Copertina
Autore Carlo Grande
Titolo I cattivi elementi
Sottotitolostorie di acqua, di aria, di fuoco e di terra
EdizioneFernandel, Ravenna, 2000 , pag. 155, dim. 140x200x11 mm , Isbn 978-88-87433-15-9
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa italiana
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Indice


Grazie a dio c'è chi muove le acque  p.  5

Aria sporca                          »  35

Tantobuono va a fuoco                »  75

Né in cielo né in terra              » 123

 

 

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Pagina 5

Grazie a dio c'è chi muove le acque


«Lo Zodiac ruggiva davanti alla prua del cargo, sbatteva sulla schiuma come una libellula inseguita da un luccio. Fece su e giù due volte sotto l'immensa chiglia nera, mentre dal ponte si sbracciavano decine di marinai. "Salopard!" gridavano. "È il tuo funerale". Patrick, ingessato in un giubbotto-salvagente arancione, faceva sforzi terribili per rimanere aggrappato alla barra». Athena avvolse con cura un ricciolo biondo fra le dita e continuò. «Quando la nave gettò l'ancora, Pat andò sotto la gru e spense il motore. Con lo spray scrisse sulla chiglia: "Il mare non è una pattumiera". Poi guardò in alto e vide il grosso barile arrugginito che gli oscillava sulla testa».

«Patrick aveva questa teoria, forse l'aveva letta sul Readers' Digest: "Devi stare sotto il parapetto" diceva "e fissare quello che sta scaricando. Basta guardarlo in faccia e tenere il contatto, così lui non lascia andare"».

«Il gruista tenne il contatto senza fare una piega. Allungò il collo, prese la mira e sganciò il bidone, seguendolo amorevolmente con lo sguardo. Lo Zodiac si piegò su se stesso come uno straccio e scomparve sott'acqua. Un istante dopo schizzò fuori insieme a Pat, che galleggiava pancia all'aria».

La voce di Athena prese un tono più basso, come si conviene al momento cruciale di un racconto.

«Sul ponte del cargo erano arrivati anche gli ufficiali, per vedere "se quel tizio era ancora vivo". Pat si era ripreso quasi subito, così, mentre lo ripescavano, ne abbiamo approfittato per abbordarli dall'altra fiancata, con il secondo gommone. Abbiamo lanciato una scala a pioli, avresti dovuto vedere le facce quando ci hanno scoperti incatenati alla gru. Siamo rimasti lì tutto il giorno. INvece di scaricare porcherie in mare hanno giocato per sei ore con fiamma ossidrica e tronchesine».

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Pagina 85

A quest'idea il mio ego si espandeva come le galassie. Quegli animaletti neri incisi sulla carta sancivano la mia infinita superiorità sul miserabile mondo che mi circondava. Scrivere! Scrivere per riflettere la vita, per crearne una nuova. Avrei dato qualsiasi cosa pur di vedere il mio nome riprodotto. Cristo. E non mi veniva in mente che l'uomo più ascoltato della terra aveva scritto una sola volta, poche parole sulla sabbia, e nessuno le aveva lette.

Per chiamare il giornale dovevo anticipare Annovazzio, che di solito passava l'intervallo sul pianerottolo davanti alla segreteria, inchiodato al telefono a gettoni.

Seminascosto dal casco della moto, spiegava qualcosa al vicino, chinato sotto il banco. Picchiettava il petto con le dita a grappolo, scandiva le parole muovendo la testa avanti e indietro.

«Io, io, io!» Quanta boria, che fronte inutilmente ampia. Fra qualche anno quei grandi incisivi quadrati, bianchi, sarebbero finiti dietro a uno sportello, o a un banco del mercato, o ad asciugare sopra una scrivania. Come quelli di Macchi, ex quinta C, che mi aveva chiamato mentre camminavo su un marciapiede di Porta Palazzo. Nel bar del padre mi aveva offerto cappuccino e brioche, tutto fiero nella sua giacchetta bianca.

Amavo e compativo quei poveracci: giorno dopo giorno, non-scelta dopo non-scelta, finivano insaccati in qualche ruolo, per tutta la vita. Figli del popolo, strame per terreni altolocati. Perché Mollo, figlio di operai che amava tanto l'italiano, non avrebbe mai avuto un lavoro intellettualmente decente? Perché io avevo una probabilità su un milione di diventare giornalista? Perché la vita, come la natura, è quasi sempre un organismo unico, consequenziale: i genitori, i parenti, l'infanzia, l'adolescenza, il lavoro, la carriera... Tutte le parti devono essere collegate senza soluzione di continuità. In natura non ci sono animali con le ruote. Per spostarsi si cammina, si striscia, si vola, si galleggia. La ruota è uno sbaglio violento: presuppone le strade asfaltate. E la natura, come la vita, non può essere violentata. La mia vita senza ruote, che grande fregatura.

Preparai la cartella e il gettone. Anche Annovazzio aveva alzato la testa e mi guardava di sguincio.

Mise gli occhiali a specchio e chinò la testa su una patacca al quarzo, con quattro pulsanti gialli.

Si alzò e venne verso di me. «Mi spieghi una cosa, professore... Cos'è 'sto benedetto neoclassicismo?»

«E leggere il libro?»

«Ma non riesco a capire».

«Non hai nemmeno ascoltato un minuto di lezione».

Sembrava contrito. Riprovai: «Il Foscolo, dopo aver lasciato all'alba una festa in città (donne e whisky, passioni romantiche, no?) siede ai tavolini di un bar, nel suo paese. La piazza è deserta, silenziosa. Ordina un cappuccino e si legge il giornale. Un classico, no?»

Annovazzío non sapeva cosa dire. «Professore, dove porto la ragazza al cinema, domenica? Mi dica lei, voglio fare bella figura».

Ero imbarazzato. Ogni tanto incrociavo lo sguardo di qualcuno, fisso nel vuoto.

Un'invisibile orchestrina elettronica intonò La marsigliese e tutti alzarono la testa.

Avrei voluto restar serio, ma una voce mi sussurrava: «Sii buono, guarda come sono tranquilli!»

Così sorrisi.

E fu un errore.

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Pagina 88

Avevo solo tre ore di tempo, in classe cominciai a mettere giù gli appunti. Ma l'incipit, la cosa più importante, non voleva saperne di saltar fuori. Ero indeciso tra: «Festa su quattro ruote», «Quattro ruote in festa», e «Motori sulle colline», che scartai subito: troppo letterario. Niente, l'attacco non usciva.

Per strada, tornando a casa, continuavo a macinare slogan dementi: «Quattro passi e quattro ruote in collina», «Tutti a tavola, fra il rombo dei motori».

E rombo dei motori c'era davvero, nel medesimo ingorgo dell'andata: dozzine di vetture ferme al semaforo, in attesa di incolonnarsi nella strettoia. Classica coda all'italiana, a piramide rovesciata. E i conducenti seminebetiti dal caldo, barricati negli abitacoli.

Gettai uno sguardo panoramico fino alla sesta fila. A destra mi affiancava un trentenne semicalvo su Fiat Dribbling rossa, con il mento sfuggente e le fedine appuntite. Il basettone «chiamava» l'auto con nevrotici colpetti di acceleratore, facendo oscillare il cane di pezza accucciato sul lunotto. I cuscini, foderati all'uncinetto, riprendevano i motivi dei sedili.

Basettone guardava di sguincio, sulla destra, la Honda Polis turbodiesel metallizzata di un cinquantenne in maniche di camicia, intento ai lavori d'ufficio: dal volante, multifunzionale e collassabile come il conducente, azionava il radiotelefono, l'autoradio, il regolatore di velocità e il ricircolo d'aria del climatizzatore. Era protetto da barre antintrusione, air bag laterali e chiusura centralizzata. Pronto, come negli spot, a sfrecciare libero nel vento, verso l'immortalità. Nel frattempo stava fermo, nutrendo larghe chiazze di sudore sotto le ascelle.

«Non c'è sfida» pensai. «L'Uomo Libero non è pronto. Basettone partirà a tavoletta verso la pastasciutta. Ma certo! Deve andare a tavola e va a tavoletta! Ecco l'attacco: «Pogliola: prima a tavola poi a tavoletta».

Mi voltaí a sinistra e sorrisi per sbaglio a un ragazzo su una Renault Tackle nera, che ingannava l'attesa con il rasoio elettrico. Prese un flacone di dopobarba dal cruscotto e si cosparse abbondantemente. Il sedile di fianco era completamente ribaltato.

Soddisfatto, attaccò il mangianastri a tutto volume, ingranò la prima e portò una spanna più avanti il mezzo, facendo ronzare beatamente gli apparati intercooler, abs e viscodrive. Il suo piacere di guidare era minacciato da un furgone beige colato di ruggine, una grotta tappezzata di corni, talismani e pupazzetti che avanzava impercettibilmente a sinistra. Senza fretta, ma senza tregua. Ai finestrini e sul cruscotto, come graffiti rupestri di un arcaico santuario, c'erano santiní e portaritratti con la calamita. Uno intimava: «Dio c'è». Un altro: «La tua vita vale la mia». Un terzo: «Vai piano, pensa a me», con la foto del conducente. Anche i cuscini erano dedicati a un culto pre-civile, la squadra di calcio.

Al verde, le prime file avanzarono. Quattro, cinque, otto vetture furono risucchiate dalla strettoia. Toccava a noi. La Polis-ufficio scattò in avanti, con la Tackle-pied-à-terre. La Dribbling, chiusa fra me e il furgone-chiesa, rimase clamorosamente ultima. Mandò uno spaventoso ruggito di belva in gabbia, poi un lampo rosso sangue invase la corsia a fianco e diventò il puntino di una navicella spaziale che abbandona la stratosfera.

Frenai, era tornato il rosso. Osservavo il gregge di lamiera che era riuscito a passare, lanciato verso il semaforo successivo. Un branco di persone normali con il cervello squassato da una Chernobyl neuronale. Il caldo delle lamiere aveva fuso i nuclei delle personalità e spazzato via ogni inibizione. Ora il fall out nevrotico scendeva su di me, primo della fila: già sentivo i neuroni esplodere fra le sinapsi, il mio cuore scaldarsi e pompare ansia, come la miscela di fuoco e di gas flagellata dai pistoni. Presto, per fermarlo, avrei avuto bisogno di un farmacista gongolante, chino sullo scaffale in cerca dei tranquillanti.

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Pagina 109

Migliaia di persone avevano girato la chiavetta, alzato la freccia, schiacciato la frizione e inserito una marcia, entrando in un percorso di guerra fatto di strade, superstrade, complanari, bretelle, svincoli, tangenziali. Fabbriche di rabbia e di ferite. Distinguevo nel flusso operai assonnati, pensionati rancorosi che non cedevano la strada, ventenni randagi su macchine di terza mano, con la testa piena di popstar e in cerca di una Giorgina qualsiasi, da palpare lungo i muri di qualche cascina o fra i campi di mais. Un formicaio brulicante giorno e notte, una massa motorizzata pronta alla Battaglia Finale, allo Scontro di Tutti i Veicoli, che avrebbe azzerato i rancori dell'umanità.

Molti erano ancora fermi sotto casa, forse qualcuno scendeva le scale giocherellando con le chiavi della macchina, godendosi gli ultimi istanti di vita normale. Chi sarebbe stata la prossima vittima della selezione naturale meccanizzata? «Un chiodo tra suola e tomaia dello scarpone, e un gran calcio sui copertoni di tutte le auto in cortile e in doppia fila». Sognavo di fermare l'infinita catena di collisioni e di lutti. Marmellata sui finestrini, adesivi sul parabrezza, bigliettini sotto il tergicristallo: «Ben Hur, il tuo carro mi ha rotto i coglioni».

Il buio scese con un rullare di serrande. I laser della discoteca frugavano il cielo in cerca di bombardieri.

Mi spogliai e andai a letto.

Le urla di ragazzi in strada sovrastarono i piccoli rumori del condominio, rícordardandomi che anch'io, dieci anni prima, avevo urlato e tirato calci a un pallone, alle tre di mattina, aspettando che aprissero le panetterie.

«Sono giovani, estroversi», mi dissi. «Quando saremo tutti così estroversi scenderemo in strada a combattere».

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Pagina 123

Mé in cielo né in terra

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Pagina 134

In mano aveva una ronchetta. «Mi go mai fato mal a nisiuni!»

Enrico se la studiava, con la bocca spalancata dal vino. Nella mente intorpidita i pensieri vagavano in lungo e in largo. «Un'altra vecia completamente innocente...»

Ricordò la madre della panettiera, che «non aveva mai fatto male a nessuno». A nessuno.

Dormivano tutti. Enrico, solo a un capo del tavolo, fronteggiava la vecchia, con il sonno che gli schiacciava le palpebre.

«A nisiuni!»

Mai... Mai fatto male a nessuno, Enrico...? Una malignità a Simona, uno sgarbo alla madre (i riccioli sulle orecchie sempre troppo lunghi), una spinta in coda allo sportello? Il male, Enrico. Il male 16 marzo 1968, first lieutenant William Law Calley jr. con il suo plotone nel villaggio di My Lai che massacra cinquecentosessantasette uomini, donne e bambini. È questo il male? O la corte marziale americana che lo condanna all'ergastolo, e lui che esce dopo cinque mesi e vari condoni, invecchiando serenamente a Columbus, nella gioielleria di famiglia?

Gioielli, Laura? Ti sei montata la testa, Laura? Fare l'offeso con Laura. Cazzate. Quanto sei borghese, Laura. Con tutti quelli che soffrono la fame. Gli Ogoni patiscono la fame in Nigeria, Laura. Questo è il male, soffrire come l'erba nella lotta degli elefanti. Vedere le donne partire in Europa, a fare le puttane. Acqua, corrente, libri, medicine: neanche uno schizzo di ricchezza, nell'acquitrino inzuppato di petrolio. Luce giorno e notte, «le fiamme della Shell sono le fiamme dell'inferno», cantano. Impiccati in otto a Port Harcourt, con il capo Ken Saro Wiwa. Il male del 10 novembre 1995, Enrico.

Sopravvivere, Enrico. All'esame di settembre, agli ordini di tua madre, all'angoscia dei Tg e dei giornali, all'alloggio da prendere con Laura, all'intestino che miagola nella notte. Il 21 aprile 1997, di notte. I fedeli dell'emiro di Medea, detto il Nano, scendono nel buio dalle montagne dell'Algeria, attraversano i campi di grano di Haouch EI-Khemisti, fanno saltare i cancelli del villaggio con bombe di ferraglia, entrano nelle case dove dormono novantatre persone, bambini e donne che non vogliono mettere il velo. Li fanno a pezzi con asce, motoseghe, zappe e roncole. Poi fuggono fra gli aranceti e gli eucalipti di Bougara. Promettendo che tomeranno».

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Pagina 141

Lei piantò il picco e si rialzò. «"Celeste, mascalsòn", gli dicevo. "Ti se vecio! Te se alsa quando dormi e dorme quando te alsi"». Rideva.

«Dov'è?»

«E chissà! Li, nel lago, o sotto la frana. Li ce n'è ancora sessanta o settanta».

«Dov'è franato?» chiese Enrico, «vicino alla riva?» e indicò le ultime case del paese.

«Benedeto! Ci siamo sopra, la frana! Tuta la montagna xe cascà!»

Enrico guardò in basso e cercò di capire. Era successo qualcosa che andava molto al di là della sua immaginazione. Guardò in alto e vide un'immensa parete bianca e liscia, con ai bordi lembi di bosco, come pelle scorticata. «Prima che arrivasse la Società» raccontava Erminia, «di notte si sentiva la ninna nanna del torrente, che scorreva libero. Poi un'estate l'acqua della diga cominciò a crescere, coprì i campi e inghiotti il fiume».

Mettevano l'acqua, la toglievano e man mano che saliva il Toc si faceva sentite, perché non gli piaceva stare con i piedi bagnati. Scosse e tonfi, di giorno e di notte, si perdevano nell'acqua cupa e sempre più torbida del lago artificiale, una massa spaventosa profonda più di settecento metri.

«"La casca'. diseva Celeste, "il so e so se magna i pié della montagna". Ghemo spetà mesi la frana».

In alto, disse, vicino alla punta del Toc, gli alberi avevano cominciato a pendere. Nei pascoli e nel bosco c'erano fessure da metterci il braccio dentro. Le antiche frane, in bilico da secoli, ricominciavano a scendere.

«Il terreno tiene», assicurava la Società, è solo «attività di assestamento sismico delle valli friulane». C'era da finire l'impianto e venderlo allo Stato, dimostrare che la diga più alta del mondo resisteva, vanto del genio tecnico italiano.

«Pensava solo al manufato» disse la vecia «solo a quelo».

Il vento si era svegliato sulle punte degli alberi. C'era un silenzio insopportabile, come l'acqua che un tempo premeva contro la diga e contro la montagna, gigante dai piedi d'argilla e l'anima di granito. Enrico rabbrividì. Un ramo secco ciondolava nella brezza.

«Adesso casca» pensò, «adesso si stacca».

«Che vento quella sera!» disse Erminia indicando il versante opposto. «Io ero laggiù, nella malga con mio figlio. Le bestie brontolavano e muggivano. Di colpo ho sentito la terra che tremava, un grande martello sotto i piedi. Sono corsa fuori, era buio. Ho visto le scintille su Erto, un corto circuito che illuminava a giorno la valle. Ho visto... non so, c'è stato ancora un boato e un attimo di silenzio. Mi son detta: è qualcosa di mostruoso che sta succedendo. Tutto fermo in attesa che si squarciasse il cielo, e dalle nuvole uscissero gli angeli con le trombe del giudizio».

«Poi, non volevo credere ai miei occhi. Il bosco sopra Erto ha cominciato a scendere! Con tutti gli alberi, le case che jera sopra e le bestie e i cristiani... Paralizzata. Sembrava, non so dire... sembrava un film, un cartone per bambini... Prima lento, poi più svelto. E un rumore...! Dio scarparo! Sempre più veloce, sempre più in fretta, gli abeti, gli stavoli, i muggiti, un vento che toglieva il respiro. È venuto giù tutto... Il bosco è venuto giù, è sceso come un bambino sullo scivolo, è risalito verso di me per quattrocento metri. Credevo di sognare, mi son detta "Son morta". Mi no so. Ho perso coscienza. Poi ho guardato ancora, l'acqua del lago s'era alzata, e una lingua di fango ha raspato via Erto e le frazioni basse. E un'altra onda, come quando si versa l'acqua dal catino, ha scavalcato la diga ed è andata giù nella gola, a mischiarsi con quella del Piave!»

La frana aveva sfiorato il paese e riempito a fondovaLle, fermandosi suLl'altro versante. Il lago era saltato fuori, un mare di acqua di torrente era volata giù, cinquantotto milioni di metri cubi, ogni metro un colpo di martello di una tonnellata sul paese in riva al Piave. Di tanta furia rimanevano due profonde pozzanghere, di qua e di là della collina.

«Sa una cosa?» aggiunse Erminia. «Non l'ho mai più sognata queLl'acqua. Ma il vento si, ogni notte sento quel vento e quell'odore di terra mossa, e la pace che c'era quando s'è alzata la luna e ho visto che non c'era più niente. Così mi sono seduta un attimo a riprender coraggio e ho aspettato che arrivassero i carabinieri, gli altri, tutti... Si... Aaaccchh!»