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| << | < | > | >> |Pagina 3Una falsa partenza– Osservate, Stiffeniis. È penetrato come un coltello caldo nel lardo. Come la Logica che taglia la nebbia dell'Ignoranza, pensai io, ben consapevole dell'illustre compagnia in cui mi trovavo. Pur cosí, il mio stomaco provava ripugnanza a quella vista. Dovetti costringermi a guardare, e avrei potuto abbandonare il campo se il dovere non mi avesse obbligato a esaminare il corpo del reato col massimo zelo di cui ero capace. – Eppure non era un coltello... Dentro l'ampio vaso di vetro, la testa recisa ciondolava nel torbido mare vorticante di una soluzione alcolica sterile. Aggrovigliate nervature rosso-verdi, grumi di sangue e di umori oscillavano lievemente nel liquido giallastro, come i tentacoli di una medusa. Gli occhi verdi erano rovesciati verso l'alto nelle loro cavità, la bocca era fissata in una smorfia che sembrava esprimere più sorpresa che dolore. Non potei fare a meno di chiedermi se l'immediatezza della morte non avesse posto fine al flusso elettrico del pensiero altrettanto velocemente di come aveva bloccato le reazioni animali. Avrei dato qualunque cosa per sapere quali fossero state le ultime impressioni della vittima, e mi sentivo assai infelice perché non si conosceva ancora alcun metodo per filtrare lo spirito alcolico e schiumarne le idee preziose che potevano trovarsi lí sospese, permettendomi cosí di capire come fosse intervenuta la morte. Avevo letto il De viribus electricitatis in motu musculari, ma questa indagine corporea andava ben al di là di tutto ciò che il grande Galvani avesse mai potuto contemplare. La testa rotolò piano come una grossa conchiglia nel mare rigonfio, e il mio mentore allungò un dito affusolato per indicare il punto esatto. – Qui, proprio alla base del cranio. Vedete? – Cos'ha causato la ferita, signore? – chiesi guardingo. – Il Diavolo. I suoi artigli sono taglienti, – replicò con estrema calma.
Pareva che stesse dimostrando un principio elementare di deduzione materiale
agli studenti universitari del corso che avevo frequentato solo undici anni
prima...
Sono trascorsi quasi tre anni da quando si svolse questa conversazione. E fu in quel momento che decisi di prendere la penna in mano. Era mia intenzione informare il mondo circa un metodo di lavoro che si sarebbe rivelato utile a ogni inquirente che dovesse risolvere casi di assassinio. Insomma, mi ero ripromesso di scrivere un trattato per il quale il piú grande figlio della Prussia orientale aveva già fornito un titolo provvisorio, seppure ironico. Ma questo nobile progetto fu interrotto bruscamente dopo le poche righe introduttive che avevo vergato sulla carta. E non solo per i drammatici capricci della Storia. La mia mente e la mia anima sprofondarono nel nero pozzo senza fondo che scoprii nel corso di quell'indagine, e per me fu tremendamente difficile uscirne. E, per la verità, il sempliciotto che ha scritto quelle righe e l'uomo che sta scrivendo queste altre sono due creature talmente diverse — a onta delle pretese del senso comune e della testimonianza del mio specchietto da barba — che sono spinto a chiedermi se si tratti proprio della stessa identica persona. Ciò che vidi a Königsberg mi ossessionerà per il resto dei miei giorni sulla Terra... | << | < | > | >> |Pagina 5Capitolo 1I balenieri di ritorno dai mari artici nell'estate del 1803 raccontarono di un' aurora borealis di intensità mai osservata. Il professor Wollaston qualche anno prima, con soddisfazione della comunità scientifica, aveva descritto il fenomeno della rifrazione polare. Ovviamente, ciò non mitigò l'angoscia delle genti insediate sulle rive del Baltico. Tutti coloro che vivevano a Lotingen, distante non più di otto miglia dalla costa, me compreso, fissavano il cielo notturno. Era impossibile non stupirci per ciò che vedevamo. Le nuvole massicce erano di colore scarlatto scuro come il sangue fresco, le notti bianche sfolgoravano come un ventaglio di madreperla sbandierato al sole di mezzogiorno da una mano femminile. La piccola Lotte Havaars, la bambinaia che era con noi da quando era nato Immanuel, ci disse che i suoi compaesani avevano notato un comportamento innaturale negli animali domestici, e l'autunno portò notizie di piante deformi e di nascite mostruose che parevano sfidare ogni legge naturale. Maialini a due teste, vitelli a sei zampe, una rapa grossa come una ruota di carriola. Il prossimo inverno, borbottava tetra Lotte, sarebbe stato diverso da ogni altro nella storia dell'Uomo. Gli occhi scuri di mia moglie luccicavano di gaiezza al continuo chiacchiericcio di Lotte. Helena mi guardava, invitandomi a condividere il suo divertimento, e io ero costretto a ricambiarne il sorriso, benché ciò fosse contrario alla mia disposizione d'animo, perché io ero nato e cresciuto in quella regione. Il mio cuore pareva essersi chiuso a pugno, provavo un senso di oppressione, quasi di soffocamento, la sorta di perturbante sensazione che provoca una lontana nube temporalesca in una rovente giornata estiva. E quando arrivò, fu un terribile inverno. L'intuizione di Lotte si rivelò corretta. Pioggia battente di giorno, pungenti gelate di notte. E poi, la neve. Piú neve di quanta ne avessi mai vista. E, in effetti, il nono giorno di febbraio del 1804 fu il piú freddo a memoria d'uomo. Quella mattina, nel mio ufficio presso il tribunale di Lotingen, ero occupato a redigere la sentenza di un litigio che mi aveva richiesto quasi una settimana di riflessione. Hermann Bertholt aveva preso l'iniziativa di migliorare il paesaggio. Aveva mozzato due rami a un pregiato melo di proprietà del vicino, il fattore Dürchtner. L'albero rovinava la vista dalla finestra della sua cucina, sosteneva il reo. Le ragioni e i torti del caso avevano, naturalmente, diviso la città: era una questione di vitale importanza. Se si fosse lasciato passare un precedente del genere, ne sarebbe seguita certamente un'epidemia. Stavo giusto stilando la conclusione - «Io pertanto sentenzio che Herman Bertholt debba pagare tredici talleri ed essere esposto per sei ore alla gogna del villaggio» - allorché risuonò un colpo di nocche alla porta ed entrò il mio segretario. - C'è un uomo fuori, - bofonchiò Knutzen. Rivolsi uno sguardo di disgusto al mio attempato segretario. Indossava sempre la stessa sudicia camicia, il colletto era marezzato di giallo sporco, i suoi pesanti stivali non erano stati ripuliti. Stava di nuovo lavorando nel recinto delle anatre. Avevo perso quella battaglia e da molto tempo ormai ero stanco di lamentarmi. Gudjøn Knutzen era uno dei pochissimi uomini del villaggio a saper scrivere il proprio nome. Soltanto in forza di ciò era sfuggito al destino del padre e di tutti gli antenati maschi della famiglia. Ma la borsa reale era vuota. Il Re aveva scelto una neutralità armata, mentre gli altri grandi Stati europei avevano tentato la sorte contro i francesi. Di conseguenza, le spese civili erano state tagliate per fronteggiare le necessità militari. I soldati furono dotati di nuovi equipaggiamenti, i generali meglio pagati, i cavalli viziati e nutriti: tutti, insomma, in piena forma per la guerra che sapevamo imminente. Pesanti cannoni erano stati acquistati in Bessarabia. Tutto ciò portò privazioni e stenti alla Prussia. I piú bassi ranghi dell'amministrazione giudiziaria, me incluso, erano stati duramente colpiti dalle ultime economie. Ma Knutzen era stato ricacciato ai secoli bui. Il suo emolumento era stato dimezzato. Lavorava perciò il meno possibile e passava con le sue anatre tutto il tempo che riusciva a rubacchiarmi. Era tornato contadino. Come tutti in Europa, pagava il proprio scotto alla Rivoluzione francese e alla paura che Napoleone stava diffondendo nell'intero continente. Helena gli aveva promesso una delle mie camicie smesse non appena fosse arrivato il merciaio ambulante. Guardai fuori dalla finestra, pensando che il baroccio non sarebbe spuntato per un bel po'. La neve aveva ripreso a cadere a fiocchi grandi come foglie di lauro. Era caduta per tutto il giorno precedente e minacciava di farlo per tutta la mattina. Cosa poteva spingere un uomo lontano dal proprio focolare in un giorno simile?, mi chiesi oziosamente. Ero punto dalla curiosità, lo riconosco. In ogni caso, non appena il visitatore avesse concluso con la sua faccenda, decisi, avrei chiuso l'ufficio e mi sarei rintanato a casa per il resto della giornata. - Fatelo entrare, - dissi. Knutzen si pulí il naso sulla manica. Ogni volta che si toglieva la sua unica e sola giubba, il che accadeva raramente, ero propenso a credere che l'indumento potesse rimanere in piedi senza alcun aiuto. - Sissignore, - disse uscendo senza fretta dalla stanza. Lasciò la porta spalancata e potei sentire che biascicava qualcosa nell'ingresso. Poco dopo un uomo di corporatura massiccia, in abbigliamento scuro da viaggio e con alti stivali da cavallerizzo, entrò con risoluta malagrazia nella stanza, lasciando dietro di sé una scia di gocce e di fanghiglia mista a neve. Il pallore spettrale del volto e il malsano tremore che ne scuoteva il corpo mi indussero a pensare, quando me lo vidi di fronte, che avesse sbagliato indirizzo. Aveva bisogno delle cure di un medico piuttosto che dell'opera di un magistrato. - Cosa posso fare per voi, signore? - domandai indicandogli la sedia destinata ai visitatori e riprendendo a mia volta posto dietro la scrivania. Lo straniero avvolse piú stretta nell'ampio mantello la sua carcassa in preda ai brividi e si schiarí rumorosamente la gola. - Siete il magistrato Stiffeniis? - chiese con asprezza. - Per servirvi, - assentii. - E voi da dove venite, signore? Non siete di Lotingen. I grandi occhi grigi del visitatore ebbero un lampo di diffidenza. - Non mi aspettavate? - domandò con evidente sorpresa. Scossi la testa. - Anzi, visto l'improvviso cambiamento di tempo, - dissi, guardando fuori dell'ampio bovindo verso la neve che cadeva ancor piú fitta di prima, - non aspettavo nessuno questa mattina. Cosa posso fare per voi? Rimase in silenzio per un momento. - Non è ancora arrivata la diligenza da Königsberg? - disse d'un tratto. - Non ne ho idea, - replicai, chiedendomi dove tutto ciò andasse a parare. - Non avete ricevuto notizie dal procuratore Rhunken? - insistette. - Questa mattina non ho ricevuto posta, - osservai. - E non conosco neppure il procuratore Rhunken. Se non di fama. - Niente posta? - mormorò lo straniero, battendo con forza il palmo della mano destra sul ginocchio - Ebbene, questo è un bell'intoppo! - Sí? - abbozzai perplesso. Non replicò, ma apri la borsa di cuoio a tracolla e prese a rovistarvi all'interno. Ogni speranza che egli potesse esibire qualcosa per spiegare la propria presenza nel mio ufficio svaní allorché estrasse un ampio fazzoletto di lino con cui si soffiò sonoramente il naso. - Devo presumere che siete voi il procuratore Rhunken? - indagai. - Oh, no, signore! - farfugliò da dietro il bianco riquadro. - Con tutto il rispetto, è l'ultima persona che vorrei essere in questo momento. Mi chiamo Amadeus Koch, sergente di Polizia nella città di Königsberg. Lavoro come impiegato amministrativo nell'ufficio del procuratore Rhunken -. Premette il telo di lino sulla bocca per soffocare un colpo di tosse. - Visto che la posta non è arrivata, signore, la miglior cosa che posso fare è dirvi perché sono venuto. - Ve ne prego, dite pure, signor sergente Koch, - lo incoraggiai, sperando di trovare un senso in quel bizzarro colloquio. Sulle labbra bianche dell'uomo apparve un debole sorriso. - Non voglio sprecare ulteriore tempo prezioso, signore. A mia difesa, nel mio presente stato di salute, desidero soltanto dire che il viaggio da Königsberg ha fatto poco per aiutare le mie facoltà di ragionamento. In poche parole, ho ricevuto istruzioni di condurvi con me. Lo guardai fisso. - A Königsberg? - Spero solo che la neve non ci impedisca... - Istruzioni, Herr Koch? Ditemi esattamente cosa vi porta qui! Il sergente Koch riprese a frugare nella borsa. Finalmente ne estrasse una grande busta bianca. - Il comunicato ufficiale relativo alla vostra nomina è stato inviato ieri per posta. Per ragioni ignote, non è arrivato. Ma le consegne sono state affidate a me. Questo è per voi, signore. Afferrai il plico dalla sua mano tesa, vi lessi il mio nome sopra, poi lo voltai. Un largo sigillo rosso degli Hohenzollern teneva fermo il lembo, ma prima che osassi infrangerlo per esaminare il contenuto esitai un istante. | << | < | > | >> |Pagina 74- Le dichiarazioni dei testimoni dovrebbero trovarsi qui, signore, - suggerí Koch, intrufolandosi con la sua voce nei miei pensieri.Scartabellai nel misero mucchietto di carte e trovai con facilità la dichiarazione che il locandiere della Baleniera del Baltico aveva reso alla Polizia. Era breve e non aggiungeva nulla a quanto mi aveva detto personalmente Ulrich Totz. Jan Konnen, quella sera, aveva bevuto alla mescita della locanda, ma non in misura eccessiva. Era in compagnia di un gruppo di marinai stranieri che può darsi giocassero a carte puntando denaro, ma Totz non si era fatto trascinare in quell'argomento. In passato, a quanto pareva, dopo che erano esplosi furibondi litigi tra gli avventori per questioni di gioco, c'era stata una forte opposizione al rinnovo della sua licenza per spaccio di alcolici. Erano corse somme cospicue e un uomo aveva perso due dita nel corso di un accoltellamento. «Ma nessuno aveva giocato d'azzardo quella notte», aveva asserito Totz. Saltabeccai nella pagina e lessi: Herr Totz dichiara di non aver fatto alcun collegamento immediato tra l'uomo seduto quella notte nella taverna e il corpo ritrovato poi sulla banchina il mattino seguente. Quando la Polizia lo contattò per la prima volta, aveva affermato di non sapere assolutamente niente della vittima. Non si faceva alcuna menzione degli strani avvenimenti accaduti alla Baleniera del Baltico di cui mi aveva fatto cenno proprio quel pomeriggio il curioso servitorello. In realtà, il nome di Morik neppure compariva nel rapporto. Ero sorpreso che non avesse detto nulla in grado di suscitare l'interesse dei gendarmi che avevano certamente affollato la taverna quella mattina per indagare sul morto. Morik, dopotutto, con me non si era di sicuro risparmiato, rischiando una bella frustata da parte del padrone per il suo comportamento. Quel giorno forse non c'era? O i Totz gli avevano proibito di parlare? Avevano qualcosa da nascondere? Per quale altra ragione Morik non sarebbe riuscito ad avvicinare il procuratore Rhunken mentre interrogava il locandiere e la moglie? La moglie... Dalle tre righe in fondo alla deposizione risultava che Frau Totz aveva servito a Jan Konnen una birra piccola e delle salsicce calde. La donna dichiarava di non avere mai visto quell'uomo prima e che costui non le aveva fatto alcuna particolare impressione. Pensava che avesse lasciato la taverna alle dieci, o comunque verso quell'ora, benché non potesse garantirlo. Secondo lei, l'uomo assassinato si trovava nella taverna semplicemente alla ricerca di cibo sano e di buona birra, e per nessun'altra ragione. Un misero foglietto solitario, il successivo nella pila, conteneva la descrizione verbale della prima vittima. L'informativa, tal quale era, avrebbe potuto essere, senza difficoltà, scalpellata sulla sua pietra tombale. Jan Konnen, fabbro, di anni cinquantuno, viveva da solo. Non si era mai sposato e neppure aveva parenti vivi. Uomo taciturno e riservato, era un mistero anche per i suoi vicini di casa. In proposito, Rhunken aveva ordinato alla Polizia di fare approfondite ricerche circa la sua vita privata, ma fin allora non era stato scoperto nulla. Konnen non aveva debiti, non aveva amici, non frequentava donne di cattiva reputazione né apparteneva a qualche fazione politica. Non aveva ruggini nei confronti di chicchessia, non aveva mai commesso reati e non era mai stato arrestato. All'apparenza, era un innocente senza macchia che si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, pagando questo errore con la vita. In calce alla pagina, Rhunken aveva annotato: «Le investigazioni ipotizzano che la vittima potrebbe avere avuto contatti politici con stranieri, ma non risulta alcuna prova». Le ultime parole scritte dal procuratore Rhunken mi fecero restare senza fiato: «Vittima - categoria C - protocollo 2779 - giugno 1800, Gabinetto segreto di Sua Maestà, Berlino». Come ogni altro giovane magistrato a inizio di carriera nel primo anno del nuovo secolo, cosí a ridosso della Rivoluzione francese e dell'ascesa di Napoleone, avevo letto quel protocollo riservato. Esso metteva in guardia nei confronti di possibili infiltrazioni di spie e rivoluzionari che avrebbero avuto l'obiettivo di minare la Nazione e di introdurre il repubblicanesimo. Rhunken pareva essersi convinto che l'indagine dovesse procedere in quella direzione e aveva attribuito a Konnen una classifica bassa, ma comunque significativa, come potenziale pericolo. Girai il foglio alla ricerca di qualche notizia in piú, inutilmente. Il documento successivo si riferiva al caso di Paula-Anne Brunner, la seconda vittima dell'assassino. Nella dichiarazione del marito si diceva che la sua «povera signora» il giorno in cui era stata assassinata aveva fatto più o meno le stesse cose di sempre: aveva dato da mangiare alle galline, aveva raccolto le uova e le aveva vendute ai vicini e a un paio di negozi in città. «L'unica cosa nuova che aveva fatto, - lamentava lo sposo orbato, - era di essersi fatta uccidere!» Frau Brunner era una donna socievole che si recava due volte al giorno alla chiesa pietista, e tre volte di domenica. Era stimata per l'onestà, la rettitudine morale e le opere buone, ed era assai benvoluta da tutti i vicini. Non aveva nemici. In effetti, non risultava che avesse mai bisticciato con qualcuno in tutta la vita. Naturalmente, Rhunken aveva sospettato del delitto il marito. Heinz-Carl Brunner era stato incarcerato per due giorni e sottoposto a un «severo interrogatorio». In parole povere, l'avevano picchiato fino a fargli chiedere misericordia e l'avevano poi lasciato andare non essendo venuto fuori niente di incriminabile. Proprio mentre veniva commesso il delitto, come avevano dichiarato vari vicini, anch'essi agricoltori, Brunner era impegnato nel suo campo con due lavoranti. L'alibi pareva incrollabile. Dunque, su di lui non potevano gravare sospetti. Ancora una volta, Rhunken aveva aggiunto una postilla che rimandava alla direzione che stava prendendo l'inchiesta: «Non sono emersi legami politici o affiliazioni radicali. Prot. 2779?» Probabilmente mi lasciai andare a un gemito. - Va tutto bene, Herr Stiffeniis? - indagò Koch. - Il procuratore Rhunken collaborava con qualche altro magistrato? Voglio dire, può essere stato aiutato da qualcuno a raccogliere prove o a interrogare i testimoni? - Oh, no, signore, - rispose subito Koch. - Il procuratore lavorava sempre da solo. Lo so per sicuro. Non si fidava di nessuno. Annuii e rivolsi la mia attenzione al foglio successivo, un rapporto concernente il terzo omicidio della serie. Come lessi il nome della vittima, sentii corrermi nelle vene una scossa elettrica. Johann Gottfried Haase? Quanto maledissi la mia inettitudine! Mentre viaggiavo verso Königsberg in carrozza, quello stesso giorno, avevo a bella posta saltato il nome della persona piú importante che fosse caduta nelle mani dell'assassino. Johann Gottfried Haase era uno studioso di chiara fama internazionale che aveva al suo attivo parecchie pubblicazioni. Qualche anno prima avevo letto un suo trattato. Professore di Lingue orientali e Teologia all'Università di Königsberg, Haase aveva suscitato scalpore sostenendo che il giardino dell'Eden non era affatto qualcosa di fantastico. Adamo ed Eva, difatti, secondo lo studioso, erano stati tentati dal Serpente piú o meno nel luogo dove ci trovavamo a vivere noi. A suo avviso, la città di Königsberg era stata costruita nel sito originale del biblico paradiso terrestre. Chi poteva ardire di uccidere un uomo tanto eminente? Scorrendo la pagina, avido di dettagli, mi abbandonai a una risata. E lo feci rumorosamente, mentre il sergente Koch mi guardava con un'espressione di compunto interesse. - Che idiota sono stato! - dissi. - Signore? | << | < | > | >> |Pagina 125Lo fissai negli occhi minacciosi e trattenni il fiato, ricordando il giorno in cui, undici anni prima, avevo avuto il privilegio di parlare a tu per tu con l'uomo piú famoso di Königsberg, amico di Jachmann e suo collega all'Università, il professore di Filosofia Immanuel Kant.- Mi ingiungeste di evitare la città per il bene del professor Kant, - sussurrai. - Non avevo la minima idea del perché, ma non avevo motivo di dubitare della vostra integrità. Voi eravate il suo amico piú caro. Voi sapevate cos'era bene o male per lui, e... - Voi gli eravate nocivo! - La sua faccia pallida di colpo fu invasa dallo sdegno. - È questo il punto. Non lo capite? Che bisogno avrei avuto di proibirvi di vedere Kant? Quale altra ragione poteva farmi temere per la stabilità mentale del piú razionale degli uomini sulla Terra? - Siete ingiusto, signore, - protestai, ma Jachmann non tenne conto delle mie parole. - Notai qualcosa di strano ogni volta che si faceva il vostro nome, - continuò con grande tensione. - Menzionarvi aveva un effetto cosí vistoso su di lui! Cominciava ad agitarsi e i suoi occhi si turbavano. Non era in carattere, non era assolutamente da lui. Questa follia iniziò il giorno in cui vi invitò a pranzo. Di per sé, quello era un evento senza precedenti. - Perché dite cosí, signore? - domandai. - Non aveva mai invitato, prima, un forestiero in casa sua. Non una sola volta! - Mi guardò con aria inquisitoria. - Qualcosa in voi aveva fatto scattare il suo interesse. Qualcosa che avevate fatto o qualcosa che gli avevate detto. - Ma voi sapete perché mi invitò, - ribattei. - Ero appena tornato da Parigi, e il professor Kant era interessato a quello che avevo visto laggiú. Jachmann annui torvo. - Rammento cosa diceste su quello che avevate visto il giorno in cui i giacobini giustiziarono il loro legittimo sovrano... Chiusi gli occhi per respingere il ricordo. L'immagine di quel momento mi avrebbe mai lasciato in pace? Per quanto ancora mi avrebbe ossessionato? La vista del sangue umano sul suolo. Il suo afrore nell'aria. - ...Parigi, 2 gennaio 1793, - Herr Jachmann salmodiò pedante. La scena mi balenò davanti agli occhi. La ribollente allegria della folla. Il condannato che saliva con orgoglio i gradini del patibolo nel suo abito elegante e sudicio. L'azzurro triangolo di acciaio, unto di grasso, che luccicava nella luce dell'alba. Il suono stridente del metallo al precipitare della lama. E poi, sangue! Fiumi di sangue scarlatto sprizzanti dal collo reciso, come l'acqua da una di quelle fontane ornamentali fatte costruire dal Re a Versailles, che infradiciavano gli spettatori. Sangue che mi cadeva come pioggia sulla faccia, sulla bocca e sulla lingua... - Quel giorno ammazzarono il Re. Un re? Un uomo era stato macellato davanti ai miei occhi. Un colpo di leva e un'ombra mi era calata sull'anima. Una parte nascosta di me stesso era venuta alla luce con la folla in tumulto e si era impossessata della mia mente confusa. - Kant aveva incontrato altri che erano stati in Francia, - continuò Herr Jachmann. - Altri che erano stati coinvolti in quei tragici eventi. Non fu turbato da ciò che raccontarono. Ma voi, Stiffeniis! Voi portaste una peste perniciosa nella sua casa, quel giorno -. Mi fissò. - Qualsiasi cosa sia avvenuta tra voi due, Stiffeniis, lo cambiò. Lo cambiò completamente. E tutto questo ebbe inizio con quella conversazione sull'effetto delle tempeste elettriche sul comportamento umano. - Non fui io a sollevare l'argomento, - farfugliai a mia discolpa. - Foste voi a introdurlo, signore! - Ma foste voi, - ribatté Jachmann, con un dito accusatorio puntato verso di me, - voi, Stiffeniis, a indirizzare il discorso in quella nauseabonda direzione. Mi gelaste il sangue nelle vene! - Rivolse lo sguardo al fuoco. - Quante volte mi sono pentito per quell'odiosa conversazione! Kant all'epoca stava studiando gli effetti dell'elettricità sul sistema nervoso, non si interessava a molto altro. E proprio la notte prima c'era stata una tempesta tremenda. Ogni minimo dettaglio era ancora vivido nella mia mente. - Guardando fuori della finestra, - mormorai, - vedeste uno sconosciuto nel vostro giardino. Incurante della pioggia battente, dei tuoni e dei lampi, guardava il cielo come in trance. Voi restaste sconcertato dal suo comportamento e chiedeste a Kant se l'elettricità statica fosse in grado di fornire una spiegazione per tale fenomeno. - E lui replicò dicendo che non si trattava di una scarica elettrica, ma era stata l'illimitata energia della natura ad aver affascinato quell'uomo, - continuò Jachmann. - La forza distruttiva degli elementi lo aveva mesmerizzato. Kant accennò all' incantamentum horribile. Il Genere Umano, egli disse, è fatalmente attratto dal Terrore Sublime -. Si lasciò cadere con pesantezza in una poltrona, la fronte tra le mani. - Ero scioccato. Non potevo credere alle mie orecchie. Immanuel Kant? Il Padre della Razionalità che celebrava i poteri dell'Ignoto? Il lato oscuro dell'anima umana? - Ricordo, signore. Voi obiettaste che simili poteri appartengono solo a Dio. Che l'Uomo è vincolato da legami che non dovrebbe mai mettere in questione... - Poi voi vi faceste sentire, - mi interruppe Jachmann, ancora schermandosi gli occhi ed evitando di guardarmi, - e improvvisamente l'amabile giovane studente che si era guadagnato il nostro rispetto con le sue buone maniere e il suo solido modo di ragionare ci apparve in tutt'altra luce. - Dissi solo... Mi impose di tacere con un cenno della mano. - Le vostre parole sono indelebilmente impresse nella mia memoria. «C'è una sola esperienza umana che può paragonarsi al libero potere della natura», diceste. «La piú diabolica di tutte. L'assassinio a sangue freddo. L'assassinio senza motivo». | << | < | > | >> |Pagina 129- Era molto triste. Quasi dimenticato. «Sorpassato» è il termine adesso in voga, credo. Le cose sono arrivate al punto che un suo antico pupillo, un giovane brillante di nome Fichte... ne avrete certamente sentito parlare... in un libro che ha venduto molto bene in tutta l'Europa ha definito Kant «il filosofo della pigrizia intellettuale».- Deve essere stato umiliante. - Ricordate la sua leggendaria puntualità? - mi chiese Jachmann. Rievocando il lontano passato, sembrò calmarsi. - La gente di Königsberg usava regolare gli orologi sui movimenti di Kant. Ebbene, la nuova generazione di studenti pensava che fosse uno scherzo spiritoso interrompere le sue lezioni, entrando uno dopo l'altro con l'orologio in mano e dicendo: «In ritardo, signore? Io, signore? È il vostro orologio che dev'essersi guastato, signore». Tutto ciò portò Kant a ritirarsi prematuramente. | << | < | > | >> |Pagina 193Capitolo 16Il professor Kant dormí lungo tutto il tragitto che ci riportava in Magisterstrasse. L'energia che lo aveva sorretto lungo quella giornata sembrava essersi esaurita. Solo qualche minuto prima i suoi occhi erano sfavillanti di eccitazione, i suoi movimenti rapidi, non appesantiti dall'età, la sua mente veloce, l'eloquio vivace. Ma accasciato lí, accanto a me, sul sedile della carrozza, avvolto nella sua lucida mantellina, appariva come un bozzolo vuoto di cui qualche creatura si fosse da poco spogliata per mettere le ali e trovare la propria strada nel mondo crudele. Io, però, non ero affatto stanco. Per un inesplicabile fenomeno di osmosi, la carica vitale del mio mentore si era trasferita in me. Quella mattina, sulle rive fangose del Pregel, avevo visto il cadavere di un ragazzo con la testa atrocemente schiacciata. Ero appena emerso da una sinistra camera degli orrori concepibile forse solo in uno spaventoso incubo. Le strade di Königsberg erano buie e pericolose. Vi era un criminale in agguato, un essere feroce per il quale la vita umana non aveva alcun valore, che seminava tragedie sulla propria scia, facendo incombere sul futuro violenze ancora peggiori. Ma il mio cuore cantava. Avrei potuto essere di ritorno da una passeggiata nei boschi idilliaci della Vestfalia. Via via che ci allontanavamo dal laboratorio del professor Kant, il mio animo sempre piú si riempiva di sensazioni che qualsiasi altro uomo avrebbe riservato a una raffinata e preziosa collezione di objets d'art. Ero disgustato da ciò che avevo visto in quel luogo triste e scuro? Al contrario! Tenevo la chiave del laboratorio di Kant stretta in mano, palpeggiandola fra attrazione e terrore. Quei reperti erano notevoli, ma ancora piú notevole era che Kant avesse affidato la custodia della sua collezione a me. A me, e a nessun altro! Non mi aveva stupito apprendere che il signor procuratore Rhunken non fosse stato messo al corrente dei segreti del luogo. Il povero, leale Koch era rimasto scioccato da quelle novità, ma io esultavo. Adesso sapevo perché Kant aveva scelto me invece di qualche altro magistrato. Altri personaggi potevano avere piú esperienza circa i metodi investigativi tradizionali, ma Kant pensava che io solo sarei stato in grado di comprendere l'utilità della raccolta che la sua mente straordinaria aveva ideato e creato, che io solo avrei saputo apprezzarne la macabra bellezza - non c'era parola piú adatta. Undici anni prima, Kant mi aveva consigliato di entrare in magistratura. E ora mi offriva l'opportunità che avevo intenzionalmente cercato di evitare accettando la sede di Lotingen. Aveva messo il materiale nelle mie mani, affinché mi dimostrassi il primo di una nuova generazione di magistrati investigativi. Avrei infatti potuto avvalermi di una tecnica totalmente rivoluzionaria che implicava metodi mai usati nella lotta contro il peggiore di tutti i crimini. Un crimine che poteva anche mettere a repentaglio la pace stessa della Nazione. Era la ragione che l'aveva spinto a chiamare Vigilantius e a utilizzarne, in soccorso della giustizia, sia la sapienza anatomica sia gli arcani talenti. Dove si poteva trovare un magistrato in carne e ossa che osasse impiegare un simile stratagemma? Per questo aveva voluto che osservassi il negromante all'opera la sera precedente. Di colpo, vidi le abilità del dottore in una luce totalmente diversa. L'anziana mente di Kant stava veleggiando verso qualche oscuro e ultimo lido, ma il grande filosofo non aveva perso la presa sulla realtà e neppure la capacità di applicare la logica e il sano ragionamento alla soluzione di un enigma. Mi stava insegnando ciò che lui non era più in grado fisicamente di fare da solo. Era il mio Socrate, mi guidava verso un modo di vedere e di agire assolutamente nuovo. Indagare su un episodio delittuoso non consisteva semplicemente nel raccogliere informazioni fattuali o nell'estorcere la verità a un testimone riluttante, come pensava Rhunken. E come finora avevo pensato io stesso, fui costretto ad ammettere in uno sprazzo di onestà. Kant aveva voluto prepararmi a ciò che avevo appena visto, addestrandomi a usare tale sapere per il bene dell'Umanità e sollecitandomi a non sottovalutare una prova in ragione della sua perversità o mostruosità, per riprendere l'espressione di Koch. Sicuramente, Rhunken aveva considerato in questi termini il modo di procedere di Kant. Soltanto la sera prima sarei stato d'accordo con Rhunken. In un batter d'occhio, capii ciò che dovevo fare. Quando il caso sarebbe stato chiuso, l'assassino preso e condannato, avrei scritto una dotta dissertazione per celebrare l'incomparabile genio di Immanuel Kant. Si era inoltrato in quel campo piú di qualsiasi altro uomo prima di lui, ed ero eccitato alla prospettiva di imparare dall'inventore di quel nuovo procedimento. Mi voltai a guardare il professore immerso nel sonno, con l'animo invaso da ondate di emozione e di gratitudine. Dovevo tutto a lui. Avrebbe potuto essere mio padre. In effetti, mi resi conto, dovevo a lui di piú, molto di piú, che a mio padre. La testa mi girava nell'immensità di quelle considerazioni. Dovetti chiudere gli occhi per riguadagnare l'equilibrio, e non li riaprii finché la carrozza non si fermò improvvisamente con un beccheggio. Fuori, la nebbia era piú fitta. Rivolsi di nuovo lo sguardo al professor Kant, che continuava placidamente a dormire. Al di là dell'impannata del finestrino, nell'oscurità lattiginosa, si materializzò una faccia e la spettrale apparizione di Johannes Odum mi segnalò di scendere dalla vettura. Senza patemi, aprii lo sportello. | << | < | > | >> |Pagina 218Capitolo 18Königsberg... La prima volta che udii la parola avevo appena sette anni. Il generale Von Plutschow stava tornando nella sua casa di campagna quando un giorno ci venne a fare visita a Ruisling. Il piú vecchio camerata di mio padre all'accademia militare era un eroe nazionale. Era stato l'ospite d'onore a una cerimonia tenuta il giorno precedente a Königsberg per commemorare il ventesimo anniversario della gloriosa battaglia di Rossbach che aveva avuto luogo nel 1757. Quel giorno il generale Von Plutschow aveva condotto la carica del Settimo cavalleria, assicurando la vittoria alla Prussia. In via eccezionale, mio fratello minore Stefan e io avemmo il permesso di partecipare in salotto al ricevimento in omaggio dell'ospite. Ascoltammo a bocca aperta il colorito resoconto che egli fece del sontuoso evento di gala cui era stato presente il Re in persona. Mentre parlava, non riuscii neppure per un attimo a distogliere gli occhi da dove avrebbe dovuto essere il suo braccio destro. La manica vuota del generale Von Plutschow era avvoltolata e fissata alla spallina argentata con una medaglia d'oro. - Königsberg è la quintessenza di tutto ciò che vi è di piú onorevole, di piú autenticamente nobile nella nostra grande nazione, - disse con entusiasmo mio padre quando il generale ebbe finito di parlare, mentre mia madre si asciugava le lacrime sulle guance. Da quel momento, il glorioso nome di Königsberg e il braccio perduto del generale Von Plutschow furono inestricabilmente legati nella mia immaginazione molto prima che visitassi la città. Per come la vedevo io, a Königsberg potevano succedere solo cose gloriose e vivere unicamente persone ammirevoli. A dispetto dei delitti che mi avevano portato li, [...], ancora accarezzavo l'ardente convinzione che Königsberg fosse un posto benedetto, in cui si poteva ripristinare l'onesta pace tradizionale con l'aiuto del professor Kant. Ma quella sera, mentre la carrozza procedeva secondo le indicazioni che Lublinsky aveva dato al cocchiere e ci eravamo ormai lasciati da molto alle spalle il centro della città, cominciai a vedere l'altro lato di Königsberg, l'oscuro ventre molle di una bestia miserabile, un mondo di sofferenza e di povertà che non avrei mai immaginato esistesse nel luogo dove erano stati resi gli onori al generale Von Plutschow, dove era nato il professor Immanuel Kant, una città che il filosofo lodava come una sorta di paradiso terrestre. | << | < | > | >> |Pagina 303Dopo che mi fui presentato, mi accompagnò nella sua stanza, rialzata di tre gradini. Lí c'era una parete di recente costruzione. Era interamente costituita di pannelli di vetro; non avevo osservato niente di simile in nessun altro locale della Fortezza di Königsberg.- Cosí è molto piú semplice dare uno sguardo ai ricoverati, - disse il colonnello Franzich a mo' di spiegazione, sventolando la mano in direzione del reparto. - Tutto quello che c'è da fare è stare in piedi. Come un capitano sul ponte della nave. - Ingegnoso, - replicai con un sorriso di apprezzamento. - A loro, naturalmente, è proibito stare in piedi. Li abbiamo «condannati» al letto, - scherzò fiaccamente. - Non ci possono vedere. Possono vedere soltanto la parete alle mie spalle. - Ah, sí? - replicai. - Lo chiamo il «muro del pianto». Un riferimento biblico, lo saprete, - precisò sempre con quel suo sorriso fisso e stanco. Da dove sedevo io, con la schiena rivolta al divisorio di vetro, ero obbligato a guardare proprio la parete di cui mi stava parlando. E piú di una volta mi chiesi se la schiera di oggetti disposti con tanta cura su quel muro del pianto potesse mai convincere un malato a riporre la propria fiducia nel colonnello-chirurgo Franzich. Quella parete avrebbe sicuramente tolto ogni residua speranza a chiunque si trovasse nel rischio di morire o di perdere un arto per le ferite riportate. - Quelle figure sono di cera? - chiesi. - Be', certo,- ribatté. - La maggior parte delle vittime sono ancora vive e... relativamente in salute, suppongo. La chirurgia militare ha compiuto passi da gigante nell'ultimo decennio. Prima che i pazienti vengano dimessi dall'infermeria, faccio eseguire un calco in cera delle loro lesioni. Per un occhio esperto, le possibilità di ricostruzione sono... bene, sono evidenti. Il suo sorriso voleva essere rassicurante, ma mi ricordava, in modo fastidioso, Gerta Totz. Gli oggetti esposti sulla parete erano quanto mai macabri. Calchi in cera di mani, braccia e gambe che erano state recise e squarciate dalla mitraglia, o perse per sempre sotto i colpi e i fendenti delle baionette e delle sciabole. Ma la cosa piú terribile erano le facce. Erano appese in fila, sull'alto, come spettrali maschere mortuarie. Facce di uomini sufficientemente sfortunati da subire la crudele e annientante deformazione dovuta alle palle di cannone o a qualche altro micidiale ordigno di guerra. Il chirurgo Franzich sedeva calmo sulla propria sedia, di fronte a quei mostruosi memento del suo bancone di lavoro, come l'orgoglioso proprietario di un museo delle cere che venda i biglietti per il suo padiglione di orrori umani. La luce emanata dalla lampada a olio sulla sua scrivania sfarfallava e ondeggiava. E tutt'a un tratto mi ricordai di una sera estiva che avevo trascorso in uno splendido casotto di caccia, insieme a mio padre e a suo fratello maggiore, Edgard Stiffeniis, sulle colline vicino a Spandau piú di dieci anni prima. Mentre le falene e gli insetti si gettavano, come presi da vertigine, nella fiamma danzante della candela, trovando la morte in un'interminabile sequenza di bagliori luminosi e di sgradevoli sfrigolii, lo zio Edgard raccontava le sue avventure di caccia il cui esito finale erano le teste di orso e di cinghiale, impagliate e montate su legno, che decoravano le pareti del casotto. Qui era di gran lunga peggio. Le facce immortalate sul muro del pianto del chirurgo Franzich sembravano vivere ed emanare lo spasimo di nervi torturati e di epidermidi seviziate. L'impressione che mi fecero quelle effigi non era sicuramente attutita dalle inconfondibili macchie di sangue secco sul grigio grembiule da lavoro del segaossa del reggimento.
Una faccia, in particolare, attirò la mia riluttante attenzione.
Era difficile volgere l'occhio altrove, ma piú penoso ancora era
guardare. L'uomo aveva perso la mascella inferiore. I denti superiori pendevano
allo scoperto, scomposti e rotti, sopra l'inconcepibile vuoto; la lingua era
come un rosso serpente, nudo e
rigonfio, senza rifugio dove nascondersi, senza posto dove riposare, traboccante
in avanti, dove un tempo c'erano le labbra.
Le parti esposte della gola e del collo del pover'uomo erano state accuratamente
dipinte coi colori della vita, un vistoso caleidoscopio di rosso, indaco e
giallastro. Alle vibrazioni e ai tremolii della luce della candela, tendini,
muscoli e membrane sembravano animarsi e pulsare di un dolore sempre vivo.
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