale di queste ipotesi è che all'assenza di monete coniate corrisponda la mancanza di denaro. Con la distruzione dell'apparato bellico romano le monete romane uscirono dalla circolazione; inoltre, le poche monete coniate nei regni gotici o franchi sorti sulle rovine del vecchio impero erano largamente di natura fiduciaria. Comunque, uno sguardo ai «codici delle leggi barbariche» rivela che anche al culmine dei Secoli Bui le persone tenevano diligentemente i conti in moneta romana, calcolando interessi, contratti e ipoteche. Le città si rimpicciolirono, molte furono abbandonate, ma anche questo ebbe effetti ambigui. Ovviamente, il ritorno alla campagna sortì effetti terribili sul tasso d'alfabetizzazione della popolazione; ma bisogna anche ricordare che le città antiche potevano essere mantenute solo grazie alle risorse della campagna circostante. Per esempio, la Gallia romana era una rete di città, connesse dalle famose strade romane a una serie infinita di piantagioni schiavistiche, di proprietà dei più importanti patrizi cittadini. All'incirca dopo il 400 d.C., la popolazione delle città calò drammaticamente, ma anche le piantagioni scomparvero. Nei secoli successivi, molte furono rimpiazzate da manieri, chiese, e in seguito anche castelli – luoghi da cui i nuovi signori locali pretendevano il pagamento dei tributi dai contadini circostanti. Ma il calcolo da fare è piuttosto semplice: poiché l'agricoltura medievale non era meno efficiente di quella antica (anzi, divenne rapidamente molto più produttiva), il lavoro necessario per sfamare un manipolo di cavalieri e uomini di Chiesa non era nemmeno comparabile a quello necessario per rifornire di cibo un'intera città. Per quanto potessero essere oppressi i servi nel Medioevo, le loro sofferenze erano ridicole se confrontate con quelle dei loro omologhi nell'Età assiale.

Tuttavia, il vero Medioevo non cominciò in Europa, ma in India e in Cina, tra il 400 e il 600, per poi diffondersi nella metà occidentale dell'Eurasia con l'avvento dell'islam. L'Europa entrò in questa età solo quattro secoli dopo. Di conseguenza, iniziamo la nostra storia dall'India.

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Alla venerazione dei mercanti corrisponde quella che può essere definita unicamente come la prima ideologia popolare del libero mercato al mondo. Vero, bisogna stare attenti a non confondere gli ideali con la realtà. I mercati furono sempre completamente indipendenti dal governo. Il regime islamico utilizzò tutte le tecniche consolidate per manipolare la politica fiscale in modo da incoraggiarne la crescita, inoltre tentò periodicamente d'intervenire nelle leggi commerciali. Vi era però il sentimento fortemente condiviso che il governo dovesse rimanere fuori dalle questioni commerciali. Una volta liberato dagli antichi flagelli del debito e della schiavitù, il bazar locale divenne per la maggior parte delle persone non un luogo moralmente pericoloso, ma l'esatto opposto: la più alta espressione della libertà umana e della solidarietà di comunità, un luogo che andava quindi protetto dalle assidue intrusioni dello stato.

C'era in particolare un'ostilità verso ogni pratica che si avvicinasse alla fissazione dei prezzi. Una storia spesso ripetuta racconta che lo stesso Profeta si sia rifiutato di costringere i mercanti ad abbassare in prezzi durante una carestia nella città di Medina, sostenendo che questa forzatura sarebbe stata sacrilega, poiché, in un contesto di libero mercato, «i prezzi dipendono dalla volontà di Dio». La maggioranza dei giuristi interpretò la decisione di Maometto in modo piuttosto ampio, affermando che ogni interferenza governativa nei meccanismi di mercato dovesse essere considerata parimenti sacrilega, poiché Dio aveva costruito i mercati in modo che si regolassero autonomamente.

Tutto questo è straordinariamente simile alla «mano invisibile» di Adam Smith (che era la mano della Divina Provvidenza), e non si tratta di una totale coincidenza. Infatti, sembra che molte delle argomentazioni specifiche e degli esempi usati da Smith risalgano direttamente a trattati economici scritti nella Persia medievale. Per esempio, non solo la sua tesi per cui lo scambio è conseguenza naturale della razionalità e della capacità di comunicare umane appare tanto in Ghazali quanto in Tusi (1201-1274), ma i due usano esattamente il suo stesso esempio: nessuno ha mai visto due cani scambiarsi gli ossi. Ancora più significativo è che l'esempio più famoso della divisione del lavoro di Adam Smith, la fabbrica di spilli, dove ci vogliono diciotto operazioni separate per produrre uno spillo, appare già nel Ihya di Ghazali, dov'è descritta una fabbrica di aghi in cui servono venticinque diverse operazioni per produrre un ago.

Le differenze sono tuttavia tanto importanti quanto le analogie. Un esempio rivelatore: come Smith, anche Tusi inizia il suo trattato di economia con una discussione della divisione del lavoro; ma dove per Smith la divisione del lavoro è un risultato della «propensione naturale al commercio e al baratto» nella ricerca del vantaggio individuale, per Tusi è invece un'estensione del mutuo aiuto:

Supponiamo che ogni individuo debba provvedere da solo al suo sostentamento, al suo vestiario, alla sua casa e alle sue armi, prima procurandosi gli strumenti del carpentiere e del fabbro, per passare dopo aver finito con questi alla cucitura e al taglio, al tessere e al filare e così via [...]. Certamente, un individuo di questo tipo non sarebbe in grado di rendere giustizia a nessuna di queste attività. Ma quando gli uomini si aiutano a vicenda, ognuno concentrandosi su uno solo di questi compiti e osservando le leggi della giustizia nello scambio, dando generosamente e ricevendo in cambio il lavoro degli altri, allora si realizzano i mezzi per il sostentamento e così si assicura la continuazione degli individui e la sopravvivenza della specie.

Come risultato, sostiene Tusi, la Divina Provvidenza ha fatto sì che gli uomini avessero abilità, desideri e inclinazioni diversi. Il mercato è solo una manifestazione del principio più generale di mutuo aiuto, dell'incontro tra abilità (offerta) e bisogni (domanda), oppure, riformulando il suo pensiero nei termini che ho usato in precedenza: non solo il mercato si fonda su quella sorta di comunismo di base su cui ogni società è in definitiva costruita, ma ne è esso stesso un'estensione.

Tutto questo non vuol dire che Tusi sosteneva un egualitarismo radicale. Infatti, è vero il contrario. «Se gli uomini fossero tutti uguali» scrive «morirebbero tutti», ritenendo che abbiamo bisogno delle differenze tra ricchi e poveri tanto quanto abbiamo bisogno delle differenze tra contadino e carpentiere. Eppure, se si parte dalla premessa iniziale che i mercati abbiano al loro centro la cooperazione piuttosto che la competizione – mentre i pensatori musulmani dediti all'economia riconoscevano e accettavano la necessità della concorrenza di mercato, senza mai vederla come l'essenza stessa del mercato –, le implicazioni morali sono molto diverse. La storia di Nasreddin sulle uova di quaglia può essere stata uno scherzo, ma spesso i pensatori musulmani raccomandavano realmente ai mercanti di fare quanti più profitti possibile con i ricchi, in modo da poter mantenere prezzi più bassi, o da poter pagare di più gli acquisti, quando avevano a che fare con persone meno fortunate.

Le considerazioni di Ghazali sulla divisione del lavoro sono simili, ma la sua descrizione delle origini della moneta è ancora più rivelatoria. Inizia con una situazione molto simile al mito del baratto, tranne che, come tutti gli scrittori mediorientali, parte non da un'immaginaria tribù primitiva, ma da alcuni stranieri che si incontrano in un mercato immaginario.

Talvolta una persona ha bisogno di qualcosa che non possiede e ha qualcosa di cui non ha bisogno. Per esempio, una persona ha dello zafferano e ha necessità di un cammello per un trasporto, mentre un'altra persona ha a disposizione un cammello che non gli serve, ma gli serve dello zafferano. C'è quindi la necessità di uno scambio. Tuttavia, per avere lo scambio, serve qualcosa per misurare i due oggetti, il possessore del cammello non può disfarsene in cambio di una quantità di zafferano. Tra il cammello e lo zafferano non c'è somiglianza, così che non ci si può basare su un'analogia di peso e forma. Lo stesso vale nel caso che uno desideri una casa e possieda del tessuto, oppure desideri uno schiavo e abbia calzini, o ancora desideri farina ma possieda un asino. Ci sono merci che non hanno proporzionalità diretta tra loro, così che uno non può sapere quanto zafferano vale il cammello. Baratti di questo tipo sarebbero molto difficili.

Ghazali non manca di notare che potrebbe anche esserci un problema se una delle due persone non ha bisogno di quello che l'altra ha da offrire, ma è quasi un ripensamento: per lui, il vero problema è concettuale. Come poter equiparare due cose che non hanno qualità comuni? La sua conclusione: si può fare solo comparandole con una terza cosa che non ha nessuna qualità. Per questo motivo, spiega, Dio creò i dinari e le dirham, monete fatte di oro e argento, due materiali che altrimenti non avrebbero avuto nessun utilizzo:

Dirham e dinari non sono creati per nessuno scopo particolare; in sé, sono del tutto inutili, sono proprio come le pietre. Sono creati per circolare di mano in mano, per governare e facilitare le transazioni. Sono simboli per conoscere il valore e il grado delle merci.

Essi possono essere simboli, unità di misura, proprio per la loro mancanza di utilità, per il fatto che sono privi di ogni caratteristica che non sia il valore:

Una cosa può essere rapportata esattamente a tutte le altre cose se in sé non ha nessuna forma o caratteristica particolare – per esempio, uno specchio che non ha colore può riflettere tutti i colori. Lo stesso si può dire della moneta – non ha uno scopo in sé, ma serve come mezzo per scambiare le merci.

Da questo segue anche che prestare denaro a interesse è illegittimo, poiché significa usare il denaro come un fine autonomo: «Il denaro non è stato creato per guadagnare denaro». Infatti, continua Ghazali, «in relazione alle altre cose, dirham e dinari sono come una preposizione in una frase», parole che, come ci dicono le grammatiche, sono usate per dare significato alle altre parole, ma possono farlo solo perché non hanno un proprio significato indipendente. La moneta è quindi un'unità di misura che fornisce un mezzo per quantificare il valore delle cose, ma opera in questo modo solo se rimane in costante movimento. Entrare in una transazione monetaria con il fine di ottenere più moneta, anche se è una transazione D-M-D' e non solo D-D', per Ghazali sarebbe l'equivalente di rapire un postino.

Mentre egli parla solo di oro e argento, quello che descrive – la moneta come simbolo di natura astratta, senza qualità in sé, il cui valore è mantenuto solo in un costante movimento – è qualcosa che non sarebbe mai passato per la testa a nessuno, se non in un'epoca dove era perfettamente normale che il denaro fosse usato in forma puramente virtuale.


Pare quindi che gran parte della nostra dottrina del libero mercato sia stata presa a prestito da un universo sociale e morale molto diverso dal nostro. La classe dei mercanti del Vicino Occidente aveva compiuto una prodezza straordinaria. Abbandonando le pratiche usuraie che li aveva resi così detestabili al loro prossimo per secoli, í mercanti furono in grado di diventare – assieme ai teologi – i veri leader delle proprie comunità: comunità che ancora possono essere viste in larga parte come organizzate intorno ai due poli della moschea e del bazar. La diffusione dell'islam permise al mercato di divenire un fenomeno globale, funzionante in buona parte indipendentemente dai governi, secondo le proprie leggi interne. Ma lo stesso fatto che questo fosse, in un certo senso, un mercato genuinamente libero, non uno creato dai governi e sostenuto dalla sua polizia e dalle sue prigioni – un mondo di contratti siglati con strette di mano e promesse di carta basate solo sull'integrità del firmatario –, significava che questo non poté mai diventare il mondo immaginato da coloro che in seguito adottarono molte delle stesse idee e degli stessi argomenti: un mondo d'individui motivati dal solo interesse personale, sempre in competizione, disposti a utilizzare ogni mezzo a disposizione pur di ottenere un vantaggio materiale.

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Forse l'omelia antica più famosa sull'usura rimane il De Tobia, pronunciata da sant'Ambrogio sull'arco di diversi giorni a Milano nel 380. Anche la sua orazione ha gli stessi vividi dettagli di quella di san Basilio: padri costretti a vendere i propri figli, debitori che si impiccano dalla vergogna. L'usura, osserva sant'Ambrogio, deve essere considerata alla pari di una rapina violenta, o dell'omicidio. Aggiunge però una condizione che in seguito ebbe un'enorme influenza. Il suo sermone fu il primo a esaminare attentamente ogni riferimento biblico all'usura, il che significa che lui dovette confrontarsi con il problema che ha messo in difficoltà tutti gli autori successivi – il fatto che nel Vecchio Testamento l'usura non è proibita a tutti. Il punto più problematico resta sempre il Deuteronomio (23, 19-20):

Non farai al tuo prossimo prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualsiasi cosa che si presta a interesse. Allo straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo prossimo.


Quindi, chi può essere considerato uno «sconosciuto» (oppure uno «straniero», usando una migliore traduzione dell'ebraico nokri)? Presumibilmente, qualcuno contro cui sarebbero giustificati anche la rapina e l'omicidio. Dopotutto, gli antichi ebrei vivevano in mezzo a tribù come gli amaleciti e Dio aveva esplicitamente detto loro di combatterli. Se chiedere l'interesse è equivalente a combattere senza usare la spada, è legittimo farlo solo nei confronti di persone «che non sarebbe un crimine uccidere». Per Ambrogio, che viveva a Milano, questo era poco più di un tecnicismo. Lui includeva come «fratelli» tutti i cristiani e tutti i sudditi della legge romana; al tempo non c'erano in giro molti amaleciti. Più tardi, quella che venne chiamata «l'Eccezione di sant'Ambrogio» divenne estremamente importante.

Tutti questi sermoni – ed erano molti – lasciavano alcune questioni critiche senza risposta. Cosa dovrebbe fare il ricco quando riceve la visita del suo vicino in difficoltà? Vero, Gesù ha detto di dare senza aspettarsi niente in cambio, ma sembrerebbe irrealistico pensare che la maggior parte dei cristiani si comporti così. Ma anche se lo facessero, che tipo di relazioni andrebbero a creare con il loro comportamento? San Basilio prese la posizione più radicale. Dio ci ha dato tutte le cose in comune e ha specificamente indicato al ricco di dare al povero. Il comunismo degli apostoli – che tenevano unite tutte le loro ricchezze, poi ognuno prendeva liberamente nel momento del bisogno – era quindi il modello per una società veramente cristiana. Pochi tra i Padri della Chiesa erano disposti ad assumere una posizione così estrema. Sostenevano che il comunismo fosse l'ideale, ma in questo mondo terreno e imperfetto non era una soluzione realistica. La Chiesa deve accettare i diritti di proprietà in essere, ma anche incoraggiare con argomenti spirituali i ricchi ad agire secondo la carità cristiana. Molti dei Padri della Chiesa usavano metafore commerciali. Anche lo stesso Basilio utilizzò questo linguaggio:

Quando tu dai a un povero per il Signore, fai assieme un dono e un prestito: un dono, perché non hai speranza di ricevere il contraccambio; un prestito, per la munificenza del Signore che pagherà il debito per lui. Il Signore riceve poco attraverso i poveri e renderà molto a nome loro. «Chi infatti ha pietà di un povero presta a Dio.»

Poiché il povero è Cristo, un atto di carità è un prestito a Gesù, che sarà ripagato con un interesse inconcepibile sulla Terra.

La carità, tuttavia, è un modo di mantenere la gerarchia, non di sovvertirla. Ciò di cui Basilio sta parlando non ha niente a che fare con il debito, e sembra che il giocare con queste metafore in definitiva serva solo a sottolineare il fatto che il ricco non deve niente al povero che lo supplica, proprio come Dio non è assolutamente costretto legalmente a salvare l'anima di chiunque sfami un mendicante. Il «debito» qui si dissolve in una pura gerarchia (da cui l'espressione «il Signore»), in cui persone fondamentalmente diverse si rendono dei servizi altrettanto differenti. I teologi successivi confermano questa interpretazione: gli esseri umani vivono nel tempo, scrive san Tommaso d'Aquino, quindi è ragionevole considerare il peccato come un debito nei confronti di Dio. Ma Dio vive fuori dal tempo. Per definizione, non può dovere niente a nessuno. Quindi la sua grazia può essere solo un dono concesso senza alcun obbligo.

Queste considerazioni a loro volta forniscono una risposta alla domanda: che cosa stavano veramente chiedendo di fare ai ricchi? La Chiesa si opponeva all'usura, ma aveva ben poco da dire sulle relazioni di dipendenza feudale, dove il ricco è caritatevole e il povero sottoposto mostra la sua gratitudine in svariati modi. Quando questo tipo di arrangiamenti divenne comune nell'Occidente cristiano, la Chiesa non mosse obiezioni significative. Gli schiavi per debiti di un tempo furono gradualmente trasformati in servi e vassalli. Sotto alcuni aspetti le due relazioni non erano così diverse, poiché, in teoria, il vassallaggio è una relazione contrattuale volontaria. Proprio come i cristiani devono poter scegliere liberamene di sottomettersi al «Signore», così i vassalli decidono di diventare l'uomo di qualcun altro. Tutto questo sembra perfettamente in linea con il cristianesimo.

D'altra parte, il commercio rimaneva un problema. Non c'era una grande differenza tra condannare l'usura come la pratica di pretendere «qualunque cosa eccede l'ammontare prestato» e la condanna di ogni forma di profitto. Molti, tra cui sant'Ambrogio, erano pronti a unire le due cose. Quando Maometto sosteneva che un onesto mercante si merita un posto al fianco di Dio in paradiso, persone come sant'Ambrogio si chiedevano se un «mercante onesto» potesse effettivamente esistere. Molti ritenevano che fosse semplicemente impossibile essere contemporaneamente un mercante e un cristiano. Nel primo Medioevo questa non era una questione urgente – specialmente perché gran parte del commercio era in mano agli stranieri. Il problema concettuale non fu tuttavia mai risolto. Cosa voleva dire che si poteva prestare solo agli «sconosciuti»? Era solo l'usura a essere equiparabile alla guerra, o anche il commercio?


Forse nell'Alto Medioevo la manifestazione più nota, e spesso più catastrofica, di questo problema si trova nelle relazioni tra cristiani ed ebrei.

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Il lettore potrebbe chiedersi come fosse possibile che le leggi sull'usura si muovessero contemporaneamente in due direzioni opposte. La risposta potrebbe essere che la situazione politica dell'Europa occidentale era incredibilmente caotica. La maggior parte dei regni era debole, il loro territorio diviso e incerto; il continente era uno scacchiere di baronati, principati, comunità urbane, feudi e tenute ecclesiastiche. Le giurisdizioni venivano costantemente rinegoziate, generalmente con la guerra. Il capitalismo mercantile, da tempo familiare nel Vicino Occidente musulmano, riuscì ad affermarsi veramente – piuttosto tardi, in rapporto alla situazione del resto del mondo nel Medioevo – quando i mercanti capitalisti si assicurarono punti d'appoggio nelle città-stato indipendenti del Nord Italia – le più famose furono Venezia, Firenze, Genova e Milano – e in seguito nelle città tedesche della Lega anseatica. I banchieri italiani riuscirono a liberarsi definitivamente dalla minaccia di espropriazione solo quando presero il controllo dei governi comunali, poiché nel farlo ottennero il controllo del sistema giudiziario (in grado di far valere i contratti) e soprattutto quello dell'esercito.

Ciò che risulta evidente confrontando l'Europa con il mondo musulmano è proprio il legame tra commercio, finanza e violenza. Mentre i pensatori arabi e persiani ipotizzavano che i mercati nascessero come ampliamento del principio di mutuo aiuto, i loro colleghi cristiani non si liberarono mai veramente dalla superstizione per cui il commercio fosse solo un'estensione dell'usura, una forma di frode veramente legittima solo quando era diretta contro i nemici giurati della cristianità. La competizione era essenziale nella natura dei mercati, ma la competizione era (di solito) una forma non violenta di guerra. C'è un motivo per cui, come ho già osservato, i termini per «commercio e baratto» in quasi tutte le lingue europee sono derivati da parole che significano «ingannare», «truffare» o «raggirare». Alcuni disprezzavano il commercio per questo motivo. Altri ci si dedicavano. Pochi sarebbero stati disposti a negare tale legame.

Per vedere quanto forte fosse questa connessione, è sufficiente esaminare il modo in cui vennero adottati gli strumenti di credito del mondo islamico, oppure l'ideale musulmano del mercante avventuriero.

Spesso si sostiene che i primi pionieri dell'attività bancaria moderna furono i membri dell'ordine militare dei Cavalieri del tempio di Salomone, noti più comunemente come Cavalieri templari. Si tratta di un ordine di monaci combattenti che ebbe un ruolo fondamentale nel finanziamento delle crociate. Attraverso i templari, un signore nel Sud della Francia poteva fare un mutuo su una delle sue tenute e ricevere una «tratta» (una lettera di cambio, modellata sul principio delle suftaja musulmane ma scritta in un codice segreto) redimibile in contanti dal tempio di Gerusalemme. In altre parole, sembra che i cristiani abbiano sviluppato per la prima volta le tecniche della finanza islamica proprio per sovvenzionare attacchi all'islam.

I templari durarono dal 1118 al 1307, poi fecero la fine di molte minoranze commerciali medievali: il re Filippo IV, profondamente indebitato con l'ordine, li attaccò pubblicamente, accusandoli di crimini indicibili; í loro leader furono torturati e infine uccisi, le loro ricchezze vennero espropriate. Il problema principale dei templari era che non avevano una casa base potente. Le famiglie italiane di banchieri come i Bardi, i Peruzzi e i Medici fecero molto meglio. Nella storia bancaria, gli italiani sono famosi soprattutto per le loro complesse organizzazioni azionarie e per aver diffuso l'uso delle lettere di cambio di stile islamico. All'inizio queste erano abbastanza semplici: sostanzialmente solo una sorta di cambiavalute a lunga distanza. Un mercante poteva presentarsi da un banchiere italiano con una certa somma in fiorini e ricevere in cambio una lettera notarile che registrava il credito di una somma equivalente nell'unità di conto internazionale (i denari carolingi) dovuta, per esempio, entro tre mesi; poi, dopo la scadenza, lui o il suo agente potevano riscuotere un ammontare equivalente in valuta locale alle fiere della Champagne, che erano sia i grandi empori annuali sia la camera di compensazione finanziaria dell'Europa altomedievale. Ma si trasformarono rapidamente in una serie di nuove forme di strumenti finanziari creativi, utili per destreggiarsi - o anche per guadagnare - nel complicatissimo sistema di valute europeo.

Gran parte del capitale per queste imprese bancarie veniva dal commercio mediterraneo in spezie indiane e beni di lusso orientali. Contrariamente all'Oceano Indiano, il mar Mediterraneo era però una zona di costanti combattimenti. Le galee veneziane erano armate contemporaneamente da navi mercantili e navi da guerra, piene di marinai e cannoni. Inoltre, spesso la differenza tra commercio, crociata e pirateria dipendeva dalle forze in campo in ogni preciso momento e dal loro eventuale equilibrio. Lo stesso avvenne sulla terra: mentre gli imperi asiatici tendevano a separare le sfere della guerra e del commercio, in Europa spesso le due si sovrapponevano:

In tutta l'Europa centrale, dalla Toscana alle Fiandre, da Brabante alla Livonia, i mercanti non solo rifornivano i combattenti — come facevano in tutta Europa — ma avevano un ruolo nel governo e, talvolta, indossavano le armature e andavano a combattere in prima persona. La lista di stati simili è molto lunga: non solo Firenze, Milano, Venezia e Genova, ma anche Augusta, Norimberga, Strasburgo e Zurigo; non solo Lubecca, Amburgo, Brema e Danzica, ma anche Bruges, Ghent, Leiden e Colonia. Alcuni di loro — vengono in mente Firenze, Norimberga, Siena, Berna e Ulm - acquisirono territori di dimensioni notevoli.


I veneziani erano solo i più famosi in questo campo. Nel corso dell'XI secolo crearono un vero e proprio impero mercantile, conquistando isole come Creta e Cipro, stabilendovi piantagioni che successivamente furono coltivate soprattutto da schiavi africani, anticipando un fenomeno che sarebbe diventato fin troppo comune nel Nuovo Mondo. Genova li seguì molto presto; una delle sue attività più lucrative era commerciare e fare delle incursioni lungo le coste del Mar Nero, per catturare schiavi da rivendere ai mamelucchi in Egitto o da far lavorare nelle miniere affittate dai turchi. La Repubblica di Genova inventò anche un modello unico per finanziare le guerre, noto come sottoscrizione di guerra, dove coloro che pianificavano una spedizione vendevano azioni a investitori in cambio del diritto a una percentuale equivalente del bottino. Furono queste stesse galee, con gli stessi «mercanti avventurieri» a bordo, a oltrepassare le Colonne d'Ercole per risalire la costa atlantica fino alle fiere nelle Fiandre o nella Champagne, cariche di noce moscata o di pepe di Caienna, seta e indumenti di lana - assieme alle indispensabili lettere di cambio.

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E che dire di Cortés? Aveva appena fatto quella che forse è la maggior rapina della storia mondiale. Ovviamente i suoi debiti iniziali a quel punto erano insignificanti. Eppure in qualche modo riusciva sempre a indebitarsi di nuovo. I creditori avevano già iniziato a pignorare i suoi averi mentre era impegnato in una spedizione in Honduras nel 1526; al suo ritorno, scrisse all'imperatore Carlo V che le sue spese erano tali che «tutto quello che ho guadagnato non è stato sufficiente per liberarmi dalla miseria e dalla povertà, poiché al momento sono in debito per cinquecento once d'oro e non ho un peso per far fronte a queste richieste». Senza dubbio era in malafede (al tempo Cortés possedeva una palazzo personale), ma dopo solo pochi anni era ridotto a impegnare i gioielli della moglie per cercare di finanziare una serie di spedizioni in California, sperando di ricostituire la sua fortuna. Quando anche queste si rivelarono un fallimento, si ritrovò così assediato dai creditori da dover tornare in Spagna per chiedere la protezione dell'imperatore in persona.


Se tutto questo sembra stranamente simile alla quarta crociata, dove cavalieri indebitati saccheggiarono la ricchezza di intere città senza riuscire a liberarsi completamente dei loro creditori, c'è una ragione. Il capitale finanziario che sostenne queste spedizioni veniva quasi dagli stessi luoghi (in questo caso Genova, non Venezia, come durante le crociate). Inoltre, questa relazione, che aveva da un lato il temerario avventuriero, il giocatore d'azzardo disposto a prendersi ogni rischio, e dall'altro l'attento finanziere, le cui operazioni sono organizzate allo scopo di produrre una crescita stabile, matematica, inesorabile del reddito, è al centro del cuore di quello che oggi chiamiamo «capitalismo».

Come risultato, il nostro sistema economico odierno è sempre stato caratterizzato da un peculiare dualismo. Da molto tempo gli studiosi sono affascinati dai dibattiti delle università spagnole, come Santander, che riguardavano sia l'umanità degli indiani (avevano un'anima? Potevano avere dei diritti? Era legittimo ridurli in schiavitù con l'uso della forza?) sia il vero movente dei conquistadores (si trattava di disprezzo, repulsione o magari di qualche forma di riluttante ammirazione per l'avversario?). La cosa veramente importante è che tutto questo non contò nulla nel momento in cui si presero le decisioni fondamentali. I decisori in ogni caso non si sentivano in controllo; quelli che invece lo erano non si preoccupavano troppo dei dettagli. Ecco un esempio rivelatore: dopo i primissimi anni delle miniere d'oro e d'argento descritti da Motolinia, quando milioni di indiani furono semplicemente catturati e mandati a morire, i colonizzatori scelsero di utilizzare la servitù per debiti: il solito trucco di stabilire tasse molto alte, prestare denaro a interesse a quelli che non potevano pagarle per poi domandare che il debito fosse saldato con il lavoro. Gli emissari reali tentavano regolarmente di proibire queste pratiche, sostenendo che gli indiani a quel punto erano dei cristiani e che questi accordi violavano i loro diritti di leali sudditi della corona spagnola. Ma nonostante tutti i tentativi reali di protezione, i risultati non cambiarono. Le esigenze finanziarie ebbero la precedenza. Lo stesso Carlo V era pesantemente indebitato con i banchieri fiorentini, genovesi e napoletani, mentre l'oro delle Americhe ammontava a forse un quinto di tutte le sue entrate. Alla fine, nonostante tutto il rumore iniziale e l'indignazione morale (solitamente sincera) degli emissari del re, questi decreti vennero ignorati, oppure, nel migliore dei casi, applicati per un paio d'anni prima di finire nel dimenticatoio.


Tutto questo aiuta a spiegare perché la Chiesa fosse così inflessibile nei confronti dell'usura. Non si trattava solo di un dibattito filosofico; era una questione di moralità rivale. Il denaro ha sempre il potenziale di diventare un imperativo autonomo. Se gli si permette di espandersi, può divenire rapidamente una morale così imperativa da far sembrare tutte le altre frivole al suo confronto. Per il debitore, il mondo si riduce a un insieme di potenziali pericoli, potenziali strumenti e potenziali merci. Anche le relazioni umane possono diventare l'argomento di un calcolo di costi e benefici. Chiaramente questo è il modo in cui i conquistadores vedevano il mondo che si accingevano a conquistare.

Il creare strutture sociali che essenzialmente ci forzano a pensare in questo modo è caratteristica peculiare del capitalismo moderno. La struttura della società per azioni è un esempio molto istruttivo – e non è affatto una coincidenza che le prime grandi società per azioni del mondo furono le Compagnie delle Indie inglesi e olandesi, istituzioni che avevano gli stessi scopi di esplorazione, conquista e sfruttamento che avevano motivato i conquistadores. Si tratta di una struttura costruita per eliminare tutti gli imperativi morali tranne quello del profitto. I dirigenti che prendono le decisioni possono sostenere – e lo fanno regolarmente – che, se stessero gestendo il proprio denaro, ovviamente non licenzierebbero impiegati che hanno lavorato in azienda tutta la vita una settimana prima del pensionamento, o che non scaricherebbero rifiuti tossici e cancerogeni vicino alle scuole. Eppure sono moralmente costretti a ignorare queste considerazioni, perché stanno agendo come semplici dipendenti, la cui unica responsabilità è garantire il maggior rendimento possibile all'investimento degli azionisti dell'azienda (ovviamente, a questi azionisti non è dato esprimere la loro opinione).

Figure come Cortés sono istruttive per un'altra ragione. Stiamo parlando di un uomo che nel 1521 aveva conquistato un impero e sedeva in cima a una montagna d'oro. Né aveva alcuna intenzione di dar via quell'oro – nemmeno ai suoi compagni. Cinque anni più tardi, diceva di essere un debitore insolvente. Come è stato possibile?

La risposta più ovvia sarebbe questa: Cortés non era un re, era un suddito del re di Spagna, viveva all'interno della struttura legale del regno, che stabiliva chiaramente che se uno non è capace di amministrare il proprio denaro potrebbe benissimo perderlo. Ma come abbiamo visto, in altri casi le leggi del re potevano essere ignorate. Inoltre, nemmeno i re potevano agire in completa libertà. Carlo V era continuamente indebitato, e quando suo figlio Filippo II – le cui armate stavano combattendo contemporaneamente su tre fronti diversi – tentò il vecchio trucco medievale della dichiarazione di insolvenza, tutti i suoi creditori, dal genovese Banco di san Giorgio ai Fugger e ai Welser in Germania, serrarono i ranghi, stabilendo il principio che non avrebbe ottenuto altro credito se prima non avesse iniziato a onorare i suoi impegni.

Il capitale, quindi, non è semplicemente denaro. Non è nemmeno ricchezza che può essere trasformata in denaro. E nemmeno l'uso del potere politico per avvalersi del proprio denaro per guadagnarne ancora. Cortés cercava di fare esattamente questo: secondo il classico stile dell'Età assiale, stava tentando di usare le sue conquiste per ottenere un bottino e gli schiavi da far lavorare nelle miniere, con le quali poteva pagare i soldati e finanziare nuove spedizioni di conquista. Era una formula testata e verificata. Ma per tutti gli altri conquistadores, si rivelò fonte di fallimenti spettacolari.

Questa sembra essere la grande differenza. Nell'Età assiale, la moneta era uno strumento dell'impero. Per un governante, poteva essere conveniente incoraggiare mercati in cui tutti avrebbero trattato il denaro come un fine autonomo; al tempo, i governanti possono addirittura essere arrivati a concepire l'intero apparato statale come una macchina per fare profitti; ma il denaro rimase sempre uno strumento politico. Questo è il motivo per cui in seguito al collasso degli imperi e alla smobilitazione degli eserciti il sistema poteva semplicemente disfarsi. Nel nuovo ordine capitalistico che andava affermandosi, fu garantita l'autonomia alla logica del denaro; il potere politico e quello militare furono poi gradualmente riorganizzati intorno a questa logica. Vero, si tratta di una logica finanziaria che non avrebbe mai potuto esistere senza l'appoggio iniziale di stati ed eserciti. Come abbiamo visto nel caso dell'islam medievale, in vere condizioni di libero mercato – in cui lo stato non ha un ruolo significativo nella regolamentazione del mercato, nemmeno nel far valere i contratti commerciali – non si svilupperanno dei mercati puramente competitivi, e sarebbe effettivamente impossibile riscuotere dei prestiti a interesse. In realtà, fu solo la proibizione islamica dell'usura a rendere possibile la creazione di un sistema economico separato dallo stato.

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Parte quarta: Cos'è quindi il capitalismo?


Siamo abituati a pensare che il capitalismo moderno si affermi (assieme alle tradizioni moderne di governo democratico) solo più tardi: con l'età delle rivoluzioni — la Rivoluzione industriale, la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese – una serie di discontinuità storiche avvenute alla fine del XVIII secolo, che furono completamente istituzionalizzate dopo la fine delle guerre napoleoniche. Qui siamo di fronte a un paradosso molto particolare. Sembrerebbe che tutti gli elementi dell'apparato finanziario che siamo abituati ad associare al capitalismo — banche centrali, mercati dei titoli di stato, vendite allo scoperto, case d'investimento, bolle speculative, cartolarizzazioni, rendite — siano nati non solo prima dell'economia politica (il che forse non è affatto sorprendente), ma anche prima delle fabbriche e dello stesso lavoro salariato. Ecco una vera sfida al pensiero convenzionale. Ci piace pensare alle fabbriche e alle botteghe come all'«economia reale», mentre il resto è una sovrastruttura costruita su questa economia reale. Ma se le cose stessero veramente così, com'è possibile che la sovrastruttura finanziaria storicamente venga prima? Possono i sogni del sistema dar vita al suo corpo?

Tutto questo solleva la questione di cosa sia davvero il «capitalismo», una domanda su cui non c'è affatto consenso. La parola fu originariamente inventata dai socialisti, che vedevano il capitalismo come quel sistema in cui i detentori di capitale possono comandare il lavoro di coloro che non ne hanno. I suoi sostenitori, invece, tendono a considerare il capitalismo come equivalente alla libertà di mercato, che permette alle persone con un'idea potenzialmente profittevole di raccogliere le risorse per metterla in pratica. Tutti però concordano sul fatto che il capitalismo sia un sistema che richiede crescita costante, infinita. Le imprese devono crescere per rimanere in attivo. Lo stesso vale per le nazioni. Come all'alba del capitalismo il 5 per cento era ampiamente accettato come il tasso d'interesse commerciale legittimo – ovvero quel tasso di crescita del proprio denaro che un investitore può aspettarsi normalmente grazie al principio dell'interesse – così ora il 5 per cento è il tasso a cui dovrebbe crescere il PIL di ogni nazione. Quello che un tempo era un meccanismo impersonale che obbligava le persone a vedere tutto ciò che le circondava come una potenziale forma di profitto, ora viene considerato l'unica misura obiettiva della salute della comunità umana stessa.

A partire da una data iniziale, che possiamo fissare nel 1700, quello che vediamo all'alba del capitalismo moderno è un gigantesco apparato finanziario di credito e debito, che nella pratica agisce per estrarre sempre più lavoro da tutti coloro con cui entra in contatto, e che come risultato produce un volume sempre crescente di beni materiali. Non lo fa solo usando un impulso morale, ma soprattutto usando la spinta morale per mobilizzare la pura forza fisica. Il familiare ma peculiare legame europeo tra guerra e commercio riappare in ogni momento, spesso assumendo nuove e spaventose forme. Nei primi mercati azionari in Olanda e Inghilterra venivano scambiate principalmente le azioni delle Compagnie delle Indie Orientali e Occidentali, imprese al contempo militari e commerciali. Una di queste compagnie private dedite al profitto governò l'India per un secolo. Il debito pubblico di Inghilterra, Francia e degli altri paesi non nasce con il denaro preso a prestito per scavare canali e costruire ponti, ma per comprare la polvere da sparo necessaria per bombardare città, costruire i campi dove internare i prigionieri e addestrare le reclute. Quasi tutte le bolle del XVIII secolo nacquero da qualche schema fantasmagorico per usare i guadagni delle imprese coloniali ai fini di finanziare le guerre in Europa. La moneta cartacea è una moneta di debito, e la moneta di debito è moneta di guerra. Θ sempre stato così. Coloro che finanziarono gli interminabili conflitti europei ricorrevano anche alla polizia e alle prigioni dello stato per estrarre una produttività sempre più alta dal resto della popolazione.

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Forse lo scandalo segreto del capitalismo è che questo sistema non è mai stato organizzato primariamente sulla base del lavoro libero. La conquista dell'America iniziò con una massiccia cattura di schiavi, poi si stabilizzò gradualmente in varie forme di servitù per debiti, schiavitù africana e «servizio a contratto» – ovvero l'uso di un contratto di lavoro per cui i lavoratori ricevevano in anticipo il compenso e poi erano costretti a lavorare cinque, sette o dieci anni per ripagarlo. Non c'è bisogno di dirlo, ma questi servitori a contratto erano reclutati in gran parte tra persone già indebitate. In alcuni momenti del Seicento, nelle piantagioni dell'America del Sud c'erano tanti debitori quanti schiavi africani, e in principio la loro condizione legale era quasi identica, poiché inizialmente le compagnie che controllavano le piantagioni erano soggette alla tradizione legale europea, che assumeva che la schiavitù non esistesse, quindi anche gli africani in Carolina erano dei lavoratori a contratto. Ovviamente le cose cambiarono quando fu introdotto il concetto di «razza». Quando gli schiavi africani vennero liberati, nelle piantagioni di Barbados alle Mauritius furono rimpiazzati da lavoratori a contratto, anche se questa volta reclutati principalmente in India e Cina. I lavoratori cinesi costruirono il sistema ferroviario americano, mentre i coolies indiani scavarono le miniere del Sudafrica. I contadini di Russia e Polonia, che nel Medioevo erano liberi e possedevano le loro terre, furono ridotti alla servitù solo all'alba del capitalismo, quando i loro signori iniziarono a vendere grano nei nuovi mercati mondiali per sfamare le nuove città industriali dell'Occidente. I regimi coloniali in Africa e nel Sudest asiatico richiedevano regolarmente lavoro forzato ai sudditi che avevano conquistato, oppure, in alternativa, creavano sistemi di tassazione volti a portare la popolazione nel mercato del lavoro attraverso il debito. Il governo britannico in India, dagli inizi con la Compagnia delle Indie Occidentali, ma anche durante il governo di Sua Maestà, istituzionalizzò la servitù per debiti come mezzo primario per la produzione di beni da esportazione.

Si tratta un scandalo non solo perché talvolta il sistema va in cortocircui- to, come nel caso del Putumayo, ma perché sconvolge le nostre più profonde convinzioni riguardo alla natura del capitalismo – in particolare che esso abbia qualcosa a che fare con la libertà. Per i capitalisti, questo significa libertà del mercato. Per la maggior parte dei lavoratori, significa lavoro libero. I marxisti si sono domandati se il lavoro salariato è in definitiva libero in qualche senso (poiché qualcuno che non abbia niente da vendere se non il proprio corpo non può essere considerato in nessun senso un agente libero), ma nonostante tutto tendono ad assumere che il lavoro salariato sia la base del capitalismo. E l'immagine più famosa della storia del capitalismo è l'operaio inglese che fatica nelle fabbriche della Rivoluzione industriale, e quest'immagine può essere proiettata in linea retta fino alla Silicon Valley. Tutti quei milioni di schiavi, servi, coolies e debitori schiavizzati spariscono, oppure, se proprio dobbiamo parlare di loro, li liquidiamo in quanto incidenti di percorso. Come per le condizioni inumane nelle fabbriche, si dà per scontato che questa sia una tappa da cui le nazioni in via di industrializzazione debbano passare, proprio come si dà per certo che tutti quei milioni di schiavi per debiti e di servitori a contratto, ma anche i lavoratori che ancora oggi lavorano in condizioni disumane, sicuramente vivranno abbastanza per vedere i loro figli diventare dei lavoratori regolari con un'assicurazione sanitaria e la pensione, e i loro nipoti diventare dottori, avvocati e imprenditori.

Quando si guarda alla vera storia del lavoro salariato, anche in paesi come l'Inghilterra, questa idea inizia a disfarsi. Nella maggior parte del Nord Europa medievale, il lavoro salariato fu principalmente un fenomeno di stile di vita. Da circa dodici o quattordici anni a circa ventotto, trent'anni, ci si aspettava che tutti fossero impiegati nella casa di qualcuno – di solito sulla base di contratti annuali, con i quali ricevevano vitto, alloggio, una formazione professionale e solitamente un qualche tipo di stipendio – finché non avessero accumulato abbastanza risorse per sposarsi e metter su famiglia. Il primo significato di «proletarizzazione» fu che milioni di giovani donne e giovani uomini in tutta Europa si trovarono effettivamente bloccati in una sorta di adolescenza permanente. Gli apprendisti non riuscivano mai a diventare «maestri» e quindi non crescevano. Con il tempo, molti iniziarono a lasciar perdere e a sposarsi presto – con grande scandalo dei moralisti, i quali affermavano che i nuovi proletari stessero costruendo famiglie che non avrebbero mai potuto mantenere.

C'è sempre stata una curiosa affinità tra lavoro salariato e schiavitù. Non solo perché erano gli schiavi nelle piantagioni caraibiche a fornire i prodotti a rapido apporto energetico che alimentavano buona parte del lavoro dei primi salariati; né perché la maggior parte delle tecniche di gestione scientifica applicate nelle fabbriche risale a quelle stesse piantagioni di zucchero; ma anche perché tanto le relazioni tra schiavo e padrone quanto quelle tra dipendente e datore di lavoro sono in principio impersonali: che tu venga venduto o semplicemente affittato, nel momento in cui il denaro passa di mano, si assume che chi tu sia non abbia alcuna rilevanza; la cosa importante è che tu sia capace di comprendere gli ordini che ti vengono dati e faccia quanto ti è richiesto.

Forse questa è una delle ragioni per cui in principio c'era sempre l'idea che tanto l'acquisto di schiavi quanto l'assunzione di lavoratori non dovesse essere fatta a credito, ma pagata in contanti.

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Tuttavia, manca palesemente un elemento anche nelle più fervide teorie cospirazioniste sul sistema bancario, per non parlare delle storie ufficiali: il ruolo della guerra e della potenza militare. C'è una ragione perché lo stregone ha questa strana capacità di creare denaro dal nulla. Dietro di lui, c'è un uomo con la pistola.

Certo, in un certo senso c'è fin dall'inizio. Ho già sottolineato che la moneta moderna si basa sul debito dello stato e che gli stati s'indebitano per finanziare la guerra. Questo è vero oggi come lo era ai tempi di re Filippo II. La creazione delle banche centrali rappresenta l'istituzionalizzazione permanente del matrimonio tra gli interessi finanziari e militari che iniziò a emergere nell'Italia rinascimentale, per diventare infine il fondamento del capitalismo finanziario.

Nixon lasciò fluttuare il dollaro per pagare i costi di una guerra in cui, nel solo periodo 1970-1972, ordinò di sganciare più di quattro milioni di tonnellate di bombe incendiarie sulle città e i villaggi dell'Indocina guadagnandosi il soprannome di «più grande bombardiere di tutti i tempi», attribuitogli da un senatore. La crisi debitoria fu una diretta conseguenza della necessità di pagare le bombe, oppure, per essere più precisi, di pagare la vasta infrastruttura militare necessaria ai bombardamenti. Θ questa la causa che mise alle corde le riserve auree statunitensi. Molti sostengono che sganciando il dollaro dall'oro Nixon abbia reso la moneta USA pura fiat money: dei semplici pezzi di carta, senza alcun valore intrinseco, trattati come moneta solo grazie al volere degli Stati Uniti. In questo caso, si potrebbe affermare che ora il dollaro sia sostenuto unicamente dalla potenza militare degli Stati Uniti. In un certo senso è vero, ma il concetto di «moneta fiduciaria» si basa sull'assunzione che la moneta «fosse» veramente oro inizialmente. In realtà, ci troviamo di fronte solo a un altro tipo di valuta creditizia.

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Quanto ho detto finora serve unicamente a sottolineare una realtà già emersa varie volte nel corso del libro: la moneta non ha alcuna essenza. Non è «concretamente» nulla; quindi la sua natura è sempre stata, e presumibilmente sempre sarà, questione di contesa politica. Tra l'altro, così fu nelle prime fasi della storia americana – come attestano le vivide e interminabili battaglie del XVIII secolo tra sostenitori dell'oro, bimetallisti, adepti dell'argento, sostenitori del sistema bancario libero e del greenback – ma gli elettori americani erano così scettici riguardo all'idea di una banca centrale che la Federal Reserve fu istituita solo negli anni immediatamente precedenti la Prima guerra mondiale, ben tre secoli dopo la Banca d'Inghilterra. Inoltre, come ho già avuto modo di notare, anche la monetizzazione del debito ha due facce. Da un lato – secondo la visione di Jefferson – si tratta dell'apoteosi della perniciosa alleanza tra militari e banchieri; dall'altro ha aperto le porte all'idea che lo stato stesso sia un debitore morale, che la sua libertà sia qualcosa che letteralmente deve alla nazione. Forse nessuno ha espresso questo punto con maggior eloquenza di Martin Luther King Jr., nel suo discorso intitolato «I Have a Dream», pronunciato dagli scalini del Lincoln Memorial nel 1963:

In un certo senso siamo venuti alla capitale della nazione per incassare un assegno. Quando gli architetti della nostra repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e della Dichiarazione d'Indipendenza, firmarono una promessa di pagamento della quale ogni americano sarebbe diventato erede. Quella promessa diceva che tutti gli uomini, sì, i neri come i bianchi, avrebbero goduto dei «diritti inalienabili alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità». Θ ovvio che oggi l'America sia venuta meno a questa promessa per quanto riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare il suo sacro obbligo, l'America ha consegnato ai neri un assegno scoperto, che è stato loro restituito con impressa la scritta «fondi insufficienti».


Sotto la stessa luce si può vedere anche la crisi del 2008, il risultato di anni di lotte politiche tra debitori e creditori, ricchi e poveri. Vero, a un certo livello la crisi era esattamente quello che sembrava: una truffa, una catena di sant'Antonio incredibilmente sofisticata destinata a implodere, ma dove i truffatori sapevano che sarebbero stati in grado di costringere i truffati a coprire le perdite. A un altro livello, si potrebbe vedere la crisi come il culmine della battaglia sulle definizioni stesse di moneta e di credito.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, lo spettro di un'imminente rivolta della classe operaia, che aveva perseguitato le classi dirigenti di Europa e Nord America nel secolo precedente, scomparve quasi del tutto. La lotta di classe era stata sospesa con una tacita intesa. In parole povere: venne offerto un accordo alle classi operaie dei paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla Germania. Se avessero rinunciato a ogni fantasia di cambiare radicalmente la natura del sistema, potevano tenere i propri sindacati, godere di una serie di benefici sociali (pensioni, ferie pagate, cure mediche ecc.) e, forse la proposta più allettante, sapere che í loro figli avevano la concreta possibilità di lasciare la classe operaia per sempre, attraverso un sistema di istruzione pubblica ben finanziato e in espansione. Un elemento chiave del compromesso era la tacita garanzia che gli incrementi di produttività dei lavoratori sarebbero stati ricompensati con salari più alti: promessa che è stata mantenuta fino alla fine degli anni settanta. Principalmente, in seguito a tale accordo, in quel periodo crebbero rapidamente sia la produttività sia i salari, costruendo le basi della società consumista contemporanea.

Gli economisti hanno battezzato questo periodo «età keynesiana», perché le teorie economiche di John Maynard Keynes , che erano già state la base del New Deal di Roosevelt negli Stati Uniti, furono adottate dalle democrazie industriali pressoché ovunque. Keynes aveva un atteggiamento piuttosto disinvolto nei confronti della moneta. Il lettore ricorderà che accettava completamente la teoria per cui le banche «creano moneta dal nulla», e per questo motivo non c'era alcuna ragione intrinseca che vietasse al governo di incoraggiare la creazione di moneta durante i periodi di recessione, per stimolare l'attività economica: una posizione che da tempo è cara ai debitori, mentre suona come un anatema alle orecchie dei creditori.

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In un primo momento, tutto ciò fu accompagnato da un ritorno al monetarismo: dottrina secondo la quale se anche la moneta non ha più alcun legame con l'oro, né con nessun'altra merce, le politiche del governo e della banca centrale devono essere volte primariamente all'attento controllo dell'offerta di moneta, per assicurarsi che questa funzioni come se la moneta fosse una merce scarsa. E questo anche se, allo stesso tempo, la finanziarizzazione del capitale voleva dire che gran parte del denaro investito nei mercati era ormai completamente slegato da ogni relazione con la produzione o il commercio, diventando pura speculazione. Tutto questo non significa che alle persone del mondo non fu offerto nulla: solo che, come ho già notato, i termini dell'accordo erano diversi. Nel nuovo patto, i salari non dovevano più crescere, ma i lavoratori venivano incoraggiati a comprarsi un pezzo di capitalismo. Anziché eliminare i rentier, tutti a questo punto potevano diventare dei redditieri – in altri termini, avere effettivamente la possibilità di godere di una parte dei profitti creati dal loro stesso drammatico tasso di sfruttamento. I mezzi usati sono stati molti e familiari. Negli Stati Uniti c'erano 401 000 fondi pensione e un'infinita varietà di altre forme per incoraggiare i cittadini comuni a giocare al mercato; ma, allo stesso tempo, per incoraggiarli a indebitarsi. Una delle linee guida tanto del thatcherismo quanto del reaganismo fu che le riforme economiche non avrebbero mai ricevuto un ampio supporto se i lavoratori non avessero almeno potuto aspirare a possedere la propria casa; negli anni novanta e nel Duemila a questo si aggiunsero infiniti schemi di rifinanziamento dei mutui che trattavano la casa, il cui valore si riteneva potesse solo aumentare, «come un bancomat», secondo la frase diffusa al tempo, anche se in retrospettiva sarebbe stato meglio paragonarli alle carte di credito. Poi ci fu la proliferazione delle vere carte di credito, tutti a fare i giocolieri con la nuova carta per rimborsare la vecchia. Qui, per molti, «comprarsi un pezzo di capitalismo» è scivolato silenziosamente in qualcosa di indistinguibile: dalle piaghe familiari ai lavoratori poveri, lo strozzino e il monte dei pegni. L'abolizione da parte del Congresso delle leggi federali sull'usura, che ancora nel 1980 limitavano i tassi d'interesse a una cifra intorno al 7-10 per cento certamente non ha aiutato. Esattamente come gli Stati Uniti sono riusciti a eliminare quasi completamente la corruzione politica rendendo la corruzione dei legislatori legale a tutti gli effetti (rinominata «lobbying»), così il problema degli usurai fu risolto rendendo perfettamente legali tassi d'interesse del 25, 50 per cento, o in alcuni casi (per esempio negli anticipi dello stipendio) addirittura del 120 per cento all'anno. Un tempo tipici solo nel mondo del crimine organizzato, ora questi tassi potevano essere applicati non solo da picchiatori e da quel genere di persone che lascia animali mutilati davanti alla porta del debitore insolvente, ma da giudici, avvocati, ufficiali giudiziari e poliziotti.

I nomi per descrivere il nuovo patto si sono sprecati, da «democratizzazione della finanza» a «finanziarizzazione della vita quotidiana». Fuori dagli Stati Uniti, è diventato noto con il nome di «neoliberismo». Come ideologia, afferma che non solo il mercato, ma il capitalismo (devo continuamente ricordare al lettore che i due non sono la stessa cosa) deve diventare il principio organizzatore di quasi tutto. Tutti noi dobbiamo pensarci come piccole aziende, organizzate intorno alla stessa relazione tra investitore e imprenditore: tra il freddo calcolo del banchiere e il guerriero che, indebitato, ha perso ogni senso dell'onore personale per trasformarsi in una sorta di macchina disgraziata.

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L'aspetto evidente è che queste nuove idee non potranno vedere la luce se prima non ci liberiamo da molte delle categorie di pensiero a cui siamo abituati – che sono diventate un mero peso morto, se non parte costituente dell'apparato della disperazione – per formularne di nuove. Θ il motivo per cui in questo libro mi sono dilungato tanto a parlare del mercato, ma anche della falsa scelta tra stato e mercato che ha così monopolizzato l'ideologia politica dell'ultimo secolo da rendere difficile persino parlare di qualcos'altro.

La vera storia dei mercati non è niente di simile a quella che ci hanno insegnato a pensare. I primi mercati che siamo in grado di osservare sembrano essere più o meno delle ricadute; degli effetti collaterali dell'elaborato sistema amministrativo dell'antica Mesopotamia. Funzionavano soprattutto facendo ricorso al credito. I mercati monetari si affermarono attraverso la guerra: di nuovo, grazie a politiche fiscali e tributarie originariamente concepite per rifornire i soldati, ma che in seguito divennero utili in mille altri modi. Θ solo con il Medioevo e il ritorno ai sistemi di credito che compaiono le prime manifestazioni di quello che potremmo chiamare populismo di mercato: l'idea che i mercati possano esistere oltre, contro e al di fuori degli stati, come quelli che si affermarono nell'Oceano Indiano musulmano; un'idea che sarebbe riapparsa in seguito in Cina con le grandi rivolte dell'argento nel XV secolo. Sembra che di solito appaia in situazioni in cui i mercati, per una ragione o per l'altra, si trovano a fare causa comune con le persone normali contro la macchina amministrativa di qualche grande stato. Ma il populismo di mercato è sempre minacciato da paradossi, perché dipende ancora in qualche grado dall'esistenza di quello stato, e, soprattutto, perché richiede che le relazioni di mercato siano in definitiva fondate su qualcosa di diverso dal puro calcolo: sui codici d'onore, sulla fiducia e in ultima analisi sulle comunità e sul mutuo supporto, più tipici delle economie umane. Ciò a sua volta implica relegare la concorrenza a un rango minore. Da questa prospettiva, possiamo vedere che quello che in definitiva fece Adam Smith nel creare il suo utopico mercato senza debiti fu fondere alcuni elementi di questa inverosimile tradizione con il concetto di mercato insolitamente militaristico tipico dell'Occidente cristiano. Nel farlo si è sicuramente dimostrato presciente. Ma come tutti gli scrittori più influenti, catturava anche qualcosa dello spirito dell'epoca che si stava affermando. Quello che abbiamo visto da lui in poi è stato un infinito gioco politico che si muove tra due tipi di populismo – quello di mercato e quello di stato – senza che nessuno si rendesse conto che gli argomenti della discussione erano in realtà le due facce della stessa medaglia.

Secondo me, la ragione principale per cui non riusciamo ad accorgercene è lo strascico di violenza che ha contorto tutto quello che ci circonda. Guerra, conquista e schiavitù non solo hanno avuto un ruolo centrale nel trasformare le economie umane in economie di mercato; letteralmente non c'è nessuna istituzione nella nostra società che non ne sia stata in qualche modo influenzata. La storia che ho raccontato all'inizio del capitolo 7, di come addirittura il concetto di «libertà» venne trasformato, attraverso l'istituto romano della schiavitù, cambiando il suo significato dalla possibilità di fare amicizie, di stabilire delle relazioni morali con gli altri, in incoerenti sogni di potere assoluto, è forse solo l'esempio più drammatico – e il più insidioso, perché rende veramente difficile immaginare cosa significhi veramente libertà umana.

Se questo libro mostra qualcosa, è esattamente quanta violenza sia stata necessaria nel corso della storia umana per portarci in una situazione dov'è addirittura possibile immaginare che questo sia il vero senso della vita. Soprattutto se si considera quanto la nostra stessa esperienza quotidiana sia in diretta contraddizione con tale idea. Come ho sottolineato, il comunismo può essere il fondamento di tutte le relazioni umane – quel comunismo che, nella vita di tutti i giorni, si manifesta soprattutto in ciò che chiamiamo «amore» –, ma c'è sempre qualche sistema di scambio costruito su questo comunismo, spesso anche una gerarchia. Questi sistemi di scambio possono prendere una grande varietà di forme, la maggior parte perfettamente innocua. Però, quella di cui stiamo parlando è una forma molto particolare di scambio calcolato. Come ho evidenziato all'inizio del libro: la differenza tra dovere a qualcuno un favore e dovergli un debito è che l'ammontare del debito può essere precisamente calcolato. Il calcolo richiede l'equivalenza. E questa equivalenza – specialmente quando comporta l'equivalenza tra esseri umani (e sembra che si cominci sempre in questo modo, perché inizialmente gli esseri umani sono sempre il valore supremo) – sembra verificarsi solo quando le persone sono state separate a forza dal proprio contesto, così tanto da poter essere trattate come identiche a qualcos'altro, come in frasi del tipo «sette pelli di balestruccio e dodici grandi anelli d'argento in cambio della liberazione di tuo fratello», «una delle tue tre figlie come garanzia per questo prestito di quattro quintali di grano»...

Queste considerazioni a loro volta ci portano al grande imbarazzo che tormenta tutti i tentativi di rappresentare i mercati come la più alta espressione della libertà umana: storicamente, i mercati commerciali e impersonali nascono dal furto.

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