|
|
| << | < | > | >> |IndicePietro Greco e Settimo Termini, Introduzione 7 Settimo Termini, Oltre il declino 11 Pietro Greco, Il mondo della scienza 29 Sergio Ferrari, Le ragioni del declino 43 Sergio Bruno, Declino, ricerca, attività produttive 65 Rino Falcone, Ricerca e sviluppo tecnologico 101 Luciano Pietronero, Uno scienziato e il valore umano dell'innovazione 109 Walter Tocci, Declino o decadenza? 119 Luigi Nicolais, Cambiare è possibile 129 Fabio Mussi, L'Italia ce la farà 147 Gli autori 159 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Pietro Greco e Settimo Termini
INTRODUZIONE
L'Italia è in declino. Ce lo dicono molti indicatori economici e una costellazione di autorevoli osservatori. Il sociologo Luciano Gallino ha parlato addirittura di «Italia in frantumi», legando la dissolvenza dell'economia e soprattutto delle garanzie del lavoro all'evoluzione dell'economia mondiale e alla nostra attuale incapacità di trovare una risposta adeguata. I motivi del declino sono strutturali: abbiamo da tempo abbracciato un modello di «sviluppo senza ricerca» che non è più sostenibile. Ma sono anche culturali: da qualche tempo non siamo capaci di porci all'altezza della sfida. Spesso non ci accorgiamo neppure che una sfida è in atto. Il presidente Carlo Azeglio Ciampi a suo tempo ci ha invitato, tuttavia, a non lasciarci catturare dalla «retorica del declino». Interpretiamo l'invito non come un rifiuto dei dati di fatto, ma come un appello a gettare il cuore oltre l'ostacolo. A pensare all'«Italia oltre il declino». Il percorso è uno solo: ribaltare il nostro modello economico e aderire a un modello di sviluppo attraverso la ricerca. Il che significa ribaltare la «vocazione profonda» delle nostre imprese e modificare in maniera radicale la specializzazione del sistema produttivo italiano. Insomma, non solo scarpe e divani, ma anche e soprattutto tecnologia di punta. Di questo processo devono essere attori principali anche le università, gli enti pubblici di ricerca e tutta la cultura del nostro paese. È un'impresa titanica. Ma ce la possiamo fare. Solo, però, se agiamo con determinazione e rigore. Lo Stato deve intervenire. Ma solo per delineare le strategie per portare l'Italia fuori dal declino e aiutare la formazione di un sistema d'imprese capaci di competere senza reti nei settori di punta dell'economia globale. Non serve camuffare gli aiuti alle imprese per stimoli all'innovazione. Lo Stato deve evitare finanziamenti a pioggia al sistema produttivo e incentivare la vera innovazione, che è essenzialmente innovazione di prodotto. Ma anche il sistema pubblico di ricerca deve fare di più, certo: molto di più. Deve contribuire a modificare la cultura del paese. Deve rendersi disponibile a un sistematico ed efficace trasferimento delle conoscenze dai laboratori alla società. Deve anche continuare a conservare gelosamente la propria capacità di competere al meglio al livello internazionale nella ricerca. Deve rompere le barriere tra università, enti pubblici di ricerca e mondo delle imprese. Ma ci chiediamo e chiediamo a chi sa d'economia se non siano soprattutto le imprese a dover mostrare coraggio. E trovare subito, al proprio interno, le risorse culturali, umane e finanziarie per cambiare specializzazione produttiva e per svolgere le attività di ricerca e sviluppo tecnologico. Solo se il sistema produttivo manifesta il desiderio e la capacità di cogliere la portata della sfida, allora il trasferimento delle conoscenze dai laboratori alle imprese diventa davvero efficace. Ci chiediamo, infine, cosa la politica ha concretamente in mente a questo proposito. Questo libro - che riprende i temi affrontati nel convegno L'Italia oltre il declino tenutosi a Napoli nella sala «accoglienza» del Palazzo Reale il 2 aprile 2007 - è solo una prima risposta alle questioni che poniamo. | << | < | > | >> |Pagina 65Sergio Bruno
DECLINO, RICERCA, ATTIVITA' PRODUTTIVE
Politiche di buon senso che solo in Italia non hanno strada Quando ci poniamo in concreto il problema di andare in Italia «oltre il declino» e contemporaneamente prendiamo atto dei dati comparativi sulle risorse destinate alla ricerca e sui soggetti coinvolti nella ricerca (non solo numerosità ma anche differenziazione), anche i più sprovveduti sarebbero portati a formulare l'ipotesi di un nesso causale tra tali fenomeni. Da metà degli anni '90 si sono invertite le dinamiche di produttività: l'Europa ha una dinamica che è divenuta la metà di quella nord-americana, in Italia è divenuta - diceva Domenico Modugno - come il peso sulla luna, la metà della metà. L'Europa sta variamente tentando di reagire, l'Italia è ferma o regredisce. Ove poi, approfondendo, si prendessero in considerazione alcuni fatti ulteriori, e cioè che: a) la maggiore carenza comparativa riguarda la ricerca da parte delle imprese, seguita a ruota dallo scarso spessore della cosiddetta «seconda rete di ricerca», b) che vi è ampia esportazione di cervelli e nessuna loro importazione, c) che fino ai primi anni Duemila, sebbene l'Italia non ottenesse molti contratti di ricerca europei in assoluto, era ai primi posti nel numero di contratti per ricercatore, si sarebbe portati a ipotizzare che esistono ancora, sia pure a macchia di leopardo, forti presidi nella capacità di ricerca e di formazione alla ricerca, un fatto importante sul quale tentare di fare leva per salvare e rilanciare il sistema, senza farsi sviare dall'esistenza, pur vera, di fenomeni degenerativi. Del resto un esame di impact factor in campi come quello biologico, della fisica, dell'archeologia, in alcuni campi dell'ingegneria e dell'economia, per limitarmi a pochi esempi, confermerebbe questa valutazione. Se infine, lungi da fare leva sui fenomeni degenerativi (come purtroppo fanno alcuni opinion makers poco attenti alla impossibilità di importare frammenti parziali di «modelli» Usa senza un attento studio dei sistemi che li contengono e li hanno generati; in proposito rinvio all'Appendice E), si ponesse attenzione alla concreta percorribilità di un processo di salvataggio e rilancio di buon livello, ancora possibile e straordinariamente redditizio, ci si renderebbe conto che, probabilmente, occorre enfatizzare le opzioni piuttosto che i limiti, creandone di nuove, e al contempo porre attenzione (con una corretta ottica micro-economica e micro-organizzativa) ai fattori di agibilità e di incentivo che segnano l'attuale quadro. La vera questione di fondo, a mio avviso, è in primo luogo infatti quella di stabilire condizioni di fattibilità e di incentivo per attività di ricerca da parte di tutti coloro che hanno, o potrebbero trovare nell'arco di un tempo relativamente breve (tre-cinque anni) una posta in gioco. Un'attività di ricerca che sia seria. E, di conseguenza, fortemente complementare alla ricerca di base. Che con la ricerca di base sia in condizione di continua osmosi, sia tramite rapporti diretti con la sfera scientifica sia attraverso una forte circolazione dei ricercatori più giovani. Quanto segue riproduce, questioni di forma a parte, un insieme di proposte che sono state portate all'attenzione, apparentemente apprezzate ma di fatto inutilmente, per quanto ne so, del Miur e dello stesso ministro. Le proposte sono singolarmente di portata relativamente piccola, ma complementari tra loro e attente, direi attentissime, a quell'insieme di fattori e vincoli di tipo giuridico e organizzativo che limitano l'agibilità di attività di ricerca e di connessioni tra sfera della ricerca e sfera della produzione, facendo, per ciò stesso, mancare incentivi a sviluppare tali attività. Il loro costo complessivo è, nella peggiore delle ipotesi, irrisorio; nella migliore tale da avere un costo effettivo negativo (dando luogo a un aumento effettivo di gettito per il bilancio pubblico e per i bilanci dei soggetti di ricerca coinvolti), lasciando ampiamente funzionare il mercato nei contenuti delle scelte operative, coinvolgendo selettivamente solo i soggetti di ricerca più attivi e migliori. La filosofia di fondo è dunque che non servono, nell'attuale situazione, grandi o piccoli interventi sezionali, come quelli di incentivazione alla ricerca da parte delle imprese contenute nella finanziaria in vigore. Occorrono invece mirati interventi complementari, anche di modesta misura, ma mirati e calibrati, che rendano fattibile e appetibile fare quello che serve per soddisfare gli obiettivi. In gran parte si tratta di eliminare fattori scoraggianti, pesantezze immotivate, fattori di eccessiva sfiducia nei confronti dei protagonisti. Il migliore commento alle proposte pubblicate di seguito è stato: «Si tratta di cose di tale buon senso che solo in Italia non fanno strada». Il commento è interessante perché viene da una segretaria amministrativa (molto efficiente e ottima conoscitrice delle regole) di un Dipartimento universitario che gestisce una mole ingente di contratti, da quelli europei a quelli con agenzie pubbliche e con il settore privato, oltre che grandi finanziamenti del circuito Miur. | << | < | > | >> |Pagina 109Luciano Pietronero
UNO SCIENZIATO E IL FATTORE UMANO DELL'INNOVAZIONE
Il tema del declino dell'Italia e dell'urgenza di superarlo può essere
analizzato secondo varie prospettive. Con un approccio analitico, in primo
luogo. Ma anche sulla base dell'esperienza soggettiva. Io vorrei analizzare
alcune mie esperienze personali nella prospettiva generale, identificando gli
elementi positivi, i punti critici e le zone dove un miglioramento è
realisticamente possibile.
Prospettiva personale
Sono un fisico (nato nel 1949) e mi sono laureato a Roma nel 1971. Poi sono
stato 16 anni all'estero: Francia, Usa, Svizzera e Olanda. Di cui 10 anni in
laboratori industriali (Xerox, Usa e Brown Boveri, Svizzera). Nel 1983 sono
diventato professore ordinario in Olanda (Groningen) e dal 1987 sono professore
ordinario a Roma. La mia attività di ricerca è a carattere sia fondamentale che
applicativo, per lo più è interdisciplinare. Sono coordinatore di molti progetti
europei; membro del Comitato di valutazione della fondazione Max Planck;
consulente di laboratori Ibm sia negli Usa che in Svizzera. In Italia ho avuto
esperienze di collaborazione con due enti pubblici di ricerca: l'Infm e il Cnr.
Sono fondatore dell'Istituto dei sistemi complessi (Isc) del Cnr (2004).
Attività nell'Istituto nazionale di fisica della materia (Infm)
Sono stato direttore della Unità Infm di Roma (200 ricercatori) dal 1995
al 2001. Sono il fondatore del Centro Ricerca e Sviluppo dell'Infm: Statistical
Mechanics and Complexity (2001). In quel medesimo anno, il 2001, sono stato
Chairman della Conferenza INFMeeting a Roma con 1100 partecipanti (il maggiore
evento mai organizzato dall'Infm).
Attività nel Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) Partiamo dal biennio 2003-2004 e dalla legge Moratti. Maturai subito molte perplessità su vari aspetti della legge: eccesso di verticismo; regolamentazioni eccessive e poca flessibilità; assenza di ruolo della comunità scientifica; criteri di valutazione poco chiari e non appropriati a un ente di ricerca; chiusura dell'Infm. Nonostante queste perplessità si creò un rapporto molto positivo con il commissario Adriano De Maio, che portò alla fondazione dell'Istituto dei sistemi complessi in una situazione peraltro molto turbolenta. L'idea era di fornire un esempio di un nuovo tipo di istituto di ricerca. De Maio apprezzò molto le nostre proposte e infatti cercammo di prendere il meglio della legge Moratti: L'Istituto dei sistemi complessi venne fondato con una concezione moderna e intrinsecamente interdisciplinare, che aggregava personale da vane istituzioni: Cnr, Infm, Inoa (Istituto nazionale di ottica applicata) e università. Ben 250 persone hanno spontaneamente manifestato interesse ad afferire al nuovo istituto (massa critica). L'inizio fu quindi entusiasmante e l'idea di De Maio era che poi si sarebbero fondati altri 10 istituti (circa) di questo tipo, si sarebbero così integrati in modo organico Infm, Inoa e definite le afferenze degli universitari. L'Isc costituisce l'unico progetto scientifico apparso nel Cnr da 5 anni ed era perfettamente in linea con i criteri del decreto Moratti. Inoltre ha un record scientifico migliore dell'analogo Istituto Max Planck sullo stesso tema e ha sviluppato molti contatti concreti con istituzioni e aziende. Questa dinamica positiva si è bruscamente interrotta con il termine del commissariamento di De Maio e l'arrivo dell'attuale presidente, Fabio Pistella, nel giugno 2004. I regolamenti voluti dalla nuova presidenza hanno convogliato qualunque decisione direttamente al presidente, che per due anni ha anche firmato tutti i contratti e tutte le borse di studio, cioè decine o centinaia di atti al giorno. La cosa veniva descritta come analisi professionale ma aveva uno scopo puramente accentratore. Infatti non risulta che alcuna reale valutazione scientifica sia mai stata realizzata. Questa situazione ha provocato una paralisi della burocrazia (già eccessiva), così che fare un progetto è diventato molto più difficile. Poi, con l'emergere della palese assurdità di queste procedure (le pratiche si bloccavano per vari mesi senza alcuna vera ragione), sono state concesse delle deleghe che possono però essere revocate in ogni momento. L'introduzione delle commesse ha ulteriormente appesantito la burocrazia e la contabilità che già erano considerate punti particolarmente critici nel Cnr. Le commesse sono semplicemente un artifizio di bilancio per far assomigliare il Cnr a una azienda. Il loro ruolo è puramente cosmetico perché il bilancio è assorbito praticamente tutto da stipendi e spese fisse, mentre la parte discrezionale è una frazione irrisoria. Le vere assegnazioni di risorse sono di fatto ancora basate sugli istituti, che sono le sedi naturali delle ricerche (come in tutto il mondo). Poi però il bilancio viene interamente riscritto in termini di commesse con una enorme burocrazia, confusione e grandissima perdita di tempo. In questi tre anni non c'è stata alcuna traccia di valutazione nel merito scientifico (anche applicativo) ma si è cercato di creare un controllo assolutamente verticistico attraverso schemi burocratici non solo inutili, ma molto dannosi. Nell'autunno 2005 mi vennero richieste dal presidente una relazione dettagliata sulle attività svolte dall'Isc e una descrizione delle sue prospettive. Consegnai due dettagliati documenti rispetto ai quali non c'è poi stata alcuna analisi, reazione o commento. L'Isc venne poi stabilizzato insieme ad altri 89 istituti solo sulla base del conteggio del personale e del budget, una analisi che poteva fare un amministrativo in pochi minuti. All'incirca lo stesso discorso può essere fatto per i recenti Dipartimenti. Vediamo un esempio di questa improbabile procedura. Fino al 2003 gli istituti erano abbastanza autonomi e rappresentavano i luoghi naturali per definire dei progetti di ricerca. Un progetto europeo poteva nascere in un istituto e svilupparsi direttamente in modo abbastanza rapido. Adesso un progetto europeo deve risultare formalmente inserito in una commessa ed essere approvato dal Dipartimento, oltre che dall'istituto. Quindi in teoria commesse e Dipartimenti avrebbero solo un potere di veto nel caso che il progetto non fosse in armonia con i loro programmi, ma certamente non si vede come una tale situazione possa favorire lo sviluppo o l'approvazione dei progetti dato che poi la cosa dipende dall'entità esterna che lo finanzia veramente. Con questo non voglio dire che prima del 2003 la situazione fosse ottimale. La burocrazia era già eccessiva ma adesso la situazione è di gran lunga peggiorata. Il fatto che nei rapporti ufficiali queste vessazioni vengono presentate come un successo dell'ente con tanto di supporto della Corte dei conti è piuttosto inquietante. È come se, conti alla mano, un rapporto ufficiale dimostrasse che il Policlinico Umberto I è un albergo a cinque stelle, esempio luminoso di efficienza e pulizia. La situazione che abbiamo descritto dimostra che, con la stessa legge (Moratti) si possono avere situazioni assolutamente diverse, a seconda delle persone che la implementano. Nel caso di De Maio siamo riusciti a cogliere gli aspetti più positivi di quell'assetto organizzativo, mentre con la presidenza successiva si sono amplificati gli aspetti più deteriori. Da questa osservazione nascono due conseguenze e proposte. 1. L'assetto del decreto Moratti è troppo dipendente da una sola persona. Va modificato nella direzione di un maggiore coinvolgimento della comunità scientifica e va chiarito a chi e in che modo si deve rendere conto dei risultati.
2. La scelta delle persone è in ogni caso
fondamentale. Un assetto legislativo non ottimale può essere interpretato al
meglio da persone competenti e ben intenzionate. Al contrario, anche la legge
più perfetta viene vanificata dalla scelta inappropriata delle persone.
Come pianificare la creatività: la valutazione dei progetti scientifici e il paradosso della competenza Vediamo ora di proporre alcune considerazioni concrete e propositive per la valorizzazione degli aspetti più innovativi e creativi sia in ambito scientifico che industriale. Nel 1983-84 diventai professore universitario in Olanda e cominciai a ricevere progetti scientifici da valutare per varie istituzioni. Mi posi questo problema animato dalle migliori intenzioni e sviluppai dei criteri che mi sembravano i migliori possibili: competenza e conoscenza dello stato dell'arte del campo, credibilità scientifica del gruppo proponente e sua adeguatezza rispetto al progetto, originalità della proposta, ecc. Così andai avanti per un paio d'anni ritenendo di fare la cosa migliore possibile. Poi, tra il 1986 e il 1987 avvennero tre eventi che fecero vacillare il mio perfetto schema. Mi riferisco a tre scoperte che hanno avuto poi il premio Nobel e cioè l'effetto Hall quantistico, il microscopio ad effetto tunnel e la superconduttività ad alta temperatura. Ebbene mi accorsi con sconcerto che se questi tre progetti mi fossero stati sottoposti per una valutazione li avrei bocciati tutti e tre! Non solo, anche a posteriori non riuscivo a capire come avrei potuto fare diversamente. Prendiamo la superconduttività ad alta temperatura. Tutto nasce da una idea di Alex Müller (che conoscevo bene e con cui ho in seguito collaborato) che era un esperto di transizioni strutturali nei solidi. La sua idea era che vicino a una transizione strutturale l'interazione tra elettroni e fononi fosse amplificata dalla situazione di instabilità. Questa idea è in realtà abbastanza naive e può essere confutata da una dettagliata analisi tecnica. Infatti dal punto di vista di Müller i composti ideali sarebbero stati quelli del tipo SrTiO2 (titanato di stronzio) che invece non funzionano. I famosi composti cuprati corrispondono a una categoria secondaria rispetto al meccanismo ipotizzato, ma hanno dato i risultati aspettati e anche di più. Infine oggi, dopo vent'anni, la teoria è ancora dibattuta e ben pochi considerano le idee che hanno guidato Müller come quelle essenziali del meccanismo superconduttivo. Da questa discussione risulta chiaro che il progetto di Müller, analizzato al meglio delle competenze del momento, non doveva essere approvato. Müller lo ha potuto portare avanti nei laboratori Ibm di Zurigo perché non richiedeva grandi mezzi e, godendo di una certa credibilità, gli veniva lasciata una certa autonomia discrezionale. Per gli altri due casi si possono fare considerazioni analoghe che risparmio al lettore. Questa situazione non deve però sorprendere più di tanto perché sappiamo, ad esempio, che Colombo voleva andare in India e invece è andato in America. Anche per le scoperte di Marconi e di molti altri si possono fare considerazioni analoghe. [...]
Questi eventi mi provocarono una vera crisi rispetto ai metodi di
valutazione. Dopo lunghe riflessioni mi sono dato la seguente risposta. I metodi
di valutazione tradizionali vanno abbastanza bene per le attività di tipo
tradizionale, che sono la parte quantitativamente maggiore dell'attività
scientifica. Secondo Thomas Kuhn, infatti, il progresso scientifico è costituito
da una dinamica intermittente che alterna fasi di sviluppo tradizionali a veri e
propri salti qualitativi. Questi ultimi, per definizione, non possono essere
pianificati e l'onere della prova spetta al proponente. Dal punto di vista dei
criteri di valutazione tutto quello che si può fare è cercare di evitare che
diventino in pratica impossibili. Quindi bisogna evitare criteri troppo stretti
e lasciare al sistema valutativo un certo tasso di entropia. Da questo punto di
vista una situazione che richiede punteggi assolutamente eccellenti è da evitare
perché favorirebbe troppo le attività su cui c'è un consenso unanime, che
difficilmente sono quelle più innovative.
|