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| << | < | > | >> |Indice1 Presentazione 7 1 Viaggio in Europa 25 2. La terza Roma 37 3. Un popolo di inventori 54 4. Il Circolo matematico di Palermo 70 5. Il primo premio Nobel 86 6. La SIPS di Volterra 105 7. La prima guerra mondiale: la chimica, le tavole di tiro, l'aeronautica 126 8. La nascita del CNR 141 9. Un altro premio Nobel: Gugliemo Marconi 161 10. Il primo istituto al mondo di matematica applicata 171 11. Per il fascismo la scienza deve essere pratica 188 12. Si può dire di no, ma lo dicono in pochissimi 203 13. I ragazzi di via Panisperna 223 14. Le leggi razziali 241 15. L'Istituto superiore di sanità e Domenico Marotta 260 16. Il CNEN di Felice Ippolito 283 17. Arrivano i calcolatori 299 18. Vinciamo anche dei Nobel 315 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 1PresentazioneGli studi dei 150 anni che ci separano dall'Unità d'Italia riservano in generale alla scienza un'attenzione limitata. Ricordano e analizzano l'epopea risorgimentale, la formazione dello Stato unitario, il periodo giolittiano, le prime avventure coloniali, i conflitti mondiali. Dedicano la dovuta attenzione al periodo fascista per proseguire con la fine della seconda guerra mondiale, la ricostruzione seguita alla Liberazione, il boom economico, la modernizzazione, il passaggio dalla prima alla seconda repubblica, la cronaca degli ultimi anni. Della scienza, però, parlano poco. Sembra che non la conoscano. O, quantomeno, sembrano giudicarne irrilevanti gli apporti per il succedersi degli avvenimenti e i motivi per cui essi hanno preso, nel nostro paese, una certa piega piuttosto che un'altra. Non è il caso di determinare qui a chi spettino le responsabilità di questa comunicazione insufficiente, se alla cultura storica o a quella scientifica. Resta il fatto che, da una parte, ci troviamo alle prese con studi che analizzano i contributi della scienza italiana assumendo come interlocutore pressoché esclusivo lo stesso mondo della ricerca: il "fuoco" della narrazione è rappresentato dalle acquisizioni raggiunte dal pensiero scientifico, ma il contesto in cui esso si è sviluppato rimane assente o fa solo da sfondo. Sull'altro versante, troviamo storie generali in cui poco spazio viene lasciato alla cultura — qualche pagina di "colore" e di intrattenimento, per alleggerire la tensione della stretta concatenazione storica — e pochissimo, in particolare, a quella scientifica. Anzitutto, perché non è giudicata "cultura". In secondo luogo, perché è difficile da raccontare ed espone a rischi di rifiuto da parte del lettore. Infine, e soprattutto, perché si ritiene che non abbia contribuito alla dinamica dell'Italia unita e non sia quindi utile per capirne le vicende in questo primo secolo e mezzo della sua esistenza. Il nostro lavoro muove da un'ipotesi contraria. Siamo convinti che le riflessioni sullo sviluppo scientifico — quello che si è concretizzato e quello che è mancato, quello che poteva essere e non è stato — siano una chiave preziosa per comprendere molte situazioni in cui la nostra società si è trovata immersa, così come i problemi gravi e urgenti che la affliggono oggi. Non è nelle nostre intenzioni (e capacità) riscrivere la storia d'Italia e nemmeno porci in un clima rivendicazionista che attribuisca pari dignità alle due culture. Più semplicemente racconteremo alcune storie che si snodano nell'arco dei 150 anni dall'Unità e che vedono coinvolti scienziati e ricercatori di varie discipline. La fedeltà storica con cui procederemo — fedeltà nei confronti dei fatti e dei documenti, come delle sensibilità dei periodi che via via toccheremo — non impedirà di scorgere quello che rimane il nostro principale interesse: cercare di capire che cosa sta accadendo oggi. Cercare di capire se la storia dei rapporti fra scienza e società possa darci qualche indicazione per uscire da una situazione che non fa che aggravarsi rapidamente. Sembrano appartenere a un passato lontano le polemiche — in realtà vecchie solo di qualche mese — sul declino del paese improvvidamente denunciato da qualche cassandra. Oggi, purtroppo, quasi più nessuno ne mette in dubbio l'esistenza e la consistenza. Abbiamo scelto le diciotto storie di questo libro per la loro rilevanza, ma anche in base ai nostri interessi e alle nostre competenze. Riguardano ambiti disciplinari diversi (la matematica, la fisica, le scienze biomediche, la chimica ecc.) e diversi decenni: si parte con il Risorgimento, gli anni della seconda guerra d'indipendenza, la proclamazione dell'Unità e la politica di Quintino Sella per approdare agli ultimi decenni del secolo successivo, con il calcolatore e i problemi posti dalla globalizzazione. Queste diciotto storie ci dicono, anzitutto, che la scienza in Italia è esistita ed è parte integrante dei primi 150 anni di vita unitaria. Non siamo insomma solo una terra di santi, di poeti o di artisti. In qualche campo, e in alcuni momenti, abbiamo raggiunto l'eccellenza. Abbiamo vinto dei premi Nobel. Siamo stati apprezzati dalla comunità internazionale come una delle sue punte di diamante o, ancora, come una realtà da prendere a modello per la modernità della sua organizzazione. È il caso di Antonio Pacinotti e di Galileo Ferraris, di Camillo Golgi, di Vito Volterra, di Guglielmo Marconi, di Mauro Picone, di Enrico Fermi, ma anche, in tempi più recenti, di Carlo Rubbia e di Rita Levi Montalcini. L' eccellenza è una categoria che sembra coinvolgere esclusivamente la dimensione scientifica: riguarda una ricerca o un gruppo di studiosi che vengono riconosciuti come eminenti dai colleghi di tutto il mondo. Un ottimo biglietto da visita per le nazioni che la possono vantare ed è un tema, questo del "biglietto da visita", a cui non possiamo rimanere indifferenti oggi che la credibilità italiana in ambito internazionale non è sempre pari ai nostri auspici. Avremo però anche modo di vedere come questa eccellenza non sia rimasta rinchiusa nella propria "torre d'avorio" ma abbia riversato sulla società risultati, stimoli metodologici e organizzativi, categorie di pensiero. Con le sue acquisizioni, la ricerca ha aumentato le nostre conoscenze e la comprensione dei fenomeni naturali. Ha contribuito, anche in Italia, a cambiare i modi di ragionare, le categorie interpretative e le stesse forme linguistiche con cui comunichiamo. Ha interagito con le altre espressioni culturali. Questi sono forse i suoi lasciti più radicali. Poi, ci sono le cosiddette applicazioni. La comprensione di un fenomeno ha talora portato ad attività di trasformazione che sono andate a incidere direttamente sulla struttura economica del paese e sul suo benessere. Magari l'obiettivo è stato raggiunto a coronamento di un processo per certi versi carsico e segnato da varie tappe di avvicinamento. Diretto o mediato che sia, è il valore economico delle conoscenze scientifiche! La profondità delle innovazioni e la consistenza dei vantaggi economici prodotti sono state tali da realizzare in alcuni casi un vero e proprio cambiamento di pagina nel libro delle periodizzazioni storiche. Un simile processo di integrazione fra scienza e società viaggia anche in senso contrario. Come tutte le attività umane, anche la ricerca si svolge all'interno di determinati contesti. Dipende dai periodi di guerra e di pace, dagli interessi economici, dal potere politico, dalle sue scelte programmatiche, dai finanziamenti erogati. Sia pure in modo meno diretto e lineare, i suoi stessi contenuti risultano sensibili alle decisioni della cultura dominante e ai valori che questa esprime. A volte finiscono per trarne vantaggio, altre per esserne influenzati negativamente. In questo senso, abbiamo deciso di servici dell'espressione scienza italiana. Non per sottolineare eventuali gemme tipiche del "genio italico", ma per una scelta di contesto: prima degli ampi processi di integrazione verificatisi a livello scientifico e in seguito in quello economico-sociale, ha ancora senso precisare l'ambiente preso in considerazione per vedere nello specifico come e in quale misura scienza e società si siano influenzate. La consistenza della ricerca condotta in Italia e il raggiungimento di alcune punte di assoluta eccellenza, i reciproci condizionamenti con il contesto sociale, il valore economico, in particolare, delle acquisizioni scientifiche sono tutte "tesi" che non intendiamo provare in senso logico-deduttivo. Con le nostre storie, ci limiteremo a fornire alcuni controesempi all'impostazione finora prevalente che nega una presenza significativa alla scienza e alla sua cultura nella storia d'Italia. Faremo dunque riferimento a specifici casi storici. Privilegeremo la narrazione rispetto a enunciazioni di principio, nelle quali il piacere per la retorica argomentativa distoglie talvolta dai processi effettivi e dalle asperità che questi hanno incontrato. Privilegeremo il racconto di ciò che è realmente avvenuto rispetto all'analisi di ciò che dovrebbe necessariamente seguire da alcune assunzioni iniziali. Per un altro verso, eviteremo toni immancabilmente entusiastici per chiederci come mai la società italiana non abbia preso in considerazione gli apporti della ricerca con l'attenzione e la continuità che sarebbero state necessarie, come mai a volte l'esondazione delle idee scientifiche sia stata meno intensa di quanto ci si potesse aspettare, come mai lo stato di grazia di alcune discipline non ne abbia contagiato altre e abbia avuto spesso vita troppo breve. Ci soffermeremo sulla ricchezza di prospettive che sembravano a portata di mano e che invece, vuoi per situazioni contingenti, vuoi per comportamenti opinabili da parte dei protagonisti o infine per la pochezza delle politiche messe in campo, non sono state raggiunte. L'accenno agli atteggiamenti mostrati dai protagonisti introduce un ulteriore passaggio. L'esondazione delle conoscenze scientifiche non è avvenuta unicamente per la loro oggettiva significatività (culturale, sociale, economica) ma è stata favorita dalla partecipazione diretta dei ricercatori alle vicende della nazione. La scienza non è stata semplicemente ospite in qualche appartamento di una società italiana destinata ad accorgersi della sua presenza solo con la comparsa sul mercato delle idee germinate in quelle stanze o (in tempi più recenti) quando si è trattato di dichiarare di non poter più sostenere le spese di ospitalità. Gli uomini di scienza non sono stati degli ospiti, ma cittadini a tutti gli effetti. Come tali, hanno partecipato alla vita dello Stato condividendone i momenti più rilevanti o più tragici. Naturalmente, l'intensità di una tale cittadinanza non è stata costante nel tempo. Ad alcuni momenti, in cui il senso di appartenenza a una comunità più vasta ha coinvolto buona parte del mondo scientifico e dei suoi vertici, se ne sono alternati altri nei quali è prevalsa piuttosto una rassegnata inerzia, con un forte richiamo alla tranquillità della "torre d'avorio" e un interesse pressoché esclusivo per il lavoro di ricerca. Riecheggiano qui le parole del giovane matematico Gaetano Scorza (destinato a diventare un apprezzato studioso di geometria) che all'inizio del Novecento si spinge fuori del proprio recinto per polemizzare con un economista e un "osso duro" come Vilfredo Pareto. In un articolo del 1902, Osservazioni su alcune teorie di economia pura, in una sorta di bilancio dell'attenzione prestata ai temi dell'analisi economica, Scorza parlerà del «sentimento di sconforto provato nel passare dai campi della matematica pura, così sereni, così obiettivi, a quelli dell'economia politica, così soggettivi e così irti di discussioni passionate, per ciò stesso, antiscientifiche». Nelle fasi di maggiore coinvolgimento, gli uomini di scienza non si sono limitati a una partecipazione puramente formale alla vita della nazione ma si sono fatti portatori di quelle istanze di merito, razionalità e rigore che non vedevano sufficientemente rappresentate dalla classe politica. In qualche momento hanno perfino provato a proporsi come parte di un nuovo gruppo dirigente, in grado di orientare e assecondare il bisogno di modernità del paese. Si può anche pensare a un'ingiustificata distrazione dal lavoro scientifico, a una proposta velleitaria o, ancora, a indebite "invasioni di campo" (del resto tipiche dei momenti di crisi, quando l'azione di supplenza nei settori che non funzionano rende inevitabile il rimescolamento dei ruoli). Di certo, le risposte della classe politica e della società italiana a queste profferte in ogni modo non sono state entusiastiche. Le vedremo. Comunque stiano le cose, abbiamo una ulteriore conferma della presenza degli uomini di scienza all'interno della storia d'Italia. Potremo valutarne i comportamenti di fronte a una chiusura del mondo politico che a volte sconfina nella repressione. Anche ricercatori e studiosi non rispondono sempre nel modo migliore. A volte chinano il capo, come è accaduto a proposito delle leggi razziali. È questo un materiale documentario che può servire per un'altra storia, quella degli intellettuali italiani. | << | < | > | >> |Pagina 866. La SIPS di VolterraLa regina delle scienze Dopo Camillo Golgi, abbiamo ora un altro momento particolarmente importante della nostra storia scientifica nonché una conferma della tesi della significatività della ricerca condotta in Italia e dei suoi rapporti con il contesto sociale. La lunga attività di Volterra ci permetterà di vedere come entrambi questi aspetti si sviluppino per mezzo secolo nell'ambito della matematica e della fisica e come la scienza italiana sia capace di aprirsi a prospettive quanto mai promettenti per l'intera società. Sebbene si laurei in fisica e i suoi interventi in materia siano tutt'altro che marginali, Vito Volterra è prevalentemente un matematico. In questo periodo, in realtà, risulta abbastanza problematico distinguere nettamente tra le due discipline. Abbiamo già avuto modo di parlare del ruolo svolto dai matematici all'interno della comunità scientifica nei decenni fra Otto e Novecento. Bisogna anche dire che non vivono di rendita, ma sanno capitalizzare la posizione di "numero uno" di cui gode la loro disciplina. Molta della fama che li circonda a livello internazionale è dovuta alla "scuola" di geometria algebrica avviata da Cremona con gli studi sulle curve e le superfici definite da equazioni e da sistemi di equazioni polinomiali. All'apporto di Cremona seguiranno, a Torino, i contributi di Corrado Segre (1863-1924) e poi del "triumvirato" composto da Guido Castelnuovo (1865-1952), dal cognato Federigo Enriques (1871-1946) e da Francesco Severi (1879-1961). Grazie alla loro attività, la geometria algebrica continuerà a essere identificata per buona parte della prima metà del Novecento con la italienische Geometrie. Se all'inizio del secolo la matematica italiana è considerata la terza nel mondo — subito dopo quella francese e quella tedesca — il merito è anche di quella "scuola" di analisi cui è collegato il nome di Volterra. Il suo iniziatore può essere rinvenuto a Pisa, in Normale, nella figura di Ulisse Dini (1845-1918), il cui programma rigorista prevede non tanto di dimostrare nuovi risultati, quanto piuttosto di porre quelli già noti su basi e fondamenta più solide completandone la dimostrazione e precisando il loro dominio di validità. Un altro indubbio protagonista della stagione rigorista è il torinese Giuseppe Peano, ma sarà comunque Pisa la culla principale di questi studi ed è alla scuola di Dini che si formeranno, più o meno direttamente, i maggiori esponenti dell'analisi reale italiana.
La vivacità e il dinamismo della matematica di fine Ottocento vengono
confermati dagli apprezzamenti riscossi a livello internazionale
dal calcolo differenziale assoluto di Ricci Curbastro e in discipline
relativamente nuove come la logica e l'economia matematica. Spinto dal
suo impegno rigorista e dalla ricerca della massima precisione anche in
funzione didattica, Peano inaugura a Torino una scuola di logica destinata ben
presto ad arricchirsi dei contributi di giovani e battaglieri
studiosi. Mentre a Losanna l'italiano Vilfredo Pareto diventa l'effettivo
divulgatore della teoria walrasiana dell'equilibrio economico generale,
in Italia prende corpo un gruppo di studiosi che faranno dire a un
economista e storico dell'economia come Schumpeter che la ricerca
italiana, nel 1915, non è seconda a nessuno.
Questa è la storia di Volterra La storia che racconteremo in questo capitolo comincia ad Ancona. È qui che Volterra nasce nel 1860. | << | < | > | >> |Pagina 91La matematica non è solo calcoloParlando di Quintino Sella, abbiamo avuto modo di ricordare l'importanza strategica che i primi governi unitari annettevano alla trasformazione di Roma in vera capitale del nuovo Stato. La prospettiva coinvolgeva anche il versante culturale: a partire dal 1870, le politiche dei vari esecutivi — siano essi di destra o di sinistra — sono concordi nel ritenere che la città non debba essere solo sede del potere politico e amministrativo. Ciò determina un vero e proprio piano di rafforzamento delle principali istituzioni culturali della capitale, e dell'università in particolare, al punto che la "chiamata" a Roma finisce per rappresentare agli occhi dei docenti il riconoscimento dei successi professionali e il coronamento di un'intera carriera. Niente di strano, dunque, che Volterra cominci a pensare a un possibile trasferimento. A motivare il suo interesse si aggiungono altre ragioni di carattere familiare. A Torino, Volterra e la mamma non potevano contare sulla vicinanza di alcun parente. A Roma, invece, si trova da tempo lo zio con cui hanno vissuto a Firenze per un certo periodo. Sempre a Roma si è trasferito quello zio Edoardo che tanta parte aveva avuto nel permettere gli studi universitari di Vito. La sua attività imprenditoriale ha finito per trasformarlo in un ricco uomo d'affari con numerose proprietà agricole e immobiliari. Roma si rivela dunque la sede in cui riunire nuovamente la famiglia. La mamma poi, come molte mamme, è preoccupata che il figlio ormai quarantenne non si sia ancora sposato e mette gli occhi su Virginia Almagià, figlia del cugino Edoardo. Tutto comincia all'insaputa dei due futuri sposi ma poi anche Vito, inevitabilmente coinvolto nella rete tesa dai parenti, trova un motivo in più per desiderare il trasferimento. Gli esiti non sono però scontati: la cattedra capitolina fa gola a molti e la concorrenza è particolarmente agguerrita. Volterra fa intervenire Ernesto Nathan, un nome importante della politica, e alla fine la spunta: nell'anno accademico 1900-1901 diviene docente della facoltà di Scienze dell'Università di Roma, in cui insegnerà per trentun anni e di cui sarà preside ininterrottamente dal 1907 al 1919. Nel frattempo, anche il progetto della mamma e dello zio Edoardo va felicemente in porto: dopo un fidanzamento lampo durato un solo mese, Virginia e Vito si sposano l'11 luglio. Il viaggio di nozze li porterà in Svizzera, dove ripercorreranno molti dei luoghi che Vito ha visitato in occasione del Congresso del 1897. Da lì i due giovani coniugi si trasferiscono a Parigi per il secondo Congresso internazionale destinato a rimanere nella storia soprattutto per l'intervento con cui David Hilbert, considerato al pari di Poincaré una delle punte di diamante della ricerca matematica, propone i ventitré problemi destinati a caratterizzare il nuovo secolo e a impegnare gli studiosi dei decenni successivi. È durante la seduta inaugurale del Congresso che Volterra legge la relazione Betti, Brioschi, Casorati. Tre analisti e tre modi di considerare le questioni d'analisi citata nel primo capitolo a proposito del viaggio in Europa dei tre matematici italiani nel 1858. Il ritorno da Parigi segna l'effettivo avvio della vita accademica romana, con l'inizio dei corsi di Fisica matematica e Meccanica celeste. Qualche mese dopo Volterra è invitato a tenere la prolusione ufficiale nella cerimonia di apertura del successivo anno accademico. Si tratta indubbiamente di un onore, soprattutto per un docente approdato nell'ateneo romano da così poco tempo. L'occasione suggerisce che il relatore individui un argomento legato alle proprie attività di ricerca sviluppato però in modo non troppo tecnico, magari con qualche riferimento alle altre discipline. Per un matematico, si tratta di una sfida particolarmente impegnativa. Volterra si orienta verso un discorso che illustra le nuove applicazioni della matematica all'economia e alla biologia con una scelta davvero originale per la sua prima uscita pubblica di un certo rilievo, una scelta che conferisce alla prolusione un interesse capace di andare al di là dello stretto dato biografico. Sulla scena della matematica italiana irrompono considerazioni che riguardano la modellizzazione di scienze lontane dalle consuete applicazioni o che addirittura fanno parte «di quelle dette morali», a conferma dell'aggressività che il linguaggio matematico rivela in questo periodo presentandosi come punto di riferimento coagulante per diversi studi. Non è un caso quindi che la prolusione (letta effettivamente il 4 novembre 1901) inizi con il tema della curiosità. I matematici sono curiosi perché sanno di possedere un linguaggio particolarmente efficace che permette di addentrarsi in «molti oscuri misteri dell'Universo». È naturale, poi, che questa curiosità si senta attratta soprattutto dai nuovi campi di indagine. Non è più il caso, insomma, di riferirsi esclusivamente alle applicazioni fisiche. Al tempo stesso, bisogna capire quale possa essere il valore aggiunto che la matematica offre alle indagini compiute in altri settori e in che cosa consista esattamente il suo contributo. Dalla matematica alcuni si aspettano troppo, altri troppo poco. Per Volterra è necessario un atteggiamento più equilibrato. È vero che il procedimento matematico «non è altro in sostanza che il primo rozzo ragionamento più perfezionato ed affinato». Non va tuttavia dimenticato che, scoprendo analogie strutturali tra fenomeni apparentemente diversi, apre orizzonti che altrimenti nessuno avrebbe mai pensato di indagare. La matematica non si riduce soltanto al calcolo. È soprattutto un'analisi dei fenomeni attraverso la costruzione di un loro modello capace di riprodurne gli elementi e le relazioni fondamentali e di mettere in sordina, almeno in una prima fase, quelli ritenuti di disturbo. Un modello è una riproduzione semplificata e formalizzata della realtà: semplificata, perché questa in generale è troppo complessa e l'attenzione va fissata sui termini essenziali della questione e sulle variabili che si ritengono decisive per «mostrare soltanto ciò che è utile vedere [...] e nascondere tutto il superfluo che confonderebbe lo sguardo»; formalizzata perché, avvalendosi del linguaggio matematico e del calcolo, può arrivare a conclusioni che il ragionamento ordinario avrebbe difficoltà a ottenere. | << | < | > | >> |Pagina 18812. Si può dire di no, ma lo dicono in pochissimiQuando gli intellettuali diventano un problema Il fascismo si presenta come un movimento giovane e alternativo rispetto alla consunta democrazia borghese. Un movimento che pretende di forgiare un nuovo cittadino italiano, attraverso una politica capace di orientare e organizzare anche i vari momenti della vita privata nonché di rivendicare il primato dell'azione sulle sterili riflessioni dei salotti. Per queste caratteristiche l'incontro con gli intellettuali non è inizialmente facile, soprattutto con quelli che si sono formati a cavallo dei due secoli e che al momento della marcia su Roma hanno già raggiunto un certo livello nella scala professionale e sociale. Possono aver accettato il male minore e apprezzato il contributo (poco presentabile ma utile) offerto al ripristino dell'ordine contro il pericolo rosso. Possono anche aver valutato che questo fosse il prezzo da pagare per uscire da un vicolo cieco ma adesso che il fascismo sceglie risolutamente la strada del regime chiedono di tornare indietro, specie dopo l'assassinio del parlamentare socialista Giacomo Matteotti. È un atteggiamento che troviamo ben espresso nelle parole di Benedetto Croce: «Vedete, il fascismo è stato un bene; adesso è divenuto un male, e bisogna che se ne vada». La diffidenza e una certa nostalgia per il periodo giolittiano, quando non una malcelata opposizione, sono a metà degli anni venti i tratti dominanti nell'atteggiamento degli studiosi di formazione liberale.
Naturalmente, non manca chi conferma la sua precoce adesione al
fascismo o chi addirittura chiede di entrarne a far parte – il caso più
famoso è quello di Luigi Pirandello – proprio dopo il delitto Matteotti. Nel
complesso, però, scuola, università e accademie costituiscono
per il regime un terreno di missione in cui dispiegare tutte le capacità
propagandistiche mescolando forza e consenso, intimidazioni e lusinghe, bastone
e carota. Il dissenso va represso, ma anche controllato e
svuotato attraverso un'articolata rete di collaborazioni chiamata a invischiare
quella vasta fetta di società che va dalla piccola intellettualità
agli esponenti dell'alta cultura.
La battaglia dei manifesti L'episodio del giuramento del 1931 si ispira precisamente a questa logica. Tuttavia, il primo momento in cui il fascismo manifesta un'esplicita attenzione verso la questione degli intellettuali si ha qualche anno prima. È il marzo del 1925 quando Giovanni Gentile promuove a Bologna il primo convegno nazionale delle Istituzioni fasciste di cultura da cui scaturirà la cosiddetta battaglia dei manifesti. Pur partito da posizioni liberali al pari di Croce, Gentile aderisce al partito fascista nel maggio del 1923, con una lettera al duce: «Perciò mi sono pure persuaso che fra i liberali d'oggi e i fascisti che conoscono il pensiero del Suo fascismo, un liberale autentico che sdegni gli equivoci e ami stare al suo posto, deve schierarsi al fianco di Lei». Nel primo governo Mussolini, Gentile sarà ministro della Pubblica istruzione. Sono sue la riforma della scuola e dell'università ma non sarà sua la loro attuazione: dopo le elezioni del '24 il filosofo, che ha finito per divenire un elemento di contrasto e di divisione anche in ambienti vicini al regime, offrirà le dimissioni il 14 giugno (quattro giorni dopo il delitto Matteotti) come gesto di «conciliazione nazionale». Le dimissioni verranno accolte e Gentile si vedrà ricompensato con la nomina a presidente della Commissione dei diciotto, detta dei Soloni, incaricata di preparare le riforme legislative. A partire da quel momento diverrà uno dei protagonisti della politica di tolleranza nei confronti degli uomini di cultura non fascisti – anche di estrazione scientifica – a patto che ne riconoscano il ruolo e accettino la propria posizione di sconfitti o quantomeno di comprimari. Da questo punto di vista, l' Enciclopedia rappresenterà il suo capolavoro. | << | < | > | >> |Pagina 195Cerchiamo almeno di non dimenticarliIl ruolo svolto da Severi nell'elaborazione della politica da seguire nei confronti del mondo della cultura testimonia ancora una volta la presenza degli intellettuali di matrice scientifica nei momenti importanti della storia italiana della prima metà del secolo. Il promemoria a Mussolini è seguito da una lettera che pochi giorni dopo Severi indirizza a Gentile da Barcellona e in cui esplicita le sue idee per risolvere una volta per tutte la questione degli intellettuali sulla base di quanto scritto al duce. Pensa in particolare a un giuramento di fedeltà al fascismo cui dovrebbero sottoporsi tutti i professori universitari, per annullare fra l'altro gli effetti propagandistici del manifesto Croce. L'imposizione del giuramento non sarebbe solo un atto repressivo e intimidatorio, ma sancirebbe la pacificazione nazionale con il riconoscimento che ormai fascismo e nazione coincidono. Siamo tutti italiani, quindi tutti fascisti, e non c'è più ragione di dividerci. Il giuramento servirebbe comunque a individuare e a isolare quei pochi irriducibili che verrebbero immediatamente eliminati. Bastone e carota, appunto. Occorrerebbe che il provvedimento fosse rappresentato come un atto di intransigenza diretto a ottenere la tanto richiesta fascistizzazione dell'Università; come un appello alla lealtà dei professori, i quali non potrebbero mancare al giuramento senza incorrere in provvedimenti ben più gravi della messa a riposo d'autorità. Ma nello stesso tempo come una sanatoria di atti politici ormai lontani, per guisa che lo Stato, nell'ambito tecnico, potesse giovarsi senza limitazioni di ogni professore che al giuramento fosse sottoposto. Nelle varie formule di giuramento, via via disposte per i docenti universitari, non si parlava di fedeltà al fascismo. A questo provvede il giuramento del 1931. Il suggerimento di Severi, fatto proprio da Gentile, è accolto: «Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l'ufficio di insegnante e adempiere a tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria ed al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio». Giurano tutti, o quasi tutti. Avevano ragione Severi e Gentile. Quelli che non si piegano all'imposizione e non accettano di essere considerati italiani solo in quanto fascisti sono davvero quattro gatti: dodici per l'esattezza, vale a dire l'1%. I loro nomi sono: Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vita, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra. Naturalmente, non mancano tentennamenti ed esitazioni. Giuseppe Levi (1871-1965) è un istologo di fama internazionale, alla cui scuola di Torino si formeranno i futuri premi Nobel Salvatore Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini. Socialista e antifascista, nasconderà nella propria casa Filippo Turati e altri oppositori del regime. Inizialmente non ha alcuna intenzione di giurare, malgrado qualche tentativo dei suoi allievi che cercano di indurlo a un atteggiamento più possibilista. Dopo un denso scambio epistolare con il giurista Alessandro Levi di Parma e con Tullio Levi-Civita, i tre docenti concordano una lettera da presentare ai rispettivi rettori nella quale si impegnano a firmare a patto che le autorità accademiche attestino che la sottoscrizione non implica alcuna limitazione alla loro libertà di pensiero. In realtà, Giueppe Levi si accontenta di un'assicurazione verbale del ministro dell'Educazione nazionale Giuliano e cede alle diverse pressioni. Anche Tullio Levi-Civita è tra i più perplessi e combattuti, come possiamo leggere nelle tormentate bozze di risposta all'invito a sottoscrivere il giuramento. È quasi superfluo aggiungere che al rettore dell'Università di Roma, cui le sue lettere sono indirizzate, i sottili distinguo di Levi-Civita non interessano. Ciò che gli preme è l'ulteriore diminuzione del numero di coloro che intendono resistere. Tanto che alla fine, al collega che continua con le sue precisazioni si limita a rispondere: va bene tutto, ma si presenti «per prestare giuramento lunedì o martedì della prossima settimana tra le 10 e le 12». Nei docenti antifascisti prevalgono in generale le preoccupazioni per le conseguenze personali e professionali cui andrebbero incontro: il licenziamento, l'impossibilità di continuare a sviluppare la propria scuola e assicurare un futuro agli allievi, l'amara previsione che lascerebbero libero il campo a colleghi peggiori (almeno dal punto di vista etico e dell'assunzione delle responsabilità civili). Si diffonde poi il calcolo che, se il giuramento diventasse un fatto plebiscitario, la sua importanza politica a fini discriminatori verrebbe fortemente ridimensionata. A questo realismo si adeguano i professori in qualche modo legati ai partiti di sinistra che suggeriscono un low profile per rimanere all'interno dell'istituzione universitaria e presidiare i pochi spazi ancora liberi a disposizione delle voci democratiche. Anche i docenti cattolici sono molto combattuti sull'atteggiamento da assumere. Il consiglio che viene dalle gerarchie ecclesiastiche è di aderire al giuramento, pur conservando in coscienza tutte le riserve mentali del caso e sapendo che tale atto è troppo condizionato dall'esterno per essere sincero. "L'Osservatore Romano" troverà nella precisa formulazione del giuramento un'ulteriore giustificazione: «Il contesto medesimo della formula del giuramento, mettendo sullo stesso piano il Re, i suoi Reali successori e Regime Fascista, mostra con sufficiente chiarezza che l'espressione "Regime Fascista" può e deve nel caso presente aversi per equivalente all'espressione "Governo dello Stato". Ora al Governo dello Stato si deve secondo i principi cattolici fedeltà e obbedienza, salvi, s'intende, come in qualunque giuramento richiesto ai cattolici, i diritti di Dio e della Chiesa». | << | < | > | >> |Pagina 20213. I ragazzi di via PanispernaDieci mesi per il Nobel Il titolo del capitolo riprende quello di un film di Gianni Amelio del 1989 a sua volta tratto dall'articolo Les enfants terribles di Giorgia de Cousandier pubblicato su "Civiltà delle Macchine", la rivista della Finmeccanica allora diretta da Leonardo Sinisgalli: Al ritorno da Vejo, quella domenica, decidemmo di andare a prendere il tè a casa di Renata Jesi. Ci sedemmo intorno alla tavola da pranzo dove le tazze, la teiera, i pasticcini furono presto preparati. Enrico Fermi era seduto un poco di traverso, quasi al centro, e intorno ai suoi giovanissimi colleghi ed amici. C'erano: Emilio Segrè, Franco Rasetti, Oscar D'Agostino, Bruno Pontecorvo, Adriana Enriques, Maria Fermi, la moglie di Tullio Levi-Civita, la sorella Cornelia Trevisani, Tartaro, Giovanni Enriques e il "fanciulletto sciocco" tutto roseo e implume: Edoardo Amaldi. Enriques, "Giove", come lo chiamavamo noi, non si decideva mai a sedersi (lo ricordo quasi sempre in piedi), impaziente di mettere un disco e di fare un ballo. Quando il tè era già versato lo chiamammo e, stringendoci, gli facemmo un po' di posto tra noi ragazze. Ad un tratto Fermi accostò la sedia alla tavola e cominciò lentamente a rimuginare con il cucchiaino d'argento il fondo della tazza. «Strano», disse con quella sua cadenza leggermente toscaneggiante e lenta, un po' nasale, «chissà perché le foglioline vanno sempre verso il centro...». Stava curvo e assorto, col capo in avanti, i capelli già radi benché avesse soltanto 27 anni, la grande fronte spaziosa. I «ragazzi della Scuola di Fisica di via Panisperna» si protesero verso le proprie tazze. La dissertazione sulle foglioline durò tutto il tempo della nostra sosta in casa di Renata, e come tante altre domeniche, noi ragazze dovemmo rinunciare a muovere, al suono di un disco, le nostre gambe irrequiet . Enrico Fermi nasce nel 1901. Dopo aver precocemente scoperto la propria passione per la fisica, a soli venticinque anni ottiene la cattedra di Fisica teorica all'Università di Roma. Otto anni dopo – nell'ottobre del 1934 – assieme ad altri ragazzi si accorge che gli urti successivi di un materiale idrogenato contro i nuclei dell'idrogeno finiscono per rallentare notevolmente i neutroni e che i neutroni lenti così prodotti sono fino a cento volte più efficaci nel produrre le reazioni nucleari di natura radioattiva. Per questa scoperta e il complesso di ricerche sulla radioattività artificiale otterrà nel dicembre del 1938, a soli trentasette anni, il premio Nobel. In quei giorni lascerà l'Italia per gli Stati Uniti: la moglie Laura Capon è di origine ebraica e i coniugi Fermi temono per la sorte dei figli. Parlavamo di ragazzi. Quando la grande scoperta del 1934 viene realizzata, i collaboratori di Fermi sono davvero molto giovani: Franco Rasetti e il chimico Oscar D'Agostino sono suoi coetanei, Emilio Segrè è del 1905, Ettore Majorana del 1906 (anche se non può proprio dirsi un elemento del gruppo), Edoardo Amaldi del 1908 e Bruno Pontecorvo addirittura del 1913. L'avventura destinata a concludersi con il premio Nobel si svolge nell'arco di soli cinque anni, quasi tutti assorbiti dalle tappe preparatorie. La vera e propria scoperta invece si concentra nei primi dieci mesi del 1934. Nel gennaio di quell'anno, a Parigi, i coniugi Irène Curie (1897-1956) e Frédéric Joliot (1900-1958) annunciano di avere oltrepassato le colonne d'Ercole della radioattività, fino ad allora considerata proprietà naturale di alcuni elementi pesanti come uranio, radio e polonio, dopo avere osservato una radioattività artificiale provocata dal bombardamento di elementi leggeri (boro, alluminio e magnesio) con particelle alfa. All'inizio di marzo, Fermi pensa che il modo migliore per evitare la repulsione colombiana dei nuclei osservata con le particelle alfa consista nell'impiegare come proiettili i neutroni (scoperti solo due anni prima dal fisico inglese Chadwick) in quanto elettricamente neutri. Dopo alcuni tentativi infruttuosi, un primo risultato positivo si ottiene con il fluoro e l'alluminio e una sorgente di neutroni del tipo radon-berillio. Cominciando a bombardare in modo sistematico gli elementi del sistema periodico di numero atomico crescente, Fermi mette al lavoro il gruppo costituito da Rasetti, Segrè, Amaldi e D'Agostino cui poi si aggiungerà il neolaureato Pontecorvo. Nei mesi di aprile, maggio e giugno vengono irradiati sessantadue elementi e in trentasette casi si riesce a osservare almeno un nuovo nucleo radioattivo. Alcune anomalie manifestatesi nell'attivazione dell'argento portano alla fine al principale risultato ottenuto dal gruppo dei giovani fisici romani, con la scoperta della maggior efficacia dei neutroni lenti. È il 22 ottobre: con un'intuizione abbastanza improvvisa, Fermi si accorge che la radioattività artificiale viene enormemente aumentata se fra sorgente e bersaglio si interpone un blocco di paraffina. I neutroni sono rallentati attraverso il gran numero di urti elastici con i protoni presenti nella paraffina e questo, a dispetto di ciò che si credeva fino ad allora, porta all'incremento della loro efficacia nel provocare la radioattività artificiale. È un risultato che la ripetizione dell'esperimento, con la vasca dei pesci rossi del giardino dell'Istituto impiegata come filtro per i neutroni, conferma pienamente. In termini un po' enfatici, possiamo dire che l'era atomica cominci a Roma il 22 ottobre 1934. Bombardando sistematicamente gli elementi della tavola periodica, i giovani fisici romani arrivano poi a quelli più pesanti: il torio e l'uranio. Il bombardamento dell'uranio provoca la riproduzione di nuovi elementi dotati di un numero atomico superiore a quello dell'uranio e Fermi e i suoi collaboratori pensano di aver trovato degli elementi transuranici, più pesanti dell'uranio e non presenti in natura. L'interpretazione corretta dell'esperimento si rivelerà ancora più sensazionale. A fornirla saranno i fisici tedeschi Otto Hahn (1879-1968) e Fritz Strassmann (1902-1980) che proveranno che con il bombardamento dell'uranio non si è di fronte alla formazione di elementi transuranici, bensì a una nuova reazione nucleare dovuta alla frantumazione del nucleo di uranio. È il processo di fissione nucleare, che libera un'enorme quantità di energia. | << | < | > | >> |Pagina 29918. Vinciamo anche dei NobelUna cura antidepressiva Le speranze maturate all'inizio degli anni sessanta e le successive occasioni mancate hanno costituito il tema dominante degli ultimi capitoli. Sarebbe però triste chiudere con storie che finiscono in questo modo. Il nostro rischierebbe di apparire come un tributo eccessivo alla nostalgia per un passato lontano — i decenni relativi alla costruzione della nazione, la primavera scientifica di inizio Novecento, gli anni della rinascita dopo la seconda guerra mondiale — quando in Italia una certa ricerca scientifica raggiungeva le vette dell'eccellenza e la nostra società sembrava più pronta ad assorbire le sue conquiste. Oggi queste situazioni sembrano essersi perdute nelle nebbie dei tempi e, in tema di rapporti fra scienza e società, sembrano scomparse anche le speranze e l'impegno proficuo di un uomo come Antonio Ruberti. Appaiono lontani persino gli anni — in realtà recentissimi — in cui c'era chi si adombrava a sentir parlare della decadenza del paese, generata ed esemplificata dal declino industriale e della ricerca. Oggi nessuno si scandalizza più quando qualcuno paventa il rischio che le tensioni a cui è soggetto il nostro assetto civile siano il segnale di una decadenza irreversibile, almeno nel breve e medio periodo. Del resto, il futuro prossimo del paese sembra prefigurato dalle centinaia e centinaia di giovani laureati — spesso i migliori — che emigrano all'estero, accettando questa soluzione come risposta naturale all'esigenza di trovare un lavoro qualificato in linea con le aspettative maturate. La fuga dei cervelli è un fenomeno tutt'altro che nuovo, né è particolarmente originale l'osservazione secondo cui «questo trasferimento non sia fatto in sé negativo, purché venga compensato da una generale entrata di ricercatori stranieri in Italia». Sono però nuovi le dimensioni dell'esodo e l'atto di denuncia che esso esprime nei confronti della classe dirigente. Come abbiamo detto, sarebbe brutto chiudere la nostra storia con tinte così malinconiche. Dobbiamo sperare che quanto seminato negli ultimi anni, per ribadire il ruolo cruciale della ricerca e di una cultura industriale che la assuma come interlocutore privilegiato, concorra ad aprire dinamiche originali e attualmente imprevedibili. Una certa ripresa delle iscrizioni ai corsi di laurea scientifici starebbe a dimostrare che le giovani generazioni non sono indifferenti a indicazioni di questo genere. Forse saranno in grado di ritagliarsi uno spazio nuovo all'interno di un mondo che vede mutare rapidamente i confini della società della conoscenza — con il prepotente ingresso di paesi ritenuti fino a ieri arretrati — e in cui lo stesso concetto di comunità nazionale assume tratti più problematici. Se ciò avverrà, sicuramente non sarà a partire da zero. Nonostante gli alti e i bassi dovuti alla giovane età dello Stato e della società nazionale, l'Italia postunitaria ha assistito al formarsi di una sua tradizione scientifica. Il nostro ultimo capitolo si ferma agli anni sessanta ma le crescenti difficoltà — cui non sono estranee le "occasioni mancate" — non hanno certamente impedito che la ricerca in Italia continuasse a svilupparsi su livelli disomogenei ma anche importanti. Giunti alla fine della nostra storia, non abbiamo la possibilità di aprire altre finestre. Un accenno alla ricerca aerospaziale e ai brillanti risultati raggiunti in questo campo è però necessario, non fosse che per il fatto di aver appena fatto riferimento a un'Italia giovane in cerca di nuovi spazi e nuove opportunità. | << | < | > | >> |Pagina 302Il secolo che si è appena concluso ha visto la scienza italiana apprezzata e riconosciuta anche in altri settori. Gli attestati internazionali non sono mancati neppure nella loro forma più ufficiale, rappresentata dal premio Nobel. Ed è proprio con questo tema che si chiuderà la nostra storia lunga ormai 150 anni.La funzione antidepressiva che attribuiamo a un tale riferimento non ci esonera da una piccola cura dimagrante. Nei 109 anni trascorsi dall'inizio dell'assegnazione, venti sono stati gli "italiani" ad aver ricevuto l'ambito riconoscimento (la cura dimagrante consiste proprio nel senso da attribuire al virgolettato): - uno per la Chimica: Giulio Natta, nel 1963; - uno per l'Economia: Franco Modigliani, nel 1985; - cinque per la Fisica: Guglielmo Marconi nel 1909; Enrico Fermi nel 1938; Emilio Segrè nel 1959; Carlo Rubbia nel 1984; Riccardo Giacconi nel 2002; - sei per la Medicina: Camillo Golgi nel 1906; Daniel Bovet nel 1957; Salvatore E. Luna nel 1969; Renato Dulbecco nel 1975; Rita Levi Montalcini nel 1986; Mario Capecchi nel 2007; - sei per la Letteratura: Giosuè Carducci nel 1906; Grazia Deledda nel 1926; Luigi Pirandello nel 1934; Salvatore Quasimodo nel 1959; Eugenio Montale nel 1975; Dario Fo nel 1997; - uno per la Pace: Ernesto Teodoro Moneta, nel 1907.
Di alcuni di loro — è il caso di Golgi, Marconi, Fermi e Bovet —
abbiamo avuto modo di parlare nei capitoli precedenti. Analogamente
non ci occuperemo né dei Nobel per l'Economia, né di quelli per la
Letteratura e la Pace. Chi resta allora e che cosa rende "italiano" un
Nobel? Se riconosciamo valido il criterio dello storico svizzero Roland
Miiller basato sulla cittadinanza al momento del conferimento e
magari corretto lievemente con l'accettazione della doppia nazionalità,
dal precedente elenco dobbiamo eliminare Capecchi, Giacconi e
Luria, naturalizzati americani, e confermare invece Bovet che viveva
e lavorava in Italia (all'Istituto superiore di sanità) e possedeva la
cittadinanza italiana. Per le nostre discipline, dunque, l'elenco dei
Nobel si riduce a nove nomi: dopo Golgi, Marconi, Fermi e Bovet è
giunto il momento di parlare di Emilio Segrè, Giulio Natta, Renato
Dulbecco, Carlo Rubbia e Rita Levi Montalcini.
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