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| << | < | > | >> |Pagina 7Camminavo trasandato. Tra le altre cose pensavo alla fabbrica della mia giovinezza, ai gruppettari, alle carriere di tanti di loro, al carcere che hanno patito, e patiscono ancora, alcuni ex giovani per essere stati degli ingenui, a come si è soli là dentro, senza le donne e l'amore. Passano gli anni, ma i giorni sono una tortura. Pensai anche al mio amico che dopo tante sofferenze e tanti dolori patiti nel carcere, la morte se lo portò via. Ora sono un giovane-anziano. Guardo la televisione e vedo spesso quell'ex ragazza che mi invitava a lottacontinuare perché un giorno io e tutta la classe avremmo preso il potere. Mi risuona ancora la sua vocina strascicosa e miagolosa... La marmocchietta portava le lenti a contatto e le sue pupille erano gialle e lucenti come quelle di un gatto. Un tempo, quando lottacontinuava, prima di fare l'atleta del materasso e del piacere, era una giovane e bella sgnocchetta, una viziosetta che già all'epoca selezionava con cura i ragazzi più talentuosi. La guardo sul piccolo schermo e la ricordo quando mi fissava intensamente porgendomi il volantino che anticipava. «Tutto il potere agli operai!». Penso a tutti questi ex operaisti che immaginavano la fabbrica dall'esterno. Invece S. B. Presidente Operaio, loro idolo, editore o avversario, nella Meccanica Varia aveva già stralavorato.A casa, sdraiato su una piccola branda, ascoltavo la radio sfogliando un vecchio libro regalatomi quarant'anni fa dal mio ex Maestro S. B. ora Presidente Operaio. Era l'anno 1963. Veramente di libri me ne aveva regalati due. Li avevo letti a spezzoni. Erano Psicologia delle folle di Gustav Le Bon che ho sempre sottomano perché mi diverte e Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. Mi sentivo gli occhi stanchi mentre ascoltavo Radio Radicale che mi portava a casa la voce dell'ex Operaio venuto da Milano per lavorare con me sulla macchina Kollmann. Diceva: «Io sono stato operaio. Per questo ribadisco sempre che sarò l'operaio del Paese, l'operaio degli italiani... Sono passati quasi quarant'anni e sembra ieri. È stata un'esperienza molto bella e umana... Un test di fondamentale importanza per la mia formazione. Non vi aspettate che vi dica qual era la fabbrica... Non la ricordo più. Non ricordo nemmeno il nome di quel mio ex aiutante operaio. Mi ritorna alla mente solo il soprannome che gli avevo affibbiato... così, per scherzare: Bisness Busillis. Vi racconto un aforisma, o meglio, un indovinello, che questo mio lontano assistente, più che aiutante, mi ripeteva spesso a proposito degli intellettuali di sinistra e dei comunisti come quelli della nuova "Unità". Mi diceva: "Sa dirmi lei, signor B., che cos'è un intellettuale di sinistra di fronte a un cavallo che libero galoppa nella prateria? E secondo lei vale di più un uomo di penna o un uomo che lancia il suo giavellotto contro una preda guizzante nella foresta?" A distanza di quasi quarant'anni, alla prima domanda di Bisness Busillis, rispondo così: "Rispetto al cavallo che libero galoppa nella prateria, l'intellettuale di sinistra è un aquilone che va dove lo porta la corrente. Alla seconda domanda rispondo che vale senz'altro di più l'uomo che lancia il suo giavellotto rispetto a certi..."» Il Presidente s'interruppe volontariamente. Parlava alla stampa estera. Ricordai quel giorno che mi chiese: «Bisness, le piace leggere? Chi sono i suoi autori preferiti?» Quand'ero ragazzo, che libri leggevo? Nella mia casa di Stella Rupestre, che si trovava in cima a via Ferruccio, al numero 20, non circolavano libri e fino all'età di undici anni l'unico testo col quale ero entrato in contatto era quello delle scuole elementari. Mio padre, che non ho mai conosciuto, non ha potuto provvedere ad arricchire la libreria che non avevo, perché come tanti altri giovani della sua età, sembra non andasse d'accordo col capo di governo di quel tempo. Aveva idee opposte e per queste si era fatto ammazzare, assieme ai suoi compagni, in un posto distante oltre mille chilometri da Stella Rupestre: Benedicta. È una collina che si trova tra la provincia di Genova e quella di Alessandria. Oggi c'è un cippo che li ricorda. A casa mia si conosceva pochissimo il colore dei soldi e per niente l'odore della carta stampata. Il nostro primo obiettivo, voglio dire: quello mio, di mia madre, di mia sorella e di mio nonno, era come calmare lo stomaco. Il libro era molto lontano dal nostri pensieri. Malgrado questo, sono stato molto fortunato perché ho avuto, nella mia vita di ragazzo, due grandi narratori, Bettuzza, una donnina minuta, dal viso senz'età, e mio nonno, il padre di mia madre, che tutte le sere, d'estate seduti fuori dalla porta e d'inverno vicino al focolare, raccontavano a me e ai miei compagni della via Ferruccio storie terribili e meravigliose. Bettuzza ci raccontava la storia infinita di Jugà, un eroe come Ulisse, anzi più di Ulisse. In questo racconto s'intrecciavano: l' Odissea, la Commedia, il Decameron, il Don Chisciotte, il Moby Dick, e tantissime altre opere. Insomma, c'era il racconto dell'umanità. Battaglie, balene grosse più di una montagna, fate Turchine e Morgane che lottavano contro le magare (fate cattive dalle gambe d'asino nascoste da lunghi mantelli) che sequestravano le fanciulle del villaggio per darle in pasto al Principe prepotente. Stupri e delitti di ogni genere, fantasmi di briganti che vagabondavano, assieme ai loro bottini, alla ricerca disperata della loro anima nascosta, storie d'amore dolcissime, incantesimi... I personaggi narrati vivevano in paradiso o all'inferno, ma mai al purgatorio o al limbo, che in queste storie mancavano del tutto. Questi racconti facevano galoppare la mia fantasia, ed erano rigorosamente narrati nello strettissimo dialetto di Stella Rupestre. Bettuzza non conosceva l'arte della scrittura ma per me è stata la più grande narratrice che ho incontrato. Lo stesso posso dire di mio nonno. Bettuzza e mio nonno si alternavano nei racconti. Una sera uno, la sera dopo: l'altra. Quando nel 1962 avevo letto per la prima volta Moby Dick, in alcune pagine avevo l'impressione di sentire e rivedere mio nonno che raccontava del suo viaggio, fatto all'età di sedici anni, da immigrato irregolare, per andare in America. Quel viaggio era durato sette mesi. Era l'anno 1901. Il racconto della vita di mio nonno è durato anni. Era minuzioso nei particolari, specie quando ci descriveva la sua esperienza di bambino operaio nelle fonderie di Petange, di Differdange e di Dudulange, nel Lussemburgo. Era ricchissimo di aggettivi e di sostantivi. Descriveva i personaggi che quasi avevi l'impressione di toccarli con le mani. Portava, come diceva lui, quindici anni del Secolo Vecchio e a tredici anni era già in terra straniera con altri bambini-operai a lavorare quattordici ore al giorno nelle lusine. Due anni dopo che era nel Lussemburgo sbarcò in America e ci rimase quindici anni. Là si beccò la spagnola. Povero in canna, rientrò in Italia in piena Prima Guerra Mondiale a combattere per una Patria che non conosceva. Il vero primo libro che ho letto è stato Il lupo dei mari di Jack London. Era l'anno 1956. A Stella Rupestre era venuta una terribile alluvione e con mio nonno ero andato a pulire la cantina del Signorino. Quest'uomo era ricchissimo e viveva nel palazzo dei Giganti. Così chiamavano tutti quella grande corte principesca lunga quanto tutta la via Ferruccio. Nel portone principale c'erano due uomini giganteschi scolpiti nella pietra che reggevano l'architrave. In quello scantinato, cinque volte più grande, e forse più, della mia casa, c'erano cataste di libri gonfi dall'umidità e ingialliti dagli anni. Ne rubai tre, facendo attenzione che non mi vedesse il nonno. Se mai se ne fosse accorto per me sarebbero stati dolori. «È megghiu mu si mori di fami cchiùttostu ca arrubbari nu fico cca na ficara chi na n'è la tua» diceva sempre. I libri che avevo rubato erano Il ranger del Texas di Zane Gray, Edizione Sonzogno 1941, Storia di una vita di Berte Bernage vol. 1° (una pizza di 1200 pagine) edito dalla Pia Società San Paolo Roma 1947 e Il lupo dei mari, Edizione Sonzogno 1941. Quest'ultimo l'ho letto dieci, forse quindici volte. Mi ero innamorato del capitano Lupo Larsen: la sua violenza e la sua crudeltà mi affascinavano perché mi ricordavano i racconti dell'avventuroso viaggio del nonno verso l'America. All'inizio del Novecento mio nonno lavorava quattordici, quindici ore al giorno. Un'ora per ogni anno d'età. Il nonno non conosceva i libri. A leggere e a scrivere gliel'aveva insegnato un contadino siciliano quand'era a Boston Mass, come diceva lui. Io in pieno miracolo economico, anno 1963, lavoravo dodici ore al giorno per sei giorni la settimana. La domenica era festivo e, di ore, ne facevo solo sei. Rispetto al nonno avevo fatto un certo progresso... e avevo anche preso la licenza di quinta elementare! Il primo scritto che mi ha fatto riflettere nella mia vita di lettore, è stato un breve racconto di Kafka, Davanti alla legge. Era il 1962. Questo libro di racconti me l'aveva regalato un giovane professore di un circolo culturale rivoluzionario che si chiamava «Rosa Luxburg». Il mio Maestro, S. B., un anno dopo era venuto a trovarmi in ospedale e mi aveva portato un libro da leggere, Psicologia delle folle. «Le masse» diceva, «si lasciano incantare dalle parole e dalle immagini. Per questo le idee suggerite alla folla diventano predominanti soltanto se rivestono una forma semplicissima e traducibile in immagini. L'oratore che vuole sedurre deve esagerare, affermare, ripetere e mai tentare di dimostrare alcunché con il ragionamento... A una volontà forte e costante niente resiste in quanto la cosa ripetuta finisce per incrostarsi nelle regioni profonde dell'inconscio... Conoscere l'arte di impressionare le folle significa conoscere l'arte di governare...» Mi addormentai mentre la piccola radiolina sintonizzata su Radio Radicale continuava a gracchiare. Imponente come la Pietra di Bismantova, la macchina tuttofare Kollmann era piazzata al centro della terza navata. Il suo plateau, lungo venti metri e largo cinque, scivolava lentamente sulle guide mentre quattro frese, due sui montanti verticali e due sulla traversa centrale, squadravano e tagliavano la ghisa del gigantesco parallelepipedo come un pane di burro. La macchina era dotata anche di due ascensori per salire e controllare il lavoro dall'alto. Il mio Maestro, S. B., col camice bianco impolverato dalla ghisa, con un regolo-calcolatore cercava di sapere in modo più o meno approssimativo l'avanzamento lineare della macchina. Era un grande giorno quello. Finalmente, dopo quattro anni di lavori per l'installazione, la pialla-fresa tuttofare Kollmann era messa alla dura prova della produzione. Doveva squadrare, alla perfezione del centesimo di millimetro, le sei facce del parallelepipedo del cilindro motore Fiat 909 dell'altezza di due metri per un metro e quaranta. B., vedendosi il camice impolverato, tirò fuori dall'armadio un grembiule, che indossò sopra la cappa bianca, e in testa, per non sporcarsi i capelli, si mise un berrettino a visiera. Si rimboccò le maniche e mi invitò a salire con lui sull'ascensore per controllare le frese. C'erano tutti i massimi dirigenti della fabbrica attorno alla nuova macchina, anche il Direttore, Pelo Rosso. «È una gran bella macchina, una macchina singolare. Sicuramente si possono applicare bene i nuovi tipi di fresa...» gridò B. con voce entusiasta e schiacciò il pulsante d'arresto nel quadro dei comandi. L'avanzamento del banco si bloccò di colpo mentre le frese giravano a vuoto. Direttore, ingegneri, capisezione, capireparto, capicommessa, dirigente d'officina, preventivisti e tutto l'Ufficio Studi, accerchiavano la macchina e la divoravano con gli occhi. Sull' ascensorino, vicino al mio nuovo Maestro S. B., mi sentivo le gambe tremare. Quelle quattro frese, del diametro di novanta centimetri e con una dentiera di centoventi lame, ruotavano come girandole e mi creavano un batticuore disordinato. «Cerchi di stare calmo, Guerrazzi. Si controlli. Non si lasci prendere dal panico! Altrimenti il lavoro diventa pericoloso. Queste sono macchine molto sicure, non abbia paura. Al primo cenno di rischio basta schiacciare il pulsante di arresto e la macchina si blocca all'istante.» B. aveva notato la mia paura sebbene fosse concentrato a verificare la pulsantiera mobile dei comandi. Senza distogliere lo sguardo dal quadro mi disse ancora. «Queste fresatrici sono la nuova trontiera del progresso. Se lei ha la buona volontà di imparare, sarà il primo e il più giovane operaio del futuro. Cercherò, per quanto mi è possibile, di aiutarla affinché sia lei il Principe della Kollmann, il Principe del Lavoro.» Avevo l'impressione di trovarmi in un deserto che si stendeva all'infinito sotto un caldo atroce e che trasformava le navate della fabbrica in un miraggio. B. mi lanciò uno sguardo veloce per vedere qual era stata la mia reazione. Ricambiai con un grazie intimidito. Cercai di dire qualcosa, ma lui mi bloccò con un gesto della mano. Disse ancora: «Chi sarà il giovane Principe della Produzione? A questo interrogativo, mio caro Bisness, la risposta è: sarà colui che compie un viaggio nel mondo magico della superproduzione. Costui sarà la perla dell'anima umana. È quella goccia di sole e di rugiada che ogni uomo tiene ben chiusa nella prigione del proprio corpo... Bisness, ora schiacci quel pulsante attaccato alla ringhiera dell'ascensore e lo tenga sempre pigiato, scendiamo giù...» Eseguii il suo comando. Pigiai il pulsante e l'ascensore dolcemente ci portò a terra. Il Direttore Fiorebello e tutti gli altri ci attorniarono. B. molto soddisfatto disse rivolgendosi a Fiorebello: «Ingegnere, con questa fantastica macchina, e con quel tipo di frese, le superfici dei cilindri sicuramente verranno anche levigate. Di certo possiamo eliminare l'operazione di aggiustaggio. Saprò io come sfruttare al massimo delle sue potenzialità questa macchina. Penso si potranno ridurre i tempi del cinquanta per cento... E forse qualcosa in più. Tutta una serie di altre operazioni, come l'aggiustaggio, se non si potrà elimmare del tutto, come minimo verrà ridotta dell'ottanta, ottantacinque per cento.» Fiorebello l'ascoltava soddisfatto e si pavoneggiava tutto mentre il capocommessa e il preventivista mettevano a punto i loro cronometri per prendere il tempo. | << | < | > | >> |Pagina 42«Dovrei andare al cesso, posso?»«Bisness, glielo dico! Io non ho mai evacuato durante l'orario di lavoro. Disciplina! L'intestino deve essere disciplinato. Se il cervello ordina che le contrazioni avvengano al mattino presto o a tarda sera, così accade. Comunque... Vada pure a fare i suoi bisogni, ma non faccia come è il suo solito... Non si addormenti lì dentro. Le ripeto: non dimentichi che questa macchina ha un costo per l'Azienda di duecentocinquantamila lire all'ora. Vale a dire: quattromila e rotte lire al minuto. Perciò lei dovrebbe rendersi conto di quanto è costoso il suo esercizio fisiologico. L'Azienda non si può permettere il lusso di lasciare che la macchina resti ferma nemmeno per un secondo.» La sera calava nel capannone. Da lì a un po' la sirena avrebbe annunciato con il suo suono acuto la fine della giornata. Cominciavo a sentirmi in ripresa. Risposi: «Caro Maestro, mi rendo sì conto, eccome. Quattromila lire al minuto sono tante, mi fanno impressione... Ho sentito dire che in America ci sono ballerine che guadagnano trentamila lire al minuto.» «Sì, è vero. Ma lei, Bisness, deve capire che le ballerine si possono esibire per poco. Mi spiego: non possono lavorare ventiquattr'ore su ventiquattro. E poi ci sono anche le stagioni magre e bisogna tener presente sempre la reazione del pubblico... La bellezza dura pochi anni. Se l'atmosfera del pubblico non è buona... Mi intendeno? Bisogna promuoversi quotidianamente... Il mondo dello spettacolo non è tutto rose e fiori! E non dimentichiamo che c'è anche la Buon Costume che da un momento all'altro può bloccare lo spettacolo...» Cercai d'interromperlo, ma lui con slancio continuò: «Le ballerine armonizzano la nostra vita con i loro canti e con le loro grazie... Mutandine, giarrettiere, scarpette, reggiseni interi o a balconcino, orecchini, acconciature, profumi... Tutto! Tutto ci riempie gli occhi e il naso di piaceri e di delizie.» «Certo, Maestro, quello che dice è vero e mi appassiona...» «Non m'interrompa, Bisness. Mi lasci finire il concetto!» mi riprese con voce adirata; e aggiunse: «Purtroppo, caro Bisness, le cellule delle ballerine non si possono cambiare come si fa con quelle della macchina. La ballerina è sempre in continuo movimento e le cellule hanno il compito di tenere sempre dritte le sue gambe. Quando questo ciclo di riproduzione cesserà, le gambe si storcigneranno e addio spettacoli a dodicimila o a cinquecento lire al minuto. Bisness, se lei s'impegna a diventare il Principe della Kollmann, il Principe del Lavoro, sarà un uomo più importante di qualsiasi ballerina o calciatore. Non sia astioso verso quella gente. Lei ha la possibilità di lavorare fino a sessant'anni con un aumento costante del valore-minuto. La Kollmann manderà in pensione la vecchia piallatrice Woldrich. Il nostro compito è quello di testare bene i nuovi tempi di produzione. Mi ha capito?..» Mi lanciò un sorriso di complicità e aggiunse modulando e controllando il timbro della voce: «Ma noi caro Bisness, abbasseremo i tempi... naturalmente lasciando un margme di guadagno per l'operaio. Si deve guadagnare: ed è giusto, sacrosanto e importante. Ma bisogna anche muoversi, fare, produrre, dormire poco, mettersi in discussione, sollecitare i collaboratori e non perdersi in chiacchiere. Mi raccomando: non dia retta ai rivoluzionari della fame... Non giri a vuoto come una banderuola! Bisogna darsi da fare, trottare, scattare, incalzare se vuole cambiare la sua posizione...» s'interruppe un attimo per guardare l'utensile che smussava gli angoli, poi continuò, sempre con voce ispirata: «Veda, Bisness, lei ha avuto l'incalcolabile fortuna di essere nominato mio aiutante. Si affidi totalmente alla mia generosità e crescerà... crescerà come la produzione di questa macchina.» Scappai come un vento impetuoso in direzione dei gabinetti e quando fui dentro pensai che la mia infanzia e la mia adolescenza, tutto sommato, non erano state tanto tristi, mentre adesso la mia giovinezza lo era. Ero costretto a lavorare dieci, dodici ore al giorno, sei alla domenica. Non c'era altro che lavorare e trottare come un mulo per servire il Maestro, l'Operaio venuto da Milano. Dov'era quel ragazzo che andava per lucertole? Davanti a me si stendeva la sconfinata vita di un mare di rumore e di fatica. Era quello il cambiamento che avevo tanto desiderato? C'erano giorni che non riuscivo a reggere il ritmo del Maestro. Lui si lamentava, non era mai soddisfatto di come lo servivo. Diceva che non stringevo bene i bulloni e che doveva sempre controllare tutto. Così si perdeva del gran tempo, e il tempo era danaro! Quando lo si perdeva, come la giovinezza, non lo si recuperava più. | << | < | > | >> |Pagina 45Era il mese di giugno del 1963. Alla Meccanica Varia eravamo in lotta da mesi per il rinnovo del contratto. La mia paga, di aiutante jolly, era di lire 119,20 centesimi l'ora. Un litro di benzina costava meno di cento lire. Erano già passati cinque anni da quando mi avevano assunto alla Meccanica. Il mio primo maestro operaio si chiamava Mucca. Era un brav'uomo, ma aveva un pessimo difetto. Per esempio: quando preparava un piazzamento sulla vecchia piallatrice Woldrich per squadrare un cilindro del motore navale Fiat 909, attorno al plateau della macchina tirava le tende affinché io non potessi vedere e imparare i trucchi del mestiere. Faceva tutto da solo ed era costretto a lavorare come un mulo. Ma questo per lui era cosa trascurabile. L'importante era che io non vedessi e non imparassi. Se lui si ammalava la macchina restava ferma, non lavorava. Il mio maestro era convinto di avere chissà quali poteri, di essere l'operaio specializzato indispensabile... Solo che la Direzione se ne fregava altamente della sua assenza e della macchina che restava ferma.| << | < | > | >> |Pagina 54Il direttore d'officina era mattiniero. Non appena suonava la sirena del primo turno, alle sei, era già in giro per le navate. Fumava una sigaretta dietro l'altra. Tanto non le pagava. Alla Meccanica Varia c'erano degli operai che davano a intendere di fare anche i contadini. Questi portavano uova e bottiglie d'olio che compravano al mercato. Una volta in fabbrica, raddoppiavano il prezzo e le vendevano ai loro compagni e anche a qualche dirigente. Ognuno si arrangiava come poteva. Altri, per arrotondare, vendevano sigarette straniere e chincaglierie varie. I loro armadietti erano dei veri e propri piccoli bazar. I capi, e anche alcuni dirigenti, tolleravano questo piccolo commercio. In cambio, ottenevano sigarette e qualche spilla o collanina di filigrana d'argento da portare alla moglie.Stella Rupestre è il nome di un paesino abbarbicato sulle alture nell'entroterra della Calabria jonica. A Stella Rupestre c'è la via degli Angeli. In questa via c'è la mia casetta dove sono nato il 29 febbraio di un tempo ormai lontano. Mio nonno quella mattina aveva esclamato: «Annata bisesta o carica o resta.» Cosa avrà voluto dire non l'ho mai saputo. Stella Rupestre si trova a undici chilometri dal mar Jonio e a una trentina dal mar Tirreno. È infossato in una conca come quella di Cortina. Non ci sono però grandi montagne, solo collinette fitte di cipressi, di ulivi, di fichi d'India e di viti. Man mano che si scende verso valle, innumerevoli ginestre sembrano un mare giallo. Quando arriva maggio il paesino si illumina di luce magica e irreale. A Stella Rupestre ho vissuto fino all'età di diciassette anni. Poi, una mattina di settembre, mia madre mi disse: «È ora che tu prenda il posto che fu di tuo padre in una fabbrica di Voltri. Per quel posto lui ci ha rimesso la vita. Almeno tu ti sistemi. In questa terra bruciata, per noi non c'è futuro. A Genova ci sono tutti gli uffici degli Orfani e degli Invalidi di Guerra. Possono aiutare sia te che tua sorella.» Così decidemmo di prendere il treno a vapore e partimmo per Voltri: paesino di pescatori e di operai dell'estremo ponente di Genova. Portammo con noi anche il nonno. Mia madre, sposa-bambina, era arrivata a Genova con mio padre, Operaio alla Meccanica Varia, stabilimento di Voltri, all'inizio degli anni quaranta. Mio padre, che non ho mai conosciuto, venne catturato dai nazisti all'interno della fabbrica. Dovevano difendere non so che cosa... un valore. Così mi dissero tanti anni dopo delle persone che l'avevano conosciuto. Per difendere quel valore, lui e altri trecento ragazzi vennero portati sopra una collina, tra la provincia di Genova e quella di Alessandria, chiamata Benedicta. Lì furono crivellati a colpi di mitraglia. Finì così la sua breve vita e quella dei suoi compagni. Mi domando spesso, quando rientro a casa, stanco dal lavoro: ma cos'era quel valore? Alla Meccanica Varia mi avevano assunto come aiutante jolly. Avevo il compito di girare da un reparto all'altro, da una macchina all'altra e di essere a disposizione dei Maestri Operai. Non potevo mettere radici in nessun posto: di conseguenza, la paga e la carriera operaia non potevano avanzare. Un giorno, all'improvviso, mi avevano trasferito al reparto Siberia per fare l'aiutante al Maestro Operaio Vallarino. «Un uomo in gamba, uno che ha già fatto esperienza alla Tosi di Firenze e alla Brera. Sa lavorare su ogni tipo di macchina, per questo è riuscito a strappare un contratto extrasindacale e ha una paga fissa...» Il capo s'interruppe brevemente, scrollò più volte la testa e disse: «Quarantasei duecentodieci, cerca di comportarti bene! Non fargli perdere tempo nei piazzamenti e nelle manovre con la gru. Questo è uno che corre veloce. Sappi che oltre alla paga fissa, che è quella che è, gli hanno concesso anche un cottimo libero...» Il capofficina era eccitato e nervoso mentre mi descriveva le qualità del mio nuovo Maestro.
In quel reparto nebbioso e desolato, il frastuono era assordante dieci volte
di più rispetto alla grande torneria. I lunghi e fastidiosi stridii delle rotaie
delle gru, che andavano avanti e indietro senza sosta, s'infilavano dentro le
mie sconquassate orecchie. La macchina curva tubi faceva un martellamento
spaventoso come una mitragliatrice: ththth, tthu, tthu, tum, tum, tum, nthom,
nthom, tdthittì, tdthittì, ttì, ttì t, t. «Ohooh, ce n'è voluto per curvarti!
Era un tubo di tre pollici» mi disse soddisfatto il Maestro Vallarino. Il
capofficina, spazientito, concluse: «Quarantasei duecentodieci, il signor
Vallarino è il tuo nuovo Maestro. Da oggi in avanti sarai il suo aiutante.
L'assisterai e farai tutto quello che ti comanda. E mi raccomando: tieni ben
pulite e oliate le traverse della macchma curvatubi...»
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