Copertina
Autore Denis Guedj
Titolo il Teorema del Pappagallo
EdizioneLonganesi, Milano, 2000, La Gaja Scienza 602 , pag. 562, dim. 140x210x42 mm , Isbn 978-88-304-1758-8
OriginaleLe théorème du perroquet
EdizioneSeuil, Paris, 1998
TraduttoreLidia Perria
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa francese , storia della scienza , matematica
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Indice


 1. Nofutur                                   7
 2. Max l'eoloco                             19
 3. Talete, l'uomo dell'ombra                28
 4. La Biblioteca della Foresta              64
 5. Il «personale matematico»
    di tutti i tempi                         82
 6. La seconda lettera di Grosrouvre         97
 7. Pitagora, l'uomo che vedeva numeri
    ovunque                                 113
 8. Dall'impossibilità alla certezza.
    Gli irrazionali                         135
 9. Euclide, l'uomo del rigore              148
10. L'incontro tra un cono e un piano       177
11. I tre problemi di rue Ravignan          202
12. Gli oscuri segreti dell'IMA             215
13. Baghdad, durante...                     229
14. Baghdad, dopo...                        258
15. Tartaglia, Ferrari.
    Dalla lama al veleno                    286
16. Uguaglianza                             313
17. Fraternità, libertà. Abel, Galois       333
18. Fermat, il principe dei dilettanti      362
19. La rosa dei venti                       394
20. Eulero, l'uomo che vedeva la matematica 415
21. Congetture & C...                       453
22. Impossibile non è un termine matematico 463
23. Mi piacerebbe tanto visitare Siracusa...476
24. Archimede. Chi meno può, può di più     500
25. Mamagueña!                              536
26. Le pietre del guado                     548
    La conferenza degli uccelli             553

Glossario                                   555
Ringraziamenti                              557

 

 

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Pagina 7

1
Nofutur


COME ogni sabato, Max aveva fatto un giro al mercato delle pulci di Porte de Clignancourt, raggiungendolo a piedi dal lato nord della collina di Montmartre. Da principio si era limitato a curiosare sul banco del venditore presso il quale Lea aveva cambiato le Nike macchiate che Perrette le aveva regalato la settimana prima. Poi entrò nel capannone dov'erano esposti articoli coloniali di provenienza militare, e stava frugando in un gran mucchio di oggetti eterogenei quando scorse, in fondo al locale, due tizi piuttosto ben messi e molto agitati. Ebbe l'impressione che stessero litigando, ma non era affar suo. Soltanto dopo si accorse del pappagallo: i due stavano tentando di catturarlo.

Allora sì, che diventava affar suo.

Il pappagallo si difendeva, sferrando gran colpi di becco. Il più basso dei due lo afferrò per la punta di un'ala, ma il volatile, rapido come un lampo, si girò, beccandogli il dito a sangue. Max vide la bocca del piccoletto aprirsi in un grido di dolore, mentre l'altro, lo spilungone, assestava inferocito un pugno tremendo sul capo dell'animale. Il ragazzo si avvicinò, e gli parve che il pappagallo, stordito, urlasse: «Assass... Assass...» Uno dei due tirò fuori una museruola. Mettere la museruola a un pappagallo!

A quel punto, Max si lanciò nella mischia.

Nello stesso momento, in rue Ravignan, Perrette entrava nella camera-garage, trattenendo il respiro, tanto era forte l'odore di olio per auto che aleggiava ancora nell'aria, e scostava i tendaggi che circondavano il letto a baldacchino per consegnare una lettera al signor Ruche. La busta era ornata da un francobollo grande come un lenzuolo. Un francobollo delle poste brasiliane! Perrette notò che la lettera era stata imbucata parecchie settimane prima. Il timbro indicava che proveniva da Manaus, ma il signor Ruche non conosceva nessuno in Brasile, figurarsi a Manaus.

Monsieur Pierre Ruche
1001 Pagina
rue Ravignan
Paris XVIII
France

L'indirizzo era scritto in modo corretto, però mancava il numero civico e il nome della libreria era stato storpiato: «1001», anziché «Mille e Una».

Manaus, agosto 1992

Caro [pi.greco]R,

il modo in cui scrivo il tuo nome dovrebbe farti capire chi sono. Non strozzarti, sono io, Elgar Grosrouvre, il tuo vecchio amico, quello che non vedi da... mezzo secolo. Eh, sì, ho fatto il conto. Ci siamo separati dopo l'evasione, ricordi? Era il 1941. Tu volevi partire, dicevi, per continuare una guerra che non avevi ancora cominciato. Io, invece, volevo lasciare l'Europa, per farla finita con quella guerra che, ai miei occhi, era durata fin troppo. Ed è quello che ho fatto. Dopo la nostra separazione mi sono imbarcato alla volta dell'Amazzonia, e da allora vivo qui. Abito nei pressi della città di Manaus. Ne avrai certamente sentito parlare: è la capitale del caucciù, anche se ormai in pieno declino.

Come mai ti scrivo dopo tanti anni? Per informarti che stai per ricevere un carico di libri. E perché proprio tu? Perché eravamo i migliori amici del mondo e tu sei l'unico libraio che conosco. Sto per inviarti la mia biblioteca: tutti i miei libri, ossia alcune centinaia di chili di opere matematiche.

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Pagina 40

Max, appostato all'ingresso della libreria, li avvistò da lontano e fece loro segno di affrettarsi verso lo studio. Il locale era irriconoscibile, col pavimento ricoperto di un tappeto ancora più spesso della moquette del cinema di place Clichy, e sul tappeto, al posto delle poltrone, alcune stuoie sottili. Nofutur troneggiava su uno sgabello alto, ricoperto di velluto color porpora. In fondo alla sala, il signor Ruche li accolse con un sorriso pacato. Prima di ritirarsi, Max li invitò a prendere posto sulle stuoie. Seguì un lungo silenzio, alla fine del quale ebbero l'impressione di sentire uno sciabordio di onde. Era il segnale; nella sala si levò la voce roca di Nofutur.

«Talete, appoggiato alla balaustra della nave, guardava allontanarsi la terraferma della Ionia, dov'era vissuto fino a quel momento. Mileto scomparve in lontananza. La nave era diretta in Egitto.» Serio come un papa, Nofutur parlava dall'alto dello sgabello. A ogni parola che diceva, il collo si gonfiava e gli occhi scintillavano; si teneva diritto sulle zampe in modo da trovare un equilibrio migliore, allo scopo - si sarebbe detto - di rendere più ferma la voce, come se avesse seguito un corso di dizione. «Sospinta dai venti etesii, che soffiano soltanto d'estate, nel periodo della canicola, la nave compì la traversata senza scalo, arrivando in vista delle coste egizie ed entrando nel lago Mariotis, dove Talete s'imbarcò su una feluca che doveva risalire fi Nilo.»

La voce di Nofutur si spense; era allo stremo delle forze. Max lo accarezzò dolcemente, offrendogli una leccornia: in una piccola ciotola aveva versato un cocktail prelibato, composto da noccioline tostate e appena salate, mandorle, nocciole e noci di acagiù.

Il signor Ruche subentrò al pappagallo, «Dopo qualche giorno di navigazione, interrotta da numerose soste nelle varie città che sorgevano in riva al fiume, finalmente la scorse: al centro di un vasto altopiano, non lontano dalla riva, sorgeva la piramide di Cheope. Talete non aveva mai visto una costruzione così imponente. Sullo stesso altopiano si trovavano altre due piramidi, quelle di Chefren e di Micerino; a confronto con l'altra, apparivano piccole, eppure... Per tutta la durata del viaggio lungo il Nilo, gli altri viaggiatori gli avevano ripetuto che le dimensioni del monumento erano superiori a ogni immaginazione. Talete sbarcò dalla feluca. Man mano che si avvicinava, i suoi passi diventavano più lenti; come se quella piramide, in ragione della sua massa, riuscisse a rallentare la sua avanzata. Alla fine si fermò e si sedette, sconfitto. Un fellah di età indecifrabile si accovacciò al suo fianco. 'Lo sai, straniero, quanti morti è costata questa piramide che tu sembri ammirare?' 'Migliaia, senza dubbio.' 'Di' pure decine di migliaia.' 'Decine di mighaia!' 'Di' pure centinaia di migliaia.' 'Centinaia di migliaia!' Talete lo fissò, incredulo. 'Forse anche di più', aggiunse il fellah. 'E perché tanti morti? Per scavare un canale? Arrestare una piena? Gettare un ponte? Costruire una strada? Innalzare un palazzo? Erigere un tempio in onore degli dei? Aprire una miniera? Nient'affatto. Questa piramide è stata innalzata dal faraone Cheope con l'unico scopo d'indurre gli esseri umani ad ammettere la loro meschinità. La costruzione doveva eccedere ogni norma per sopraffarci meglio: più fosse risultata gigantesca, più infimi saremmo apparsi noi. Lo scopo è stato raggiunto. Ti ho visto avvicinarti, e sul tuo viso ho visto riflettersi questa immensità. Il faraone e i suoi architetti hanno voluto costringerci ad ammettere che tra la piramide e noi non esiste nessun denominatore comune.' Talete aveva sentito già esprimere riflessioni del genere sul progetto del faraone Cheope, ma non in modo così esplicito, e con altrettanta precisione. 'Nessun denominatore comune!' Quel monumento volutamente smisurato rappresentava una sfida per lui. Da duemila anni, l'edificio, pur essendo costruito dalla mano dell'uomo, sfuggiva alla portata della sua conoscenza. Quale che fosse stato l'intento del faraone, restava indiscusso il fatto che risultava impossibile misurare l'altezza della piramide. Era la costruzione più visibile del mondo abitato, e insieme la sola che non si potesse misurare. Talete volle raccogliere la sfida. Il fellah parlò per tutta la notte. Nessuno ha mai saputo che cosa abbia raccontato a Talete. Quando il sole rischiarò l'orizzonte, Talete si alzò. Osservando la propria ombra che si allungava verso occidente, rifletté che, per quanto un oggetto sia piccolo, esiste sempre un sistema d'illuminazione che lo fa apparire grande. Rimase a lungo immobile, con gli occhi fissi sulla macchia scura che il suo corpo proiettava sul terreno, e la vide rimpicciolire a mano a mano che il sole s'innalzava nel cielo. 'Se la mia mano non può effettuare la misurazione, lo farà il mio pensiero', si ripromise. Guardò a lungo la piramide: doveva trovare un alleato 'all'altezza' dell'avversarío. Lentamente il suo sguardo si spostò dal proprio corpo alla sua ombra, dall'ombra al corpo, prima di passare sulla piramide. Infine Talete alzò gli occhi: il sole lanciava raggi implacabili. Ebbene, aveva trovato il suo alleato! Che sia l'Helios dei greci o il dio Ra degli egizi, il sole non fa differenza tra tutti gli oggetti del mondo: li tratta allo stesso modo.

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Pagina 98

Manaus, settembre 1992

Caro [pi.greco]R,

mi restano solo poche ore, appena il tempo di darti alcune spiegazioni. Te le devo. Anzitutto, voglio spiegarti perché l'Amazzonia. Mi pare di sentirti dire: «Ma che diavolo è andato a fare, laggiù?» Il fatto è che in Europa mi sentivo soffocare. Tu conosci bene il mio insaziabile bisogno di respirare: «Sei litri allo spirometro!» «Un torace massiccio come un armadio della nonna», era la tua espressione preferita. E dove potevo andare, se non nel «polmone del mondo», nella «più grande riserva di ossigeno del pianeta»? La foresta amazzonica, appunto. E lì, credimi, ho respirato a pieni polmoni. Purtroppo, da qualche anno a questa parte le cose stanno cambiando; quei maledetti danno alle fiamme la giungla. Scoppiano incendi ovunque. Vedere lembi di foresta grandi come intere regioni finire in fumo è uno spettacolo che spezza il cuore. E chi li fermerà?

Lasciando Parigi, avevo ben presente quel proverbio portoghese del XVI secolo: «Al di sotto dell'equatore, non esistono peccati». Se guardi una carta geografica, ti accorgerai che Manaus si trova al di sotto dell'equatore, sia pure soltanto di due o tre gradi. Decidendo di stabilirmi in questa città, ho cambiato in un sol colpo Paese, continente ed emisfero.

Senza contare che Manaus era una città che aveva tutta una vita alle spalle, come me. Ma il tempo vola, quindi veniamo al sodo. In primo luogo - altrimenti non capirai niente di quel che segue - devo confidarti qual è stata la passione della mia vita, o almeno quella degli ultimi quarant'anni. Dopo qualche anno di duro lavoro - ho trascorso intere settimane nel cuore della foresta, senza vedere anima viva -, ha cominciato ad assillarmi un'idea che non mi ha più abbandonato; è stato soltanto questo a permettermi di sopravvivere in mezzo a pericoli incredibili. Ho deciso di risolvere alcune delle più celebri congetture della matematica. Lo sai che cos'è una «congettura» in matematica? È una proposizione - ragionevole - di cui non è ancora stata provata la validità... A te, ci scommetto, tutto ciò non dirà niente, eppure per me si è trattato di un lavoro colossale.

Perché proprio questa idea, fra le tante che mi sono passate per la testa? Per misurarmi contro i titani matematici del passato e superarli? No. Non ho mai avuto il gusto della competizione, perché gli altri contano troppo poco per me. Per diventare celebre e ottenere il diritto di officiare nei moderni templi della scienza? Meno ancora. Mi ci vedi a trascorrere i miei giorni in un centro di ricerca, attorniato da «colleghi»? No, Pierre. Ho lanciato questa sfida a me stesso unicamente per sopravvivere. Tu non puoi immaginare che cosa sia la natura in questo Paese; la sua vitalità ha qualcosa di spaventoso. Mi crederai se ti dico che ho visto spuntare degli alberi dal terreno? Se esiste un luogo al mondo in cui la natura ha orrore del vuoto, è proprio questo. Lasci un terreno che hia appena diboscato, a costo di spezzarti la schiena, poi ci torni qualche giorno dopo ed è di nuovo brulicante di vita che straripa da tutte le parti. Quale limite si può imporre a una natura insaziabile che inghiotte tutto in un sol boccone, e alla quale nessuna realtà materiale riesce a opporre una qualche resistenza?

In questa atmosfera in cui la carne si corrompe, in cui i corpi si disfano per l'umidità, in cui tutto marcisce; in questa atmosfera che, per eccesso di vita, affretta la morte, mi sono aggrappato a esseri immateriali, a entità ideali che né il caldo soffocante né l'umidità potevano corrompere. All'esuberanza informe contro la quale nulla si può fare, ho voluto contrapporre il rigore controllato. Per resistere a quel delirio di materie destinate a perire, mi sono immerso nella purezza immobile del cristallo.

Si sono mai viste definizioni matematiche imputridire su due piedi, teoremi liquefarsi, ragionamenti ammuffire, assiomi finire divorati dai vermi? Ho scelto la matematica, e non soltanto perché è stata la matetia nella quale mi ero formato in origine.

Ti verrà da ridere, ma è stato in quelle circostanze, in cui ne andava della mia incolumità fisica, che mi sono reso conto del fatto che la matematica è imputrescibile. Per sfuggire alla pregnanza del reale che mi soffocava, ho dovuto fare appello a una pura attività dello spirito.

E, nel campo della matematica, a che cosa potevo dedicare la mia attenzione, in particolare?

Tu non puoi sapere che cosa significa aprirsi il cammino nella giungla. Devi avanzare all'interno di una galleria creata a colpi di machete, tagliando un intrico ininterrotto di vegetazione, in cui nessuna forma si distingue dall'altra.

All'opposto, quale immagine ti presenta lo spirito... il mio, almeno? Un deserto piatto, in cui da lontano si vede levarsi una roccia; non un miraggio, bensì una roccia del tutto reale, di cui nessuno contesta l'esistenza. Ed è una roccia irraggiungibile. Non credere che una simile immagine sia troppo «letteraria»; per me è stata un balsamo che mi ha permesso di evadere, di liberarmi dall'ambiente che mi circondava. Di fronte all'esuberanza angosciosa della natura, sono andato in cerca della purezza più estrema e della semplicità più radicale. Dove trovarle? In alcune delle congetture più eleganti della matematica, quelle che nel corso dei secoli hanno resistito agli sforzi dei più grandi matematici: la celeberrima congettura di Fermat, quella di Goldbach, quella di Eulero, quella di Catalan, e altre ancora.

Immagina un continente del quale l'umanità intera conosca con assoluta certezza l'esistenza, ma al quale non riesca a trovare una via d'accesso: ecco che cos'è una congettura matematica. Ma questo lo sai. Quello che invece non puoi sapere è che si tratta di una delle sfide più eccitanti che esistano al mondo, un'asserzione di una semplicità assoluta, che persino uno studente liceale di medie capacità può comprendere senza fatica. Un'asserzione che tutti considerano vera, ma della quale nessuno è riuscito a dimostrare la validità. Esattamente quello che mi mancava: un osso da rodere.

Mi sono dedicato a due di esse in particolare. Non si può fare tutto. Ho consacrato a quel compito tutto il mio tempo libero, giorno e notte, anzi, più la notte che il giorno. E le ho risolte! Non avevo scelta, per me era una questione di vita o di morte. Hanno «ceduto»! La più antica e la più celebre di tutte, la capostipite, la congettura di Fermat, e la congettura di Goldbach. Tutt'e due, capitano!, come si diceva quand'eravamo soldati semplici.

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Pagina 114

7
Pitagora, l'uomo che vedeva numeri ovunque


CONOSCENDO Grosrouvre, Ruche era convinto che la lettera dell'amico, oltre a ciò che dichiarava in modo esplicito, doveva racchiudere informazioni nascoste, che toccava a lui... come dire? Ah, sì: decodificare, ecco la parola giusta. Esistevano certamente due livelli di lettura, e tutto ruotava intorno a Pitagora. Per quale motivo Grosrouvre aveva scelto proprio lui, e quale messaggio voleva trasmettere?

[...]

Si addentrò allora nella Biblioteca della Foresta, spingendo la sedia a rotelle sino agli scaffali della sezione riservata alla matematica greca, al secondo livello. Servendosi dell'apposita pinza per afferrare i libri, mise insieme parecchie opere riguardanti i cosiddetti presocratici; poi utilizzò di nuovo quello strumento per depositare sulla propria scrivania la Vita pitagorica di Giamblico, scritta nel II secolo dopo Cristo.

Spinse la sedia fino al piccolo studio che si era fatto installare in un angolo della stanza, con uno splendido secrétaire dalle zampe a tortiglione rivestite di cuoio, e s'immerse nella Vita pitagorica, leggendola da cima a fondo: un autentico romanzo! Le condizioni della copertina, addirittura logora, testimoniavano che Grosrouvre l'aveva consultata spesso. Alcune pagine sembravano più sciupate delle altre, e il signor Ruche prestò loro un'attenzione speciale.

Infine prese dalla cartella il portapenne di Murano.

Scrivere col vetro! In quel modo le parole gli sembravano più fragili, dunque più preziose. Aprì il quaderno dalla copertina cartonata, voltando le pagine fino a trovarne una bianca, immerse la penna di vetro in un piccolo calamaio e scrisse:

Pitagora ha inventato la parola filosofia.

Avrebbe potuto fermarsi a quel punto: sarebbe stato sufficiente. Ma aveva una ricerca da compiere, ed era appena all'inizio.

Come nel caso di Talete, non si conosce nessuna opera scritta da Pitagora, non più di quanto si conoscano le date esatte della sua nascita e della sua morte. Si sa soltanto che è vissuto nel VI secolo avanti Cristo, che è nato nell'isola di Samo, al centro del mar Egeo, ed è morto a Crotone, nell'estremo lembo dell'Italia meridionale.

Pitagora aveva diciotto anni quando partecipò alle Olimpiadi, vincendo le gare di pugilato. Dopo la vittoria, decise di viaggiare. Nella Ionia, a due passi da casa, passò alcuni anni con Talete e il suo allievo Anassimandro. Poi, in Siria, soggiornò presso i saggi fenici, che lo iniziarono ai misteri di Byblo, e in seguito sul monte Carmelo, nel territorio dell'attuale Libano. Di lì s'imbarcò per l'Egítto, dove rimase ventidue anni ed ebbe tutto il tempo di acquisire il sapere dei sacerdoti egizi nei templi sulle rive del Nilo.

Quando i persiani invasero il Paese, lui si ritrovò prigioniero e venne condotto a Babilonia. Anche lì non perse tempo: nei dodici anni che trascorse nella capitale mesopotamica, acquisì l'enorme patrimonio di conoscenza degli scribi e dei Magi babilonesi e, carico di esperienza e di sapere, tornò a Samo, che aveva lasciato quarant'anni prima.

A Samo, però, regnava il tiranno Policrate, e Pitagora odiava i tiranni, quindi ripartì, stavolta diretto a occidente, verso le coste della Magna Grecia. Sbarcò a Sibari, famosa per essere una città dedita a ogni forma di piacere, e infine si stabilì nella vicina città di Crotone, dove fondò la sua celebre «scuola».

Da Pitagora, che per qualche anno fu allievo di Talete, fino ad Archita di Taranto, fedele amico di Platone, la scuola pitagorica durò circa centocinquant'anni e poté contare su 218 allievi: non uno di più non uno di meno. Non furono tutti matematici, anzi; ma il signor Ruche, essendo settario, s'interessò unicamente a questi ultimi. Si chiamavano Ippocrate di Chio, Teodoro di Cirene, Filolao di Crotone, Archita di Taranto. E, naturahnente, Ippaso.

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Pagina 184

«Elaborare teorie, costruire modelli... per salvare le apparenze», ripeté lentamente il signor Ruche. Sfogliò il taccuino degli appunti e riprese: «Roma crollò e Bisanzio prese il suo posto. E Alessandria la pagana divenne cristiana. Anzi, lo era già, dopo la conversione degli imperatori romani al cristianesimo. Tanto le scienze erano rispettate e coltivate in Grecia, quanto furono trascurate a Roma. In riva al Tevere, l'unica scienza che contasse era l'arte del governo. E se ci si appassionava alle leggi, non era alle leggi matematiche, bensì a quelle che regolavano la sfera giuridica. Nel Pantheon dei romani, le astrazioni non allignavano di certo. Nei quasi mille anni di vita dell'impero romano, non si trova la minina traccia di un'unica scuola matematica. L'unione tra il disinteresse dei romani per le realtà dello spirito e l'ostilità dei cristiani per tutte le forme di sapere che non dovevano nulla a Dio e ai santi ebbe conseguenze tragiche sulla sopravvivenza delle scienze. La prima a subirne gli effetti fu Ipazia, la prima grande matematica della storia».

Lea, che non si era appassionata più di tanto alla trasformazione di Alessandria, drizzò le orecchie.

«Alla fine del IV secolo, viveva ad Alessandria una celebre famiglia di matematici, Teone con i due figli, Ipazia ed Epifanio. È nelle opere di Teone che si trova il celebre metodo di calcolo delle radici quadrate che ha avvelenato la mia giovinezza. La figlia Ipazia eseguì ricerche brillanti sulla scia delle scoperte di Apollonio, e lavorò anche sulle tesi di Diofanto e Tolomeo. Anche Epifanio si dedicò all'astronomia di Tolomeo, ma bisogna ammettere che era meno dotato della sorella. Secondo la tradizione dei grandi studiosi dell'antichità, oltre a essere una brillante matematica, Ipazia era anche una valente filosofa, al punto di insegnare entrambe le materie. Centinaia di ascoltatori affollavano le sue lezioni, affascinati non solo dalla sua intelligenza e dal suo sapere, ma anche dalla sua bellezza. Tutte doti insopportabili per i sostenitori del nuovo ordine morale che si era abbattuto su Alessandria. Ipazia era una donna libera. Un giorno dell'anno 415, il popolino, sobillato a lungo dagli uomini del patriarca di Alessandria, assalì il suo carro, la gettò a terra e le strappò di dosso gli abiti, prima di trascinarla in un santuario. Lì fu torturata con gusci d'ostrica affilati come lame, prima di essere bruciata viva. Decisamente, certi religiosi amano le donne soltanto quando sono sul rogo, come Ipazia, Giovanna d'Arco e le migliaia di 'streghe' dell'Inquisizione.»

Lea lo guardò, impallidendo, e il signor Ruche si pentì di avere calcato la mano sui dettagli inutili.

«Una sola matematica in tutta l'antichità, e la bruciano viva dopo averla torturata!» esclamò Lea. Poi, con l'aria più seria di questo mondo, aggiunse: «E poi si meravigliano che siano così poche le ragazze che scelgono di studiare matematica».

Occorreva seguire sino in fondo l'agonia del mondo antico.

«Dopo Alessandria, toccò a Roma. I romani ebbero un unico matematico, il senatore Boezio, che fu giustiziato per ordine dell'imperatore Teodorico. Poi fu la volta di Giustiniano, che decretò la chiusura di quelle che gli integralisti cristiani dell'epoca chiamavano 'le università pagane': in primo luogo, l'Accademia, e poi tutte le altre scuole di Atene. Dieci anni dopo la morte di Maometto, nell'anno 642, le truppe arabe s'impadronirono di Alessandria. La città cristiana divenne mussulmana, e tale è rimasta. Tre anni prima della conquista della città da parte degli arabi, scoppiò una rivolta, e gran parte dei libri della grande Biblioteca finì tra le fiamme... nei bagni pubblici!»

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Pagina 286

15
Tartaglia, Ferrari. Dalla lama al veleno


LA grande chiesa di Brescia non ha mai conosciuto una simile affluenza, ma le persone che vi si affollano non sono fedeli intervenuti per una cerimonia religiosa. Decine di donne e bambini, accalcati, tremano nell'attesa, pieni di speranza; neppure lì, nella casa di Dio, sono al sicuro. Niccolò, la madre, il fratello e la sorella sono addossati a una colonna. Nonostante la neve, fa quasi caldo, tale è l'affollamento, eppure si è in pieno inverno. Il silenzio è assoluto. Tutti tengono lo sguardo fisso sul grande portale della chiesa. Fuori, i rumori diventano sempre più forti, sempre più vicini; dentro, il silenzio è impressionante. Tutti trattengono il fiato, i corpi sono come impietriti. È la mattina del 19 febbraio 1512.

Con uno schianto terribile, il portale viene abbattuto e dal varco dilaga all'interno una massa di uomini armati che, brandendo la spada, lanciano le loro cavalcature all'interno della chiesa. I cavalli, emettendo nitriti terrificanti, si avventano contro quella massa umana che urla di terrore. Sono tutti fermi, in piedi, non possono fuggire, schiacciati, soffocati, bersagliati di colpi. Ma l'orrore deve ancora cominciare: gli uomini armati menano fendenti terribili sui corpi indifesi. Come sfuggire? Niccolò vede l'enorme spada diventare sempre più grande... poi non vede più nulla. La spada si è abbattuta sulla sua testa, sul suo viso. La madre, però, rimane illesa. Vittoria! Le truppe francesi si sono appena impadronite di quella cittadina dell'Italia settentrionale, assassinando, stuprando, rubando, bruciando. Sono guidate da un uomo giovane e attraente di appena ventidue anni, il terribile Gaston de Foix, che morirà cinquantasette giorni dopo, nella battaglia di Ravenna, col viso trafitto da quindici colpi di lancia.

Il signor Ruche tremava per l'emozione, la stessa che lo aveva assalito cinquant'anni prima, nel 1944, quando aveva letto il resoconto del massacro compiuto dalle SS nella chiesetta di Oradour-sur-Glane. Quando, seguendo il «programma di Grosrouvre», aveva abbordato il terzo matematico della lista stilata dall'amico, non si aspettava di trovarsi alle prese con quel ricordo, con lo stesso senso di orrore e di ribellione che aveva provato allora, ma, come allora, convinto che la vita finisce sempre per prevalere.

E proprio quello era accaduto a Niccolò nella chiesa di Brescia. Tra i morti che si contavano a decine, si trovò il suo corpo esanime, col viso sfregiato da due ferite spaventose; aveva la mascella fracassata, eppure era ancora vivo. Niccolò aveva dodici anni, benché ne dimostrasse molti di meno; era di taglia molto piccola, come del resto il padre, soprannominato «Micheletto il cavaliere» perché era un ometto minuscolo e trascorreva le giornate a cavallo per fare da corriere ai nobili del posto. Sei anni prima di quegli avvenimenti, Micheletto era morto, di sfinimento; alla sua morte la famiglia, che già non era ricca, era piombata nella miseria.

Troppo povera per pagare un medico che si prendesse cura di Niccolò, la madre si dedicò a curarlo da sola, come poteva: gli medicava le ferite, gli applicava unguenti, e lasciava fare al tempo. Per mesi, il bambino non poté pronunciare neppure una parola, e già si temeva che restasse muto. Poi finì per articolare qualche suono e, a poco a poco, recuperò l'uso della parola; ma balbettava, e così i coetanei lo soprannominarono «Tartaglia». Decise di tenersi quel nome. Era il 1515, l'anno in cui il re Francesco I riportò una grande vittoria non lontano da lì, nel villaggio di Melegnano, che i francesi si ostinavano a chiamare Marignano.

Se la famiglia non aveva i mezzi per pagare un medico, tanto meno ne aveva per stipendiare un professore. In realtà, Niccolò aveva avuto un insegnante, ma solo per un terzo... e infatti gli aveva insegnato un terzo dell'alfabeto, dalla A alla G.

Quando Niccolò aveva sei anni, il padre aveva ingaggiato un professore, che avrebbe dovuto pagare in tre rate: Micheletto purtroppo era morto poco dopo aver pagato il primo terzo del compenso pattuito, e il professore aveva interrotto le lezioni.

Così Niccolò era rimasto in panne a un terzo dell'alfabeto. Dopo la G, che lettera c'è, e come, si scrive? Niccolò ardeva dal desiderio di saperlo. Finì per procurarsi un sillabario completo e imparò da solo i due terzi dell'alfabeto che gli mancavano, fino alla Z.

«Tutto quello che so, l'ho appreso lavorando sulle opere di defunti», ebbe a dire verso la fine della sua vita. Chi erano quei «defunti» dalle cui opere Tartaglia aveva appreso la matematica? Il signor Ruche non aveva voglia di organizzare una seduta; non ne aveva la forza. E poi, alla sua età, era bene prendere certe abitudini? Dopo la memorabile seduta dedicata ad al-Khwarizmi con Habibi, avevano cominciato a incontrarsi regolarmente in drogheria, nelle ore morte del pomeriggio. Bevevano il tè, comodamente installati nel retrobottega; il signor Ruche leggeva le opere che aveva prelevato dalla BDF, mentre Habibi faceva i conti o sognava a occhi aperti. Non appena il campanello segnalava l'ingresso di un cliente, si alzava e, al ritorno, annunciava le vendite fatte: due bottiglie di birra 1664, una Vichy, tre fette di prosciutto. E il signor Ruche, senza alzare la testa, rispondeva: «Ah, bene», e il pomeriggio proseguiva tranquillo.

Da quando aveva cominciato a dedicarsi al terzo personaggio della lista di Grosrouvre, Ruche aveva estratto dagli scaffali della BDF il Quesiti et invenzioni diverse e il Trattato generale di numeri e misure di Tartaglia, insieme con l' Ars Magna di Gerolamo Cardano. Per capire meglio Tartaglia, era necessario risalire indietro nel tempo, fino a Leonardo da Pisa, vissuto nel XIII secolo, il più grande matematico del Medioevo. Da buon figlio di papà, Leonardo aveva seguito il padre, chiamato Bonaccio, console a Bougie, sulle coste della Cabilia, in Algeria.

Habibi conosceva bene Bougie, e ricordò con slancio il porticciolo a ridosso del territorio selvaggio della Cabilia. Gli ulivi e le querce da sughero, le triglie di scoglio cucinate al cartoccio, i ricci di mare... Ma il lato più bello, che Habibi descrisse con un tremito nella voce, era la costa fino a Djidjelli, una cornice di roccia a strapiombo sul mare della lunghezza di qualche decina di chilometri, «più bella della Costa Azzurra».

«E a un certo punto si passa davanti a una grotta, proprio sulla sponda opposta, più grande della moschea grande di Algeri, e ancora più fresca. Si chiama la 'grotta meravigliosa', ed è un nome ben meritato. Perché non vieni con me, la prossima estate? Ti faranno festa, laggiù!»

«Sono vecchio, Habibi. Alla mia età non si viaggia più.»

«Tu vuoi che ti dica che ti trovo ringiovanito.»

Il libro che il signor Ruche teneva in mano raccontava come Leonardo avesse imparato l'arabo nella bottega di un droghiere di Bougie. Ruche guardò con affetto Habibi, immerso nei conti. Chissà se un giorno, nella biografia delle celebrità di Montmartre alla fine del XX secolo, si leggerà: «Pierre, figlio di Rucho, insigne filosofo della seconda metà del XX secolo, apprese l'arabo nel retrobottega di una drogheria di rue des Martyrs»? Leonardo si recò in Medio Oriente, in Siria, in Egitto... Ancora! L'Egitto era decisamente la Compostela dei matematici.

A quell'epoca, quando ci s'interessava di matematica, la conoscenza dell'arabo era un vantaggio enorme. Omar si era fatto chiamare al-Khayyam, figlio del venditore di tende; Leonardo si contentò di frarsi chiamare «figlio di Bonaccio», filius Bonacci, da cui deriva «Fibonacci». Ed è sotto questo nome che è diventato celebre per aver scritto il primo grande libro di matematica composto in Occidente, il Liber abaci, ossia «libro dell'abaco», o del pallottoliere, se preferite.

Durante il suo viaggio in terra musulmana, Fibonacci si era convertito... alle cifre indo-arabe, di cui si fece propagandista nei Paesi cristiani, dimostrando a tutti la loro indiscutibile superiorità sui numeri romani. Sulle pagine dei suoi libri, i cristiani scoprirono lo zero, s'iniziarono alla numerazione posizionale («Un nano seduto sul gradino più alto è più alto di un gigante che sta in piedi sul più basso», aveva detto Jonathan), appresero la scomposizione dei numeri in fattori primi e i criteri di divisibilità per due, per tre, eccetera, e tante altre cose, tra le quali quelle relative ai conigli.

Fibonacci, che nutriva un grande interesse per la riproduzione dei conigli, si chiese un giorno quali dimensioni avrebbe raggiunto la discendenza di una coppia di conigli in capo a un anno.

Cominciando a trastullarsi nel mese di gennaio, la coppia mette al mondo in febbraio una seconda coppia, che a sua volta ne genera una coppia al mese. Ogni coppia dà alla luce una nuova coppia nel secondo mese successivo alla sua nascita, poi le altre continuano, al ritmo di una al mese. Fibonacci ottenne così i seguenti numeri di coppie: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233. Nel giro di un anno, la coppia di conigli del figlio di Bonaccío ne aveva generate altre 232! A partire dal terzo numero, ciascuno dei successivi era la somma dei due precedenti. Seguendo questa serie di coppie di conigli, Fibonacci aveva inventato la nozione matematica di «successione numerica», promessa di un bell'avvenire.

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Pagina 328

C'era ancora un dubbio, però, che tormentava Ruche. Insomma, si poteva estrarre la radice quadrata di un numero negativo, sì o no? La risposta era chiara. E duplice.

No! Non si poteva estrarre la radice quadrata di un numero negativo nell'insieme dei numeri reali. Ciò che era impossibile restava impossibile là dov'era impossibile.

Sì! Era possibile estrarre la radice quadrata di un numero negativo nell'insieme dei numeri complessi.

Insomma, che cos'è i?

Secondo i matematici, è «una radice immaginaria dell'unità negativa». Poiché non appartiene all'insieme dei numeri reali, la sua irruzione nell'universo della matematica non introduce nessuna contraddizione in questo insieme.

Ruche si rese conto che, da quando aveva cominciato a seguire quell'itinerario, si era trovato più volte di fronte a due problemi di ordine matematico, oltre che filosofico: la questione dell'esistenza e quella dell'impossibilità.

Se avesse dovuto sintetizzare, avrebbe detto: in certi momenti della storia, alcuni matematici, posti di fronte a un problema che non riescono a risolvere, si trovano costretti a compiere atti illeciti, però lo fanno nel segreto del loro studio. Se vogliono andare oltre, sanno di dover lasciare l'universo nel quale hanno lavorato fino a quel momento. Come Alice, attraversano lo specchio. Là, al riparo dalle leggi in vigore nel mondo che si sono lasciati alle spalle, compiono atti oscuri, ma efficaci, che consentono di sbloccare la situazione. Poi, ripassando lo specchio, forti della loro audacia e arricchiti dalla loro nuova esperienza, procedono, o di persona o tramite i loro successori, ad ampliare l'universo matematico al fine di poter accogliere quei nuovi esseri nati dall'altra parte dello specchio. Si può sempre passare dall'altra parte dello specchio, tra le entità negative, irrazionali, immaginare, a patto di tornare con le mani piene di meraviglie.

Tuttavia non esiste la scrittura pura, e questo vale tanto in poesia e in letteratura quanto in matematica. Scrivere l' «impossibile» significa porsi la questione della sua esistenza, autorizzando i tentativi di legittimarlo. In matematica, lo si fa elaborando una teoria in cui quella scrittura, fino a quel momento priva di senso, comincia a rappresentare un oggetto ben definito. È sempre possibile definire entità nuove, a una condizione, e cioè che la loro esistenza sia una coesistenza. L'arrivo dei nuovi esseri non deve mettere in pericolo l'esistenza di quelli che esistono già, più di quanto non debba contraddire i risultati già acquisiti. In matematica, le rivoluzioni non si fanno distruggendo i mondi precedenti, che manterranno sempre la loro legittimità e verità; si fanno costruendo dei nuovi universi che o inglobano i precedenti, o si collocano accanto a essi. I nuovi esseri non annientano mai quelli vecchi; un bell'esempio di coabitazione tra vecchi e neonati.

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Pagina 431

«Ormai la corsa ai decimali è scatenata. Si assiste a un'autentica corsa al record. Prima 127, poi 140: entrano in lizza i calcolatori di professione, i 'cacciatori di decimali', come sono stati soprannominati. Alcuni sono autentici fenomeni da circo. Il decimale numero duecento viene raggiunto nel 1844, poi d'un balzo si arriva al 440. Persuaso di restare irraggiungibde a lungo, il detentore del record, William Rutherford, dorme tra due guanciali. E invece, patatrac! Appena due anni dopo, nel 1873, viene battuto da un altro William: William Shanks, che stabilisce il primato con 707 decimali e viene festeggiato come un eroe. Del resto, se lo merita: non ha forse dedicato vent'anni della sua vita a calcolare uno per uno quei 707 decimali?»

In un lampo, Ruche immaginò la vita di quel tale, che per vent'anni, tutte le mattine, si era seduto al suo scrittoio dicendo: «Bene, a che punto ero arrivato?» Fu assalito dalla nausea.

I decimali di William Shanks erano quelli riprodotti nel fregio della cupola: erano quelli che Grosrouvre aveva voluto mostrargli quella mattina di luglio del 1937, quando lo aveva trascinato al Palais de la Découverte.

Il conferenziere proseguì. «Il record di Shanks ha resistito per settantatré anni. Nel 1947, un certo Ferguson, rifacendo i calcoli, scoprì...» Lasciando la frase in sospeso, prese una lunga bacchetta che era rimasta nascosta agli occhi del pubblico e, con un fendente da schermidore, infilzò un «9» della quarta serie, posta proprio al di sopra delle due SS di POISSON e prima di PONCELET. Poi, girandosi di nuovo verso il pubblico riunito, riprese a parlare: «... scoprì che il decimale numero 528 era sbaghato!»

Inorriditi, gli spettatori non seppero trattenere un: «Oh...» che l'eco riverberò, rendendolo ancora più terribile.

«Ah-ah!» si lasciò sfuggire Ruche, trionfante. Grosrouvre era andato in sollucchero per mattinate intere davanti a cifre sbagliate: era come se gli avessero rifilato un falso Rembrandt, davanti al quale si era soffermato a lungo, in estasi. Era la notizia migliore che riceveva da molto tempo: si sentiva vendicato, e fu assalito da una crisi irrefrenabile d'ilarità.

Pensarono tutti che fosse effetto del calo di tensione. E dire che Grosrouvre non lo aveva mai saputo! Quando si era sparsa la notizia dell'errore, lui dov'era? In Amazzonia, nella giungla, intento a incidere degli alberi di Hevea per ricavarne il caucciù, punzecchiato dalle zanzare, a sgobbare tutto il giorno. «Penso che, se avesse saputo allora che il decimale numero 528 di [pi greco] era sbagliato, se ne sarebbe infischiato altamente.»

Il professore che accompagnava il gruppo di giovani sportivi, e che non aveva detto una parola dall'inizío della seduta, dichiarò: «Ma se è sbagliato il 528, lo sono anche tutti i successivi».

«Proprio così», ammise placidamente il conferenziere.

«Ma allora», riprese il professore con voce tremante, «le ultime centottanta cifre riportate lassù sono tutte sbagliate.»

Tutti tenevano lo sguardo fisso sul conferenziere. «Lo erano», disse questi, «ma non lo sono più dal 1949. La direzione del Palais ha fatto cancellare i decimali sbagliati a partire da quel 9...» E lo infilzò di nuovo con la bacchetta. «Quelle che vedete ora lassù sono assolutamente esatte.»

Tutti fecero un passo avanti per esaminare le cifre più da vicino e individuare le tracce della modifica. Né i colori né la forma delle lettere né la spazzatura tradivano l'accaduto: non s'intuiva nulla del dramma che il fregio aveva vissuto.

In tono professionale, il conferenziere riprese: «In quello stesso 1949, fu sfondato il muro dei mille. Poi il testimone passò alle macchine: da allora in poi furono loro che, debitamente programmate, individuavano i decimali di [pi greco]. I diecimila decimali furono raggiunti nel 1958, i centomila nel '61, il milione nel '73, i dieci milioni nell'83, i cento milioni nell'87, il miliardo nell'89».

Col fiato sospeso, gli studenti del gruppo sportivo seguivano quella corsa al record, ipnotizzati dalle cifre che cadevano nel silenzio. Quello sì che era sport!

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Mi piacerebbe tanto visitare Siracusa...


COME Alessandria, anche Siracusa ha due porti che si danno le spalle, il porto grande e quello piccolo. La 404 si fermò nel porto piccolo, davanti a un minuscolo bar. Albert, entrando, non ebbe neanche bisogno di farsi riconoscere; il barista gli porse subito un messaggio che li invitava a raggiungere l'«Orecchio di Dionigi», poi gli indicò la strada e, non appena lui fu uscito dalla porta, fece una telefonata.

Dopo aver attraversato il centro della città, la 404 si diresse verso il parco archeologico di Neapoli, passando di fronte al teatro greco che, secondo Albert, era il più grande di tutto il mondo antico. Scavato nel fianco della collina, poteva accogliere quindicimila spettatori, seduti su una cinquantina di gradinate. Dopo che si erano impadroniti della città, i romani lo avevano rimaneggiato per allestirvi spettacoli acquatici con tanto di naiadi. In qualsiasi altra circostanza il signor Ruche si sarebbe fermato, non per le naiadi, bensì per ammirarne l'architettura: una cavea superba, attraversata al centro da un diazoma sormontato da un fregio, il tutto perfettamente conservato. Invece i due proseguirono il loro cammino.

Le Latomie sono immense cave di pietra che circondano Siracusa, e che fornivano il materiale di costruzione dei monumenti della città stessa. L'Orecchio di Dionigi si trovava nelle Latomie del Paradiso. La 404 si fermò al centro di un frutteto di alberi d'arancio, di limone e di melograno selvatico.

Davanti a loro s'innalzava una parete di roccia calcarea, squarciata da una faglia impressionante, alta una ventina di metri, che aveva la forma del padiglione di un orecchio gigantesco: l'«orecchio di Dionigi», per l'appunto; Albert lo riconobbe per avverlo visto in tutte le guide di Siracusa.

Nient'affatto tranquillo, scese dalla macchina per scrutare i dintorni, poi fece qualche passo, ma senza allontanarsi troppo. Non si vedeva anima viva. Risalì a bordo. Il signor Ruche non aveva detto una parola da quand'erano arrivati in città. Nonostante il verde che li circondava, faceva molto caldo. Da quando aveva cominciato i suoi singolari «viaggi», Albert aveva letto parecchio sull'Orecchío di Dionigi.

«Il Dionigí dell'orecchio è il tiranno di Siracusa Dionigi il Vecchio, che regnò verso il IV secolo avanti Cristo. Invecchiando, divenne così diffidente da trasformare la sua camera da letto in un'autentica fortezza. Senta questa: il letto era circondato da un fossato, così largo e profondo che era impossibile superarlo senza un ponte levatoio. Ogni sera, prima di coricarsi, sollevava lui stesso il ponte levatoio, e soltanto allora poteva dormire tranquillo. È meglio del suo letto a baldacchino... E fa meno male dei sonniferi, anche se è più caro.»

Ma Ruche era troppo agitato per sorridere delle battute di Albert. Per quale motivo le persone che avevano fissato quell'appuntamento non erano lì? Finché non avesse visto Max con i suoi occhi, non si sarebbe sentito tranquillo.

«Questo Dionigi», riprese Albert, «aveva un cortigiano che non faceva altro che ripetere: 'Come sei fortunato a essere un re!' Allora Dionigi decise di farlo diventare re per un giorno. Il cortigiano non stava più nella pelle per la gioia. La giornata si concluse con un banchetto presieduto da lui, che portava in testa il diadema regale. A metà del pasto, Dionigi lo invitò a guardare in alto, sopra di sé. Il cortigiano alzò gli occhi e vide, sopra la sua testa, una pesante spada sguainata sospesa a un crine di cavallo. Il cortigiano abbandonò il trono su due piedi. Si chiamava Damocle.»

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