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| << | < | > | >> |Pagina 7New York, 14 ottobre Sono in un bar della Fifth Avenue e non so perché ci sia venuto. Il cameriere mi porta un caffè troppo lungo e ha voglia di parlare. Io no. «Se il vento smette verrà la neve» dice. È giovane, la faccia gli scivola da sotto i capelli rossi e si allunga sul mento. Ha già dimenticato cos'era la Fifth Avenue in quelle ore. Io ancora non posso, non ci riuscirò mai. Ma forse ha ragione lui. Pago il caffè e resto lì. Dall'altra parte del vetro la gente cammina ricurva sotto le folate. Il ragazzo ha detto bene, se il vento smette cadrà la neve. Ha importanza? No, non ne ha. Che nevichi o arrivi il sole, il mio problema, uno dei tanti che ho, rimane sempre lo stesso. Il direttore della banca me lo ha ricordato mezz'ora fa. «Mi dispiace, avvocato,» ha detto, la faccia lugubre di circostanza «devo dirle le cose come stanno. Alla terza rata di mutuo non pagata dovrò seguire le procedure. Ma visto che è sempre stato un buon cliente voglio darle ancora un mese. Per mettersi a posto ha tempo sino al quindici di novembre. Dopo sarò costretto a passare la pratica al contenzioso.» Mi fa male perdere la mia casa di Garden City. Ci ho pensato su una vita prima di comperarla, ci metterò soltanto tre rate di mutuo non pagate per vedermela portar via. Perché il denaro per la banca non ce l'ho. Sia io che il direttore ne sappiamo il motivo, ma per lui il particolare è ininfluente. In passato queste due parole le ho dette anch'io agli avvocati delle mie controparti, ma allora lavoravo e avevo dei clienti da tutelare. Oggi invece le hanno dette a me. Particolare ininfluente. O pago le tre rate di mutuo o sono fuori di casa, e fuori sta per nevicare. Tra l'altro, sulla mia vita sta nevicando da mesi. Non è piacevole. Mi guardo intorno. New York è ritornata più o meno quella di sempre. Forse non proprio la stessa, la ferita è profonda e non è ancora rimarginata, ma prima o poi lo sarà. È giusto così. Sono io che ci sto mettendo troppo tempo. Entrano due innamorati, sono giovani e carini. Anzi no, lei non è soltanto carina, è bella. Ha gli occhi da gattina e fa le fusa e si struscia. Il cameriere dalla faccia che scivola giù sul mento non ha occhi che per le sue gambe. Gliele guardo anch'io. Notevoli. Nella vita non ci sono solo le banche. Faccio segno per un altro caffè. Il ragazzo me lo porta e si sbriga in fretta, ora di parlarmi non gli importa niente, c'è la biondina da spogliare con gli occhi. Guardo l'ora. Le undici. Inutile restare qui a ciondolare, inutile pensare ai soldi che non ho, inutile ritornare a Ground Zero. Mi alzo. «Dave, santo cielo, ma sei proprio tu...» L'uomo che ho davanti mi arriva appena alla spalla, ha il volto roseo e gradevole, i capelli bianchissimi e il sorriso che piace. Gli stringo la mano. «Non vivi più in California?» gli chiedo. «Sì, ma ora vado più in giro. Stavi andando via?» «Non importa. Cosa prendi?» Siede di fronte a me. Del professor James Rubbard dell'Università di Stanford a Palo Alto ho un gran ricordo perché da lui ho imparato più che da tutti gli altri. Bravo, preparato, coinvolgente e motivante. Le sue lezioni sono sempre state di altissimo livello, da allora sono passati anni ma io non l'ho dimenticato. Credo che nessuno del nostro corso l'abbia fatto. James è sempre stato uno dei miti di Stanford, una di quelle persone che sanno fare la differenza. Sono contento che mi abbia scorto e sia venuto al mio tavolo. «Quant'è che non ci vediamo?» domanda. «L'ultima volta è stata quando sei venuto a parlare al Pierre. Bob e io c'eravamo, ricordi?» Annuisce. «Già, è vero.» Il suo volto si contrae in una smorfia. «Poi è successo di tutto.» Il cameriere gli porta un cappuccino. «Quanti anni hai?» mi chiede. «Trentotto.» «Bob avrebbe la tua stessa età.» «Sì.» «A Stanford eravate i miei preferiti, non ne ho mai fatto mistero.» «Ci hai fatto avere delle grane con gli altri studenti, ma non ci hai mai regalato un solo punto.» «Perché avrei dovuto? Eravate bravi e non c'era bisogno che vi aiutassi, e le vostre carriere hanno provato che avevo visto giusto. Ho sempre letto un gran bene dello studio Stirling e Mineido. Anche se mi sono fatto vivo poco, mi sono sempre tenuto al corrente.» Fuori comincia a cadere qualche fiocco di neve. Il cameriere dai capelli rossi, ora che la biondina se n'è andata, ha di nuovo tempo per ammiccare verso di me. La neve lo fa contento. «Dave, come te la passi?» James ha finito di bere il cappuccino e i suoi occhi non lasciano i miei. A Stanford le ragazze dicevano che vestiva sempre di blu per fare risaltare il colore dello sguardo. Non so se fosse vero, oppure se quelle avessero la lingua lunga. Comunque, oggi ha un doppiopetto che più blu non si può. «È dura» rispondo. «L'assicurazione?» «I tempi sono lunghi, e non è nemmeno sicuro che paghino. Sai come vanno queste cose.» Annuisce. «Però immagino che questo sia l'ultimo dei tuoi pensieri.» «L'ultimo no, ma nemmeno il primo. E quello di Bob e degli altri che non riesco a...» Devo interrompermi perché non ce la faccio. James mi posa una mano sul braccio. «C'è qualcosa che posso fare per te?» La sua voce è calda e amica, mi fa bene. Scuoto la testa. «Sto cercando di ricominciare. È difficile, ma prima o poi ce la farò. Ce la devo fare.» «Ci riuscirai,» mi punta contro l'indice «io ne sono certo e sulle persone sbaglio di rado. Se sei ancora il Dave Stirling che conosco, te ne tirerai fuori.» Oltre i vetri sta nevicando forte. «Cosa fai adesso?» gli domando. «Ho ancora il mio corso a Stanford, e vado in giro per il mondo a raccontare cose che gli altri fingono di non sapere per farmi contento.» Sorrido. «A me non la racconti. Leggo i giornali.» «Devono pur riempire le pagine.» «Non ti nascondere. Ti sei fatto un nome come conferenziere, e lo meriti. Quello che hai detto due anni fa al Pierre sui nodi della politica internazionale è arrivato sino alla Casa Bianca.» «E per quanto ne so c'è rimasto» sorride «ed è andata già bene se il Presidente non mi ha convocato per dirmi di piantarla. Dave, sai, ho l'impressione di essere entrato in un circo che quando ti batte le mani è per poi chiederti qualcosa, e che quando ti fischia è perché quel qualcosa l'ha già avuto da chi la pensa al contrario di te.» «Però ti ci diverti.» «Sì, mi piace.» «Prossimo impegno?» «A Kiev, tra una settimana. Le forniture di gas dalla Russia, i gasdotti, quelle cose lì... Di questi tempi c'è un po' di casino.» Guarda l'orologio e si alza. «Scusa, ma adesso devo andare.» «Hai fatto bene a venire al mio tavolo, io non ti avevo visto.» E intanto penso che anni fa a Stanford la parola casino non l'avrebbe mai detta. È cambiato anche lui. «Dave, dobbiamo trovare il modo di tenerci in contatto. Forse posso aiutarti. Non prometto niente, ma un'occasione potrebbe anche capitare. Dammi un recapito.» «Non mi va di piangere sulla tua spalla.» «Sono stato io a chiederti come ti sta andando. Dimmi dove ti trovo.» James è un amico, lo è sempre stato, sia mio che di Bob. Non lo farei con altri, ma con lui è diverso. Gli porgo un biglietto da visita. Lo scorre. «Abiti sempre a Garden City.» «Ancora per poco.» «Perché? È a un passo da New York ma è già campagna. Dovrebbe piacerti.» «Piace anche alla mia banca.» Rimaniamo in silenzio, poi lui torna a sedersi. «Vuoi che parliamo un po'? Posso rimandare il mio appuntamento.» Continua a scrutarmi con quegli occhi pieni di blu. Lo vedo perplesso. Devo avere una faccia peggiore di quella che mi sento addosso. «James, davvero, va bene così.» Scuote la testa e i folti capelli bianchi gli scendono sulla fronte. «È un po' presto, ma uno spuntino possiamo farcelo. C'è un'ottima trattoria italiana qui vicino. Fammi solo fare una telefonata.» Chiama qualcuno col cellulare, dice che non ce la fa e che deve rinviare alle due. Pago e andiamo alla porta. Il cameriere dai capelli rossi è contento. «Visto come viene giù?» Sul marciapiede si è già formato un sottile strato di neve. James mi prende sottobraccio. «Ho le suole di cuoio, se scivolo tirami su.» Non scivola. La trattoria è a cento metri, di fronte alla chiesa di San Patrizio. Tovaglie a quadretti bianchi e blu, bottiglie di Barbaresco e di Chianti in bellavista, profumo di ravioli e di stracotto. Ordiniamo soltanto un secondo, e intanto James non ha smesso di studiarmi. «Ti deve andare proprio male.» «Non sto vivendo un gran momento. Passerà.» «Tu e Bob avevate avuto successo, ho letto delle cause che avete vinto a livello internazionale. Capisco che ora tutto sia diverso, ma dovresti...» «Avere accumulato quanto basta?» lo interrompo. Sono stato brusco e me ne pento. Ma James non sembra averci badato. «Sì, qualcosa del genere. Quanto basta per farcela a rimetterti in gioco.» Devo dirglielo oppure no? Non mi va di parlare del motivo per cui non ho più un dollaro, però forse sbaglio. James mi sta guardando con simpatia, e io gli devo molto. Non è stato soltanto un buon professore, ma un uomo gentile che ha sempre capito e aiutato i giovani. «James, ho liquidato a tutti quello che lo studio doveva, sperando di recuperarlo poi con l'assicurazione.» Mi stringo nella spalle. «Ma finora quelli non hanno pagato.» «Sei fuori di tanto?» «Non ho più un dollaro, ma oltre il mutuo per Garden City non ho debiti. Poteva andare anche peggio.» «Perché l'hai fatto?» Le sue labbra hanno una piega strana. «Voglio dire, perché non aspettare l'assicurazione? Lo stai facendo tu, potevano aspettare pure gli altri.» «Anche Maria Mineido e i suoi tre bambini?» «È la moglie di Bob?» Annuisco. «Oppure le famglie di Karl, di Jonathan o di Louise... E comunque, giusto o sbagliato, mi è andato di farlo. Va bene così.» Ci portano lo stracotto e una bottiglia di Barbaresco. «Scusa se ti dico che sei un po' strano» commenta James, «e difficile da capire. Sei sempre stato a metà tra il negoziatore capace di spremere all'osso la controparte, e il samaritano che non sa dire di no. Eri così anche a Stanford durante le esercitazioni in aula, lo ricordo bene.» «Cioè, dovrei decidermi una volta per tutte da che parte stare.» Sorride. «Devi ammettere che sei fatto tutto a modo tuo. Ora non hai i soldi per la banca perché li hai anticipati agli altri.» «Per me non erano gli altri.» «Ecco il samaritano» ribatte, ma c'è calore e simpatia nel suo sguardo, e so che se mi parla così è perché mi è amico. «Comunque, ormai l'hai fatto. Dimmi del tuo nuovo lavoro.» «Ho trovato qualcosa, niente di importante. Qualche collaborazione, un po' di consulenze, pratiche di poco conto. Ho alle viste una possibilità che potrebbe essere valida, ma è presto per dirlo.» «Cos'è?» «Entrare a far parte del team di negoziazione di una società di Cleveland per un contratto in Argentina. Ne saprò di più dopo Natale.» Stringe le labbra. «Non credo che i tuoi problemi possano aspettare mesi.» Beve un sorso di vino. «Lasciami provare a far qualcosa. Ma lo ripeto, non posso prometterti niente.» «Non te lo chiedo.» «Lo so.» Nel locale c'è molta gente. Ci si sta bene. «Non lo conoscevo» osservo. «L'hanno aperto tre mesi fa. Quando sono a New York ci vengo sempre» guarda ancora l'orologio. «Scusa, sto facendo tardi. Spero di non essere stato troppo invadente.» «Solo un amico.» Mi batte una mano sulla spalla e si alza. «Se avrò delle novità mi farò vivo al ritorno da Kiev. Se non mi senti è perché non ho niente.» «Grazie.» Mi alzo anch'io. Andiamo alla cassa. James chiede il conto. «La prossima volta sta a me,» gli dico «un secondo e una bottiglia di vino posso ancora permettermeli.» «Ne uscirai bene, e presto.» Mi stringe con forza la mano. «Ricorda sempre chi sei e cosa sei stato capace di fare.»
Usciamo. Non nevica più. Lo strato bianco sul marciapiedi
si sta già sciogliendo. James si avvia in direzione del Plaza, io
attraverso la Fifth Avenue e vado al parcheggio. Penso alla
questione del samaritano. Ha visto giusto, ma finora non sono
riuscito a far di meglio. O di peggio, dipende. Sorrido tra me.
Si ricorda ancora delle esercitazioni sui casi di studio che ci
faceva fare a Stanford, e sui quali ammattivamo sino a notte
fonda perché il mattino dopo il professor James Rubbard non
accettava scuse. Mi aveva catalogato come uno fatto tutto a
modo suo, un samaritano, appunto. E ora cercherà di darmi
una mano. È già molto. Forse la sorte mi ha portato nel bar del
cameriere dai capelli rossi nel giorno e nell'ora giusti. Non so
se è vero, ma provo a crederci.
Lo specchio che sta sul tavolino dell'ingresso mi fa vedere la mia faccia. Ha avuto tempi migliori, ma è ancora passabile. Ho gli occhi verdi, i capelli castano chiaro, gli zigomi larghi e le guance un po' sullo scavato. Sono alto un metro e ottanta e ho sempre fatto sport. Niente pancetta. Nella villetta a un piano c'è silenzio. È sera e l'irrigazione automatica del prato intorno alla casa è già in funzione. La fermo, prima o poi all'erba penserà la neve. Sul frigorifero ho trovato uno stick di Jasmine, la ragazza messicana che viene due volte la settimana a fare le pulizie. Mi ha raccontato che ha quel nome alla francese perché i suoi l'hanno concepita dopo aver visto un film con Catherine Deneuve e sognando per lei una carriera nel cinema. Non so se ce la farà. Carina lo è, ma finora a Hollywood non c'è arrivata. Io le consiglio sempre di non arrendersi. «Non ci sono più detersivi» mi scrive. «Devo comperarli o ci pensa lei?» Sa bene che non ci penso, però ogni volta me lo scarabocchia sugli stick. In attesa di Hollywood non vuole responsabilità. «Comprali tu, grazie» aggiungo in calce, e ci appiccico su venti dollari. La casa è grande quanto serve, sta lungo un viale di sicomori ed è allineata con altre villette più o meno uguali. Ha un bel giardino che curo poco, e faccio male. James ha ragione, a Garden City si vive nel verde e in mezz'ora si è a New York. Mi spiacerebbe dovermene andare, ma dopo il colloquio in banca di questa mattina mi vedo messo male. Comunque, a metà novembre manca ancora un mese. Sulla segreteria telefonica trovo un messaggio di Maria Mineido. «Ho bisogno di un consiglio. Puoi chiamarmi?» Maria è una cara ragazza, Bob sposandola ha avuto quella fortuna che poi in un giorno maledetto gli ha voltato le spalle. Sono stato il loro testimone di nozze e sono il padrino di Ann, la primogenita, che adesso ha sette anni. Ci vediamo ogni tanto, ma Maria vive dall'altra parte della città e col traffico di New York non è facile arrivarci. Esco sul patio che ormai sa d'inverno e le telefono. «Dave, hai un minuto?» Certo che ce l'ho, di questi giorni ne ho tanti. Maria mi racconta con la sua voce soffice e aggraziata che le hanno proposto un nuovo lavoro e che non sa decidersi. «Guadagnerei di più, però lo spenderei tutto per qualcuno che mi guardi i bambini. Ogni giorno dovrei passare due ore in treno e non ce la farei ad andare a prenderli alla scuola. Non so cosa fare.» «Prospettive di carriera?» «Sembrano buone.» La vedo mentre mi risponde. Il bel volto ovale spruzzato di lentiggini, i capelli rossi, le fossette sulle guance. «Maria, tu sei in gamba. Hai tre bambini e devi pensare a loro. Oggi quanto ai soldi magari cambi alla pari, ma se fai carriera cambia tutto. E siccome la farai, io fossi te accetterei.» La sento esitare. «Sapevo che me l'avresti detto» dice poi, «sei come Bob. Anche lui mi avrebbe risposto così.» «Che società è?» Me lo dice. «Sono gente seria» osservo. «Ti ci troverai bene.» «Dave, c'è un'altra cosa, e ora ti arrabbierai» esita ancora, e so già cosa sta per dirmi, e anche che non me la prenderò perché le voglio bene. «Oggi sono andata all'assicurazione e ho firmato la cessione del credito a tuo favore.» «Non serve, la polizza è dello studio. Quando la liquideranno tratterrò dalla tua quota quello che ti ho già dato.» «Però la mia rinuncia l'hanno accettata.» «Solo perché così non li scoccerai più» sorrido. «Maria, mettiti tranquilla e finisci di tormentarti. Problemi ne hai già abbastanza.» «Ma tu mi hai anticipato tutto, e non è giusto.» «Per me lo è. Come stanno i piccoli?» Mi racconta di loro e poi mi chiede se ho qualche novità di lavoro. «Ho qualche contatto e un paio di prospettive.» «Hai più visto nessuno dei nostri?» «Mi sono sentito con Samantha.» «Sai, non riesco ancora a capire, a rendermene conto...» Non dico niente. Ci salutiamo e mettiamo giù. Quando si perde un amico si soffre due volte, per lui e per quelli che lascia soli.
Fa freddo. Rientro in casa e vado a vedere nel frigo. C'è
poco. Jasmine in attesa di Hollywood si occupa solo dei detersivi. Mi getto
addosso qualcosa e vado a piedi all'unico ristorante di Garden City nel quale
non sia costretto a lasciare mezza rata di mutuo.
Sono d'origine scozzese, d'altra parte con quel cognome che ho, Stirling, c'è poco da fare. Sono nato a Los Angeles, non ho mai portato il kilt e non so suonare la cornamusa, e nemmeno sono tirchio come vuole la tradizione. Anzi, di quattrini ne ho sempre gettati via tanti. C'è però una cosa che mi lega alla mia terra d'origine, ed è il whisky di malto, quello vero, quello che viene dalle isole del nord della Scozia e che lassù è una religione. Forse perché mio padre mi parlava sempre delle nostre terre sospese tra mare e vento e pioggia, e di nomi che per me erano leggenda. Talisker, Oban, Caol Ila, Lagavulin. O forse semplicemente perché un bicchiere di single malt di razza mi sa tirare fuori da certi momenti. Il mio preferito è il Lagavulin vecchio di sedici anni, quello che sa di torba e di salmastro, di frutta a guscio e del rovere in cui va a maturazione. In casa faccio in modo che la mia riserva personale sia sempre a livello soddisfacente, e non perché col Lagavulin Sedici mi ci sbronzi, ma perché, quando me ne resta una sola bottiglia, cado in preda all'ansia. Ansia che non provo nella vita e nella professione, ma che invece mi assale col malto. È un mio limite, vai a sapere perché. Ho avuto un'infanzia normale, senza infamia e senza lode, come normale è stata la mia famiglia. Eravamo in sei e siamo stati sempre bene insieme. Poi siamo cresciuti e i due fratelli e la sorella si sono dispersi per il mondo. Anch'io ho fatto la mia parte, benché sia andato molto meno lontano. L'Università di Stanford, per la concezione americana di distanza, è a un tiro di schioppo da Los Angeles. Non è così, naturalmente. Bisogna salire a San Francisco e poi inoltrarsi in quella che è poi diventata la Silicon Valley. Dopo il liceo sono andato a studiare lì. I miei mi hanno fatto un grosso regalo pagandomi la retta per quattro anni, e ho cercato di ricambiarli laureandomi bene e nei tempi giusti. A Stanford ci hanno fatto morire di fatica, e anche James Rubbard ci ha messo del suo nel torchiarci, però abbiamo imparato tanto e oggi la maggior parte di noi di quel corso rifarebbe tutto. James insegnava Diritto Internazionale Comparato. Era instancabile e severo, giusto nelle sue valutazioni, convinto che la fatica a vent'anni si può sopportare e che la vita ci avrebbe poi restituito tutto con gli interessi. Aveva ragione. Quella classe, eravamo in trentacinque, ha avuto successo e ora molti dei miei compagni di quegli anni hanno posti di responsabilità e di grande rilievo. Pure io e Bob Mineido, il mio più caro amico di sempre, abbiamo avuto fortuna nel decidere di metterci insieme e aprire lo studio legale Stirling e Mineido. Una fortuna a tempo limitato, un futuro a scadenza, perché di più il destino non ci ha concesso. Ma questa è un' altra storia. | << | < | > | >> |Pagina 131Tashkent, Uzbekistan, 12 novembre Ne ho tutto il tempo è quindi decido di andare al Chayona girovagando con il metró. È sullo stile di quello di Mosca, con stazioni decorate e tutto il resto un po' bizantino. Anche qui adesso c'è qualche busto di Lenin in meno. Pressato tra la gente in un vagone che sfrigola sulle rotaie mi guardo intorno. Un mare di facce tutte uguali e tutte diverse, un incrociarsi di razze, un caleidoscopio di dialetti e colori. C'è la storia di questa terra nei volti che mi circondano e traballano con me ai sussulti della carozza che ci sta portando con fracasso da qualche parte. Sono schiacciato tra l'avanti Cristo e il dopo Cristo. Tra i macedoni di Alessandro Magno e i cinesi di Chang Chien. Tra i tibetani che seguirono i cinesi, e i turchi che scacciarono prima i macedoni e poi i persiani. Tra l'islam di Maometto e i mongoli di Gengis Khan e Tamerlano. Tra gli Unni venuti dalle grandi steppe e i russi mandati sin quaggiù degli zar di San Pietroburgo. Uomini e donne nati e vissuti nel cuore di un continente inghiottito tra le montagne più alte e i deserti più desolati, e da dove il resto del mondo appare ancora lontano, sbiadito, diverso. Un continente che ha visto la luce della Via della Seta e il buio di guerre fratricide e infinite. Che ha vissuto i massacri delle orde barbare e che ha portato al mondo la poesia di Ornar Khayan e l'astrologia di Ulughbek. Che è vissuto e morto di lotte di religione, di soprusi ed eroismi, di stragi e di aneliti di libertà.
Mi chiedo una volta di più cosa ci stia facendo qui. Se quello che sono
venuto a fare ha un senso. Che ne so di questa
gente, di ciò che pensa, di ciò che vuole? Sono arrivato credendo che il mio
avversario fosse una brillante donna francese
alla quale avrei dovuto strappare a tutti i costi l'appalto delle
dighe sull'Aral. Ora, a una decina di giorni da quando sono
atterrato a Tashkent, ho molti dubbi. E mi domando se invece
i veri avversari miei e nostri non siano gli aspetti economici del
progetto e le clausole contrattuali, ma un intero mondo che
in parte ancora non ci vuole, e che diffida dell'Occidente. Un
mondo che non ci capisce, e che noi non capiamo. Un mondo
che è stato da sempre oggetto di conquista e che in qualche
modo respinge tutto e tutti. Un mondo dove il progresso e una
prima parvenza di benessere hanno finito col correre in avanti
più di quanto abbia fatto la sua gente. Un mondo nel quale
uno straniero non sa ancora entrare.
Il Chayona è arredato come dovevano esserlo i caravanserragli al tempo della Via della Seta. Tappeti e arazzi dai mille colori, candele, nicchie ove appartarsi. Edith ha da tempo smesso il tailleur da donna in carriera e le scarpette col tacco, ora è infagottata alla meglio contro il freddo, come lo siamo tutti. È sempre molto bella, ma troppo perfetta, algida e lontana. Peccato. Per lei. Ceniamo con carne e broccoli e barbabietole, e naturalmente con il plov. L'etichetta del vino assicura che viene da vigneti impiantati secoli addietro nella Valle del Ferghana. È buono. Alla fine, quando ci portano il tè, smettiamo di parlare del freddo cane che fa fuori, della neve, del ghiaccio e di altre cose che non dicono niente. «È triste» osservo. Mi scruta. «Cosa?» «Che si debba essere nemici. Potremmo provare a non odiarci.» «Lei mi odia?» «Dipende. Se giocherà sporco, sì.» Beve un sorso di tè. I suoi occhi blu sono asettici e inquietanti. «Dave, so che è obbligato a vincere per ricominciare. Ma lo sono anch'io.» «È un po' diverso. Lei alle spalle ha una società solida, se dovesse perdere l'appalto non sarà la fine. Si vince o si perde, e poi si ricomincia da un'altra parte. Io non ho un'altra parte.» «La troverà.» «Crede?» «Ha avuto un Vladimir Kroshenko, ne incontrerà un altro.» «È stato un caso.» «La vita ne è piena. Allora, cosa farete per la variante?» «Presenteremo l'offerta il dodici dicembre.» «Prezzo a parte, stesse condizioni contrattuali?» «Non lo so ancora.» Sorride. «Invece lo sa benissimo. Non può discostarsi di un solo millimetro da quello che le ha imposto Kroshenko, mentre io ho piena libertà. La differenza tra noi due è tutta lì.» «Compresa la libertà di comprarsi l'appalto?» Si irrigidisce. «Le proibisco di parlarmi così. Pensi invece a quello che può fare Kroshenko, e che forse ha fatto ottenendo un mese di tempo per la variante, cosa che lei finge molto bene di non sapere. La ASP non ha fama di essere una viola mammola.» «Non mi interessa quello che può aver fatto Kroshenko, e non getti la palla a me. Quanto alle condizioni, se la BS vuole suicidarsi e offrire al Consorzio la luna e le stelle che chiederanno, faccia pure.» Un cameriere con pantaloni a sbuffo e camiciotto bianco ci versa dell'altro tè. Edith aspetta che se ne vada, poi mi fissa col suo freddo sguardo blu. «Quali sarebbero questa luna e queste stelle?» «Prezzo a parte?» Annuisce. «Perché dovrei dirglielo?» ribatto. «Perché tanto le conosciamo, sia io che lei.» «Allora me le dica.» Sorride nuovamente. «Dave, è patetico.» «Lo siamo in due.» «Già, e intanto c'è qualcuno che forse sta giocando sopra le nostre teste e che ci sta facendo fuori.» Interessante. È quello che da qualche giorno ho cominciato a pensare anch'io. «Edith, non divaghi. La luna e le stelle.» «Sono due, e alla ASP faranno perdere l'appalto. Clausola di forza maggiore e clausola arbitrale.» Sapevo che l'aveva capito da un pezzo. «Se su quelle lei cede,» osservo «la BS dovrà pagarne un prezzo molto salato.» «Dave, non mi gioco un appalto che può spalancare le porte dell'Asia Centrale per una questione di pura forma.» «Sa benissimo che non si tratta di forma.» «Per me sì. Le clausole contrattuali sono cose da avvocati.» «Ma possono mandare all'aria un contratto e chi l'ha firmato.» Si stringe nelle spalle. «Senta, è inutile continuare, siamo su terreni diversi e i nostri interessi non possono incontrarsi. Lei giochi le sue carte e io giocherò le mie.» «Sicura di vincere?» Sorride ancora, e questa volta è meno gelida. È certa di avermi costretto all'angolo. «Sì.» «Allora le offro una vodka.» Ce le portano. Il ristorante è un brusio di voci e di chitarre. Qui dentro sembra essersi concentrata stasera tutta l'alta borghesia di Tashkent. «Edith,» riprendo «perché pensa che qualcuno stia giocando sopra le nostre teste?» «Perché stanno succedendo cose strane.» «Me ne dica un paio.» «L'attentato a Sitora e la faccenda della variante.» Mi punta contro l'indice. «Non giochi a fare l'idiota, è quello che pensa anche lei.» «Ci aggiunga il petrolio. Cosa ne sa?» «Voci, quelle che abbiamo sentito tutti. Ne parlano a mezza bocca, ma ne parlano. Ci dev'essere del vero.» «La preoccupa?» «Sì.» «Potrebbe stravolgere il progetto delle dighe sull'Aral.» «Infatti.» «E la BS come pensa di cautelarsi?» Alza le spalle. «Sa correre i suoi rischi.» «Calcolati?» «Naturalmente.» Contavo che la vodka la sciogliesse un po', com'era successo l'altra volta. Invece non succede. Ci si sta abituando. | << | < | > | >> |Pagina 211Boukara, Uzbekistan, 16 dicembre Ho ancora negli occhi l'ocra delle mura e delle case, le cupole azzurre che svettano sulla città che gravita attorno alla vecchia fortezza, i colori dei vestiti delle donne, il sorriso dei bambini. Qui non è come a Tashkent, dove ho sempre la sensazione di essere sospeso tra passato e futuro. Boukara è ancora il passato. È nei volti larghi e bruniti e nei corpi massicci che dicono che qui sono arrivati Gengis Khan e Tamerlano. È nei mercati che sono ancora quello che sono sempre stati, coloriti centri d'incontro per chi non aveva altro modo per conoscere e farsi conoscere. È nelle vesti che sono come quelle di allora, i lunghi caffettani degli uomini, le tuniche a colori vivaci delle donne e delle ragazze che scendono a coprire pantaloni goffi e senza forma. È nelle guance rosse di freddo dei bambini, e nei loro giochi di sempre. Certo, c'è anche un po' di futuro. Nelle auto fumose, nei chioschi di Coca-Cola e nei bugigattoli da dove occhieggiano i pop-corn e i chewing-gum. Nelle bancarelle che offrono cose che sono del nostro mondo e non del loro. Nel ragazzino che vende i fazzoletti di carta o le pile. Negli alberghi che hanno nomi famosi e che schiacciano tutto dall'alto. E poi, regina del passato e di ciò che è stato, lassù c'è l'Ark, la fortezza che domina i tanti anni di storia di Boukara, con le sue mura marroni e i pilastri di pietra e la grande vasca d'acqua, e con la piazza dove oggi sostano i perdigiorno, e dove allora si torturava e si decapitava in nome della legge e del sultano. In questi due giorni Joseph Taskoniev è stato instancabile nel farci vedere la città in cui è nato e di cui è fiero, e prodigo di particolari e di curiosità. Rodion Timoshilov invece ha parlato pochissimo, ma in compenso ha badato a che a Edith e a me non sfuggisse niente di quello che il suo boss voleva farci vedere. E adesso siamo qui, nella sontuosa casa del presidente del Consorzio, o del suo oqsoqol, come ormai dovrei abituarmi a chiamare chiunque da queste parti presieda qualcosa. La villa di Taskoniev è nel cuore di un'ampia strada circolare non lontana dall'Ark. La neve ricopre il giardino e gli alberi scheletriti, ma nella bella stagione questa dev'essere un'oasi di pace e bellezza. Quella di stasera è stata la cena di commiato. Domani Edith ritorna a Tashkent e io andrò a Samarcanda. L'abbiamo consumata accoccolati su cuscini di seta e broccato, intorno a un tavolo rettangolare molto basso dove i camerieri hanno servito le buone cose della cucina di qui, tra cui l'immancabile plov e l'ottimo koumiss. Sul pavimento e alle pareti, i tappeti di splendidi rosso e nero e gli arazzi con i cieli trapunti di stelle. Dalla stanza accanto ci hanno accompagnato le note sommesse di una chitarra. Insomma, Joseph Taskoniev, che per l'occasione ha indossato la tradizionale tunica tagika, ha fatto di tutto per metterci a nostro agio, e c'è riuscito. Adesso stanno servendoci l'arak. Vestito così, Taskoniev sembra ancora più imponente. In confronto, il piccolo e rotondo Timoshilov, in una giacca troppo stretta e con una cravatta che meriterebbe una pubblica esecuzione sulla piazza del Registan, appare senza rimedio il devoto numero due che scodinzola ai cenni del capo. «Boukara, e non Tashkent, doveva essere la nostra capitale.» Taskoniev si accomoda meglio sulla pila di cuscini che lo sostiene. «Qui c'è la storia dell'Asia Centrale, dei suoi grandi traffici, delle sue vittorie e delle sue sconfitte. Tashkent è solo un'inutile invenzione dei sovietici.» «Tamerlano la capitale l'aveva voluta in Samarcanda» osserva Edith. «Sì, ma è durata poco. Non puoi andare contro la storia solo perché hai costruito madrasse e palazzi e mosaici. Il cuore della nostra gente è qui, noi tagiki c'eravamo prima dei turchi e degli uzbeki. Siamo ariani, discendiamo da Alessandro Magno e la nostra lingua è di ceppo iraniano. Tutti gli altri sono venuti dopo.» Taskoniev aggrotta le sopracciglia. Quando lo fa è sempre uno spettacolo, è come se sopra gli occhi gli calasse un colbacco. «Stalin» riprende «non ha capito niente quando ha disegnato a tavolino i confini di terre dove non aveva mai messo piede. I grandi khanati che hanno fatto la Via della Seta e che sino all'ultimo hanno tenuto testa agli zar sono stati quelli di Boukara e di Khiwa, e lì c'eravamo noi tagiki. Poi il Cremlino ci ha mescolati con gli altri e ci ha relegato in un angolo contro le montagne del Pamir, tagliandoci fuori dalle grandi strade di comunicazione. Il nostro Tagikistan dovrebbe essere qui, e gli uzbeki dovrebbero essere confinati dove Stalin ha messo noi.» «È per questo che ci sono i ribelli nella Valle del Ferghana?» chiede ancora Edith. «Anche per questo. Non si può umiliare un popolo elitario a favore di chi non ha vera storia e vere radici. I sovietici l'hanno fatto e si sono inventati Tashkent e l'Uzbekistan soltanto per punire noi tagiki, i soli che hanno tenuto testa prima agli zar e poi a Stalin e al suo regime. Sa da chi è fatta oggi la popolazione del Tagikistan? Da uzbeki, afghani, ebrei, ma tagiki molto pochi. Un caos di razze e religioni, una miscela che prima o poi esploderà perché in situazioni come questa la guerra civile è la sola via d'uscita, basta guardare a quello che è successo qui vicino, in Afghanistan. E tutto questo grazie al cinismo di Mosca e al servilismo di Tashkent.» Rodion Timoshilov annuisce. Lui, un russo nato a Tashkent, più che annuire dovrebbe contestare. Ma quello non è il suo pane. «Lei è un tagiko» osservo «però a Tashkent è arrivato molto in alto e fa parte della nomenclatura politica uzbeka. Non è una contraddizione con quello che ha detto? Non può fare niente per la sua gente?» Mi guarda. Senza malevolenza, mi guarda e basta. «Stirling, io mi batto tutti i giorni, ma non posso fare miracoli.» Forse non li vuole fare per non perdere il potere che ha raggiunto. Si nutre di ideali tagiki, ma campa alla grande grazie a quello che ha definito servilismo di Tashkent. Comodo, ma troppo facile. Non può sperare d'essere creduto. Oppure sa benissimo quello che pensiamo di lui e se ne infischia. Non è uno stupido, è uno che si fa gli affari suoi ammantandosi di patriottismo tagiko. Probabilmente quello che dice della sua gente è vero, però lui da tempo ha fatto le sue scelte. E adesso i suoi ideali, di cui s'è un po' scordato, li sbandiera a noi. Comunque, se ci ha invitati a casa sua regalandoci due giorni molto interessanti e facendoci vivere un'esperienza che altrimenti ci sarebbe stata impossibile, non l'ha fatto certo per Edith e per me. È evidente che ha qualcosa da dirci, e che per farlo aspetta il momento opportuno. E adesso che quel momento sembra essere arrivato, sono sicuro che la palla gliela lancerà Timoshilov. E infatti, dopo un altro giro di arak, l'ornino si toglie gli occhialini e si schiarisce la voce. «Presidente, forse dovrebbe dire ai suoi ospiti che c'è una novità che riguarda l'appalto.» Edith mi sbircia. Ha le guance arrossate e il nasetto più all'insù del solito. Sta sul chi vive. Io invece mi sistemo i cuscini. Le cattive notizie meglio prenderle comodi. «Rodion ha ragione,» Taskoniev annuisce «preferisco parlarne davanti a un buon arak che nel mio ufficio di Tashkent.» «Ci anticipate il verdetto?» domando. «No, al contrario.» Anche lui si schiarisce la voce. «Temo che ci sarà un ulteriore ritardo.» Edith sussulta. «Un ritardo? Ma cosa...» «Miss Beauvart, la prego di capirmi. Non dipende dal Consorzio, è qualcosa che viene dall'alto.» «Dal governo?» «Dalla Banca Mondiale.» Edith mi guarda ancora. I suoi occhi lanciano bagliori. «Ci sta dicendo che l'esito della gara non sarà comunicata il diciannove dicembre?» «Esatto, inutile correre. I tempi si sono allungati.» «Sia più chiaro» gli chiedo. «Dobbiamo verificare in maggior dettaglio l'eventualità di una bonifica dei terreni interessati dai lavori. Sapete che i fertilizzanti e gli antiparassitari usati nel tempo per il cotone hanno causato problemi d'inquinamento. Ora sta nuovamente prevalendo la scelta di risanare terreno e fondali al tempo stesso della costruzione delle dighe. Se così sarà deciso, dovremo lanciare un altro appalto per queste bonifiche.» «E quindi?» Edith è gelida. «Quindi inutile correre per le dighe. È più prudente aspettare.» «Aspettare quanto?» «Due mesi.» «Ci faccia capire» osservo. «La Banca Mondiale e il Consorzio stanno considerando l'effettuazione di lavori di bonifica in concomitanza con la costruzione delle dighe, quindi nel frattempo l'assegnazione del nostro appalto è rinviata. È così?» «Esatto. Tutto sarà definito entro il prossimo febbraio.» «E ce lo dite adesso? Soltanto qualche settimana fa le bonifiche le avevate escluse.» «Allora non c'erano le pressioni che ci sono oggi» Taskoniev è brusco. «Mi rendo conto delle vostre difficoltà, ma non è una nostra scelta.» «Difficoltà?» Edith balza in piedi. «Ci avete costretto a lavorare giorno e notte per rispettare la scadenza del bando di inizio novembre, poi avete inserito la variante di progetto e avete portato i tempi al diciannove dicembre. Ora ci venite a dire che non se ne parla sino a fine febbraio... Questo non solo non è serio, ma...» «Criminale» completo io. Joseph Taskoniev si irrigidisce. «Vi chiedo di moderate i termini. So che il rinvio vi causa dei problemi, ma la vostra reazione è eccessiva.» «È la reazione di chi ha qualcuno cui deve rispondere.» Cerco di smussare i toni, ma non è facile, qui ci stanno prendendo in giro. «Sia la BS che l'ASP hanno operazioni in corso altrove e lavori da pianificare e organizzare, e costi che continuano a salire. Quello dell'Aral non è il solo appalto internazionale che hanno in ballo, ce ne sono in altre parti del mondo. È necessario avere certezza di date e impegni. Non è pensabile che il Consorzio rinvii di continuo le sue decisioni.» «Nessuno può essere certo di niente» Taskoniev ha un sogghigno sotto le sopracciglia aggrottate. «Oggi qui siete in due, ma solo uno di voi avrà l'appalto. Dove sono le vostre certezze?» «Sono nel conoscere se dovremo impegnarci in Uzbekistan oppure altrove. Fino a qualche minuto fa sapevamo che fra tre giorni uno di noi due doveva andarsene da qui e dedicare la sua attenzione a qualche altra parte del mondo. Ora invece per decidere le loro nuove strategie sia la ASP che la BS dovranno aspettare altri due mesi. Lei sa benissimo cosa significa per noi questo nuovo rinvio, sia in termini di pianificazione aziendale che di costi.» «Il presidente vi ha detto con chiarezza che non è una nostra scelta» interviene Rodion Tismoshilov con voce flautata. «Il Consorzio riceve finanziamenti dalle istituzioni internazionali e non può non tener conto delle loro decisioni.» «Che sono sorte all'improvviso? Oppure che ci sono state taciute?» «Non ve ne abbiamo parlato prima perché contavamo di superarle,» il tono di Taskoniev è perentorio «ma non ci siamo riusciti. A questo punto siamo obbligati a mettervi al corrente.» Edith torna a sedersi. È pallida, furibonda. «Potremmo citarvi in giudizio. Stirling ha ragione, esistevano dei termini ufficiali sui quali le nostre società hanno fatto affidamento e il Consorzio li ha disattesi due volte.» «Fate quello che credete.» Taskoniev guarda l'orologio. «C'è altro prima di augurarci la buona notte?» «Si tratta di bonifiche per inquinamento da pesticidi e agenti chimici usati per il cotone, oppure anche per qualcos'altro?» Mi fissa. «Si spieghi meglio.» «Tra gli anni Settanta e Ottanta i sovietici avevano dei laboratori molto particolari sull'isola oggetto della variante di progetto, la Vozrozhdenia.» È la prima volta che riesco a pronunciarne il nome. «La bonifica si estenderebbe anche all'inquinamento causato dall'URSS?» «Non so di cosa stia fantasticando. Non ascolti tutte le leggende che si raccontano sull'Aral.» «Non ha mai sentito parlare dello scienziato Alibekov? È un uzbeko, uno della sua terra.» «Io sono tagiko, e quello era un ciarlatano.» «Un ciarlatano cui Mosca aveva affidato la direzione dei suoi laboratori segreti.» Edith sgrana gli occhi. Non deve saperne niente. Le labbra di Taskoniev sono due fessure. «Ripeto che si tratta solo di leggende. Se ne dimentichi.»
«È un consiglio?»
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