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| << | < | > | >> |Indice1. Le paludi 7 2. Mesopotamia 37 3. Ur 105 4. Babilonia 153 5. Baghdad 195 6. Iraq 275 |
| << | < | > | >> |Pagina 24[...] «Non mi hai ancora spiegato perché morire è tornare all'argilla.» «Dove ero rimasta?» «A settemila anni fa.» «In principio c'erano solo gli dei, è questo che gli uomini avevano bisogno di credere. Due tipi di dei: i grandi dei che non combinavano niente, Enlil, Anu, Enki, e i piccoli dei, gli Igigu che lavoravano per i grandi. Erano sempre loro a sgobbare. Coltivavano la terra, preparavano i pasti, scavavano i letti dei fiumi, aprivano canali. A un certo punto gli Igigu ne ebbero abbastanza, incrociarono le braccia e si rifiutarono di lavorare un giorno di più. In un certo senso quello fu il primo sciopero.» Aémer scoppiò a ridere. «Non solo il primo sciopero, ma la prima rivolta proletaria», rincarò. «Bruciarono tutti i loro utensili, le zappe, le falci e i martelli e marciarono verso il palazzo dei grandi dei. Infastiditi da tutto quel baccano, i grandi dei mandarono in avanscoperta Enki per capire quale ne potesse essere la causa. 'Sono gli Igigu, dicono che non vogliono più lavorare per noi.'» «'Non vogliono più lavorare per noi?' I grandi dei si guardarono sconcertati. 'In ogni caso non saremo certo noi a fare tutto il lavoro! Bisogna costringerli.'» «'Forse ho trovato un'altra soluzione', disse Enki. 'Creeremo altri esseri che non saranno dei. Saranno loro a fare il lavoro degli Igigu e noi non avremo più problemi.' 'Perfetto!'» «I grandi dei chiamarono Mammi, l'ostetrica divina. 'Tu sarai la matrice degli uomini.' Poi immolarono Wè, un dio noto per avere dello 'spirito'. Mammi prese una zolla di argilla. 'Tu sarai la carne degli uomini', dichiarò, quindi afferrò il corpo di Wé. 'E tu sarai il loro spirito.' Gli uomini in carne e spirito erano pronti per essere messi al lavoro. Soddisfatti, gli Igigu si dissero che avevano fatto bene a rivoltarsi.» «Anche lassù la rivolta paga», la interruppe Obeid. «Smettila di pensare sempre alla tua lotta.» Attese un attimo prima di proseguire. «Gli uomini si misero immediatamente al lavoro. Nuovi utensili, nuove vivande per gli dei. I campi si ingrandivano, le generazioni si succedevano alle generazioni e le voci si aggiungevano alle voci. Gli uomini facevano un baccano del diavolo.» «Baccano?» «Sì, rumore. Gli dei non riuscivano più a chiudere occhio, ed esigettero che si mettesse fine a tutto quel baccano. Mandarono le epidemie. Ma il baccano persisteva. Fecero cessare le piogge, interruppero le piene, sollevarono venti caldi. Le praterie impallidirono, la terra fu coperta di sale, la carestia dilagò. Molti uomini morirono, ma non abbastanza! Quelli che restavano facevano ancora troppo...» «... baccano.» «Decisi a finirla una volta per tutte, gli dei decretarono il diluvio. Fu il primo genocidio. Enki era in totale disaccordo. Era lui che aveva fatto gli uomini e se ne sentiva responsabile. Andò dunque da uno di loro, Atrahasis, e gli ingiunse di distruggere senza por tempo in mezzo la sua casa per farne una barca. Le istruzioni erano precise: la barca doveva misurare sessanta metri di lunghezza, sessanta di larghezza e sessanta di altezza, avrebbe avuto sette piani divisi in nove compartimenti. 'Le farai un tetto e porterai a bordo una coppia di ogni specie vivente, domestica o selvaggia. Riempirai la barca di cibo e acqua. Quando avrai finito di caricarla, chiuderai il boccaporto e lo otturerai con del bitume.'» «'Non appena la barca fu in acqua le chiuse celesti si aprirono, i lampi percossero il cielo, il tuono si scatenò, calarono le tenebre e la terra fu spezzata come un vaso', dice il testo. I grandi dei si spaventarono.» «Ma era troppo tardi per fermare il diluvio! Una volta rotte le dighe del cielo, doveva andare avanti fino alla fine.» «Sette giorni e sette notti.» «All'alba dell'ottavo giorno la pioggia cessò.» | << | < | > | >> |Pagina 37Cinquanta secoli prima. Uruk, bassa Mesopotamia Si diceva che Tanmuzzi possedesse tanti capi di bestiame quante erano le stelle in ciclo. «Quasi quanto le stelle», rettificava lui con un sorriso malizioso, conoscendo la stupefacente capacità dei numeri di dare un nome alle moltitudini, ma cosciente dei loro limiti. Una pietra di corniola al collo, barba nera dai riflessi bluastri, capelli lunghi e ricciuti che scendevano fino alle spalle, non c'era nulla che Tanmuzzi amasse quanto misurare a grandi passi le sue terre. A uguale distanza da Uruk e Ur, esse si estendevano al di là del Tigri verso levante, in direzione della lontana catena montuosa degli Zagros. Tanmuzzi era andato una sola volta a Ur, mai a Uruk. A poca distanza dagli ovili, all'ombra di boschetti di alberi piantati dai suoi antenati, la sua confortevole dimora offriva frescura e tranquillità. Là trascorreva la sua vita da celibe che nessuna donna era mai riuscita a turbare. Non aveva mai provato le delizie dell'amore, né i suoi tormenti. «Askum è tornato! Askum è tornato!» Liberato dall'inquietudine dall'arrivo dell'amico, Tanmuzzi gli corse incontro. «Sono diversi giorni che ti aspetto, perché questo ritardo?» Rifiutando ogni aiuto, Askum smontò con difficoltà dall'asino. Il volto stanco e i vestiti coperti da uno spesso strato di polvere erano il segno tangibile delle condizioni in cui si era svolto il suo viaggio. «Sei solo? Dov'è Huwa?» chiese Tanmuzzi, allarmato. Askum abbassò il capo. Non osava ancora annunciargli che il suo viaggio a Uruk era stato un fallimento e che Huwa non era voluto tornare con lui. Decise di raccontargli tutto dal principio. «Siamo arrivati a Uruk senza incidenti e una volta là ci siamo recati al tempio di Inanna. Appena arrivato in cima allo scalone monumentale, mi sono precipitato verso il bordo della terrazza: volevo godere della vista. Un bambino correva lì intorno facendo un baccano terribile. Ho capito subito che avrebbe commesso qualche sciocchezza. Una volta entrati nella grande sala per i visitatori, è sceso il silenzio, si sentivano solo le grida delle cinciallegre che passavano davanti alle finestre. Splendente, la grande sacerdotessa Aémer ci attendeva al centro della stanza. Mi ha molto turbato. Non è un caso se è stata scelta per essere la grande sacerdotessa della dea dell'Amore. Come spiegarti? Affabile e altera. Un volto...» Vai avanti, vai avanti!, diceva tra sé Tanmuzzi spazientendosi. Ma sapendo quanto Askum ci tenesse a essere preciso, quando parlava come quando scriveva, si trattenne per non mettergli fretta. «Ci stavamo avvicinando a lei quando il bambino, che era sfuggito al controllo dei genitori, si è precipitato verso la finestra più vicina; voleva toccare gli uccelli. Huwa si è tirato indietro, ma lo scontro era ormai inevitabile. Il bambino lo ha sfiorato gettando un grido, poi è scivolato e si è rialzato ridendo a crepapelle. La grande sacerdotessa non ha battuto ciglio, limitandosi a seguire Huwa con lo sguardo. In quel momento l'ho davvero ammirato. Imperturbabile, ha posato il vaso sul mobile che gli veniva indicato, vicino a una delle finestre e Aémer si è avvicinata per esaminare, a lungo, la scena incisa sul vaso. [...] Quanti dei? chiedono gli uomini. Quanti bambini? chiede la madre. Quanti soldati? chiede il capitano. Quante stelle nel cielo, quanti giorni prima della luna piena, quante ore prima del levarsi del giorno? Quante pecore? chiede il pastore. Bisogna sempre contare, contare... Posizionato sullo steccato del recinto, un giovane scriba che aveva appena terminato la scuola contava le pecore che un pastore faceva passare da un ovile all'altro attraverso uno stretto varco. Dietro gli ovili, sotto un pergolato, Askum, con il volto più riposato, era seduto di fronte a un mercante proveniente dagli Zagros che si era accomodato dall'altra parte di un tavolo basso. Con un'espressione accigliata, che non smentiva la sua reputazione, quest'ultimo lottava tenacemente, al contrario di Askum, che con il suo sorriso lo esasperava. Askum e Tanmuzzi si erano conosciuti a scuola e da allora non si erano più separati. Askum era l'allievo migliore, dotato per la scrittura, la lettura e il calcolo. Quando, alla morte del nonno, Ninur, Tanmuzzi aveva assunto la direzione dei suoi possedimenti, Askum ne era diventato l'intendente, abile e capace. Capi di bestiame contro pietre preziose. La transazione richiedeva calcolo complicati e si rivelava più laboriosa del previsto. [...] Cominciò con il cercare di stabilire un nesso tra certi segni incisi dall'amico e quelli che conosceva. E tentò di immaginare come Tanmuzzi avesse potuto passare dai segni curvi a quelli spezzati e pieni di angoli che aveva sotto gli occhi. Cercava di rifare il percorso, di ricostruirne le tappe. Non c'era alcun dubbio, non erano segni insensati, messi lì senza intenzione. Si trattava di una scrittura. Bisognava interpretarla. Askum non usciva più dalla stanza. Ci aveva fatto trasportare un letto e il Bambino gli portava da mangiare. Non si scambiavano mai una parola. La lampada a olio bruciava tutte le notti. Askum aveva lo sguardo febbricitante degli ispirati. Prima vittoria: riuscì a riconoscere qualche segno. I tratti continui, i disegni, le parti arrotondate erano scomparsi. Il cerchio che rappresentava la parola «pecora» era stato trasformato in quattro tacche. Ci vollero giorni ad Askum per decifrare tutti gli altri segni che Tanmuzzi, nella fretta, aveva inciso sulla tavoletta, ma l'amico non lo lasciava mai e la sua presenza, altri avrebbero detto la sua assenza, lo accompagnava senza sosta. Provava addirittura un certo piacere di fronte a quella calligrafia rapida e nervosa. Immaginava Tanmuzzi, in preda all'urgenza, intento a premere il calamo a un ritmo sempre più veloce. «Presentivi la tua morte prossima», mormorò. «Durante quella spaventosa notte, Tanmuzzi, fratello mio, sei stato colui-che-va-rapido-e-dritto-sulla-tavoletta. Dubsar.» Askum colse l'entità di quello che Tanmuzzi aveva compiuto. Aveva realizzato una doppia, stupefacente, semplificazione: il passaggio dal rotondo al piatto per il supporto e il passaggio dal curvo al dritto per lo scritto. Quello che si trovava inciso sulla tavoletta non cercava di imitare le cose, ma di rappresentarle in una catena di senso. Non si trattava più di una scrittura delle cose, ma di una scrittura delle parole. Non si trattava più di somiglianze, ma di significati. [...] Era nato qualcosa di nuovo nel campo della rappresentazione: il senso! Il Bambino entrò di corsa nella camera, era raggiante. Aveva appena trovato nel recinto il sigillo di Tanmuzzi. Era intatto. Il calculo, invece, continuava a essere introvabile. Qualche ora più tardi, Askum finì di decifrare la tavoletta, il cui titolo gli era infine diventato chiaro. Ai suoi occhi quello che c'era scritto aveva un valore inestimabile, era la prova che la scrittura non serviva solo a redigere contratti, che non era legata unicamente alla contabilità, ai numeri e alla gestione del mondo; la scrittura permetteva di esprimere i sentimenti e i pensieri più profondi degli esseri umani. Lasciando la camera dopo tanti giorni, si diresse verso il forno dove il fuoco covava. E vi fece scivolare dentro la tavoletta di Tanmuzzi. Poi, stanco, andò nella propria camera, si lavò e si vestì. Quando tornò al forno, la tavoletta era cotta. Ormai indistruttibile, sarebbe potuta passare attraverso i secoli. Askum la appoggiò sulla tavola insieme al sigillo di cornalina e chiamò il Bambino. Accarezzandogli i capelli gli disse: «Abbiamo lavorato bene, tu e io. Abbiamo trovato quello che cercavamo. Il nostro compito ora è terminato». Il Bambino si avvicinò, posò la mano sulla spalla di Askum. «Vuoi sapere cosa mi ha tenuto lontano da voi per tutto questo tempo?» chiese Askum. La risposta del Bambino era nei suoi occhi. Askum gli raccontò che cosa aveva creato Tanmuzzi durante la notte fatale. Era così difficile da formulare, così nuovo! «Se i segni non raffigurano più le cose che rappresentano, come si fa a sapere cosa vogliono dire?» chiese il Bambino. «Diranno i suoni che compongono i nomi delle cose», cercò di spiegare Askum. «I suoni? Ma ce ne sono così tanti.» «E pensi forse che di cose ce ne siano meno? Ogni parola, quando la pronunci, è fatta di suoni. Ci saranno sempre meno suoni che cose. Per dire il nome del nostro amico ci vorranno tre suoni, per scriverlo ci vorranno tre segni, il primo si leggerà TAN, il secondo MUZ, il terzo ZI.» «Non ci saranno più disegni, allora?» chiese tristemente il Bambino. «Ma sarà tanto più semplice!» disse Askum con entusiasmo. «Certo, certo, ma non dovrò impararlo subito, vero? Lasciami un po' di tempo.» Tempo. Ce n'era voluto di tempo per arrivare fin lì. Askum era fiero di Tanmuzzi. Lo ringraziò per avergli dato la possibilità di essere il testimone di un simile evento, ma sapeva che altri uomini, altrove, in altre circostanze, avrebbero fatto, o avevano già fatto, la stessa scoperta. | << | < | > | >> |Pagina 105Un millennio più tardi Bilili fu scossa da un accesso di tosse, i riccioli ondeggiarono sulle sue spalle nude. Faticando a riprendere fiato, si aggrappò al muro ruvido del bastione. Sapeva di non poter fare nulla contro queste crisi; simili alla piena primaverile, erano ineluttabili e imprevedibili. Sforzandosi di guardarsi intorno, fìssò gli oggetti che la circondavano per lasciare che il mondo si facesse strada dentro di lei e scacciasse l'angoscia che la opprimeva. Attese, c'era abituata. La sua vista si schiari. Ritrovando il contatto con il proprio corpo, mosse tutte le membra, il busto, la testa. Si staccò dal muro, serrò i pugni e si allontanò. Dopo qualche passo che cercava di essere spedito, si rese conto della propria tensione. Si rilassò e infine l'aria penetrò in lei. La crisi era passata. Non è il momento di ammalarsi, si disse in tono frivolo. Tra qualche giorno, per la festa del nuovo anno, Ur sarebbe stata invasa da una folla di stranieri, agricoltori della regione, beduini, abitanti della vicinissima Eridu, di Larsa, di Uruk, di Lagash e di Girsu, che sarebbero venuti ad assistere alle nozze sacre. Era il periodo dell'anno in cui lavorava di più. Allontanandosi dai bastioni, Bilili si diresse verso il quartiere sacro, nel cuore della città. Il quartiere dei templi. A Ur ce n'erano ovunque! Avevano nomi che continuava a trovare inquietanti, Ekishnugal, Ehursag, Enunmah, «il tempio della grande luce», «il tempio-montagna», dove viveva il re, «il tempio di sua altezza il principe». Superati i templi, Bilili passò davanti alle tombe dei primi sovrani di Sumer, che accendevano la fantasia delle sue compagne per i tesori che si diceva vi fossero sepolti. Bilili a poco a poco aveva imparato a conoscere quella città dove era stata condotta a forza e che, lo sapeva, sarebbe stata la sua casa fino alla morte. Ma non riusciva a sopportarla. La trovava soffocante. E i bastioni le ricordavano incessantemente la sua prigionia. Alla Lunga Cannuccia. Celebre per la bellezza delle sue donne quanto per la qualità delle sue birre, il locale era annidato in un rinforzo dei bastioni, un po' in disparte rispetto ai quartieri residenziali. Le notti, lì, erano agitate, la musica indiavolata, le bevande inesauribili. Snella, la pelle luminosa, il collo sottile e flessuoso, le gambe dai muscoli affusolati, Bilili passava tra i tavoli, attirando gli sguardi così come i frutti attirano le api. La Straniera! Piaceva agli uomini che cercavano in lei quell'aspetto selvaggio, ma non crudele, che mancava terribilmente nella loro monotona vita. L'agilità del suo corpo felino incitava i più fantasiosi a immaginare qualche posizione impossibile per le loro rigide spose. Un'ora passata fra le sue braccia li faceva partire per un viaggio entusiasmante da cui tornavano carichi di promesse sufficienti per qualche settimana. Bilili era una martu. Proveniva da una delle tribù beduine che vivevano nomadi tra Sumer e i Paesi dell'Ovest. Tra queste tribù e Ur i rapporti erano instabili, a volte di guerra, a volte di pace, ma non si trattava mai di una pace completa. L'ultima guerra si era conclusa con una terribile disfatta dei martu. Offerta come bottino dal re a uno dei suoi valorosi ufficiali, Bilili si era trovata incatenata Alla Lunga Cannuccia e messa al lavoro, dall'età di sedici anni, in quel locale di Ur, agli ordini di una matrona severa, ma dal cuore tenero. Alla fine si era adattata. Un posto valeva un altro... Sarebbe potuta fuggire facilmente, non rischiava nulla, lo sapeva. Il suo valore non era tale che il proprietario si prendesse la briga di inviare le guardie sulle sue tracce. Tanto più che il valore degli schiavi stava diminuendo: l'esercito di Ur era sempre più vittorioso, riportava sempre più prigionieri, e il loro prezzo continuava a calare. I beduini di passaggio a Ur trovavano sempre un momento per portarle notizie della tribù. Un giorno, il capo di una tribù lontana era arrivato in città in groppa a una superba cavalcatura. Nessuno aveva mai visto un animale simile. Alto, col pelo liscio e la coda nervosa, così diverso da un asino o un onagro. Un cavallo! Il primo a entrare a Ur. Il cavaliere avanzava maestosamente; facendosi strada con difficoltà si divertiva, ridendo in modo insolente, a incitare con il tallone la propria cavalcatura che si avventava sui curiosi spaventati. Appena lo aveva scorto Bilili si era avvicinata. Riconoscendo l'elegante incedere delle martu, il cavaliere le aveva teso la mano e l'aveva issata accanto a sé. Bilili, trionfante, aveva attraversato mezza città sotto gli sguardi invidiosi dei passanti che guardava dall'alto in basso. Quella era stata la sua giornata di gloria. Anche i beduini residenti a Ur andavano a volte Alla Lunga Cannuccia per fare l'amore con una delle «loro» donne. Bilili preferiva i loro corpi, asciutti e nervosi, a quelli dei sumeri, spesso tendenti alla pinguedine. Non li stancano abbastanza, i loro corpi, diceva tra sé, dovrebbero camminare di più, correre, faticare. Bilili non era sola. Aveva un'amica alla taverna. Senza Aémer la sua vita sarebbe stata molto più dura. Bisognava vederle, le due kezertu, quelle-dai-capelli-ondulati, camminare per le strade di Ur, suscitando l'invidia delle donne che una così ostentata libertà rendeva furiose e faceva sognare. La bruna Bilili e la chiara Aémer. Stessa età, stesso modo di camminare, stessa indomabile irriverenza. [...] «Oh, be'», lo interruppe lei, «se avessi immaginato che un giorno mi avresti spiegato i numeri su una spiaggia!» «Ma allora lo vuoi sapere o no?» Lei gli lanciò uno sguardo malizioso. «Confessa piuttosto che muori dalla voglia di spiegarmelo per avere l'occasione di spiegarlo a qualcuno.» Arrossì, perché aveva visto giusto. Era diventata spaventosamente perspicace. «Ho voglia che tu me lo spieghi», gridò gettandogli le braccia al collo. Lo prendeva in giro, ma aveva davvero voglia di sapere quello che Adappa non era stato in grado di insegnarle. «Oggi si usano più di dieci segni, con il nuovo metodo ne basteranno due.» «Due? Per scrivere tutti i numeri?» «Un chiodo e un cuneo.» Si alzò e raccolse un pezzo di canna. «Il chiodo, verticale.» Lo disegnò sulla sabbia. «Il cuneo, orizzontale. Il chiodo vale uno, il cuneo dieci.» «Non così in fretta, non così in fretta! Il chiodo uno, il cuneo dieci», ripetè. Impaziente, aveva fretta di spiegarle il seguito. «Ma la novità è che anche sessanta viene rappresentato da un chiodo verticale.» «Lo stesso chiodo?» «Lo stesso.» «Ma non ci si capirà più niente! Fammi capire! Chiodo uno, chiodo sessanta.» Il suo sguardo brillò. «Allora come scriveresti tremilaseicento?» «Perché questo numero?» «Come lo scriveresti?» insistette. «Un chiodo.» «E?» «Un chiodo e basta. Solo un chiodo.» «Mi prendi in giro?» Lui fece cenno di no con la testa. «Mi chiedi perché questo numero? Hai dimenticato che noi, le kezertu, siamo chiamate le donne-dai-tremilaseicento-mariti?» «Ah, è per questo che lo hai scelto», osservò con tristezza. «Non potresti dimenticare questo soggetto per un istante? No, non è la stessa cosa perché bisogna considerare la posizione del chiodo.» Con spavalderia aggiunse: «E tutta qui l'astuzia, bella mia». «Non mi chiamare 'bella mia'! O vuoi che ti chiami 'bello mio'?» Poi, in tono più grave: «Se uno e tremilaseicento si scrivono nello stesso modo che cosa distinguerà una prostituta da una moglie?» chiese sconcertata. «La po-si-zione, Aémer, te l'ho appena detto.» «Quale posizione?» Lei si distese, socchiudendo gli occhi maliziosamente. «Non starai per caso diventando salace?» «Parlo della posizione delle cifre nella scrittura dei numeri», rispose serio, rifiutandosi di raccogliere le sue allusioni. «Ripeti!» «La posizione delle cifre nella scrittura dei numeri. Guarda, ti faccio un esempio.» Con il pezzo di canna tracciò delle colonne. Nella prima, a partire da destra, disegnò un chiodo. «Uno.» Poi cancellò il chiodo e ne disegnò un altro, ma nella seconda colonna. «Sessanta.» Cancellò il chiodo e ne disegnò un altro nella terza colonna. «Tremilaseicento.» | << | < | > | >> |Pagina 153Millecinquecento anni più tardi. Babilim, la «Porta degli dei» Blu, ovunque. Blu la cima della ziggurat, blu l'Esagila, blu la porta di Ishtar per la quale adesso Nùr stava passando con il suo gregge. Il corpo coperto di scaglie, le zampe dotate di artigli, un collo interminabile, una testa da rettile, la bocca spalancata e la lingua biforcuta, un corno sulla fronte... Se volevano spaventare i visitatori, c'erano riusciti! Nùr non diede neppure un'occhiata ai draghi-serpenti, bassorilievi blu in mattoni smaltati sulle pareti della porta. Lo terrorizzavano. Ce n'erano esattamente centosettantacinque, o questo almeno era ciò che diceva il vecchio pastore, di cui era stato l'assistente per anni. Quel giorno Nùr, per la prima volta, aveva l'intera responsabilità del gregge; il vecchio pastore non era più in grado di lavorare. Nùr si era alzato all'alba. Dopo una notte agitata a causa delle sue nuove responsabilità, aveva nuotato per qualche minuto nel canale di irrigazione che attraversava i pascoli davanti alla fattoria, aveva preso un grosso pezzo di pane e qualche frutto, e dopo aver radunato il gregge, si era messo in marcia. Preferiva partire presto perché l'allevamento si trovava a più di un'ora di cammino dalla città. Come quella di Gerusalemme, la città degli ebrei recentemente distrutta da Nabucodonosor, anche la cinta di mura di Babilonia aveva otto porte. La porta di Urash: A cui ripugna il nemico, la porta di Zababa: Detesta i suoi attaccanti, la porta di Marduk: Il suo signore è pastore, la porta di Adad: O Adad, proteggi la vita delle truppe, la porta di Enlil: Enlil la fa scintillare, la porta di Shamash: O Shamash, sostieni le truppe! E la porta di Nabucodonosor: Che il suo fondatore sia prospero! Infine c'era la porta di Ishtar: Ishtar sconfigge il suo assalitore. Dopo essersi raggruppato per attraversare la stretta soglia di quest'ultima, il gregge si era di nuovo disperso occupando gran parte della via Processionale, pavimentata con lastre di calcare bianco, che, attraversando la parte antica della città, conduceva al ponte sull'Eufrate. La più bella strada del mondo nella più bella città del mondo. Babilonia era il centro dell'universo. Mille anni prima, un martu, Hammurabi, aveva fatto di lei la capitale del più potente impero della regione, riunificando in maniera durevole il Paese di Sumer, a sud, e quello di Akkad a nord. Tutti gli dei sembravano esservisi dati appuntamento, anche il più modesto di loro vi avrebbe trovato un tempio costruito in suo onore. Non si erano mai viste prima mura di cinta come le sue. Venti metri di altezza! Tre muraglie una dopo l'altra su trenta metri, l'ultima in mattoni cotti tenuti insieme con il bitume, seguite da un fossato di cinquanta metri di larghezza alimentato dalle acque dell'Eufrate. Babilonia era imprendibile. I soldati rivolsero qualche parola a Nùr, che rispose frettolosamente. La sua attenzione era tutta concentrata sul gregge. Il conducente di un carro lo ingiuriò, ma lui non reagì, tanto era compreso nell'importanza della sua funzione. Nùr, pastore del «gregge degli dei». Quante volte aveva compiuto quella traversata della città dalla porta di Ishtar fino al tempio dell'Esagita! Si trattava di seguire la via Processionale per parecchie centinaia di metri, di costeggiare l'interminabile terrapieno dell'Etemenanki, di passare davanti alla porta Santa, poi di svoltare a destra, in direzione del fiume e, prima di accedere al ponte, di penetrare nella grande corte del tempio dell'Esagila. [...] Aémer continuava a pensare alla discussione tra Hattàru e Hotep sulla necessità di colonne nella scrittura dei numeri. Che cosa potrebbe impedire alle cifre di unirsi? si chiedeva. Che cosa potrebbe conservare la memoria della colonna vuota? Ebbene, non dovrebbe essere vuota! E tuttavia bisogna che sia vuota... A tratti aveva delle esitazioni. Se nessuno aveva ancora trovato una soluzione voleva dire che non ce n'erano. Ma non riusciva a smettere di pensarci. Non ci riusciva mai. Per giorni e giorni fu ossessionata da questo problema: come fare a meno delle colonne? Finché un'idea cominciò a prendere forma nella sua mente. Si trattava di scrivere qualcosa nella colonna vuota, qualcosa che non fosse una quantità. Né un chiodo né un cuneo, dunque. Qualsiasi altra cosa. Pensò a un chiodo o a un cuneo inclinati. Meglio, due cunei inclinati così non avrebbero potuto essere confusi con nessun altro segno. Per vari giorni continuò a esercitarsi con il suo doppio cuneo inclinato. Poi decise di chiamare Hattàru. Lui arrivò, sempre un po' impacciato nell'uso delle stampelle. «Siediti», gli disse. Lui si sedette sul bordo della terrazza. Il sole stava scomparendo all'orizzonte e gli uccelli incominciavano il loro volo serale. «Mi presteresti il tuo tremilaseicentodieci?.» Hattàru la guardò stupito, ma, stando al gioco, rispose: «È tutto tuo». «Lo scrivo come lo hai scritto tu nel corso della nostra serata con l'astronomo egiziano.» Lo scrisse. «Ecco, vedi, queste colonne, ci ho messo un po' di tempo ad ammetterlo, ma sono solo una specie di impalcatura che impedisce al numero di crollare. E credo...» Esitò. «Credo di aver trovato il modo di farne a meno.» Hattàru si drizzò sulle stampelle. Aémer disegnò il doppio cuneo inclinato in un angolo della tavoletta. «Questo segno, che non somiglia a nessun altro, non rappresenta una quantità. Lo scrivo nella colonna vuota. Così, vedi? Ora posso sbarazzarmi di tutte le colonne. Ed ecco che il tuo tremilaseicentodieci può fare a meno delle colonne che lo mantengono diritto, ma ostacolano il suo cammino. Chiodo, doppio cuneo inclinato, cuneo. Guarda, Hattàru, cammina da solo, corre addirittura!» Hattàru nell'esaltazione buttò via le stampelle, avanzò verso Aémer e cadde faccia a terra! Aémer corse verso di lui, lo prese tra le braccia e gli accarezzò il viso. «Ti sei fatto male?» Hattàru rideva. «Doppio cuneo inclinato! Doppio cuneo inclinato! Non c'è più bisogno di stampelle! Aémer, sei meravigliosa. I numeri corrono e io striscio...» Lo aiutò ad accomodarsi sulla sua sedia per le osservazioni e gli massaggiò la gamba. «È un'invenzione», cominciò lui, preso da una voglia matta di ridere, «un'invenzione che lascerà il segno!» Infine, Hattàru aveva ritrovato la sua allegria. Come prima, come tanto tempo prima... Quel giorno Aémer non lasciò l'osservatorio. A metà della notte, aiutò Hattàru a scendere la scala che portava al santuario. Il guardiano del tempio dormiva. Entrarono silenziosamente nella vasta camera vuota sotto l'osservatorio. C'era un buon profumo lì dentro. | << | < | > | >> |Pagina 195Tredici secoli più tardi. All'inizio del IX secolo della nostra era Una bandiera in lontananza. L'ultimo pozzo prima del deserto. Gli uomini, esausti, tirarono un sospiro di sollievo: l'ansia di non riuscire a raggiungere il pozzo prima del calar del sole era andata crescendo nel corso della giornata. La carovana, formata da parecchie centinaia di bestie, aveva lasciato il Sind, nel nord-ovest dell'India, diversi giorni prima, avanzando lentamente verso ovest, al ritmo dei cammelli e dei carri carichi di cibo e di merci, gemme e altre materie preziose, rubini e zaffiri di Ceylon, diamanti dell'India, lapislazzuli del Badakhchan, avorio, giada di Khotan... Il thàvahà, il capo della carovana, si sincerò personalmente che uomini e bestie si dissetassero e che l'acqua non venisse sprecata. Conosceva bene quel pozzo, che non lo aveva mai tradito, e intendeva farlo rispettare. Altri domani avrebbero sentito la mancanza dell'acqua se oggi fosse stata stupidamente sprecata. I carri, staccati dalle bestie da tiro, furono disposti in cerchio intorno all'accampamento, come protezione per la notte. Per le poche donne vennero montate delle tende, mentre gli uomini stesero le coperte e i tappeti direttamente sulla sabbia. Nel frattempo, il cuoco accese il fuoco, sul quale preparò un pasto frugale che consumarono tutti insieme, alla luce della luna che era ormai sorta. Anche le bestie furono messe al riparo all'interno della cinta formata dai carri, e alcuni uomini montarono a turno la guardia. Il ruggito delle belve, tenute lontane dai fuochi accesi intorno al campo, marcò il riposo dei dormienti. Presto tutti sprofondarono nel sonno. Sapevano che non sarebbero stati costretti a svegliarsi l'indomani all'alba perché si sarebbero rimessi in marcia solo la sera. Il giorno successivo trascorse all'ombra di uno degli ultimi boschetti. La traversata del deserto sarebbe stata lunga e difficile. Quando il sole cominciò a declinare, i viaggiatori si riscossero e cominciarono a caricare le bestie e i carri. Vennero verificate le scorte di cibo (riso, legumi secchi, olio, farina, foraggio per gli animali) e di legna e le giare furono riempite d'acqua; anche in questo caso bisognava stare attenti a calcolare bene il carico per trovare il giusto equilibrio tra il peso e la velocità. Troppa acqua, e la marcia sarebbe stata rallentata, con conseguente aumento della durata del tragitto e dunque dell'acqua necessaria. Poco prima di partire ciascuno bevve a piccoli sorsi. Per giorni e giorni l'acqua non sarebbe mai più stata così fresca. Al calar del sole il thàvahà diede l'ordine della partenza. I cammelli che si trovavano in testa si misero in marcia seguiti dagli altri, poi anche i carri si mossero. I viaggiatori camminavano a fianco delle bestie; tutti, salvo i più ricchi e i più anziani, installati sui carri. I due assistenti del thàvahà chiudevano il corteo, per controllare che nessun carro si lasciasse distanziare e si perdesse nella notte. Durante tutta la traversata del deserto gli spostamenti sarebbero avvenuti solo nell'oscurità, senza precipitazione né impazienza. Il thàvahà era ascoltato più di un ufficiale durante una campagna militare: nessuno dei suoi ordini veniva discusso, era il capo assoluto della carovana. Avaro di parole, la sua austerità, la sua sicurezza e la sua gravità ispiravano fiducia e i viaggiatori si rimettevano completamente a lui. [...] Panca lo guardò enigmatico, senza dargli alcuna risposta, 'Dammi un numero!' gli ordinò. Più rapida di Mohand, Aémer disse: "Mille e uno" "Vada per mille e uno, scrivilo Mohand" Con la punta dell'indice Mohand eistante, tracciò cinque lunghi tratti paralleli per indicare le colonne. Nella prima e nella quarta scrisse uno «Vedo che lo hai assimilato bene, il calcolo degli indiani», disse Panca con soddisfazione. «Nessuna decina, dunque la seconda colonna resta vuota. Nessuna centinaia, dunque la terza colonna resta vuota. E dato che sono vuote, le puoi riempire! Ci metti sunya. Procedi», disse a Mohand tendendogli il pugnale. Emozionato, Mohand tracciò timidamente un piccolo cerchio nella seconda colonna. Poi un altro nella terza. Le guardie si erano avvicinate, dimenticandosi ogni precauzione. Chine sulla spalla di Panca, cercavano di vedere che cosa Mohand stava disegnando per terra. «Cancella le colonne!» ordinò Panca, riprendendo il pugnale. Con la punta del dito, Mohand cancellò con precauzione il primo tratto che indicava una colonna e poi il secondo. «Tutte!» gridò Panca. Mohand le cancellò sempre più in fretta, in preda a un'esaltazione che non riusciva più a controllare. Contemplava l'iscrizione sulla sabbia. Le guardie osservavano silenziose. Percepivano che stava accadendo qualcosa di importante. «Sai che cosa dice questo numero, Aémer?» chiese Panca. «Per quanto numerose siano le cose, ce n'è sempre una in più, una in più che si può desiderare, che si può possedere, che si può rifiutare. Non c'è fine ai numeri.» Indicando con il pugnale ciascuno dei cerchi, aggiunse: «Tanti sunya quante sono le colonne vuote. È tutto qui: marcare il vuoto! È questo il bello: considerare l'assenza come una presenza», concluse con voce trasformata. Considerare l'assenza come una presenza, ripetè mentalmente Aémer. «Questa è...» Mohand cercò le parole, «questa è filosofia.» «È un termine troppo greco! Dì 'trascendenza', piuttosto. Per noi la morte non significa l'annientamento, ma una forma particolare della vita, come l'assenza è una forma particolare della presenza. Capisci perché siamo stati noi indiani a inventare il segno del vuoto? Ho riflettuto molto nelle paludi...» «Tra un saccheggio e l'altro?» disse Mohand ironico. Aémer gli gettò un'occhiata incendiaria. «Durante!» Panca si rialzò e di nuovo le sue catene tintinnarono. Rendendo il pugnale alla guardia dichiarò con fierezza: «Il più bello scambio che abbia mai potuto immaginare: LA LIBERTÀ DEL MIO POPOLO CONTRO IL VUOTO!» Mohand si sentiva stordito. Tutta quella situazione aveva qualcosa di irreale. Un'invenzione di tale portata gli veniva rivelata in mezzo a un campo di prigionieri da un brigante assassino. «E ti offro ancora di più!» aggiunse Panca, strappando Mohand alle sue riflessioni. «Gli indiani hanno inventato una lingua specifica per i numeri, hanno creato un vero e proprio alfabeto, un alfabeto di dieci 'lettere'. In questa lingua ogni numero ha un nome, uno e uno solo», sottolineò Panca. «E, inversamente, ogni 'parola' di questa lingua è il nome di un numero. Di un solo numero! Mi capisci, Mohand? Se scrivi 1001, questo sarà il nome di un solo numero. È questo il colpo di genio. Non ci possono più essere ambiguità! Dieci figure soltanto, tante quante le dita delle due mani, tante quante le penne delle ali del falco, bastano a rappresentare TUTTI I NUMERI DEL MONDO! Ecco quello che abbiamo inventato.» | << | < | > | >> |Pagina 275Baghdad. Primavera 2003 UNESCO - MUSEO. Le enormi lettere dipinte sul tetto del museo erano visibili a centinaia di metri di altezza. Tre anni prima, il 29 aprile 2000, dopo un decennio di chiusura, il Museo archeologico di Baghdad aveva riaperto i battenti. La scelta della data non era affatto casuale, si trattava del sessantatreesimo compleanno di Saddam Hussein. I visitatori, rari, avevano potuto ammirare uno dei più antichi aghi dell'umanità, un intestino sacrificale, un leone di terracotta, la testa in bronzo di Sargon di Akkad, tavolette pittografìche d'argilla dei primordi della scrittura, l'elmo d'oro di Naram Sin, una scacchiera in madreperla, la statua in diorite dello scriba Dudu, il vaso in alabastro di Uruk, la lira d'oro delle tombe reali di Ur, i leoni di Ishtar provenienti da Babilonia, la maschera in marmo della Dama di Uruk e migliala di altri pezzi di inestimabile valore. Risalendo a nord senza incontrare resistenza, i soldati americani avanzavano verso Baghdad. Nessuno aveva dubbi in proposito: la disfatta dell'esercito iracheno sarebbe stata totale. Il museo non poteva trovarsi in un luogo peggiore. Proprio accanto c'era l'edificio della radio e della televisione, mentre a qualche centinaio di metri soltanto si ergeva la sede della Guardia repubblicana, la forza di élite di Saddam Hussein. I militari iracheni avevano collocato alcuni pezzi d'artiglieria nei giardini del museo. Il bombardamento aereo durava da diversi giorni per preparare l'offensiva terrestre sulla capitale. Per il museo era il momento più pericoloso. Una tempesta di sabbia si è abbattuta sull'Iraq. Le truppe della terza divisione di fanteria americana hanno dovuto arrestare la loro avanzata a ottanta chilometri da Baghdad, nei pressi della città di Kerbala. Malgrado la pessima visibilità, martedì il bombardamento aereo su Baghdad è andato avanti anche in pieno giorno concentrandosi sulle postazioni della Guardia repubblicana. «Che cosa ci fa lì!» urlò il GI in un inglese dal forte accento ispanico, tenendo il dito sul grilletto del fucile mitragliatore. Un soldato nervoso si fece avanti per perquisire Aémer che ebbe la saggezza di lasciarlo fare, nonostante la ripugnanza che provava nel sentirsi palpata da quelle mani mercenarie. Il soldato si impadronì del suo passaporto. E gettò un urlo di gioia: «French!» Da lì cominciarono i suoi guai. Su Aémer si abbattè lo scherno dei soldati. «Formaggi puzzolenti», «mangiatori di rane»... benché fosse poco incline al patriottismo, Aémer, in quel momento, si sentì fiera di essere francese. La boria degli americani e la pretesa di imporre a tutti la loro visione del mondo la rivoltavano. Lo studio degli dei sumeri l'aveva ulteriormente spinta a rifiutare qualsiasi idea di unicità. Per gli archeologi, gli storici, gli antropologi, i filosofi e per tanti altri, l'unicità era un crimine contro la diversità dei modi di essere e di vivere, l'uniformità era la morte dell'identità. Un mondo unipolare sarebbe un mondo che «ha perso il sud», amava dire quando si lasciava andare alle critiche verso ciò che più detestava.
«Aémer Arcy», lesse sghignazzando il soldato dall'accento ispanico. Poi,
esibendo il biglietto da visita: «Sito archeologico di Uruk-Warka. Aémer Arcy.
Ar-che-o-lo-ga». Un piccolo babbeo dal naso rincagnato, rosso in volto,
chiocciò, guardando i compagni per verificare l'effetto della sua battuta.
"Anche noi facciamo degli scavi! Un sacco di scavi!"
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