Copertina
Autore Andrew Sean Greer
Titolo La storia di un matrimonio
EdizioneAdelphi, Milano, 2008, Fabula 203 , pag. 230, cop.fle., dim. 14x22x1,6 cm , Isbn 978-88-459-2328-9
OriginaleThe Story of a Marriage [2008]
TraduttoreGiuseppina Oneto
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa statunitense
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Pagina 9

Crediamo tutti di conoscere la persona che amiamo.

Nostro marito, nostra moglie. E li conosciamo davvero, anzi a volte siamo loro: a una festa, divisi in mezzo alla gente, ci troviamo a esprimere le loro opinioni, i loro gusti in fatto di libri e di cucina, a raccontare episodi che non sono nostri, ma loro. Li osserviamo quando parlano e quando guidano, notiamo come si vestono e come intingono una zolletta nel caffè e la guardano mentre da bianca diventa marrone, per poi, soddisfatti, lasciarla cadere nella tazza. Io osservavo la zolletta di mio marito tutte le mattine: ero una moglie attenta.

Crediamo di conoscerli, di amarli. Ma ciò che amiamo si rivela una traduzione scadente da una lingua che conosciamo appena. Risalire all'originale è impossibile. E pur avendo visto tutto quello che c'era da vedere, che cosa abbiamo capito?

Una mattina ci svegliamo. Accanto a noi, nel letto, il corpo familiare che dorme: uno straniero di tipo nuovo. A me è capitato nel 1953. Lì, a casa mia, ho visto una creatura che aveva la faccia di mio marito solo grazie a un sortilegio.

Forse un matrimonio non si vede, un po' come quei giganteschi corpi celesti che sfuggono all'occhio umano: lo si può monitorare solo in base alla forza di gravità, all'attrazione che esercita su tutto ciò che lo circonda. Mi sembra di doverlo scrutare così, il matrimonio, con tutti i suoi fatti nascosti, le parti segrete, perché finalmente mi si riveli, lontano, ruotando come una stella oscura.


Come ho conosciuto mio marito: neppure questa è una storia semplice. Ci siamo conosciuti due volte: la prima nel Kentucky, dove siamo nati entrambi, e la seconda su una spiaggia di San Francisco. È stata sempre la nostra battuta preferita, che siamo stati due perfetti estranei due volte.

Mi sono innamorata di Holland Cook ai tempi di scuola. Vivevamo nella stessa comunità rurale piena di ragazzi da amare – a quell'età ero come una di quelle rane verdissime dell'Amazzonia, sprizzavo emozioni da tutti i pori –, ma io non attiravo gli sguardi di nessuno. Erano le altre a vedersi cascare ai piedi i ragazzi, e anche se io mi pettinavo come loro e staccavo i pizzi dai vestiti vecchi per cucirli sugli orli, non cambiava niente. La pelle cominciava a sembrarmi un vestito troppo stretto; mi vedevo alta e goffa; e siccome nessuno mi aveva mai detto che ero bella – né mia madre né mio padre, sempre pronto a disapprovarmi –, ho deciso che dovevo per forza essere brutta.

Quando poi un ragazzo mi ha guardata negli occhi, mi ha aspettata all'uscita di scuola e è venuto a casa a mangiare una fetta di pane, non sapevo che cosa pensare. Capivo che voleva qualcosa, ma pensavo a un aiuto nei compiti; così in classe facevo di tutto per nascondere i quaderni e sedermi lontano da lui. Non mi sarei lasciata sfruttare. Ma evidentemente non era quello a interessargli, perché a scuola era sempre stato bravo. Per tutti quegli anni non ha mai detto che cosa volesse, ma gli uomini non si giudicano dalle parole, si giudicano dai fatti, e una bella notte di maggio, costeggiando un campo di fragole, mi ha tenuta per mano fino a Childress. È bastato quel breve contatto, al tempo in cui i nervi mi stavano sopra la pelle come trine, per sciogliermi il cuore.

Ero con Holland durante la seconda guerra mondiale. Gli piaceva che parlassi «come un libro stampato» e non come le altre, e quando per lui è venuta l'ora di arruolarsi, l'ho guardato salire sul pullman e partire per la guerra. Un grande dolore che fa sentire molto sola una ragazza.

Non ho mai pensato di potermene andare anch'io, finché non si è presentato a casa nostra un agente federale che ha chiesto proprio di me, nome e cognome. Sono scesa per le scale col mio prendisole scolorito e mi sono trovata di fronte un uomo sanguigno e ben sbarbato, che sul risvolto della giacca portava una spilla dorata della Statua della Libertà: l'ho desiderata con tutta me stessa. Pinker, si chiamava così, era il tipo d'uomo a cui si deve ubbidire. Mi ha parlato dei posti di lavoro in California, delle industrie che avevano bisogno di donne forti come me. Le sue parole erano come strappi in una tenda da cui potevo sbirciare un mondo che non avevo mai neppure immaginato: gli aerei, la California; mi sembrava di accettare un viaggio su un altro pianeta. L'ho ringraziato e lui mi ha detto: «Bene, allora in cambio mi farà un favore». Giovane com'ero non mi è sembrato niente di speciale.

«Finalmente una buona idea» ha commentato mio padre quando gli ho detto che volevo partire. Non ricordo un'altra occasione in cui mi abbia guardata negli occhi tanto a lungo. Ho fatto le valigie e nel Kentucky non sono mai più tornata.

Sul pullman per la California studiavo le montagne che arrivavano fino alle nuvole; e sopra le nuvole montagne ancora più alte. Era come se il mondo fosse incantato e nessuno me lo avesse mai detto.

Il favore che Pinker mi aveva chiesto era semplicissimo: voleva che gli scrivessi delle lettere. Dovevo raccontargli delle altre ragazze del cantiere navale e degli aerei e delle conversazioni che mi capitava di sentire, e le abitudini quotidiane: cosa si mangiava, cosa vedevo, cosa mi mettevo. Mi veniva da ridere pensando all'uso che poteva farne. Adesso posso solo ridere di me stessa: il governo era in cerca di eventuali attività sospette, ma Pinker non me lo aveva detto. Mi aveva detto di far finta di tenere un diario. Io ero scrupolosa: ho continuato anche dopo aver lasciato il primo impiego, quando sono diventata volontaria della Marina. Poche volontarie venivano dalla campagna come me; ci spalmavamo il Noxzema sui brufoli, dimenavamo il didietro ascoltando la radio, ci abituavamo a bere Coca-Cola invece del caffè razionato e a mangiare piatti cinesi invece degli hamburger. Ogni sera mi mettevo a tavolino cercando di scrivere tutto, ma la mia vita mi sembrava troppo vuota; non valeva la pena di raccontarla. Come tanta gente, non avevo orecchie per le mie storie, perciò le inventavo.

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Pagina 63

Non dimenticherò mai Eslanda Goode Robeson, la moglie del cantante Paul Robeson, che quell'anno fu chiamata davanti alla commissione. Cohn e McCarthy le chiesero se era comunista, e quell'orgogliosa donna di colore col vestito e il cappello a fiori si rifiutò di rispondere appellandosi al Quinto e al Quindicesimo emendamento. Il Quindicesimo? chiese Roy Cohn, perplesso. «Sì, il Quindicesimo» gli rispose lei con aria regale. «Sa, io sono negra, e mi hanno insegnato a proteggermi appellandomi al Quindicesimo emendamento». Cohn ribatté che era una sciocchezza; il Quindicesimo riguarda il diritto di voto. Ma lei scosse la testa: «Mi sono sempre protetta così... Vede, in questo paese sono una cittadina di second'ordine e quindi sento il bisogno di appellarmi al Quindicesimo. Lo faccio perché io non sono uguale ai bianchi» . Cohn non riuscì a cavare altro a quella donna; la sua versione della vita nel nostro paese era intraducibile.

A scuola Eslanda Goode Robeson non è argomento di studio. Nei libri di testo non c'è spazio, tra le miriadi di battaglie e trattati, per le mogli memorabili. Ma io non ho mai dimenticato le sue parole sul bisogno di avere una doppia corazza per proteggersi: mi sono rimaste vivide nella mente e hanno guidato la mia vita come un sestante.

Al Sunset noi eravamo l'unica famiglia negra. Sarebbe stato diverso se avessi avuto un'amica di cui fidarmi, una donna di colore che mi potesse nascondere con Sonny nella stanza dove cuciva, come si fa con le mogli maltrattate: mi sarei rifugiata tra le sue braccia. Ma io non venivo maltrattata; anzi, a modo mio ero molto amata. E non avevo un'amica così. E non era il caso di rivolgermi a Edith, l'unica ebrea del quartiere che rispecchiava la mia solitudine sull'altro lato della strada. Scappare quella notte con Sonny era fuori discussione: immaginate una donna di colore che cammina sulla statale col figlio menomato e cerca aiuto da altri fuggitivi. Non era certo quello il modo di salvarlo. Il rifugio più logico sarebbe stato la comunità negra di Fillmore, ma avevamo tagliato i ponti anche con quel mondo.

All'epoca davo la colpa alle zie di Holland. Dicevano di venire dalle Hawaii, di discendere, per parte di padre, dalla figlia di un capitano delle Indie occidentali e da un nipote del Capitano Cook; quella simpatica e improbabile leggenda dava loro un'idea di distinzione. Le zie erano le tipiche esponenti della vecchia società negra di San Francisco: colte, intellettuali, ansiose di concludere il matrimonio giusto. Gli uomini giravano col bastone da passeggio e le donne con i cammei raffiguranti volti di bianche. Si consideravano a sé rispetto alla loro razza, come del resto Holland. Mi ricordo che durante una delle prime cene a cui le ho invitate mi hanno detto: «Avremo anche avuto un antenato africano quattro o cinque generazioni fa, ma come vedi il sangue europeo lo ha annacquato». Ascoltavo stupefatta, quasi ammirata. Che incantevole illusione, credere di potersi lasciare i problemi razziali alle spalle.

Eppure erano segregazioniste convinte. «Preferiamo così» ci dicevano. «I negri dovrebbero lavorare, mangiare e far compere per conto loro». Avevano intenzione di svendere «la proprietà del Sunset», come la chiamavano, e di farci trasferire vicino a loro, nella comunità negra di Fillmore, sempre più affollata di famiglie che non riuscivano a trovare chi gli affittasse una casa; ma io ho puntato i piedi. Volevo una vita diversa, migliore. E così vivevamo sul mare, lontano dalla nostra gente. Forse non è stata una scelta saggia; forse cercavo anch'io di mimetizzarmi, come le zie, come Holland. Ma ricordo che Thurgood Marshall venne a San Francisco proprio nella primavera del 1953 e disse, come riportarono i giornali, che se certi negri erano favorevoli alla segregazione nell'esercito era per poter diventare generali. Forse le zie erano favorevoli a una San Francisco divisa per poter diventare le prime cittadine del loro piccolo mondo. Non vedevano quel che stava succedendo, quel che stava per succedere nel nostro paese. Povere vecchiette, credo fossero troppo terrorizzate.

Ovviamente era anche colpa mia. Io tremavo più di tutti, sapendo che pericolo correva mio marito. Non aveva visto Holland la foto sul giornale, la croce in fiamme nel giardino di un negro candidato al Senato a Compton, a qualche ora di macchina da noi? O avevo tagliato via anche quella? Che epoca tragica per un uomo come lui.

Io non sapevo come battermi contro un uomo bianco; non ero geneticamente predisposta. Però conoscevo il silenzio, che come un veleno esotico – inodore, insapore – causa nella vittima una sottile pazzia. Ero fuori di me dalla paura e dalla vergogna, al vedere che il mondo che avevo costruito con tanta cura veniva travolto da una tromba d'aria, e mentre le pareti e le finestre mi piombavano addosso non mi restava che acquattarmi a terra aspettando che finisse. I miei dubbi, le mie domande: li avevo chiusi da qualche parte, come falene in un barattolo. Nei miei gesti restava ancora una traccia dei doveri della buona moglie, perché speravo di proteggere Holland e il suo passato. Buzz mi aveva detto le cose molto chiaramente, ma io affrontavo ancora le mie giornate al ritmo sincopato di un cuore malmesso, e d'istinto mi comportavo come un'infermiera che scopra, alle fine del turno, che durante la notte le sono scappati i pazienti. Ora a chi salverà la vita? A sé stessa?

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Pagina 92

Sonny mi dava sempre la mano quando, ogni giorno, andavamo al parco giochi, coi bebè imbambolati nelle vecchie carrozzine nere e i bambini più grandi che battevano sulla sabbia fredda e dura finché non diventava soffice come la seta. Lui se ne stava sempre in disparte. Si avvicinava al parco giochi con cautela, come se fosse un lago. Qualche passo e l'acqua gli arrivava alle ginocchia, quindi alla vita; lui si fermava per abituarsi (un po' trasognato, come se vedesse le onde che gli bagnavano piano i vestiti), poi sorrideva e tirava fuori un giocattolo dalla tasca – un soldatino, un maiale – e se lo metteva davanti, nell'erba. Per tutto il tempo teneva d'occhio gli altri bambini. Non si avvicinava mai alla loro orbita, per non esserne risucchiato. Era l'unico a non essere bianco e percepiva una legge non detta che (allora, quando ancora ubbidiva) rispettava.

I cento dollari che mi aveva dato Buzz sono andati via in fretta. Portavo Sonny allo zoo, al parco, e una volta ci siamo avventurati sulla linea L: il tram color burro coi finestrini curvi gli sembrava una zucca di Halloween. Fatto qualche isolato su Taravel Street, il tram ci ha lasciati davanti a un lussuoso negozio di dolciumi che avevo notato vicino al cinema Park-side. Davanti, al posto dell'indiano di legno che fa la guardia alle tabaccherie, c'era un distributore di gomme da masticare. Un bambino stava prendendo un centesimo dalla mano paffuta e affettuosa di sua madre; l'ha infilato dentro sperando con tutto sé stesso di accendere lo «special» e vincere una barretta di cioccolata. «Porco cane» ha mormorato mentre usciva la solita pallina, a strisce come un'ape. La mamma stava a braccia conserte; era un po' che ci provavano.

L'anziano negoziante sembrava venire da un'altra epoca: rubizzo e baffuto, biascicava la dentiera, i pantaloni tirati sopra al pancione con le bretelle. Ha chiesto che cosa desideravamo e con un sorriso gli ho detto che eravamo li per mio figlio; da sopra gli occhiali mi ha lanciato uno sguardo torvo. Mi sono chinata verso Sonny e gli ho chiesto: «Quali vuoi?». Ho visto l'altra mamma che lo spiava mentre lui esaminava il negozio con tutte quelle meraviglie.

I barattoli sfavillanti sembravano offrire leccornie a non finire: lunghe gomme da masticare rosse, verdi e viola da era nucleare; labbra, zanne e baffi lucidi che dopo un minuto o due in bocca si rompevano e rilasciavano un liquido detestabile; dischi volanti di insipida cialda croccante; lecca lecca col bastoncino ad anello (così i bambini potevano inciampare senza strozzarsi) nascosti fra quelli coloratissimi che asfissiavano nei cappucci di cellophane; sigari e pistole di gomma da masticare per teppisti in erba; caramelle a forma di rossetto che i maschi non avrebbero mai osato comprare; e, avvolti come cappi nel loro splendente vaso, le preferite di mio padre e odiate da suo nipote: le spirali di liquirizia.

Sonny ha studiato i barattoli attentamente, come un medico cinese con le sue pozioni. Ha puntato a lungo la frutta candita prima di scegliere le ciliegie, gli scipiti dischi volanti, una piramide di caramelle e via dicendo. Mentre venivano tirati fuori delicatamente dai recipienti (come pesci rari da un acquario) e posati sulla carta oleata, lui guardava intimorito con le mani intrecciate.

Il proprietario senza fare un gesto ha detto: «Costano parecchio, lo sa, eh?».

«Ho i soldi».

«Spero bene».

Siamo rimasti a fissarci senza abbassare lo sguardo. Ho sbattuto una banconota da cinque dollari sul bancone, facendo tremare i bastoncini di zucchero.

Mio figlio è rimasto zitto e poi ha mormorato: «Quale posso tenermi?».

Vorrei tanto avere una foto della sua faccia, del suo sguardo sbalordito, nei quali non era difficile riconoscere, come i dettagli che si sviluppano in una vaschetta fotografica, l'immagine di suo padre. Quale, aveva chiesto. Tutti, volevo dirgli, d'ora in poi tutti quelli che vuoi, non ci mancherà più niente. Ma Sonny non aveva ancora capito il suo errore, e neppure quell'uomo odioso, così ho guardato la mamma bianca infagottata nel suo cappotto di panno azzurro e ho visto che fissava colpita il mio giudizioso bambino, mentre quel cafone ingrato del suo infilava imprecando un centesimo dopo l'altro nel distributore.

Mi sono chinata all'altezza degli occhi di mio figlio, così seri e compresi della sua cauta domanda, e ho assaporato il momento in cui la mia risposta gli avrebbe illuminato lo sguardo.


Oggi, se entraste al bar dicendo: «Mi farò un Suicidio», il proprietario chiamerebbe probabilmente la polizia. Ma allora il barista diceva «Come no!» e metteva un bicchiere scanalato sotto la spina: un fiotto di Coca-Cola gassata e poi, uno dopo l'altro, uno spruzzo di veleno per ogni gusto – cioccolata, amarena, vaniglia. Il risultato era una bevanda nera come l'inchiostro, schiumosa, che odorava di medicina. Totale, cinque centesimi.

William, il ragazzo dell'acqua gassata, ne stava preparando un paio per Annabel DeLawn, il ciuffo di capelli neri che gli ricadeva sull'occhio sinistro, le grandi mani sulle leve mentre la guardava mettere dieci centesimi sul bancone e tornare al séparé dove l'aspettava la sua amica. Nell'aria della Hussey's Colonial Creamery frusciava l'anidride carbonica. Appeso al muro c'era il calendario di un autoricambi fermo a un mese del 1943; forse l'uomo che di solito girava le pagine era andato in guerra e non era più tornato. La versione moderna di quegli orologi che nei gialli si fermano sull'ora del delitto.

Io ero a due séparé di distanza da Annabel, in fondo al locale, composta come una vedova in chiesa. Il signor Hussey preferiva che i negri si sedessero lì. Un soldato stanco mi ha sorriso, continuando a sorseggiare il suo chinotto come fosse una birra. E io cosa prendevo? Una limonata, grazie, William – una pastiglia al gusto di limone annegata alla svelta in una cascata d'acqua frizzante: l'ordinazione che si conviene a una donna sposata. Mi sono costretta a ignorare la brutta parola che William ha mormorato mentre mi allontanavo. Sono rimasta seduta, nascosta dall'ombra di una colonna, col cappotto e il cappello più belli che avevo e la bibita che mi pizzicava il naso, fosforescente come un antidoto. Quando avevo pensato di affrontare Annabel, non mi ero resa conto che coi rivali siamo vigliacchi come con le persone che amiamo da lontano.

Annabel non era bella. L'ho deciso immediatamente, appena l'ho vista stringere le labbra intorno all'estremità rossa della cannuccia. Ma col suo naso affilato, il viso a forma di nocciola e le lentiggini che le trasparivano sotto la cipria (scaglie di vaniglia nella panna) riusciva a creare un'illusione di bellezza. Una ragazza bianca qualsiasi che aveva imparato a comportarsi come se fosse carina. Stava seduta come una sirena, con le gambe piegate sotto di lei, e il braccialetto con i ciondoli tintinnava, soprattutto sotto la luce, quando i suoi tanti cuoricini, libri e ancore catturavano un raggio di sole. Sul petto un anello d'argento dondolava come il cerchio di un acrobata. Per tutto il tempo, mentre chiacchierava con l'amica, ha tamburellato con una gomma sul suo ziggurat di libri universitari.

«La gonna è bianca a pois blu, e la parte di sopra blu a pois bianchi» ha detto l'amica.

«Sembra niente male».

«Direi, costa un bel po'».

Non era come avevo pensato, e sperato. Mi ero immaginata una svampitella carina e smorfiosa, non una ragazza intelligente alla disperata ricerca di qualcosa di meglio della nostra vita al Sunset. Ascoltando che cosa diceva, sono venuta a sapere che studiava chimica alla State University, nella strabiliante illusione di diventare, donna, nel 1953, una scienziata. Mentre la sua amica la tentava con argomenti più frivoli e la cannuccia andava su e giù nel bicchiere, lei parlava dei corsi di chimica, dei professori che la dileggiavano, del padre che la disapprovava e dei compagni di corso che le davano i pizzicotti. Ci scherzava sopra, ma nelle occhiaie stanche, che il trucco non riusciva a coprire, si leggeva la tensione.

«Non indovinerai mai cosa mi hanno messo fra gli appunti di laboratorio».

«Non lo voglio nemmeno sapere».

«Foto sconce, naturalmente. Oscene!».

«E tu che hai fatto?».

«Ho detto che erano divertenti, che altro potevo fare? Non devi fargli capire che ti hanno offesa».

Uno scoppio di risatine cinguettanti: una giovane coppia di bianchi seduti di fronte a Annabel, lei molto incinta, lui molto impolverato, evidentemente di passaggio; vedevo la loro auto martoriata dai chilometri ferma accanto al marciapiede, con le valigie legate sul tetto e dentro un cane desolato che si girava e rigirava alla ricerca di una posizione. Ne avevano fatta di strada per fuggire dal Nebraska della loro targa, inseguendo chissà quale progetto a colpo sicuro in Messico o in Alaska. Vedendoli, non potevi non sentire un empito americano di speranza.

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Pagina 119

«Mi hai detto che non ti sei vergognata perché tuo marito si era imboscato. Mi chiedo cosa pensi di me».

«Come mai l'hai fatto?» .

«Per me aveva un senso. Non volevo uccidere, non ci sarei riuscito. Ho letto tanto, ci ho pensato tanto. Mi sembrava che a renderci umani sia il decidere di non uccidere».

Gli ho chiesto se si era semplicemente rifiutato di partire.

«No, no» ha detto e poi è rimasto zitto. Immaginavo che fosse in imbarazzo e non volesse rispondermi, ma negli occhi gli ho visto come un lampo. Se me lo raccontava c'era una ragione, ma al momento non l'avevo capito. «Veramente, nel 1943 sono stato chiamato per l'addestramento e sono andato».

«E cos'è successo?».

«Il distretto di leva era in una scuola. E ci dovevamo spogliare e starcene lì con gli altri, andando di dottore in dottore finché ci dichiaravano abili e ci mandavano in una stanza più piccola. Ci dovevamo rivestire e mettere in fila, nell'attesa che arrivasse un ufficiale. Avevo sentito parlare di questo momento,» ha detto guardandomi negli occhi «del momento in cui sarebbe entrato l'ufficiale e ci avrebbe chiesto di giurare e di fare un passo avanti, per diventare soldati».

«Funziona così?». Ha annuito. Decidere della propria vita con un atto puramente simbolico: sembrava da antichi romani, ma credo che si decida spesso così.

«Io il passo avanti non l'ho fatto» mi ha detto. «Tutti gli altri sì, e hanno giurato. Io invece no. Così mi hanno urlato contro per un'ora e mi hanno mandato dallo psichiatra. Ci sono andati giù pesanti». Ma lui era stato irremovibile. Gli uomini giovani sono veramente strani. Lo hanno registrato come obiettore e gli hanno dato la fascia da indossare: gialla, naturalmente – ha detto ridendo.

«E ti hanno mandato via? Ai campi?».

«Certo».

«Ti hanno fatto male?».

«No,» ha risposto, e adesso era molto distante «non ce n'era bisogno. Ci pensavamo da soli».

Volevo chiedergli che cosa intendeva, ma ho visto quel lampo svanirgli dagli occhi. Invece, con un gesto automatico, con la mano destra ha cominciato a carezzare il moncone del mignolo come fosse un bambino ferito. Era il suo «segnale», come dicono nelle sale da poker; il sintomo di un dolore tutto suo che non aveva niente a che fare con Holland né con me, ma che forse spiegava come mai Buzz Drumer fosse venuto da noi.

Aveva scelto di non andare in prigione, mi ha detto. Agli obiettori l'Ufficio Reclutamento offriva l'alternativa di lavorare per la nazione, ad esempio sradicando ceppi d'albero su al Nord, e questo era ciò che aveva fatto lui.

Come ve lo immaginate un campo per gli obiettori di coscienza nel 1943? Forse come un campeggio estivo dove si nuota, si dipinge, si fanno gare? In ogni modo gli americani lo immaginavano così, tutto pieno di vigliacchi, spie e traditori che si divertivano come matti. Ma quello che vide Buzz, quando è arrivato in macchina per una strada fangosa, era un campo di concentramento.

Era gestito dalla chiesa quacchera «nello spirito del pacifismo individuale», ma la chiesa quacchera prendeva ordini dall'Ufficio Reclutamento, che accettava i campi con riluttanza, come l'unico modo per tenere rinchiusi quegli anormali a lavorare gratis per tutta la durata della guerra. Buzz non ne sapeva nulla. «Puoi stare in camerata coi quaccheri, coi cattolici o con quelli di Coughlin» gli dissero.

Aveva creduto di trovare gente come lui: disadattati, pacifisti, voci fuori dal coro. D'istinto aveva scelto i quaccheri; lui era un battista, e l'unico altro battista, un uomo di colore che suonava il violoncello, si era messo con loro. In tutto il campo c'erano un solo uomo di colore e un solo ebreo.

L'ebreo creava problemi ai seguaci di Charles E. Coughlin, un prete cattolico di Detroit che predicava alla radio e pensava che l'America non dovesse combattere contro Adolf Hitler, il grande eroe del Novecento. Erano tutt'altro che pacifisti; come avevano fatto a convincere la commissione di leva? Forse qualche psicologo, sentendo le loro idee, aveva messo il timbro sui documenti per via di una imprevedibile empatia. E quindi eccoli lì, con un presidente che secondo loro era un cospiratore ebreo, e malvisti dagli altri cattolici, che li odiavano quasi quanto odiavano quei gonzi dei quaccheri.

Quindi l'ebreo doveva essere tenuto lontano dai seguaci di Coughlin, questi dai cattolici, i cattolici dai quaccheri, e l'uomo di colore doveva essere tenuto lontano da tutti – in un campo di pacifisti. Ecco in che tempi vivevamo.

«Era una vita strana, noiosa» ha detto Buzz.

La giornata cominciava con la sentinella notturna che urlava di salire sui camion. Il lavoro consisteva nello sradicare i ceppi da un campo, e Buzz doveva arrotolare la catena intorno al ceppo prima che un compagno mettesse in moto l'argano per tirarlo via. L'unica soddisfazione era quando il ceppo veniva fuori come un dente cariato e si spalancava un inferno nascosto di vermi e scarafaggi del Paleolitico. I ceppi venivano spaccati in ciocchi da ardere e accatastati in lunghe muraglie nei boschi, dove sono rimasti a marcire fino alla fine della guerra. Nessuno li ha mai usati; nessuno ha mai arato quel campo. Sembrava uno di quei lavori che si inventano gli angeli per le anime di incerta destinazione, rastrellare nuvole nei secoli dei secoli.

Gli uomini impazzivano per la monotonia, il cielo marcio e i vermi nella colazione, ma soprattutto per la sensazione di non contare nulla. Il mondo si stava riducendo in cenere a oriente e occidente, e loro erano completamente tagliati fuori. Questo ha spinto qualcuno a filarsela, altri ad arruolarsi, altri ancora a imbarcarsi per poi morire in qualche oceano. Molti invece, Buzz compreso, hanno tentato un'altra via d'uscita. È sorprendente scoprire, ha detto, che l'uomo ha bisogno di sentirsi importante.

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