Copertina
Autore Jean-Christophe Grangé
Titolo Il giuramento
EdizioneGarzanti, Milano, 2008, Narratori moderni , pag. 682, cop.ril.sov., dim. 15x22x4,8 cm , Isbn 978-88-11-68625-5
OriginaleLe serment des limbes
EdizioneAlbin Michel, Paris, 2007
TraduttoreDoriana Comerlati
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe narrativa francese , thriller
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Pagina 9

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Né vita, né morte.

Eric Svendsen aveva una passione per le formule e io lo odiavo per questo. Perlomeno oggi. Per me, un medico legale doveva limitarsi a un rapporto tecnico, netto e preciso. Basta. Ma lo svedese non poteva farne a meno: declamava le sue frasi, ne cesellava la costruzione...

«Luc si sveglierà fra poco», continuò. «Oppure mai. Il suo corpo funziona, ma la sua mente è a un punto morto. In bilico fra due mondi.»

Ero seduto nella sala d'aspetto del reparto di rianimazione. Svendsen stava in piedi, in controluce.

«Ma dov'è successo?» domandai.

«Alla sua casa di campagna, vicino a Chartres.»

«Perché l'hanno trasferito qui?»

«Quelli di Chartres non erano attrezzati per tenerlo in rianimazione.»

«Ma perché qui, all'Hòtel-Dieu?»

«Hanno creduto di far bene. Dopotutto l'Hòtel-Dieu è l'ospedale dei poliziotti.»

Mi acquattai sul sedile. Un nuotatore olimpionico pronto a tuffarsi. L'odore del disinfettante proveniente dalla doppia porta chiusa si mescolava al calore dell'ambiente e mi dava la nausea. Nella mia testa le domande si rincorrevano.

«Chi l'ha trovato?»

«Il giardiniere. Ha rinvenuto il corpo nel fiume, accanto alla casa. L'ha ripescato in extremis. Erano le otto del mattino. Per fortuna il SAMU, il pronto intervento sanitario, non era lontano. Sono arrivati giusto in tempo.»

Immaginavo la scena. La casa di Vernay, il prato che si apriva sui campi, il fiume mezzo nascosto dalle erbe che segnava il confine con il sottobosco. Ci avevo passato tanti di quei weekend... Pronunciai la parola proibita: «Chi ha parlato di suicidio?».

«Quelli del SAMU. Hanno steso un rapporto.»

«Perché non potrebbe essersi trattato di un incidente?»

«Il corpo era zavorrato.»

Alzai gli occhi. Svendsen aprì le mani in segno di costernazione. La sua sagoma sembrava ritagliata nella carta nera. Corpo filiforme e capigliatura crespa tonda come una pallina di vischio. «Attorno alla vita Luc aveva dei blocchi di cemento fissati con filo di ferro. Una specie di cintura da immersione.»

«Perché non un delitto?»

«Non dire scempiaggini, Mat. Avremmo ritrovato il corpo con tre pallottole nella pancia. Invece nessuna traccia di violenza. Si è buttato, e bisogna accettarlo.»

Pensai a Virginia Woolf, che si era riempita le tasche di pietre prima di lasciarsi andare a fondo in un fiume del Sussex, in Inghilterra. Svendsen aveva ragione. Il luogo stesso in cui la cosa era accaduta era una confessione. Qualunque poliziotto della Squadra si sarebbe ficcato una pallottola nella tempia, usando l'arma di servizio. Luc aveva il senso del cerimoniale, e dei luoghi sacri. Vernay, quel casale che si era dissanguato a pagare, restaurare, arredare. Un santuario perfetto.

Il medico legale mi posò una mano sulla spalla. «Non è il primo poliziotto a mettere fine ai suoi giorni. State tutti sull'orlo dell'abisso e...»

Altre frasi: non ascoltavo più. Pensavo alle statistiche. Erano un centinaio i poliziotti francesi che l'anno precedente si erario tirati un colpo. Ai nostri tempi il suicidio era ormai un modo come un altro per mettere fine alla carriera.

L'oscurità del corridoio sembrò farsi più profonda. Odore di etere, caldo soffocante. Da quanto tempo non avevo parlato con Luc? Quanti mesi erano passati senza che ci incrociassimo? Guardai Svendsen. «E tu, che ci fai qui?»

Si strinse nelle spalle. «Mi hanno portato un cadavere, alla Rapée. Uno scassinatore che ha avuto un attacco, in piena azione. I ragazzi che l'hanno condotto da me tornavano dall'Hòtel-Dieu. Mi hanno parlato di Luc. Ho piantato tutto in asso per venire qui. Dopotutto, i miei clienti possono aspettare.»

Come un'eco alle sue parole risentii la voce di Foucault, il mio vice, che mi aveva telefonato un'ora prima: «Luc si è suicidato!». L'emicrania mi martellava la testa.

Osservai meglio Svendsen. Senza il camice bianco non sembrava del tutto reale. Ma era proprio lui: naso piccolo e adunco, occhialini tipo pince-nez. Un medico dei morti al capezzale di Luc... Gli avrebbe portato iella.

La doppia porta di servizio si aprì per lasciare passare un medico tarchiato, tutto stazzonato nel suo camice verde. Lo riconobbi subito: Christophe Bourgeois, anestesista-rianimatore. Due anni prima aveva tentato di salvare un magnaccia di tendenze schizoidi che aveva sparato nel mucchio durante una rissa nel XVIII arrondissement, in rue Custine. Aveva steso due agenti prima che una pallottola calibro 45 gli attraversasse il midollo spinale – quella pallottola l'avevo sparata io.

Mi alzai e gli andai incontro.

«Ci conosciamo, no?» disse aggrottando le sopracciglia.

«Mathieu Durey, comandante alla Criminale. Il caso Benzani, marzo 2000. Un malavitoso ucciso da una pallottola, deceduto qui. Ci siamo rivisti al tribunale di Créteil, l'anno scorso, per il processo in contumacia.»

L'uomo fece un movimento come per dire: «Ne vedo talmente tante...». Aveva i capelli folti e bianchi. Capelli che non erano sinonimo di vecchiaia, ma piuttosto di vitalità e seduzione. Lanciò un'occhiata verso il reparto di rianimazione.

«Si trova qui per il poliziotto in coma?» chiese.

«Luc Soubeyras è il mio migliore amico.»

Fece una smorfia, come se gli annunciassero una grana supplementare.

«Se la caverà?»

Il medico si sciolse i lacci del camice dalla schiena. «È già un miracolo che il cuore si sia rimesso a funzionare», decretò. «Quando lo hanno ripescato era morto.»

«Vuole dire che...»

«Morte clinica. Se l'acqua non tosse stata così fredda non ci sarebbe stato niente da fare. Ma l'organismo si è messo in ipotermia, rallentando l'irrorazione del corpo. Quelli di Chartres hanno avuto un'incredibile presenza di spirito. Hanno tentato l'impossibile riscaldandogli il sangue. E l'impossibile si è realizzato. Una vera resurrezione.»

«Come sarebbe a dire?»

Svendsen, che si era avvicinato, intervenne: «Poi te lo spiego».

Lo fulminai con lo sguardo. Il medico consultò l'orologio.

«Non ho molto tempo adesso.»

La collera mi accecò. «Il mio migliore amico è in agonia nella stanza accanto. Aspetto che lei mi spieghi!»

«Mi perdoni», disse il medico con un sorriso. «Per il momento la diagnosi non è completa. Stanno facendo dei test per valutare la profondità del coma.»

«Fisicamente, come sta?»

«La vita ha ripreso il suo corso, ma non si può fare assolutamente niente per svegliarlo... E se si sveglia non si sa in quale stato sarà. Tutto dipende dalle lesioni cerebrali. Il suo amico ha attraversato la morte, capisce? Il suo cervello è rimasto senza ossigeno, il che probabilmente ha provocato dei danni.»

«Esistono diversi tipi di coma, no?»

«Sì, è così. Lo stato vegetativo, nel quale il paziente reagisce a certi stimoli, e il coma vero e proprio, l'isolamento totale. Il suo amico sembra tenersi in equilibrio fra i due. Ma dovrebbe parlare con Eric Thuillier, il neurologo.» Presi nota sul taccuino. «È lui che attualmente dirige i test. Prenda appuntamento per domani.»

Gettò un'altra occhiata all'ora e aggiunse a bassa voce: «Un'altra cosa... Non ho osato chiederlo alla moglie, ma il suo amico si drogava, vero?».

«Assolutamente no. Perché?»

«Abbiamo notato delle tracce di punture, nella piega del gomito.»

«Forse faceva una cura...»

«La moglie dice di no. È categorica.»

Il medico si tolse il camice, poi mi tese la mano. «Adesso devo proprio andare. Mi aspettano in un altro reparto.»

Gli strinsi la mano e vidi le porte riaprirsi. Laure, la moglie di Luc. Anche lei portava un camice di carta e una cuffia arricciata intorno alla fronte. Avanzava barcollante. Mi affrettai verso di lei. Laure si ritrasse, come se la mia voce o la mia presenza le facessero paura. Aveva un'espressione fredda, indecifrabile.

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Non risposi. Gli ultimi tempi, a Saint-Michel, Luc era cambiato. Sarcastico più che mai, la sua familiarità con la fede si era trasformata in presa in giro, in una costante ironia. Non avrei più potuto scommettere sulla sua vocazione. Dopo avermi offerto una Gauloise ed essersene accesa una, mi domandò su cosa facessi la tesi.

«Sulla nascita della letteratura cristiana. Tertulliano, Cipriano...»

Emise un fischio d'ammirazione.

«E tu?»

«Mah! Forse sul diavolo.»

«Il diavolo?»

«Il diavolo come forza trionfante del secolo, sì.»

«Ma piantala!»

Luc s'infilò tra alcuni gruppi di studenti e si diresse verso i giardini in fondo al cortile. E io dietro.

«Da qualche tempo m'interesso alle forze negative», disse.

«Quali forze negative?»

«Secondo te, perché Cristo è sceso sulla terra?»

Non risposi. La domanda era troppo grossolana.

«È venuto per salvarci», proseguì lui. «Per riscattare i nostri peccati.»

«E allora?»

«Allora il male c'era già. Molto prima di Cristo. Insomma, c'era da sempre. Ha sempre preceduto Dio.»

Liquidai la riflessione con un gesto. Non avevo fatto quattro anni di teologia per tornare a ragionamenti così terra terra. «Dov'è la novità?» replicai. «La Genesi comincia con il serpente e...»

«Non sto parlando della tentazione, ma della forza dentro di noi che risponde alla tentazione. Che la legittima.»

I prati erano disseminati di foglie morte. Piccole chiazze bistro od ocra, lentiggini dell'autunno.

«A partire da sant'Agostino», tagliai corto, «si sa che il male non ha alcuna realtà ontologica.»

«Nella sua opera Agostino usa la parola "diavolo" 2300 volte. Senza contare i sinonimi...»

«Come figura, simbolo, metafora... Bisogna tenere conto dell'epoca. Ma per Agostino Dio non può avere creato il male. Il male non è che un'assenza di bene. Una défaillance. L'uomo è fatto per la luce. E la luce, perché è coscienza di Dio. Ha solo bisogno di essere guidato, di essere talvolta richiamato all'ordine. "Tutti gli esseri sono buoni perché il creatore di tutti è, senza eccezioni, supremamente buono"...»

Luc sospirò.

«Se Dio è grande, come spieghi che sia sempre tenuto in scacco da una semplice "défaillance"? Come spieghi che il male sia dappertutto, e che ogni volta trionfi? Cantare la gloria di Dio vuol dire cantare la grandezza del male.»

«Stai bestemmiando.»

«La storia dell'umanità», disse Luc fermandosi e girandosi verso di me, «non è che la storia della crudeltà, della violenza, della distruzione. Nessuno può negarlo. Come lo spieghi?»

Non mi piaceva il suo sguardo dietro le lenti. Gli occhi gli brillavano di una luce febbrile, malata. Mi rifiutai di rispondere, per non trovarmi a confronto con quell'enigma vecchio quanto il mondo: il versante violento, malefico, disperato dell'umanità.

«Te lo spiego io», riprese lui posandomi la mano sulla spalla.

«La ragione è che il male è una forza reale. Una potenza grande almeno quanto il bene. Nell'universo, due forze antitetiche lottano per il predominio. E la battaglia è tutt'altro che vicina alla fine.»

«Si direbbe che siamo tornati al manicheismo.»

«E perché no? Tutti i monoteismi sono dualismi mascherati. La storia del mondo è la storia di un duello. Senza l'arbitro.»

Le foglie scricchiolavano sotto i nostri passi. Il mio entusiasmo per la ripresa delle lezioni si era dileguato. Avrei volentieri fatto a meno di questo incontro. Accelerai il passo verso l'ufficio delle iscrizioni.

«Non so cosa tu abbia studiato in questi ultimi anni», dissi, «ma sei caduto nell'occultismo.»

«Ti sbagli», disse, «sono incappato nelle scienze moderne! Il male è in azione dappertutto. Sia come forza fisica che come moto psichico. La legge degli equilibri: semplicissimo.»

«Sfondi delle porte aperte.»

«Queste porte si dimenticano troppo spesso con il pretesto della complessità, della profondità. A livello cosmico, per esempio, il potere negativo regna sovrano. Pensa alle esplosioni di energia delle stelle, che finiscono per diventare dei buchi neri, degli abissi negativi, che nella loro scia aspirano ogni cosa...»

Capii che Luc stava già preparando la tesi. Lavorava a non so quale delirio sul rovescio del mondo. Una sorta di antologia del male universale.

«Prendi la psicanalisi», proseguì gesticolando. «Di cosa si occupa? Del nostro versante oscuro, dei nostri desideri proibiti, del nostro bisogno di distruzione. O il comunismo, to'. Bella idea all'inizio. Per arrivare a cosa? Al più grande genocidio del secolo. Qualsiasi cosa si faccia, qualsiasi cosa si pensi, si torna sempre alla nostra parte maledetta. Il XX secolo ne è il manifesto supremo.»

«Potresti raccontare in questa maniera qualsiasi avventura umana. È troppo semplicistico.»

Luc accese una sigaretta dal mozzicone. «Perché è universale. La storia del mondo si riassume in questa lotta fra due forze. Per uno strano difetto dello sguardo, il cristianesimo, che tuttavia ha dato un nome al male, vuole farci credere che si tratta di un fenomeno secondario. Non si guadagna niente a sottovalutare il proprio nemico!»

Ero arrivato all'ufficio amministrativo. Salii il primo gradino e chiesi irritato: «Cosa vuoi dimostrare?».

«Dopo la tesi, entri in seminario?»

«Durante la tesi, vorrai dire. L'anno prossimo conto di andare a Roma.»

Un ghigno gli deformò la faccia. «Ti ci vedo proprio mentre predichi in una chiesa semivuota, davanti a una manciata di vecchi. Non corri grandi rischi scegliendo questa strada. Mi fai pensare a un medico che si cerca un ospedale di pazienti in perfetta salute.»

«Cosa suggerisci?» gridai di colpo. «Che diventi missionario? Che parta a convertire degli animisti ai tropici?»

«Il male», replicò Luc in tono calmo. «Ecco la sola cosa importante. Servire il Signore vuol dire combattere il male. Non ci sono alternative.»

«E tu, cosa farai?»

«Vado sul campo. A guardare il diavolo negli occhi.»

«Rinunci al seminario?»

Luc strappò le carte per l'iscrizione. «Certo», disse. «E anche alla tesi. Te la sei bevuta, eh? Non ho nessuna intenzione di mettere la firma quest'anno. Sono venuto solo per ritirare un certificato. Questi idioti mi hanno rifilato i moduli d'iscrizione perché mi hanno preso per un fessacchiotto come te.»

«Un certificato? Per cosa?»

Luc aprì le mani. I frammenti di carta si sparpagliarono tutto intorno, raggiungendo le foglie morte. «Parto per il Sudan. Con i Padri Bianchi. Missionario laico. Voglio affrontare la guerra, la violenza, la miseria. Il tempo delle parole è finito. Largo ai fatti!»

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Quando ho scoperto il Ruanda, il paese non esisteva più. In ogni caso per il resto del mondo. Una delle nazioni più povere del pianeta, ma senza guerre né carestie, senza catastrofi naturali; niente che motivi l'organizzazione di un concerto rock o l'attenzione dei media.

Arrivo lì nel febbraio 1993. Tutto è già scritto. Il Ruanda vive nell'energia dell'odio, così come un moribondo si regge in piedi a forza di nervi. Un odio che oppone la minoranza tutsi, popolo dalla corporatura slanciata, elegante, alla popolazione hutu, gente tarchiata, di bassa statura, che rappresenta il 90 per cento degli abitanti del paese.

Comincio il mio lavoro umanitario fra i tutsi oppressi. Dall'altra parte, i miliziani hutu sono armati di fucili, di manganelli e, già allora, di machete. Ai quattro angoli del paese colpiscono, uccidono, bruciano le capanne dei tutsi, nella più assoluta impunità. Nell'ambito dell'organizzazione Terre di speranza attraversiamo il paese con viveri e medicinali, costretti a lunghe trattative a ogni posto di blocco hutu, arrivando sempre troppo tardi. Senza contare le gioie dell'organizazzione umanitaria: gli errori di consegna, i ritardi delle merci, le sabbie mobili amministrative...


Fine del 1993.

Le vie di Kigali risuonano dei messaggi di odio della RTLM (Radio-Televisione Libera delle Mille Colline), organo hutu che chiama al massacro degli «scarafaggi». Quella voce mi perseguita fino al dispensario dove dormo. Rimbomba nelle strade, negli edifici, s'infiltra nelle crepe dei muri, nell'aria afosa.

1994.

Le premesse del genocidio si moltiplicano. Vengono importati 500.000 machete. I posti di blocco sono sempre più numerosi. Racket, violenza, umiliazioni... Niente può fermare lo «Hutu Power». Né il governo, né l'ONU che ha inviato una forza impotente. E la voce delle Mille Colline continua: Quando il sangue è colato, non si può più raccoglierlo. Ne sentiremo presto parlare. Il popolo è il vero esercito. Il popolo è la forza!

Prego ogni mattino, ogni sera. Senza speranza. In questo paese per il 90 per cento cattolico, Dio ci ha abbandonati. Questo abbandono è iscritto nella laterite rossa. Traspare dalla voce dell'abominevole radio. Ecco i nomi dei traditori: Sebukiganda, figlio di Butete, che vive a Kidaho; Benakala, quello che tiene il bar... Tutsi: vi accorceremo le gambe!


Aprile 1994.

L'aereo del presidente Juvénal Habyarimana salta in aria.

Nessuno sa chi ha fatto il colpo. Forse il fronte ribelle tutsi, in esilio, oppure gli estremisti hutu che ritengono troppo debole il loro presidente. Oppure una forza straniera, per oscuri interessi. In ogni caso, è il segnale del massacro. State ascoltando la RTLM. Stamattina mi sono fatto uno spinello. Saluto i ragazzi del posto di blocco... Non un solo scarafaggio deve sfuggirvi!

A ogni sbarramento vengono chiesti i documenti, i tutsi sono identificati e poi gettati nelle fosse appena scavate. Nel giro di tre giorni si contano parecchie migliaia di morti nella capitale. Gli hutu si organizzano. Si sono posti un obiettivo: mille morti ogni venti minuti!

A Kigali s'innalza un rumore che non dimenticherò mai. Il rumore dei machete sfregati contro il manto stradale, in segno di minaccia, in segno di gioia. Le lame stridono contro l'asfalto, prima di abbattersi sui corpi. Le lame insanguinate urlano dopo avere colpito...

Le rappresentanze diplomatiche straniere vengono evacuate. Noi di Terre di speranza decidiamo di restare. Ci sistemiamo al Centro di scambi culturali franco-ruandesi, dove i soldati francesi hanno fissato la loro base. Dei tutsi vengono qui a nascondersi, in cerca di protezione, ma i soldati se ne stanno già andando. Devo spiegare ai rifugiati che non c'è più niente da fare. Devo spiegare loro che Dio è morto.

Riesco a partire in ricognizione con gli ultimi Caschi blu di Kigali: l'ONU ha richiamato il 90 per cento delle sue truppe. Solo allora scopro i carnai che bloccano le strade, i ponti di cadaveri con i pantaloni abbassati. Sento nelle ossa le scosse dei corpi che sobbalzano sotto le ruote. Vedo i villaggi distrutti, dove il sangue scorre a fiumi. Vedo le donne incinte sventrate, i feti schiacciati contro gli alberi. Vedo le ragazze violentate, le scelgono vergini, per non prendersi l'AIDS. Sono prima violate per il piacere, poi con bastoni, con bottiglie, che vengono frantumate all'interno della vagina.

Non so dare una data precisa alla mia prima crisi.

Alla fine del mese di maggio, forse, quando avvengono le operazioni di pulizia, quando si bruciano con il diesel i cadaveri putrefatti. O forse più tardi, quando prende il via l'operazione Turchese, la prima azione umanitaria importante, organizzata in Ruanda sotto la bandiera francese. Una certezza: la crisi inizia nei campi di rifugiati, là dove la malattia e il marciume prolungano il genocidio.

Comincia con la paralisi del braccio sinistro. Si pensa a un infarto, ma un medico di Medici senza frontiere dà il suo verdetto: non esiste una causa organica ai miei sintomi. In altre parole, succede tutto nella mia testa. Rimpatrio. Destinazione: Centro ospedaliero Sainte-Anne, a Parigi.

Non ce la faccio. Non so più parlare. Ho creduto di incassare l'orrore, di tollerare il sangue. Ho pensato di averlo assimilato, come un uomo che arriva a vivere con una pallottola dentro il cervello. Mi sono sbagliato.

Comincia il rigetto. Il rigetto è questa paralisi. Primo segno di una depressione che mi stritolerà.

Al Sainte-Anne cerco di pregare. Ogni volta mi sciolgo in lacrime. Piango, come non ho mai pianto. Tutto il giorno. Con un misto di sofferenza e di sollievo. Al mio dolore morale fa eco un sopimento fisico. Quasi animale.

Sostituisco la preghiera con le pillole, il che mi sembra completare la mia distruzione. La mia percezione del mondo è la mia fede. Influenzare questa percezione equivale a barare con la mia coscienza, dunque con Dio. Ma ce l'ho ancora la fede? Non sento più nessuna convinzione, nessun freno, nessuna protezione. Basterebbe che mi aprissero una finestra davanti e salterei nel vuoto.

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Ripresi la strada, pensando al terzo uomo: Thomas Longhini, il ragazzino scomparso. Dovevo ritrovarlo, urgentemente. Ascoltai la segreteria del cellulare. Niente messaggi da parte di Foucault.

Giù in basso, la vallata di Sartuis e i suoi edifici variopinti si accendevano nel crepuscolo. Notai un gruppo di edifici dai toni più sobri. Delle ville tradizionali, circondate da giardini. Le loro grandi superfici vetrate erano immerse nell'ombra, ma i vasistas, sui tetti, scintillavano ancora. Quelle residenze erano tutte orientate a est. Questo fatto mi ricordò un particolare che avevo letto sulla guida.

Un tempo, gli atelier degli orologiai guardavano sempre verso est, in modo da approfittare del sole il prima possibile la mattina. Gli artigiani dell'alto Doubs, che erano anche agricoltori, si mettevano al lavoro all'alba, prima di occuparsi dei campi. Questa idea ne richiamò un'altra: la Casa degli orologi di Sylvie doveva trovarsi in quel quartiere. Verificai nei miei appunti. Chopard mi aveva fornito l'indirizzo: 42, rue des Chênes.

Valeva la pena fare una deviazione.

Le costruzioni ristrutturate esibivano una profusione di frontoni spezzati, rivestimenti di legno, colombai. I giardini erano rigogliosi, le automobili parcheggiate lungo i marciapiedi o nei box aperti erano tutte di marca tedesca: Audi, Mercedes, BMW. Non c'era bisogno di essere un'aquila per indovinare che quel quartiere residenziale era abitato dall'élite delle ditte di micromeccanica o di giocattoli che in queste valli avevano rimpiazzato l'attività orologiaia.

Mi ritrovai in una strada che saliva all'assalto di una collina: rue des Chênes. I riverberi si diradavano, le ville si facevano rare, i parchi che le circondavano sempre più vasti. Scalai la marcia e mi arrampicai nell'oscurità.

La Casa degli orologi era l'ultima, arretrata rispetto alla strada. Un blocco massiccio, con un tetto dalle falde molto inclinate che formavano una piramide d'ombra. All'altezza del primo piano i muri erano rivestiti di tavole di legno, mentre al piano terra erano intonacati di bianco. Mi aspettavo una sorta di castello stravagante, un portone nero, delle torri incombenti. La casa evocava invece una grossa fattoria di quelle parti, dotata di un garage sulla destra, in fondo al pendio.

La superai senza rallentare, salii fino a una rotonda e m'infilai in una stradina senza uscita, dove parcheggiai sotto gli alberi. Nessuno in vista. Ridiscesi verso l'oggetto del mio interesse, attraverso i campi, lontano dalle luci.

Capitai dalla parte della facciata posteriore. Niente porte. Verificai tutte le imposte sbarrate. Una non era perfettamente chiusa. Infilai la mano nella fessura, trovai il gancio e liberai lo scuro. Dietro c'era una finestra basculante. Tentai d'insinuarvi le dita. Niente da fare. All'interno, la maniglia era abbassata: il telaio era bloccato.

Optai per un intervento decisivo. Raccolsi una pietra, l'avvolsi nel cappotto e colpii il vetro con un colpo secco. Il vetro andò in pezzi. Infilai il braccio nel buco e alzai la maniglia. Qualche secondo dopo ero all'interno. Richiusi l'imposta e posai sul pavimento i frammenti di vetro che avevo raccolto all'esterno. Con un po' di fortuna, sarebbero passate settimane prima che qualcuno notasse l'intrusione.

Restai immobile, per abituarmi all'atmosfera del luogo. Lontano, un cane abbaiò. Non sapevo in che parte della casa mi trovavo. Il silenzio, il buio mi facevano l'effetto di un'immersione improvvisa in acque ghiacciate. A poco a poco gli occhi si adattarono all'oscurità.

Davanti a me, un corridoio. Alla mia destra, una scala. A sinistra, delle porte chiuse.

Seguii il corridoio e raggiunsi il soggiorno. Un ambiente vasto, aperto fino al tetto. In alto si snodava un ballatoio che probabilmente dava accesso alle camere. Niente mobili, tranne qualche scaffale di metallo e un grande tavolo da lavoro inclinato vicino alla portafinestra.

Una serie di pendole, carillon e clessidre ornavano gli scaffali. Mi avvicinai. Non sapevo niente in materia, ma a naso distinsi varie epoche; antichi quadranti solari, clessidre medievali, orologi con i meccanismi a vista, cerchi dorati sostenuti da angioletti: si andava dal rinascimento all'età classica o al periodo dell'illuminismo. C'era anche una vetrina di orologi da taschino, di fogge e materiali diversi: argento cesellato, zinco patinato, smalto colorato... Neanche un tic-tac, silenzio totale.

Come dappertutto a Sartuis, anche qui il tempo si era fermato.

Attraversai la stanza e mi avvicinai al tavolo da lavoro, di fronte alla portafinestra. Vi erano ancora radunati gli strumenti di precisione, come se Sylvie avesse appena completato una regolazione. Mantici, pinze, punte così sottili da far pensare a un set di microchirurgia. Posai la mano sullo schienale di cuoio del sedile. Immaginai Sylvie, china sugli ingranaggi, a manipolare le maglie del tempo, mentre nasceva il sole.

Tornai nel corridoio e aprii la prima porta. Una sala da pranzo, arredata all'antica. Mobili massicci, tavolo rotondo coperto da un drappo bianco, parquet tirati a cera. Chi pagava per tenere in ordine la casa? A chi spettavano tutti questi beni? Mi domandai se Sylvie Simonis avesse ancora dei lontani parenti. O se fosse la famiglia acquisita, e detestata, che avrebbe ereditato.

Azionai l'interruttore a parete. La luce invase la stanza. Per riflesso, gettai uno sguardo alle imposte chiuse: nessun rischio che mi scorgessero dall'esterno. Perquisii ogni mobile, tempo sprecato. Servizi da tavola, posate, tovaglie, tovaglioli. Non un solo oggetto personale. Spensi la luce e lasciai la sala.

La seconda porta si apriva sulla cucina. Anche questa linda, neutra. Piastrelle scintillanti, piatti immacolati. Le alte credenze di legno erano piene di utensili da cucina, di elettrodomestici di ultima generazione. Non una fotografia alle pareti, non un promemoria sul frigorifero. Avrebbe potuto essere un appartamento in affitto già ammobiliato.

Tornai sui miei passi e salii la scala. In alto, il ballatoio dava accesso a due stanze, totalmente vuote, e poi a una terza: quella di Sylvie, lo intuivo. Mobili della regione, lucidi e scuri. A terra, un parquet spoglio, senza tappeti. Alle pareti, intonaco grezzo. Quanto al letto, un telaio di rovere, senza materasso né piumino. Aprii i cassetti, gli armadi. Vuoti. Qualcuno aveva passato al setaccio la stanza. I gendarmi? I legatari della casa?

Un'occhiata all'orologio: le sette e dieci. Più di mezz'ora che mi aggiravo lì dentro senza il minimo risultato. Alla fine del ballatoio trovai un'altra scala, ripida e stretta. Mi arrampicai fino al granaio ristrutturato, il cui soffitto mansardato era tappezzato di lana di vetro. Due vasistas si aprivano sul tetto. Qui non potevo accendere la luce, ma ci vedevo a sufficienza.

Doveva essere l'ufficio di Sylvie. Sul pavimento, una moquette in tinta écru. Alle pareti, pannelli di tessuto chiaro. Il mobilio si riassumeva in un ripiano posato su due cavalletti, qualche classificatore, un armadio. Ci guardai dentro. Gli scomparti erano vuoti. Lì doveva esserci stata la contabilità di Sylvie, le sue carte, ma tutto era stato ripulito.

Malgrado il freddo, il mio corpo si surriscaldava. Il cappotto pesava tonnellate, la camicia mi s'incollava alla pelle. Un non so che mi tratteneva ancora. Sentivo che c'era nascosto qualcosa in quella casa. Un posto segreto dove Sylvie aveva conservato tutto ciò che era legato alla morte di sua figlia.

Un'idea.

Ridiscesi nel soggiorno e aprii con precauzione le vetrine. Gli orologi. I piedistalli. Le casse. Recessi e profondità per dissimulare un segreto. Maneggiai le pendole, sollevandole, scuotendole, aprendone le viscere. Alla quinta, trovai un cassetto inserito nella base. L'aprii e non credetti ai miei occhi: un'audiocassetta. Pensai alle registrazioni delle telefonate dell'assassino. Afferrai il bottino e riposi l'orologio. Una prima scoperta. Altri oggetti dovevano contenere ulteriori indizi...

Sentii la canna di un'arma piantata nella nuca.

«Non si muova.»

Rimasi pietrificato.

«Si giri lentamente e metta le mani sul tavolo.»

Riconobbi la parlata. Stéphane Sarrazin.

«Pensavo che ci fossimo messi d'accordo, lei e io.»

Ruotai di trenta gradi e feci atterrare le mani sul tavolo da lavoro. L'altro mi perquisì rapidamente e s'impossessò della mia automatica.

«Si giri. Faccia verso di me.»

I suoi capelli neri si stagliavano netti sulla fronte. Gli occhi ravvicinati tracciavano, con l'ala del naso, una croce oppure un pugnale. Assomigliava a Diabolik, l'eroe dei fumetti. Impugnava un'automatica in ogni mano.

«Violazione di domicilio. Distruzione d'indizi. È messo male.»

«Quali indizi?» Tenevo la cassetta nella mano chiusa. «Avete già setacciato tutto qui.»

«Non ha importanza. Il giudice Magnan apprezzerà.»

«Perché diffidare di me? Perché rifiutare il mio aiuto?»

«Il suo aiuto?»

«Siete in un vicolo cieco. Quattordici anni fa i suoi colleghi non hanno trovato niente. E anche ora non avete avuto alcun risultato. Il caso Simonis è un enigma.»

Sarrazin scosse la testa con indulgenza. Portava il maglione blu d'ordinanza, sbarrato da una riga bianca. I suoi galloni scintillavano nel buio.

«Le avevo detto di sparire», disse rinfoderando l'arma e infilandosi la mia alla cintura.

«Perché non collaborare, fare squadra?»

«Ha la testa dura. Cosa gliene frega del caso Simonis?»

«Glielo ripeto. Quest'indagine interessava a un amico.»

«Balle. Se il suo amico fosse venuto qui a svolgere delle indagini lo avrei incontrato.»

«Forse era più discreto di me. Sembra che nessuno l'abbia visto.»

Il gendarme si girò verso la portafinestra, le mani dietro la schiena. Si ammorbidiva. Fuori, Sartuis affondava nelle tenebre.

«Durey, la porta è alle sue spalle. Venga domattina a prendersi l'arma alla gendarmeria e sparisca. Se a mezzogiorno è ancora a Sartuis, chiamo il Proc.»

Indietreggiai verso il corridoio, fingendo un misto di collera contenuta e di docilità. Aprii la porta principale e mi beccai una violenta raffica di vento in faccia. Seguii la strada fino alla rotonda, senza tagliare per i campi.

La notte era pura e chiara. Il cielo sfolgorava di stelle. Raggiunsi la strada senza uscita dove avevo lasciato l'auto. Lanciai uno sguardo dietro di me, in direzione della casa. Sulla soglia, Stéphane Sarrazin mi osservava, in posizione marziale.

M'infilai in macchina e arrischiai un sorriso.

La cassetta era sempre nella mia mano.

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