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| << | < | > | >> |Pagina 31900Sono stato presente anno dopo anno, dando il cambio a me stesso. Non sempre in prima linea, in quanto, visto che di guerre ce n'erano in continuazione, quelli come noi si ritiravano volentieri nelle retrovie. All'inizio però, quando partí la spedizione contro i cinesi e il nostro battaglione era schierato a Bremerhaven, mi trovavo in prima fila nel blocco di mezzo. Quasi tutti erano volontari, ma da Straubing mi ero presentato soltanto io, sebbene da poco fidanzato con Resi, la mia Therese. Pronti a imbarcarci, avevamo l'edificio del Norddeutscher Lloyd alle spalle e il sole in faccia. Davanti a noi c'era il Kaiser su un alto podio e parlava in tono risoluto sopra le nostre teste. Nuovi cappelli a larga tesa, chiamati sud-ovest, proteggevano dal sole. Eravamo carini. Invece il Kaiser portava un elmo speciale: un'aquila che brillava sul fondo azzurro. Parlava di grande missione, di nemico spietato. Un discorso trascinante. Disse: «Una volta arrivati, sappiate: nessuna pietà, non si fanno prigionieri...» Poi raccontò di Attila e delle sue orde di unni. Elogiava gli unni, anche se avevano infuriato in modo davvero terribile. Per questo i socialisti, piú tardi, hanno pubblicato le insolenti «lettere degli unni», sparlando miserevolmente del discorso del Kaiser. Alla fine ci affidò l'incombenza per la Cina: «Aprite la strada alla civiltà, una volta per tutte!» Rispondemmo con un triplice hurrà. Per me, che vengo dalla Bassa Baviera, la lunga traversata fu un'esperienza proprio da schifo. Quando finalmente arrivammo a Tientsin, c'erano già tutti: inglesi, americani, russi, persino veri giapponesi e piccole truppe da nazioni minori. Gli inglesi in realtà erano indiani. Noi all'inizio eravamo in pochi, ma per fortuna disponevamo dei nuovi cannoncini da 5 cm a tiro rapido della Krupp. E gli americani collaudavano le loro mitragliatrici Maxim, proprio un aggeggio diabolico. Cosí Pechino fu conquistata rapidamente. Perché quando la nostra compagnia entrò in città, sembrava già tutto finito, un vero peccato. Però alcuni boxer non vollero darsi per vinti. Venivano chiamati cosí perché erano una società segreta di nome «I ho ch'üan», ovvero, nella nostra lingua, «quelli che combattono col pugno». Per questo prima gli inglesi, poi tutti gli altri, parlavano di rivolta dei boxer. I boxer odiavano gli stranieri, perché vendevano ai cinesi ogni genere di merce, gli inglesi di preferenza oppio. E cosí avvenne come il Kaiser aveva comandato: non si fecero prigionieri. Per ragioni d'ordine i boxer furono radunati sulla piazza della porta Chian-Men, proprio davanti al muro che divide la città manciú dal resto di Pechino. Erano legati gli uni agli altri per i codini, una scena buffa. Poi vennero fucilati a gruppi o decapitati singolarmente. Ma sugli aspetti raccapriccianti non ho scritto neanche mezza parola, alla mia fidanzata, solo di uova centenarie e canederli al vapore alla cinese. Gli inglesi, e anche noi tedeschi, erano piú propensi ad andar per le spicce col fucile, mentre i giapponesi, col taglio della testa, seguivano la loro antica tradizione. Però i boxer preferivano la fucilazione, perché temevano di doversi aggirare di lí a poco per l'inferno con la testa sottobraccio. Peraltro non dimostravano nessuna paura. Ne ho visto uno che prima di essere fucilato si mangiava avidamente una tortina di riso inzuppata nello sciroppo. Sulla piazza Chian-Men soffiava un vento che arrivava dal deserto e continuava a sollevare nuvole di polvere gialla. Tutto era giallo, anche noi. Questo l'ho scritto alla mia fidanzata, e le ho messo un po' di sabbia del deserto dentro la lettera. Ma poiché i giustizieri giapponesi tagliavano via il codino ai boxer, che erano ragazzi giovani come noi, per assicurarsi un colpo piú netto, sulla piazza si trovavano spesso, nella polvere, mucchietti di codini cinesi recisi. Uno l'ho raccolto e l'ho mandato a casa come ricordo. Tornato in patria, me lo sono poi messo a carnevale tra il divertimento di tutti, finché la mia fidanzata ha bruciato il regalino. «È roba che ti porta i fantasmi in casa», ha detto Resi due giorni prima delle nozze. Ma questa è già un'altra storia. | << | < | > | >> |Pagina 491918Dopo un breve giro di compere - Jünger fece scorta di sigari, anche di quelli di Brissago; Remarque, dietro mio consiglio, acquistò da Grieder uno scialle di seta per la moglie Paulette - portai i due signori alla stazione con un taxi. Visto che ci restava ancora del tempo, andammo al buffet. Come bicchiere della staffa, proposi un vino bianco leggero. Sebbene in sostanza fosse stato detto tutto, nello spazio di un'ora abbondante saltò fuori qualche altra notizia. Alla mia domanda se nell'ultimo anno di guerra si fossero fatte esperienze con i tank inglesi che venivano impiegati in numero sempre maggiore, entrambi i signori negarono una conoscenza ravvicinata dei loro cingoli, ma Jünger affermò che la sua pattuglia, nel corso di contrattacchi, si era imbattuta in numerosi «colossi bruciacchiati». Si cercava di difendersi coi lanciafiamme e grappoli di bombe a mano. - Quell'arma - disse - stava appena muovendo i primi passi. Il tempo delle puntate veloci e avvolgenti con i panzer doveva ancora arrivare. Ma poi entrambi i signori si rivelarono osservatori di battaglie aeree. Remarque ricordava scommesse fatte dalla visuale delle trincee o delle retrovie: - La posta era una porzione di salsiccia o cinque sigarette, non importa se ad avvitarsi con la scia di fumo fosse un nostro Fokker o un monoposto inglese Spad. Ma riguardo al numero ci superavano comunque. Alla fine, per un nostro aereo ce n'erano cinque inglesi o americani. Jünger confermò: - La superiorità materiale era schiacciante in genere, quella aerea in particolare. Eppure guardavo i nostri ragazzi nei loro triplani con una certa invidia. C'era pur sempre della cavalleria, nelle battaglie aeree. Con quale temerarietà un singolo apparecchio, spuntando dal sole, si sceglieva l'avversario nella formazione nemica! Cosa diceva il motto della squadriglia di Richthofen? Ah sí: «Ferrei, ma folli!» In ogni caso, hanno fatto onore a questo slogan. Spietati eppure leali. Tra l'altro merita di essere letto, Il cacciatore rosso, mio caro Remarque, sebbene verso la fine delle sue vivacissime memorie anche il barone debba ammettere che la bella guerra allegra era già finita nel '16, al piú tardi. Di sotto solo fango e crateri. Tutto era diventato serio, rabbioso. Eppure: valoroso fino alla conclusione, quando tirarono giú anche lui. E questo atteggiamento si manifestò anche di sotto, nella stessa misura. Solo il materiale fu piú forte. Invitti sul campo! si diceva. Ma alle spalle avevamo la rivolta. Se però enumero le mie ferite: almeno quattordici colpi, cinque di fucile, due di schegge di granata, una causata dalla pallottola di uno shrapnel, quattro da attribuire a bombe a mano e due che derivano da altre schegge - tra fori d'entrata e d'uscita fanno piú di venti cicatrici -, arrivo alla constatazione che sí, ne è valsa la pena! Concluse questo bilancio con una sonora risata, per meglio dire, una risata che era insieme senile e giovanile. Remarque sedeva ritirato in se stesso: - Non voglio competere su questo piano. Mi hanno beccato solo una volta. Mi è bastato. Non ho nessuna azione eroica da mettere in tavola. In seguito ho lavorato solo nell'ospedale militare. Lí ho visto e ho sentito a sufficienza. Non posso certo competere con il Suo collare. «Pour le Mérite». Ma vinti lo siamo stati, eccome. In ogni senso. A Lei e a quelli come Lei è solo mancato il coraggio di ammettere la disfatta. Coraggio che evidentemente manca ancora oggi. Con ciò si era detto tutto? No. Jünger fece il bilancio delle vittime di quell'epidemia influenzale che negli ultimi anni di guerra si aggirò in entrambi i campi avversi: - Piú di venti milioni di morti, quasi lo stesso numero di quelli caduti in battaglia su tutti i fronti, che almeno sapevano il perché! - A voce piuttosto bassa Remarque chiese: - Per l'amor del cielo, quale perché? Un po' imbarazzata posai sul tavolo i libri diventati tanto famosi dei due autori, e li pregai di farmi una dedica. Jünger si affrettò a firmarmi il suo volume con l'aggiunta «Per la nostra valorosa Vreneli»; Remarque firmò sotto la dichiarazione decisamente netta: «Come dei soldati si mutarono in assassini». Solo adesso si era proprio detto tutto. I signori finirono di bere. Si alzarono quasi contemporaneamente - Remarque per primo -, si inchinarono appena evitando però di stringersi la mano, e mi pregarono, senza avermi risparmiato un doppio accenno di baciamano, di non accompagnare al marciapiede né l'uno né l'altro; viaggiavano ambedue solo con bagaglio leggero. Cinque anni dopo il signor Remarque morí. Il signor Jünger ha evidentemente intenzione di sopravvivere al secolo. | << | < | > | >> |Pagina 661924La data di Colombo era sicura. Dovevamo sollevarci esattamente in quel giorno. Come nel 1492 il genovese aveva fatto vela in direzione delle Indie, ma in realtà verso l'America, con un «Molla le cime!», cosí noi, con uno strumento certo piú preciso, volevamo affrontare una rischiosa avventura. A dire il vero, la nostra aeronave era pronta nel capannone aperto già l'11 ottobre, di primo mattino. Carburante per cinque motori Maybach e zavorra idrica erano a bordo in quantità calcolata di misura. I cavi di fissaggio già tra le mani degli addetti. Ma l'LZ 126 non volle galleggiare, era diventato pesante e pesante rimase, perché improvvisamente affluí nebbia con masse d'aria piú calde, gravando su tutta la regione del lago di Costanza. Poiché non potevamo ridurre né l'acqua né il carburante, la partenza dovette essere rimandata al mattino successivo. Lo scherno della folla in attesa fu sopportato a stento. Ma il 12 decollammo felicemente. Equipaggio di ventidue uomini. La concessione di partecipare all'impresa come meccanico di bordo era stata in forse per molto tempo, visto che passavo per uno di quelli che per protesta nazionalista avevano distrutto i nostri ultimi quattro dirigibili da guerra, sotto sorveglianza a Friedrichshafen in attesa di essere consegnati al nemico; come del resto piú di settanta navi della nostra flotta da guerra, tra le quali una decina di navi da battaglia e di linea che dovevano essere affidate agli inglesi, erano state affondate nel giugno del '19 dalla nostra gente, davanti a Scapa Flow. Subito gli alleati pretesero un indennizzo. Gli americani volevano spillarci piú di tre milioni di marchi oro. Allora la Zeppelin S.r.l. propose di cancellare tutti i debiti con la consegna di un dirigibile costruito secondo gli ultimissimi ritrovati della tecnica. E poiché le forze armate americane nutrivano un interesse assai vivo per il nostro modello piú recente, che garantiva un volume di riempimento di 70000 metri cubi di gas elio, il mercimonio andò in porto: l'LZ 126 doveva essere trasferito a Lakehurst e consegnato subito dopo l'atterraggio. Proprio questo venne considerato un'onta da molti di noi. Anche da me. Non eravamo sufficientemente umiliati? Le imposizioni del trattato di pace non avevano accollato alla patria gravami a dismisura? Noi, o meglio alcuni di noi, accarezzavano l'idea di privare della materia prima questo miserabile negozio. Ho dovuto lottare a lungo con me stesso per trovare nell'impresa un senso in qualche modo positivo. Ma solo quando promisi solennemente al dottor Eckener, che noi tutti ammiravamo come capitano e come uomo, di rinunciare al sabotaggio, ebbi il permesso di partecipare al viaggio. L'LZ 126 era di una bellezza cosí perfetta che mi è rimasta negli occhi fino a oggi. Eppure fin dall'inizio, ancora in territorio europeo, quando passammo a soli cinquanta metri d'altezza sopra le selle della Cóte d'Or, i miei pensieri covavano l'idea della distruzione. Non avevamo passeggeri a bordo, sebbene l'apparecchio fosse allestito per ospitarne lussuosamente una ventina, solo alcuni militari americani che ci sorvegliavano giorno e notte. Ma quando ci trovammo a dover lottare tra violenti vuoti d'aria sopra la costa spagnola nei pressi di Capo Ortegal, con il dirigibile che beccheggiava sensibilmente, quando tutte le forze erano impegnate a tenere la rotta e i militari dovettero concentrarsi sulla navigazione, un attentato sarebbe stato possibile. Sarebbe bastato sganciare i serbatoi di combustibile per costringere a un atterraggio forzato. Una tentazione che provai una seconda volta quando vidi le Azzorre sotto di noi. Giorno e notte ero scosso dai dubbi, mi sentivo turbato, cercavo l'occasione. E quando salimmo poi a duemila metri d'altezza sopra la nebbia dei banchi di Terranova, e poco piú tardi, quando uno strallo si spezzò durante una tempesta, nutrivo ancora il proposito di impedire l'oltraggio ormai prossimo della consegna dell'LZ 126, ma tutto rimase una semplice intenzione. Cosa mi fece esitare? Non certo la paura. In fondo, durante la guerra sopra Londra, appena il nostro dirigibile veniva inquadrato dai fari mobili, ero stato esposto al continuo pericolo dell'abbattimento. No, non conoscevo la paura. Solo la volontà del dottor Eckener mi ha frenato, anche se non mi ha convinto. Insisteva nel voler fornire la prova dell'efficienza tedesca a dispetto di qualsiasi arbitrio delle potenze vincitrici, foss'anche sotto forma del nostro sigaro dei cieli dai riflessi argentei. Infine mi piegai a questa volontà, fino alla totale rinuncia; perché un guasto da poco, per cosí dire solo simbolico, non avrebbe fatto nessuna impressione, tanto piú che gli americani ci avevano mandato incontro due incrociatori con i quali eravamo in costante contatto radio. In una situazione d'emergenza ci sarebbero venuti in aiuto, non solo nel caso di un persistente vento contrario, ma anche nell'eventualità del piú piccolo sabotaggio. Solo oggi mi rendo conto che la mia rinuncia all'atto liberatorio è stata giusta. Ma già allora, quando l'LZ 126 si avvicinò a New York, quando il 15 ottobre la Statua della Libertà ci salutò dalla caligine mattutina, quando facemmo rotta sulla baia, quando infine la metropoli col suo mare di grattacieli si allargò sotto di noi e tutte le navi alla fonda nel porto salutarono con ululati di sirene, quando per due volte sorvolammo a media altezza Broadway in tutta la sua estensione per poi salire fino a tremila metri, in modo che l'immagine dell'efficienza tedesca sfavillante nel sole del mattino si imprimesse in tutti gli abitanti di New York, quando infine virammo in direzione di Lakehurst e trovammo ancora il tempo per lavarci e farci la barba con quanto restava della riserva d'acqua, quando ci fummo impeccabilmente preparati per l'atterraggio e l'accoglienza, provai solo un senso di infinita fierezza. Piú tardi, dopo che la triste consegna del dirigibile era ormai cosa fatta e d'ora innanzi tutto il nostro orgoglio si sarebbe chiamato Los Angeles, il dottor Eckener mi ringraziò, assicurandomi che aveva condiviso la mia lotta. «Eh sí, - disse, - è difficile obbedire all'ardente imperativo di mantenere la dignità». Chissà cosa avrà provato quando, tredici anni dopo, la piú bella espressione del Reich nuovamente rinvigorito, l' Hindenburg riempito purtroppo non con elio, ma con idrogeno infiammabile, si incendiò durante l'atterraggio a Lakehurst. Avrà avuto anche lui la certezza, come me, che si trattò di sabotaggio? Sono stati i rossi! Quelli non hanno esitato. La loro dignità conosceva un altro imperativo. | << | < | > | >> |Pagina 861931- A Harzburg, a Braunschweig, era la parola d'ordine... . - Sono arrivati da tutte le regioni. Col treno, per la maggior parte, ma noi camerati del Vogtland abbiamo viaggiato in autocolonna... - La schiavitù sta per finire! Si formano nuove squadre! Persino dalla costa, dalle spiagge della Pomerania, dalla Franconia, da Monaco, sono venuti su dalla Renania, in camion, in corriera, con le moto... - E tutti nell'uniforme bruna... - Noi dello scaglione motorizzato due siamo partiti da Plauen, venti macchine, cantando: «Tremano le ossa decrepite...» - Il nostro reparto ha lasciato Crimmitschau già all'alba. E ci siamo diretti verso Lipsia passando da Altenburg, col piú bel tempo d'autunno... - Sí, camerati! Per la prima volta ho sentito profondamente tutta la forza del monumento, ho visto le figure eroiche appoggiate sulle spade, ho capito che oggi, piú di cent'anni dopo la Battaglia delle Nazioni, suona di nuovo per noi l'ora della liberazione... Basta con la schiavitù! - È cosí, camerata! Non in quel baraccone di chiacchiere del Reichstag, che va passato alla fiamma, no, sulle strade della Germania si trova finalmente la Nazione... - Però quando ci siamo lasciati alle spalle la ridente Turingia, col nostro Gauleiter Sauckel alla testa della colonna, quando abbiamo oltrepassato Halle e Eisleben, la città di Lutero, siamo arrivati nella Aschersleben prussíana, dove abbíamo dovuto deporre le nostre camicie brune per proseguire da lí in poi in camicia bianca, neutra, per cosí dire... - Perché lí ci sono ancora i socialisti col loro divieto... - E quel maiale di ministro degli Interni. Segnatevi il nome: Severing! - Ma a Bad Harzburg, già in territorio braunschweighese, eravamo di nuovo liberi da costrizioni: migliaia e migliaia in uniforme bruna... - Come ancora una settimana dopo, nella stessa Braunschweig, dove i nostri dirigevano la polizia, e si sono radunate ordinatamente piú di centomila camicie brune... - E lí ho guardato il Führer negli occhi... - Anch'io, durante la sfilata! - E io per un secondo, no, per un'eternità... - Macché, camerati! Là non c'era piú nessun Io, solo un grande Noi che ha sfilato per ore con la mano levata nel saluto tedesco. Tutti, tutti noi abbiamo assorbito il suo sguardo... - Era come se i suoi occhi mi avessero benedetto... - Un esercito bruno in parata. E il suo sguardo posava su ciascuno di noi... - Ma prima ha passato in rassegna personalmente i piú di quattrocento autocarri, corriere, motociclette, tutti disposti in fila, perché solo con scaglioni motorizzati il futuro... - E poi, sul Franzschen Feld, ha consacrato le nuove squadre, ventiquattro di numero, con parole che sembravano scolpite nel bronzo... - La sua voce risuonava dagli altoparlanti. Era come se il destino ci sfiorasse. Come se quella Germania dell'ubbidienza e della disciplina volesse inviare un segnale luminoso dalle tempeste d'acciaio della grande guerra. Come se in lui parlasse la provvidenza. Come se il Nuovo, fuso nel bronzo... - Eppure c'è chi dice che tutto questo ce l'hanno già fatto vedere i manipoli fascisti di Mussolini. Sí, con le loro camicie nere, il loro squadrismo, le loro truppe d'assalto... - Baggianate! Lo vede chiunque che in noi non c'è niente di latino. Preghiamo in tedesco, amiamo in tedesco, odiamo in tedesco. E chi ci intralcia il passo... | << | < | > | >> |Pagina 1061938L'incazzatura con il nostro insegnante di storia è cominciata quando tutti hanno visto in televisione come a Berlino il Muro all'improvviso si era aperto e tutti, anche mia nonna che abita a Pankow, potevano passare all'Ovest. C'è da dire che le intenzioni del professar Hösle erano certamente buone, quando ha parlato non solo della caduta del Muro, ma ha chiesto a tutti noi: - Sapete quante altre cose sono accadute in Germania un 9 novembre? Per esempio esattamente cinquantun anni fa? Visto che tutti avevano qualche vaga idea, ma nessuno sapeva niente di preciso, allora ci ha spiegato la Notte dei Cristalli del Reich. Si chiamava cosí perché ha riguardato tutto il Reich tedesco, e insomma sono andate rotte un sacco di stoviglie che appartenevano agli ebrei, in particolare molti vasi di cristallo. Hanno anche fracassato con i cubetti di porfido tutte le vetrine dei negozi i cui proprietari erano ebrei. E sono state distrutte proprio senza senso molte altre cose di valore. Forse l'errore da parte del signor Hösle è stato che non riusciva a smetterla, e che per troppe ore di storia ci ha raccontato di questa faccenda e ci ha letto dei documenti su quante sinagoghe sono state bruciate e che hanno assassinato cosí su due piedi novantun ebrei. Storie di una tristezza unica, mentre a Berlino, anzi in tutta la Germania, naturalmente l'entusiasmo era alle stelle, perché adesso tutti i tedeschi potevano finalmente essere unificati. Ma a lui interessavano solo le vecchie storie, e come sono potute succedere. Insomma è vero che ci ha rotto abbastanza, con quello che è accaduto qui una volta. In ogni caso, la sua «ossessione del passato», come la definivano, è stata criticata da quasi tutti i presenti durante la riunione dei genitori. Perfino mio padre, che è uno a cui piace raccontare dei tempi andati, ad esempio quando è scappato dalla zona sovietica ancor prima che costruissero il Muro ed è arrivato qui, in Svevia, ed è rimasto a lungo un estraneo, col signor Hösle ha parlato piú o meno cosí: - Naturalmente non c'è nulla da obiettare sul fatto che mia figlia apprenda come le orde delle SA abbiano infierito dappertutto e purtroppo anche qui a Esslingen, ma, per piacere, nel momento adatto e non proprio quando, come adesso, c'è finalmente un motivo per essere contenti e tutto il mondo si congratula con noi tedeschi... C'è anche da dire che noi ragazzi ci siamo già in qualche modo interessati a quello che allora è successo nella nostra città natale, ad esempio nell'orfanotrofio israelita Wilhelmspflege. Tutti i bambini dovettero scendere in cortile. I libri di scuola, i libri di preghiere, perfino i rotoli della Torah vennero buttati in un mucchio e bruciati, tutti. I bambini, che avevano dovuto assistere, piangevano, avevano paura di essere bruciati anche loro. Ma hanno picchiato fino a farlo svenire solo l'insegnante Fritz Samuel, con le clavette da ginnastica prese dalla palestra. Per fortuna a Esslingen c'era anche gente che ha cercato di aiutare, ad esempio un tassista che voleva portare alcuni orfani a Stoccarda. In ogni caso, quello che il signor Hösle ci ha raccontato era emozionante, in qualche modo. Perfino i maschi della nostra classe stavolta hanno seguito la lezione, anche i ragazzi turchi, e ovviamente la mia amica Shirin, la cui famiglia viene dalla Persia. E davanti ai genitori il nostro insegnante di storia si è difeso molto bene, come ha ammesso mio padre. Pare abbia spiegato che nessun ragazzo può comprendere nel modo giusto la fine dell'epoca del Muro se non sa esattamente quando e dove è cominciato l'errore, e insomma cosa ha portato alla divisione della Germania. E sembra che quasi tutti i genitori fossero d'accordo. Però le altre lezioni sulla Notte dei Cristalli il signor Hösle le ha poi dovute interrompere e rimandarle a piú avanti. Un vero peccato. Ma adesso qualcosina di piú la sappiamo. Ad esempio, che a Esslingen quasi tutti sono rimasti a guardare senza aprir bocca o hanno girato la testa, quando è successa la faccenda dell'orfanotrofio. Perciò, quando alcune settimane fa un nostro compagno curdo, Yasir, doveva essere rispedito in Turchia con i suoi genitori , ci è venuta l'idea di scrivere una lettera di protesta al sindaco. Hanno firmato tutti. Ma al destino dei bambini ebrei dell'orfanotrofio Wilhelmspflege non abbiamo accennato, nella lettera, su consiglio del signor Hösle. Adesso speriamo tutti che Yasir possa restare. | << | < | > | >> |Pagina 1301946Polvere di mattone, Le dico, polvere di mattone dappertutto! Nell'aria, nei vestiti, tra i denti e non so ancora dove. Ma a noi donne non ce ne fregava niente. C'era la pace, finalmente, questo importava. E oggi ci vogliono costruire un monumento, addirittura. Ma certo! C'è una vera e propria iniziativa per la Donna delle macerie di Berlino. A quei tempi però, quando tutt'intorno c'erano solo rovine e montagne di calcinacci dove riuscivi a passare, ti davano appena 61 pfennig all'ora, me lo ricordo bene. Ma c'era anche una tessera migliore, si chiamava Numero due, era una tessera da lavoratore. Perché su quella delle casalinghe c'erano solo 300 grammi di pane al giorno e 7 grammi scarsi di strutto. Cosa ci facevi poi con 'sta miseria, lo chiedo a Lei. Era un lavoro duro, sgombrar macerie. Io con la Lotte, che è mia figlia, abbiamo pulito in squadra: Berlino centro, dove quasi tutto era spianato. Lotte si tirava sempre dietro la carrozzina. Si chiamava Felix, il marmocchietto, ma si è beccato la Tbc, per via dell'eterna polvere di mattone, immagino. Le è poi morto già nel quarantasette, ancor prima che suo marito tornasse dalla prigionia. Si conoscevano appena, i due. Era stato un matrimonio di guerra, per procura, perché lui ha combattuto prima nei Balcani e poi sul fronte orientale. Non ha mica tenuto, il matrimonio. Beh, perché erano degli estranei, dentro. E lui non ha mai voluto dare una mano, neanche andare a prendere la legna nel Tiergarten. Voleva solo starsene sdraiato sul letto e fissare il soffitto. Beh, perché in Russia, immagino, ha avuto delle esperienze piuttosto brutte. Non faceva che lamentarsi, come se per noi donne le notti coi bombardamenti fossero state un bel divertimento. Ma lamentarsi non serviva a niente. E noi ci siamo date da fare: dentro nelle macerie, fuori dalle macerie! Qualche volta abbiamo anche sgomberato soffitte scoperchiate dalle bombe e piani interi. I calcinacci nel secchio, giù per cinque scale, perché non avevamo ancora uno scivolo. | << | < | > | >> |Pagina 1521953La pioggia era cessata. Quando si alzò il vento, la polvere di mattone scricchiolò sotto i denti. Tipico di Berlino, ci venne detto. Anna e io eravamo lí da sei mesi. Lei aveva abbandonato la Svizzera, io mi ero lasciato alle spalle Düsseldorf. Lei studiava danza mimica a piedi nudi da Mary Wigman, in una villa di Dahlem, io volevo sempre fare lo scultore nell'atelier di Hartung sulla Steinplatz, ma dovunque mi trovassi, in piedi, seduto o sdraiato accanto ad Anna, scrivevo poesie, lunghe e corte. Poi accadde qualcosa al di fuori dell'arte. Prendemmo la sopraelevata fino alla Lehrter Bahnhof, il cui scheletro d'acciaio era sempre in piedi. Passammo accanto alle rovine del Reichstag, alla Porta di Brandeburgo, sulla cui sommità mancava la bandiera rossa. Solo in Potsdamer Platz, restando sul lato occidentale del confine di settore, vedemmo cosa era accaduto e cosa stava accadendo in quel momento, o da quando la pioggia era cessata. La Columbushaus e l'Haus Vaterland erano avvolte dal fumo. Un chiosco bruciava. Propaganda incenerita, che il vento aveva sollevato insieme al fumo denso, nevicava dal cielo a fiocchi neri. E vedemmo assembramento di gente che vagava qua e là senza meta. Niente Vopos. Ma imbottigliati tra la folla carri armati sovietici, T 34, conoscevo il modello. Su un cartello c'era la scritta ammonitrice: «Attenzione! State lasciando il settore americano». Alcuni adolescenti, in bicicletta o senza, osarono comunque avventurarsi di là. Noi restammo all'ovest. Non so se Anna abbia visto di piú o altro, rispetto a me. Entrambi vedemmo le facce da bambini dei soldati russi che si appostavano lungo il confine. E piú lontano vedemmo quelli che lanciavano sassi. Di sassi c'era abbondanza dovunque. Coi sassi contro i carri armati. Avrei potuto schizzare il gesto del lancio, scrivere una poesia, in piedi, lunga o corta, sul gettare sassi, ma non tracciai una linea, non scrissi una parola, eppure la dinamica del lancio rimase impressa. Solo dieci anni dopo, mentre Anna e io vivevamo l'esperienza reciproca di genitori assillati dai figli e vedevamo la Potsdamer Platz come terra di nessuno ormai murata, scrissi un'opera teatrale che si intitolava, da dramma tedesco, I plebei provano la rivolta, e che risultò increscioso ai guardiani del tempio di entrambi gli Stati. Nei quattro atti si parlava di potenza e di impotenza, di rivoluzione programmata e spontanea, della questione se si potesse modificare Shakespeare, di innalzamento delle norme di produzione e di uno straccio rosso sbrindellato, di parole d'ordine e di controparole, di arroganti e di pusillanimi, di carri armati e di lanciatori di sassi, di una rivolta operaia bagnata dalla pioggia, che, appena repressa, venne datata al 17 giugno, falsificata in sollevazione di popolo e trasfigurata in giorno festivo, con la conseguenza che all'ovest, a ogni ricorrenza, ci furono sempre piú vittime della strada. I morti all'est, invece, erano stati fucilati, linciati, giustiziati. Inoltre vennero inflitte pene detentive. Il carcere di Bautzen era sovraffollato. Tutto questo venne alla luce piú tardi. Anna e io abbiamo visto solo lanciatori di sassi impotenti. Ci tenemmo a distanza, nel settore occidentale. Ci amavamo e amavamo l'arte, e non eravamo operai che tirano sassi contro i carri armati. Ma da quel momento sappiamo che questa battaglia continua ad aver luogo. A volte, allora però con decenni di ritardo, vincono persino i lanciatori di sassi. | << | < | > | >> |Pagina 1991968Il seminario sembrava tranquillizzato, ma in me restava l'inquietudine. Ero appena riuscito, grazie a una testimonianza autorevole avvedutamente mediata, a sentire quella poesia della casetta come tarda eco di Fuga sul tema morte e come sfida al «maestro nato in Germania», illustre ma al tempo stesso personificazione della morte, quando mi trovai di nuovo insistentemente contestato: cosa ti ha cacciato da Friburgo subito dopo la Pasqua dell'anno seguente? Quale svolta ti ha trasformato in un radicale sessantottino, tu che fino a quel momento avevi porto orecchio al silenzio tra le parole e ti eri impelagato nella sublimità del frammento, nel progressivo ammutolire di Hölderlin? Se non, tardivamente, l'assassinio dello studente Benno Ohnesorg, è stato certo l'attentato contro Rudi Dutschke a farti diventare un rivoluzionario, almeno a livello verbale, con la rinuncia al gergo dell'Autenticità e l'inizio di blateramenti in un altro gergo, quello della Dialettica. Cosí press'a poco me lo spiegavo, ma non ero sicuro della causa più profonda del mio cambiamento di linguaggio e cercai, mentre il seminario del mercoledì si teneva autonomamente occupato, di placare l'improvviso tumulto dei miei errori. In ogni caso, a Francoforte abbandonai per prima cosa la germanistica e mi iscrissi, come a dimostrazione della mia reiterata svolta, alla facoltà di sociologia. Quindi seguii i corsi di Habermas e Adorno, al quale però noi - io da nuovo membro dell'associazione degli studenti socialisti - quasi non lasciavamo prendere la parola, tanto lo consideravamo un'autorità contestabile. E visto che dappertutto, e a Francoforte con particolare veemenza, gli studenti si rivoltavano contro gli insegnanti, si arrivò all'occupazione dell'università, che però, poiché Adorno, il grande Adorno, si vide costretto a chiamare la polizia, venne subito sgomberata. Uno dei nostri piú facondi portavoce, della cui eloquenza era affascinato anche il maestro della negazione, insomma Hans-Jürgen Krahl, che peraltro pochi anni prima aveva ancora fatto parte della fascistoide Lega Ludendorff e quindi della reazionaria Junge Union, e che adesso, dopo una svolta totale, si concepiva quale diretto successore di Dutschke e come istituzione antagonista, questo Krahl venne arrestato, ma dopo pochi giorni tornò nuovamente libero e operante, sia contro le leggi d'emergenza, sia contro il suo nonostante tutto veneratissimo maestro. Per esempio l'ultimo giorno della Fiera del Libro, il 23 settembre, quando nella Haus Gallus, dove nel '65 era finito il primo processo di Auschwitz, una tavola rotonda di cui Adorno finí per restare vittima minacciò di naufragare nei disordini. Che periodo turbolento! Al sicuro nel mio tranquillo seminario e infastidito solo dalle domande provocatorie di una giovane donna particolarmente ostinata, cercavo di superare con un balzo la serie di trent'anni trascorsi e di infilarmi in una discussione che si trasformò in tribunale. Quale voluttà nella parola aggressiva! Anch'io, tra la folla, interruppi gridando, trovai termini che facevano a brandelli, pensai di dover superare l'accaloramento di Krahl, con lui e con altri mirai a denudare totalmente, cosa che infatti riuscí, il maestro dalla testa rotonda, con la sua dialettica che risolveva tutto in contraddizione, e che adesso, confuso e imbarazzato, era a corto di parole. Del resto c'erano lí, ammassate ai piedi del professore, delle studentesse che poco tempo prima si erano scoperte i seni davanti a lui, costringendolo a interrompere la lezione. Adesso volevano vederlo nudo, quell'uomo sensibile. Lui, che si vestiva in modo accuratamente borghese nella sua rigida rotondità, doveva essere per cosí dire disvelato. Piú scabroso ancora: doveva togliersi pezzo dopo pezzo la teoria che lo proteggeva e - questo pretendevano Krahl e altri - permettere alla rivoluzione l'uso della sua autorità appena ridotta a brandelli e miseramente rappezzata. Doveva rendersi utile, ecco. C'era ancora bisogno di lui. Tra non molto, per la marcia su Bonn da tutte le direzioni. Ci si vedeva costretti, di fronte alla classe dominante, a trarre vantaggio dalla sua autorità. Ma in linea di massima doveva essere tolto di mezzo. Quest'ultima frase l'ho gridata proprio io. Oppure chi o che cosa mi faceva gridare? Cosa mi ordinava di prestare voce alla violenza? Non appena mi tornarono presenti i volti dei miei studenti che si guadagnavano con zelo moderato i loro attestati del seminario su Celan, misi in dubbio il mio radicalismo di allora. Forse ci siamo, mi sono solo voluto divertire un po'. Oppure ero confuso, ho frainteso alcune frasi retoriche un po' troppo arzigogolate, ad esempio quella sulla tolleranza repressiva, come in precedenza avevo mal interpretato il verdetto del maestro contro ogni oblio dell'essere. Krahl, che passava per l'allievo piú dotato di Adorno, amava predisporre il cappio definitivo dopo ampie digressioni e appuntire all'estremo il concetto un attimo prima ancora smussato. Certo, si sentivano anche opinioni contrarie. Da Habermas, ad esempio, che però col suo monito, sempre presente dopo il congresso di Hannover, riguardo alla minaccia del fascismo di sinistra era calato precipitosamente nella nostra stima. Oppure quello scrittore baffuto che si era venduto alla Es-Pe-De e adesso pensava di doverci rinfacciare un «attivismo accecato dall'ira». La sala strepitava. Devo supporre di aver strepitato anch'io. Ma cosa mi ha spinto a lasciare prima del tempo la sala stracolma? Fu una mancanza di radicalismo? Non riuscivo piú a sopportare la vista di Krahl che, cieco da un occhio, portava sempre gli occhiali da sole? O mi sottrassi a quell'immagine di sofferenza che emanava dall'umiliato Theodor W. Adorno? Vicino all'uscita, dove la gente si assiepava ancora, un signore piuttosto anziano, chiaramente ospite della Fiera del Libro, mi rivolse la parola con un lieve accento straniero: - Quante stupidaggini avete detto là dentro. Da noi a Praga ci sono dappertutto carri armati sovietici, da un mese, e voi qui delirate sul processo di apprendimento collettivo del popolo. Fatevi un rapido viaggetto nella bella Boemia. Lí potete imparare nel collettivo cos'è il potere e cos'è l'impotenza. Non sapete niente, ma volete saperne piú di tutti... - Eh sí, - dissi improvvisamente sopra le teste dei miei studenti, che spaventati alzarono gli occhi dalle loro interpretazioni testuali delle due poesie, - nella tarda estate del '68 successe anche dell'altro. La Cecoslovacchia venne occupata, con la partecipazione di soldati tedeschi. E dopo neanche un anno Adorno era morto: infarto, si disse. Del resto, Krahl rimase ucciso in un incidente stradale nel febbraio del '70. E a Parigi, nello stesso anno, Paul Celan, senza aver ricevuto da Heidegger la parola sperata, gettò nell'acqua giù da un ponte quello che restava della sua vita. Non conosciamo il giorno preciso... Poi il mio seminario del mercoledì si disperse. Solo la suddetta studentessa rimase seduta. Poiché evidentemente non aveva altre domande, anch'io non aprii bocca. Forse le bastava stare sola con me per un po'. Solo al momento di uscire mi riservò ancora un paio di frasi: - Io vado, - disse. - Tanto da Lei non si ricava più nulla. | << | < | > | >> |Pagina 2641989Stavamo viaggiando verso il Lauenburg, di ritorno da Berlino, quando la notizia ci arrivò all'orecchio in ritardo, dalla radio della macchina, perché eravamo abbonati al Terzo programma, al che io, come migliaia d'altri, ho probabilmente gridato «pazzesco!», per la gioia e lo spavento, «ma è pazzesco!», e poi, come Ute che era al volante, mi sono perso in pensieri che correvano in avanti e all'indietro. E un conoscente, il quale aveva il domicilio e il posto di lavoro dall'altra parte del Muro e, sia prima sia attualmente, vigila sui lasciti nell'archivio dell'Accademia delle Arti, apprese la buona novella, offerta per cosí dire con una spoletta a tempo, in maniera altrettanto differita. Secondo il suo racconto, stava tornando, grondante sudore, dal jogging praticato nel Friedrichshain. Niente di strano, perché quest'automacerazione di origine americana era ormai diventata usuale anche per i berlinesi dell'Est. All'incrocio tra la NiederkirchnerStraße e la Bötzowstraße incontrò un conoscente, anch'egli ridotto dalla corsa ad ansiti e traspirazioni. Sempre segnando il passo, ci si diede appuntamento alla sera per una birra e ci si ritrovò poi seduti nell'ampio soggiorno del conoscente, il cui posto di lavoro era al sicuro nella «produzione materiale», come veniva definita, e pertanto il mio conoscente non si stupí di vedere nell'appartamento del suo conoscente un parquet appena posato; per lui, che in archivio spostava solo carte e tutt'al piú aveva competenza di note a piè pagina, un simile acquisto sarebbe stato inarrivabile. Si bevve una birra, un'altra ancora. Piú tardi arrivò in tavola l'acquavite. Si parlò dei tempi passati, dei figli che crescevano e delle barriere ideologiche nelle riunioni dei genitori. Il mio conoscente, che è originario dei Monti Metalliferi, dove l'anno prima avevo disegnato gli alberi morti sulle creste, disse al suo conoscente che voleva tornarci il prossimo inverno a sciare con la moglie, ma aveva dei problemi con la sua Wartburg, i cui pneumatici sia anteriori sia posteriori erano talmente consumati da non presentare quasi piú il battistrada. Adesso sperava di potersi procurare nuovi pneumatici invernali tramite il suo conoscente: chi nel socialismo reale può farsi mettere in opera privatamente un parquet, sa anche come ottenere le gomme speciali con il marchio «M + S», che stava a significare «Matsch und Schnee», cioè «fanghiglia e neve». Mentre noi ci avvicinavamo a Behlendorf con la lieta novella ormai nel petto, nella cosiddetta «stanza berlinese» del conoscente del mio conoscente il televisore era acceso a volume bassissimo. E mentre i due, tra una birra e un'acquavite, stavano ancora parlando del problema dei pneumatici e il proprietario del parcquet diceva che le gomme nuove, in linea di massima, si potevano ottenere solo coi «soldi giusti», però si offriva di procurare ugelli del carburatore per la Wartburg, ma quanto al resto non intendeva alimentare ulteriori speranze, il mio conoscente, lanciando una breve occhiata in direzione dello schermo afono, si accorse che evidentemente trasmettevano un film secondo l'intreccio del quale dei ragazzi si stavano arrampicando sul Muro, sedevano a cavalcioni sul rigonfiamento superiore e la polizia di confine osservava quel divertimento senza intervenire. Fattogli notare un tale spregio del baluardo protettivo, il conoscente del mio conoscente disse: - Proprio roba da Ovest! - Poi commentarono entrambi quella cosa di cattivo gusto che scorreva sullo schermo - «Sicuramente un film sulla guerra fredda» - e ben presto tornarono ai consunti pneumatici estivi e ai mancanti pneumatici invernali. Dell'archivio e dei lasciti di scrittori piú o meno significativi che vi erano depositati, non si fece parola. Mentre noi già vivevamo nella consapevolezza dell'epoca che si apriva, del tempo-senza-Muro, e - appena arrivati a casa - accendemmo il televisore, dall'altra parte del Muro ci volle ancora un po' prima che il conoscente del mio conoscente facesse qualche passo sul parquet appena posato e alzasse al massimo il volume dell'apparecchio. Da quel momento, piú nessun accenno ai pneumatici invernali. Un problema che avrebbero risolto la nuova cronologia e i «soldi giusti». Solo un'ultima sorsata di acquavite, e poi via verso l'Invalidenstraße, dove già le macchine - piú Trabant che Wartburg - si ingorgavano, perché tutti volevano dirigersi al punto di attraversamento del confine che era miracolosamente aperto. E a chi stava in ascolto con attenzione giungeva all'orecchio che tutti, quasi tutti coloro che a piedi o in Trabi volevano passare all'Ovest gridavano o mormoravano «pazzesco!», come io avevo esclamato «pazzesco!» poco prima di Behlendorf, ma poi mi ero lasciato andare a pensieri sconnessi.
Ho dimenticato di chiedere al mio conoscente come e
quando e con quali soldi si sia poi finalmente conquistato i
pneumatici invernali. Mi sarebbe anche piaciuto sapere se
ha festeggiato il passaggio dall'89 al '90 sui Monti
Metalliferi, con sua moglie, che ai tempi della DDR è stata
una campionessa del pattinaggio di velocità. Perché in
qualche modo la vita è comunque andata avanti.
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