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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione all'edizione italiana 11 di Gian Antonio Stella Introduzione. Bugie bianche, verità scure 16 di Jennifer Guglielmo PRIMA PARTE Imparare la linea del colore negli Stati Uniti 1. Colore: bianco / carnagione: scura 33 di Louise DeSalvo 2. «Nessuna barriera del colore» 45 Italiani, razza e potere negli Stati Uniti di Thomas A. Guglielmo 3. Razza, nazione, trattino 61 Italiani-americani e multiculturalismo americano: una prospettiva comparata di Donna R. Gabaccia 4. In equilibrio sulla linea del colore 79 Immigrati italiani nella Louisiana rurale 1880-1910 di Vincenza Scarpaci SECONDA PARTE Radicalismo e razza 5. L'italiano come «altro» 101 Neri, bianchi e «medianità» negli scontri razziali del 1895 a Spring Valley, Illinois di Caroline Waldron Merithew 6. «È una fortuna che ci siano gli stranieri qui» 122 Bianchezza e mascolinità nella creazione dell'identità sindacale italiana americana di Michael Miller Topp 7. I delitti della razza bianca 136 Il discorso razziale degli anarchici italiani come reato di Salvatore Salerno 8. Surrealista, anarchico, afrocentrico 150 Philip Lamantia prima e dopo la beat generation di Franklin Rosemont 9. In prima linea 171 L'hip-hop, la vita e la morte del razzismo di Manifest TERZA PARTE Bianchezza, violenza e crisi urbana 10. Quando Frank Sinatra venne a Italian Harlem 189 I «tumulti razziali» del 1945 alla scuola Benjamin Franklin di Gerald Meyer 11. Frank L. Rizzo e la scoperta dell'identià bianca 206 degli italiani americani di Philadelphia di Stefano Luconi 12. «Italiani contro il razzismo» 222 L'assassinio di Yusuf Hawkins (R.I.P.) e la mia marcia su Bensonhurst di Joseph Sciorra QUARTA PARTE Verso un immaginario nero italiano 13. Sangu du sangu meu 243 Crescere nera e italiana nell'epoca dell'esodo bianco di Kym Ragusa 14. Immaginare la razza 254 di Edvige Giunta 15. Giancarlo Giuseppe Alessandro Esposito 264 Vita sul confine di John Gennari 16. Italiani/africani 282 di Ronnie Mae Painter e Rosette Capotorto Postfazione. Du Bois, la razza e gli italiani americani 291 di David R. Roediger Note 297 Gli autori 369 Indice analitico 373 |
| << | < | > | >> |Pagina 17IntroduzioneBugie bianche, verità scure
di Jennifer Guglielmo
«Gli italiani sono negri con la memoria corta.» Nel 2002, alla fine di giugno, il deejay africano americano Chuck Nice, della stazione radio WAXQ-FM di New York, lasciò cadere in modo casuale questa osservazione durante una trasmissione del mattino. Nel giro di pochi giorni arrivò la risposta. L'Order of the Sons of Italy in America (OSIA), la più grande e più antica organizzazione degli italiani americani negli Stati Uniti, annunciò che era «sconcertata da una simile affermazione e dal rifiuto della stazione radio di trasmettere le proprie scuse. Sappiamo che il signor Nice è africano americano, ma non riusciamo a capire perché sia sbagliato che una persona bianca chiami un africano americano in quel modo, mentre invece non ci sia nulla da obiettare se lo stesso termine viene usato da un africano americano per descrivere i bianchi». Ciò che il portavoce dell'organizzazione considerava tanto offensivo non era l'intera frase, solo l'epiteto, cosa priva di senso dato che veniva usato da un africano americano per descrivere dei bianchi. Quello che apparentemente non venne compreso, però, era che il conduttore radiofonico stava chiamando in causa gli italiani a proposito della particolarità della loro bianchezza: gli italiani non sono sempre stati bianchi, e la perdita di questa memoria è una delle tragedie del razzismo in America. L'osservazione di Chuck Nice non è un caso isolato. Nel corso del XX secolo, molte persone di colore hanno criticato il modo in cui gli italiani americani hanno affermato e rivendicato l'identità di bianchi. W.E.B. Du Bois, Bernardo Vega, James Baldwin, Malcolm X, Ann Petry, Ana Castillo, Piri Thomas e altri scrittori e attivisti influenti hanno anche osservato i modi complessi e contraddittori in cui gli italiani hanno aderito e contravvenuto alle pratiche della supremazia bianca. In effetti, le parole di Chuck Nice riecheggiano quelle di Malcolm X, che trent'anni prima aveva ricordato agli italiani americani l'invasione dell'Italia da parte di Annibale: «Nessun italiano può saltare su e cominciare a insultarmi, perché io conosco la sua storia. Gli dico: quando parli con me, stai parlando con papà, con tuo padre. Lui conosce la sua storia e sa dove ha preso quel colore». James Baldwin si è concentrato sui modi specifici in cui gli italiani americani si relazionavano con la linea del colore nel suo quartiere, Greenwich Village, negli anni quaranta e cinquanta. Osservò, per esempio, che i proprietari italiani del ristorante locale San Remo lo buttavano fuori ogni volta che entrava, ma che lo lasciarono restare quando arrivò con il presidente della casa editrice Harper & Row. Anzi, da quel giorno in poi, né loro né la maggior parte degli italiani del quartiere lo infastidirono più. Ricordava che una sera, quando una banda di bianchi ostili l'aveva minacciato, i proprietari del San Remo avevano chiuso il locale, spento le luci e si erano seduti con lui nel retrobottega fino al momento in cui era sembrato prudente accompagnarlo a casa. «Una volta che ero dentro il San Remo» scrisse: Ero "dentro", e tutti quelli che mi davano fastidio erano "fuori": questo è tutto, ed è successo più di una volta. E nessuno sembrava ricordarsi di un tempo in cui non ero lì. Non riuscivo a farmi un'idea precisa, ma mi sembrava di non essere più nero per loro e loro avevano smesso di essere bianchi per me, perché a volte mi presentavano ai loro parenti dando tutta l'impressione di provare affetto e orgoglio e non mostravano nemmeno il più remoto interesse per quelle che potessero essere le mie inclinazioni sessuali. Mi avevano combattuto con molta forza per allontanare questo momento, ma forse eravamo tutti molto sollevati dal fatto di esserci lasciati alle spalle la vergogna del colore. Il racconto di Baldwin sul modo complesso in cui gli italiani del suo quartiere lo trattavano, in quanto scrittore africano americano gay, rende l'idea di come essi rispettassero, fino a un certo punto, la linea del colore, ma anche di come applicassero il sistema di valori della propria cultura nell'attraversarla e nel metterla in discussione. Il «prezzo del biglietto» per la piena ammissione nella società statunitense, aveva compreso Baldwin, era «diventare "bianchi"» e gli immigrati europei si trovavano davanti a questa «scelta morale» non appena arrivati. Gli Stati Uniti che gli immigrati italiani conobbero erano una nazione fondata su un processo di colonizzazione, espropriazione e schiavitù e pertanto percorsa da profonde fratture causate da gerarchie di disuguaglianza basate sulla razza. Ancora oggi, il persistere della privazione dei diritti civili, della segregazione, della ghettizzazione, del profiling e di altre forme di razzismo strutturale continua a ribadire i sostanziali benefici della bianchezza. Democrazia, libertà e altri ideali che gli americani considerano sacri non sono un dato di fatto ma il risultato di una lotta condotta dal basso, spesso da quelli maggiormente esclusi. Praticamente tutti gli immigrati italiani sono arrivati negli Stati Uniti senza essere consapevoli dell'esistenza della linea del colore. Ma impararono in fretta che essere bianchi significava riuscire a evitare molte forme di violenza e di umiliazione, assicurarsi, tra gli altri privilegi, l'accesso preferenziale alla cittadinanza, al diritto di proprietà, a un'occupazione soddisfacente, a un salario con cui si poteva vivere, ad abitazioni decorose, al potere politico, allo status sociale e a un'istruzione di buon livello. «Bianco» era sia la categoria nella quale erano più frequentemente collocati, sia una consapevolezza che adottarono e respinsero allo stesso tempo. Lo storico David Roediger ha osservato che Baldwin fu uno dei molti scrittori africani americani ad analizzare in modo articolato come la condivisione della menzogna della supremazia bianca abbia «contribuito a derubare della loro vitalità le comunità degli immigrati irlandesi, italiani, ebrei, polacchi e altri ancora», poiché richiedeva la disperata speranza che valesse la pena condividere tutta la paura, l'esclusione, l'odio, la violenza e il terrore sui quali si basava la bianchezza. Come ha indicato Chuck Nice, richiedeva che gli italiani distorcessero le loro storie per condannare e rinnegare quelle parti di loro stessi che più assomigliavano all'«altro» scuro. «L'America è diventata bianca» ha affermato Baldwin «a causa della necessità di negare la presenza nera e di giustificare la sottomissione nera. Nessuna comunità può basarsi su un simile principio – o, in altre parole, nessuna comunità può essere fondata su una menzogna così genocida.» Il prezzo d'ingresso era imparare a demonizzare e a rifiutare, «e nell'umiliare e diffamare il popolo nero, essi hanno umiliato e diffamato se stessi». L'analisi articolata e incisiva della bianchezza da parte delle persone di colore ha molto da insegnare sui costi di un tale sistema distruttivo per tutta l'umanità. Ma, come ha scritto la poetessa e attivista Audre Lorde, insegnare ai bianchi i loro errori non è responsabilità delle persone di colore. Al contrario, è responsabilità di ciascuno creare una società in cui tutti possiamo prosperare. Il cambiamento rivoluzionario, come ha indicato molto eloquentemente Lorde, «non è mai costituito soltanto dalle situazioni di oppressione da cui cerchiamo di fuggire, ma da quel pezzo dell'oppressore che è profondamente radicato dentro ciascuno di noi». È fondamentale che ognuno di noi scavi in se stesso per «toccare con mano il terrore e l'odio di qualsiasi differenza che lo abita. Per vedere che faccia ha». Il libro è nato con questo scopo — scavare nelle nostre vite e nelle nostre storie per esaminare in modo critico come gli italiani hanno costruito la razza in America. Con questo lavoro tentiamo di rispondere a una domanda posta, tra gli altri, dalla critica culturale bell hooks: in quale modo la razza è collegata alle pratiche materiali e culturali che rafforzano e perpetuano il razzismo? I saggi di questo volume rispondono alla domanda mettendo in evidenza come questo specifico gruppo di immigrati europei e i loro discendenti hanno imparato, riprodotto e a volte messo in discussione la supremazia dei bianchi, in modi che sono radicati in una particolare storia della migrazione, dell'insediamento e dell'incorporazione negli Stati Uniti. Dato che la maggior parte di essi è rimasta povera e proletaria più a lungo della maggior parte degli altri immigrati europei, gli italiani hanno spesso vissuto nei quartieri operai della nazione, fra le persone di colore. Come incisivamente documentato dallo storico Robert Orsi, questa prossimità – in termini di classe, colore e geografia – ha dato agli italiani una particolare ansia di affermare un'identità bianca, per prendere le distanze concretamente dai loro vicini neri e bruni e per ricevere i cospicui benefici associati all'essere bianchi. La ricerca del sociologo Jonathan Rieder sugli anni settanta e ottanta del Novecento a Canarsie, Brooklyn, ha dimostrato che gli italiani hanno spesso preso le distanze attraverso un resoconto moralista delle lotte affrontate negli Stati Uniti. Il risultato è che povertà, disoccupazione, omicidio e altri problemi socioeconomici vengono addebitati alla presunta natura deficitaria degli africani americani, dei portoricani e delle altre popolazioni di colore, anziché essere imputati alle istituzioni politiche e ai metodi di produzione economica che preservano il potere dell'alta borghesia bianca. Questo atteggiamento di condanna e demonizzazione verso coloro che hanno uno status politico ed economico relativamente basso, sostiene Rieder, «danneggia l'ordine sociale superiore, dividendo cittadini che sarebbero dipendenti l'uno dall'altro, senza plasmare alcuna concezione del bene pubblico». L'etnografia degli italiani americani di San Francisco durante gli anni settanta del Novecento, curata dall'antropologa Micaela di Leonardo, ha confermato molte delle scoperte di Rieder. Inoltre, studiosi come Alexander Saxton, Robin D.G. Kelley, Tera Hunter, Dana Frank, George Lipsitz, Dolores Janiewski e litri hanno anche dimostrato che, sebbene abbia svolto una funzione di enorme sussidio per i bianchi della classe operaia, la bianchezza ha anche fortemente limitato la loro capacità di smantellare in modo efficace i sistemi di disuguaglianza che mettono in pericolo le loro stesse vite.
Gli italiani americani si sono sempre comportati così? I saggi contenuti in
questa raccolta delineano una storia molto complessa di collaborazione,
intimità, ostilità e presa di distanze tra gli italiani americani
e le persone di colore, nonché l'importanza tanto della scelta quanto
della coercizione, come sostenuto da Baldwin, nella crescita in loro di una
«consapevolezza bianca». Attualmente, gli italiani americani incarnano
l'immagine del conservatorismo della destra popolare dei «bianchi etnici». I
saggi qui contenuti spiegano come e perché tale identità abbia avuto la forza di
mobilitare così tante persone e individuano le sue profonde radici nel disperato
desiderio degli italiani di sfuggire all'oppressione di classe e di razza negli
Stati Uniti. Dimostrano anche che non era affatto inevitabile maturare questa
identità. Nel corso del XX secolo, gli italiani americani hanno elaborato una
cultura di opposizione creativa, visionaria e capace di farsi sentire, per
contestare la bianchezza e costruire alleanze con le persone di colore. Nel
delineare tale storia, questa raccolta ci insegna quanta forza abbiamo, come
individui, per reagire all'oppressione in tutte le sue forme.
Il libro ha preso forma negli anni, nel corso di conversazioni settimanali tra Salvatore Salerno e me. Tutto cominciò con il nostro incontro, sette anni fa, a Minneapolis. Ero lì per un dottorato in storia, mentre Sal insegnava sociologia all'università locale e le nostre strade si incrociavano spesso. Essendo tra i pochi italiani americani che studiavano le storie del radicalismo italiano, dell'attivismo sindacale e di altre forme di cultura politica degli immigrati, in un luogo che sembrava così distante da quei mondi, ci siamo trovati naturalmente a gravitare uno verso l'altra. La razza era sempre al centro delle nostre conversazioni e presto ci accorgemmo di condividere lo stesso interesse nel mettere in discussione la bianchezza degli italiani americani. Tuttavia, le nostre origini erano molto distanti. Sal era cresciuto in una delle poche famiglie di immigrati siciliani nella East Los Angeles operaia, durante gli anni cinquanta e sessanta, e spesso lo prendevano per latino, a causa della carnagione scura. Io, invece, figlia dalla pelle chiara di famiglie operaie, irlandese e italiana, ero cresciuta poco a nord del Bronx, in un quartiere residenziale abitato prevalentemente da famiglie borghesi italiane, irlandesi ed ebree durante gli anni settanta e ottanta. Ci univa una storia di attivismo di base progressista e le esperienze mortificanti ed esaltanti di partecipazione a diversi movimenti — che si trattasse di combattere il razzismo a livello locale nelle attività commerciali e nelle scuole, opporsi alla brutalita della polizia, difendere i diritti degli immigrati o battersi per maggiori diritti delle donne sulla riproduzione — ci avevano insegnato che la solidarietà politica è il frutto di un impegno comune a porre fine a tutti i sistemi di oppressione. Per questo c'era bisogno di affrontare i nostri assunti riguardo alla razza, al genere, alla sessualità, alla classe e ad altri sistemi che creano divisioni. Tutti e due eravamo cresciuti ascoltando frasi tipo: «per gli americani eravamo soltanto una massa di mangiaspaghetti» e «ma perché questi immigrati non si integrano come abbiamo fatto noi?». Moralismo e riprovazione erano il modo con cui gli italiani intorno a noi si distinguevano costantemente dalle persone di colore. La memoria collettiva dell'oppressione, apparentemente, veniva di rado utilizzata per combattere il razzismo, sfidare l'ineguaglianza del sistema. Per noi era chiaro che avevamo un disperato bisogno di ricordare che noi siamo bianchi, che la nostra bianchezza ci ha garantito l'accesso a un sistema esclusivo di vantaggi non conquistati, non riconosciuti e, spesso, invisibili di cui non hanno goduto africani americani, latinos, asiatici e altre persone di colore. Le nostre conversazioni ci hanno rivelato i molti modi in cui colore, classe, genere, regione, generazione e molti altri fattori sono di fondamentale importanza nel determinare come gli italiani sentono e vivono la razza in America e ci hanno spinti a dedicarci alla creazione di un forum più vasto per la discussione e l'azione collettive. Ci siamo impegnati nel progetto di curare questa antologia dopo aver appreso che Leonard Clark, un tredicenne africano americano, era stato picchiato quasi a morte nel quartiere operaio di Bridgeport, a Chicago, nel 1997. Gli aggressori avevano cognomi italiani, spagnoli e polacchi. Indignati e profondamente rattristati, abbiamo deciso di diffondere un messaggio sull'area discussioni della American Italian Historical Association, per esprimere il nostro desiderio di intraprendere un qualche genere di azione. Dopo avere informato i membri dell'aggressione, abbiamo posto la domanda: «Cosa abbiamo intenzione di fare per combattere il razzismo all'interno della nostra comunità?». Da mesi sembrava che lo spazio degli interventi fosse stato dominato dalle discussioni sulla diffamazione degli italiani sui mass media, che proponevano ritratti di mafiosi e festeggiamenti tradizionali del Natale italiano. Volevamo intervenire per stimolare il confronto sul ruolo che gli italiani americani devono svolgere per stroncare la violenza razzista. Rimanemmo turbati dagli interventi che vennero proposti. A fronte di un elenco di quasi cinquecento iscritti, soltanto tre risposero. Ci fu chiaro che come comunità non disponevamo del linguaggio o dello spazio con cui affrontare pienamente questi problemi e che quero costituiva una necessità immediata. A distanza di pochi anni l'una dall'altra, sembrava che si dovessero ripresentare storie di italiani-americani che picchiavano e/o assassinavano una persona di colore. Nel 1986 avevo finito la scuola superiore soltanto da un anno quando Michael Griffith, un ventitreenne africano americano, venne picchiato e inseguito da un gruppo di adolescenti maschi bianchi (due dei quali italiani americani) e poi ucciso da un'automobile sulla Belt Parkway, nel quartiere prevalentemente italiano americano di Howard Beach nel Queens a New York. Tre anni dopo, nel quartiere italiano americano di Bensonhurst, a Brooklyn, trenta giovani in maggioranza italiani americani aggredirono brutalmente e uccisero Yusuf Hawkins, un giovane africano americano che si era avventurato nel quartiere insieme ad alcuni amici per andare a comprare un'auto usata. In entrambi i casi, i membri della comunità italiana americana giustificarono la violenza con un coro di «Innanzitutto, che ci facevano da queste parti?». A Howard Beach, per esempio, Michelle Napolitano disse ai cronisti: «Questo è un quartiere esclusivamente bianco. Quelli [le vittime] devono essere venuti in cerca di guai». Oggettificando tutti gli africani americani e proiettando su di essi lo stigma della criminalità, gli italiani americani del posto non solo legittimavano la violenza razzista, ma prendevano anche le distanze dal reato concentrandosi sulle proprie paure. Dopo l'uccisione di Hawkins e di Griffith, alcuni italiani americani espressero individualmente la loro indignazione, ma quasi nessuno si organizzò per protestare contro la violenza. Il saggio di Joseph Sciorra contenuto in questa raccolta documenta la marcia «a due» condotta dall'autore e da Stephanie Romeo, nativa di Bensonhurst, a fianco dei dimostranti africani americani nel 1989. La loro azione, come scrive l'autore, si scontrò con l'odio feroce della folla di spettatori italiani americani che urlavano insulti razzisti ai dimostranti africani americani e stigmatizzavano i traditori della razza. La scena venne immortalata dai media, che catalogarono gli italiani americani della classe operaia come i più razzisti fra i bianchi. Alcune organizzazioni di italiani americani reagirono, ma lo fecero attraverso articoli di giornale difensivi, che spostavano la discussione dal razzismo degli italiani americani alla diffamazione mediatica degli italiani tramite la rappresentazione della criminalità. La preoccupazione immediata per l'opera di diffamazione non metteva in evidenza come l'attenzione dei media verso il razzismo «incivile» degli operai bianchi rendeva di fatto invisibili le strutture di razzismo e supremazia bianca su vasta scala che davano origine e sostegno a tali atti violenti. Al contrario, imponeva un silenzio pubblico collettivo sul ruolo degli italiani nella gerarchia razziale degli Stati Uniti, e la retorica della vittimizzazione degli italiani americani prese il posto del dialogo e degli interventi antirazzisti critici. Le tragedie di Chicago, Bensonhurst e Howard Beach e, più di recente, la tortura di Abner Louima da parte di Justin Volpe, nel 1997, così come molti altri episodi spaventosi tra cui le innumerevoli azioni di polarizzazione dell'ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, il ruolo dell'ex sindaco di Philadelphia Frank Rizzo nel terrorizzare gli attivisti impegnati per i diritti civili (come documentato da Stefano Luconi nel saggio qui pubblicato) le croci bruciate dal Ku Klux Klan a Long Island, sotto la guida di Frank DeStefano, autoproclamatosi gran dragone degli American Knights, ci obbligano a fare i conti con la capacità degli italiani americani di rappresentare la bianchezza, malgrado siano stati oggetto di denigrazione razziale. Durante le nostre conversazioni settimanali, Sal e io ci appoggiavamo alle solide critiche della bianchezza formulate da scrittori/attivisti di colore, come Frederick Douglass, Harriet Jacobs, Alce Nero, Ida B. Wells, Américo Paredes, Haile Selassie, Langston Hughes, Jesús Colón, Assata Shakur, Angela Davis, Mary Brave Bird, Bob Marley, Public Enemy e molti altri, per aiutarci a chiarire quali consuetudini sociali, privilegi materiali e decisioni morali abbiano portato alla violenza e al terrore bianchi. Abbiamo anche preso in considerazione l'ampio corpus critico che si è sviluppato a partire da questa letteratura, a opera di Toni Morrison, Cherrie Moraga, Cheryl Harris, Patricia Williams, George Lipsitz, David Roediger, Ronald Takaki, Noel Ignatiev, Ian Haney Lopez, Matthew Jacobson, Tomàs Almaguer, Grace Elizabeth Hale, Arnoldo De León, Michael Rogin, Karen Brodkin e molti altri, per aiutarci a capire in quale modo l'identità bianca sia stata appresa, vissuta e perpetuata nel corso del tempo. Speriamo che questa raccolta possa arricchire tale opera di critica sull'argomento e che ci aiuti a capire meglio il ruolo svolto dagli immigrati e dai loro discendenti nel creare la razza, cioè nel mettere in discussione e nell'avallare il sistema razziale degli Stati Uniti. | << | < | > | >> |Pagina 33Colore: bianco/carnagione: scura
di Louise DeSalvo
Un giornalista al capo cantiere, circa 1890: «Un italiano è un uomo bianco?». Il capo cantiere: «Nossignore, un italiano è un Dago». Mio padre telefona per dirmi che sta riordinando le sue carte. Ha trovato dei documenti, dice, che potrei volere, visto che da un po' di tempo mostro interesse per i miei nonni italiani immigrati. Chiedo di che si tratta. «Oh, documenti di naturalizzazione, visti, certificati di nascita e di morte» dice «niente d'importante.» Gli dico di portarmeli subito, perché per me sono importanti. So che se non me li faccio consegnare immediatamente potrebbero finire nella spazzatura, come altri ricordi di famiglia dopo il secondo matrimonio di mio padre, dato che lui ama sbarazzarsi di quelli che considera detriti della sua vita precedente. Mio padre vive nel presente, più di chiunque altro io conosca, e considera il suo passato un peso, un ostacolo ormai superato, senza alcun legame con ciò che ha scelto di diventare: un americano. Avere vissuto in Italia, in un paese vicino a Sorrento; appartenere alla cultura dell'Italia meridionale; essere cresciuto in povertà nella contea di Hudson, in New Jersey; essere stato deriso da ragazzo perché era magro, basso e italiano; essere stato attaccato ferocemente da un superiore in Marina, durante la Seconda guerra mondiale, per le stesse ragioni; tutto questo per mio padre è insignificante. E così, negli anni quaranta e cinquanta, non sono cresciuta come gli altri, ascoltando le storie sulla «vita nel nostro vecchio paese», consapevole di appartenere a una famiglia da poco arrivata negli Stati Uniti. Il modo in cui mio padre (e anche mia madre) si relazionavano con il loro patrimonio culturale era non parlarne. E non parlavano nemmeno della razza o dell'appartenenza etnica di nessun altro. Non usavano etichette etniche o razziali parlando di questioni mondiali o nazionali, p dei nostri conoscenti. E ogniqualvolta dicevo che un amico era questo o quell'altro (perché alle superiori avevo cominciato a pensare in termini di categorie etniche e razziali, ascoltando le amiche decidere con chi potevano o non potevano uscire), i miei genitori facevano spallucce e dicevano «e allora? dentro siamo tutti uguali» oppure «l'abito non fa il monaco». Era il loro modo di dire che quando conosci la razza o l'etnia di una persona, non sai ancora niente di lei. Così l'ascendenza di chiunque sembrava priva d'importanza ai miei genitori, che pure s'interessavano molto alla storia. Ma questo era il loro modo di capire ciò che sembrava incomprensibile: per esempio, perché esisteva il pregiudizio; perché le persone venivano perseguitate; perché c'erano le guerre. Mio padre ha ottantasei anni e temo che tutto quello che sa sui miei nonni morirà con lui. Il mio sessantesimo compleanno si avvicina e voglio fargli tirare fuori tutte le storie che sa su di loro, perché mi nutrano e mi sostengano in questa fase della vita. Le voglio anche per poterle raccontare ai miei nipoti, così che i nostri antenati – le persone, le loro vite, il nostro passato – non vengano dimenticati. Perché possano imparare, più presto di quanto non abbia fatto io, chi furono queste persone. Che mio padre fosse un italiano del Sud è una cosa che ho appreso solo di recente. Eppure, è sempre stato molto interessato alla cultura italiana: l'opera e i capolavori di Michelangelo o di Leonardo da Vinci. Di queste cose mi parlava, non dell'Italia flagellata dalla povertà, che i suoi genitori e quelli di sua moglie avevano abbandonato in circostanze disperate. Un'Italia di cui io stessa ho appreso l'esistenza dopo i cinquant'anni. E non da mio padre. Il mio interesse per i nonni e per come loro, e gli altri immigrati italiani, erano visti e trattati al loro arrivo negli Stati Uniti è recente e urgente. Negli anni quaranta e cinquanta, negli Stati Uniti, alcuni italiani americani, come i miei genitori, hanno sepolto il passato, cercando di integrarsi. In parte, era per via della guerra; ma era anche l'etica del tempo: le differenze razziali ed etniche non erano apprezzate ma, piuttosto, condannate e messe in ridicolo. E c'era sempre (e c'è ancora) negli Stati Uniti un silenzio molto singolare sulla diaspora italiana e sulle ingiustizie inflitte agli italiani americani. Non sapevo nulla delle vite dei miei nonni in Italia. Di certo non sapevo nulla degli orribili maltrattamenti, dello sfruttamento, della fame imposta ai contadini e ai braccianti del Mezzogiorno, che oggi appaiono come una forma di «pulizia etnica». Quello che ho appreso dopo i cinquant'anni su quella storia, leggendo opere come Blood of My Blood: The Dilemma of Italian Americans, di Richard Gambino, le loro vite appena dopo l'arrivo negli Stati Uniti, il modo in cui venivano trattati perché erano italiani (i poliziotti che invadevano il quartiere italiano di Hoboken, in New Jersey; Sacco e Vanzetti condannati malgrado le prove della loro innocenza; gli italiani americani linciati negli stati del Sud e incarcerati durante la Seconda guerra mondiale): tutto questo è stato doloroso. Da bambina sapevo ben poco: che nessuno di loro parlava inglese; che loro vivevano (come noi) in un quartiere proletario italiano finché non ci trasferimmo in una zona residenziale quando avevo sette anni; che preparavano cibi che non mi sono piaciuti finché non sono diventata più grande; che mio nonno lavorava alle ferrovie; che mia nonna era la custode del nostro palazzo. Come dire che non sapevo quasi niente. Più avanti ho appreso che gli italiani che lavoravano alle ferrovie guadagnavano meno dei «bianchi» per il loro lavoro; che dormivano in carri merci luridi e infestati da parassiti; che si negava loro l'acqua ma non il vino (che li rendeva più trattabili) e che di certo questa cosa ha abbreviato la vita di mio nonno. Ho appreso che la mia nonna paterna lavorava per un salario da fame in una fabbrica tessile, dove portava mio padre quando era piccolo, nascondendolo sotto la macchina per cucire perché non aveva nessuno a cui lasciarlo. Quando il padrone lo scoprì, mio padre fu messo a lavorare: aveva quattro o cinque anni. Mio padre, come i suoi genitori prima di lui, non è incline a parlare di come veniva trattato perché la sua famiglia era italiana. Penso che sia perché lui è, e loro erano, prodotto di una cultura contadina: orgogliosi, remissivi, fatalisti. Siccome erano orgogliosi facevano quello che c'era da fare e ritenevano le parole uno spreco di tempo e d'energia, e a loro non piaceva ammettere di essere maltrattati anche se lo erano: quando ne parlavano, chiamavano quello che avveniva la miseria, come se la loro condizione fosse qualcosa che era capitato, anziché qualcosa che qualcuno aveva fatto loro. Siccome accettavano tutte le circostanze che si verificavano, non consideravano anormali lo sfruttamento o l'abuso. E siccome erano fatalisti, credevano che il pregiudizio contro di loro fosse nell'ordine delle cose. Perciò non si lamentavano. E dal momento che la lamentazione è essenziale all'esistenza di una storia orale e invece loro non esternavano le loro lagnanze, ma piuttosto le seppellivano, non ho quasi nessuna storia da raccontare su questi nonni; niente che sia arrivato fino a me su come i miei nonni e i loro genitori vivevano in Italia o quando sono arrivati negli Stati Uniti; niente su come furono trattati o sulle difficoltà che incontrarono. Poiché, a differenza di altri emigranti, queste persone erano spesso analfabete, hanno lasciato ben pochi documenti attraverso cui si possa scrivere la loro storia. E i loro nipoti stanno appena iniziando a farlo. Ma il silenzio è anche culturale: raccontare che sei stato maltrattato e ritenerlo un fatto significativo richiede la capacità di immaginare un mondo in cui le persone siano trattate in modo umano (o dovrebbero esserlo). Sembra che i miei nonni non riuscissero a immaginare un mondo del genere. Ma i miei genitori (soprattutto mia madre) sì. Così adesso tocca a me tirare fuori quello che riesco dal pochissimo che ho. E i documenti che mio padre mi consegna sono di incommensurabile aiuto. | << | < | > | >> |Pagina 136I delitti della razza biancaIl discorso razziale degli anarchici italiani come reato
di Salvatore Salerno
Nell'ampia e sofisticata letteratura sulla consapevolezza etnica e sull'americanizzazione tra gli immigrati europei, ben poco emerge di quanto gli italiani pensassero a proposito della razza, o della percezione che avevano di sé e dei propri interessi in quanto bianchi. Quanto è noto sul periodo tra il 1880 e il 1920 è in larga misura aneddotico. Nel suo lavoro sugli italiani e l'identità razziale, Robert Orsi ha fatto ricorso al folclore come strumento per presentare la complessità dell'esperienza della razza per gli immigrati italiani in America. La storia raccontata è la seguente: Sembra che tutti i figli e i nipoti degli immigrati italiani negli Stati Uniti conoscano la storia, che sostengono sia vera, del nuovo immigrato appena sceso dalla bagnarola che cammina per le strade di New York (o Boston, o Chicago, o St. Louis) e vede un nero. Il povero pivello rimane a bocca aperta. Non ha mai visto prima una persona nera. Che cos'è? Inciampando per non restare indietro, affretta il passo e cammina a fianco del nero, fissando costernato e incredulo quello strano spettacolo. Ma cosa può mai essere? Si chiede il pivello. Alla fine non resiste più. Si avvicina di corsa allo sconosciuto che sussulta, gli afferra il braccio e comincia a strofinare furiosamente la pelle per vedere se il colore nero viene via. Orsi mette poi a confronto l'esperienza dell'immigrato italiano privo di consapevolezza con quella dei cinque negozianti siciliani linciati nel 1899 a Tallulah, in Louisiana, per avere violato le leggi non scritte dell'interazione razziale nel Sud. Le due storie ritraggono gli immigrati italiani come inconsapevoli della differenza razziale o ignari della gerarchia razziale americana. La mancanza di consapevolezza razziale, tuttavia, non spiega la reazione violenta dei bianchi di Tallulah nei confronti degli immigrati. Questo saggio esamina la presunta mancanza di un discorso sulla razza tra gli immigrati italiani. La storia degli immigrati italiani di sinistra in America e, in modo particolare, quella delle frange anarchiche del movimento, mette in discussione tale prospettiva. La prima e la seconda generazione degli immigrati italiani radicali elaborarono un discorso profondamente critico nei confronti della gerarchia razziale americana, tanto da essere considerato reato dal Dipartimento di Giustizia. Questo saggio contribuisce a recuperare tale discorso per affermare che l'attivismo degli immigrati anarchici italiani problematizza la nostra comprensione del processo di razzializzazione nel periodo tra il 1880 e il 1920. In tale periodo le autorità federali si basarono sulle proprie paure razziste per formulare la legge sull'immigrazione, che creò una nuova classe di criminali per giustificare lo sviluppo di un sistema di sorveglianza delle pratiche di opposizione politica. Ho cominciato ad analizzare il movimento anarchico italiano a Paterson, New Jersey, attraverso i giornali pubblicati da uno dei più popolari gruppi di immigrati anarchici italiani nell'area metropolitana di New York, il gruppo L'Era Nuova, che nel primo quarto del XX secolo fece di Paterson uno dei punti chiave del movimento anarchico internazionale. Il gruppo fu di grande aiuto nel portare il sindacalismo a «Silk City» (la principale industria di Paterson era la manifattura della seta) e fu tra le prime sezioni locali di lingua straniera a unirsi all'IWW (Industrial Workers of the World). Malgrado la sua importanza per la comunità anarchica internazionale e per la storia dei lavoratori in America, esistono poche informazioni sul gruppo e sui suoi membri? All'inizio della ricerca ho individuato uno studio di Sophie Elwood che motivava in parte questa mancanza di informazioni. Elwood esaminava la comunità anarchica italiana di Paterson attraverso la storia orale, scoprendo che i discendenti del movimento e i membri della comunità non ricordavano gli attivisti del gruppo come anarchici. «Mi è sembrato interessante» scriveva Elwood, che «nelle interviste condotte, tutti quelli che all'inizio del Novecento erano bambini o adolescenti nella zona di Paterson oggi descrivano quasi sempre i padri e le madri come socialisti. Nessuno e stato ritratto come anarchico». [...] Passando in rassegna la stampa radicale italiana, Rudolph J. Vecoli ha rilevato che i socialisti italiani, a differenza di altri gruppi marxisti, non hanno mancato di protestare per le ingiustizie contro i neri. Al contrario, i socialisti italiani analizzarono le cause del razzismo e tentarono di incorporare un'analisi della razza nella loro critica del capitalismo. Comunque, la stampa socialista italiana anteponeva la classe alla razza. Uno dei pochi articoli apparsi sul giornale socialista di lingua italiana Il Proletario riassumeva la prospettiva della Federazione socialista italiana negli Stati Uniti. In «Non una questione di razza, ma una questione di classe», lo scrittore indicava il modo riprovevole in cui il razzismo veniva praticato nella società americana: Di che razza credono di essere, questi bianchi arroganti? Da dove pensano di arrivare? I neri almeno sono una razza, ma gli americani bianchi [...] quanti di loro sono bastardi? Quanti miscugli ci sono nel loro sangue puro? Quante delle loro donne chiedono baci ai forti e vigorosi schiavi neri? Allo stesso modo l'uomo bianco vuole il piacere ardente che gli possono dare le donne nere, con le labbra carnose e i movimenti sinuosi del corpo. Ma i cavalieri bianchi non si interessano all'onore e alla decenza della donna nera, che usano e di cui abusano a loro piacere. Per loro, l'odio razziale è un dovere nazionale. Nel brano in questione, lo scrittore tralascia di analizzare il concetto stesso di razza o di problematizzare gli stereotipi sessuali associati alla razza. Al contrario, l'articolo si conclude facendo ricadere la razza all'interno della classe. «I produttori si devono unire contro gli sfruttatori del loro prodotto. Non è una lotta di razza, ma di classe.» Vecoli prosegue citando Luigi Galleani che «si beffava del moralismo degli americani, che esprimevano indignazione per la persecuzione degli ebrei in Russia, mentre "ai neri negavano lavoro nelle fabbriche, giustizia nei tribunali, protezione nelle leggi e compassione nei cuori"». Mentre negli altri giornali della sinistra italiana gli articoli sul tema sono occasionali, la stampa anarchica di Paterson racchiude la critica più sostenuta e dettagliata della razza negli Stati Uniti. Questa è una delle ragioni principali per cui gli anarchici divennero un bersaglio durante il periodo della Paura Rossa tra la fine degli anni dieci e l'inizio degli anni venti del secolo scorso. L'assenza del discorso critico dei resoconti dell'esperienza italiana americana fu il risultato di una campagna orchestrata con cura dal governo federale statunitense. È forse l'ironia finale che questa storia non sia andata interamente perduta in conseguenza del lavoro degli agenti federali e della loro squadra degli esperti linguistici. Gli italiani che sfidavano la linea del colore dovevano affrontare non solo il furore del governo federale, ma anche quello dei vigilantes bianchi (che spesso includevano anche capi politici e religiosi). Gli immigrati italiani furono linciati dai bianchi in Louisiana, Mississippi, West Virginia, Florida e in alcune città minerarie dell'Ovest, per presunti reati tra cui la violazione dei codici razziali locali. Nell'estate del 2001 mi sono recato in un paese vicino a New Orleans per intervistare la zia di un amico su un linciaggio di italiani, lì avvenuto negli anni venti. «Se gliene parlo mi uccidono», è stata la prima cosa che mi ha detto quando il nipote le ha chiesto di raccontarmi la storia. «Sei sicuro di essere italiano?» continuava a chiedere. Alla fine, dopo molte rassicurazioni, mi ha raccontato la storia. Erano sei, disse, uno era appena un ragazzo. Secondo la sua versione, uno di loro si era opposto al Ku Klux Klan e, in cambio, tutto il gruppo era stato accusato di un reato inesistente. Gli uomini erano stati processati due volte; alla fine li avevano impiccati tutti in una prigione costruita appositamente per le esecuzioni. La zia del mio amico e altri membri della comunità africana americana lo consideravano un linciaggio. Il mio amico poi mi ha accompagnato a un negozio di alimentari poco più avanti, di proprietà di italiani americani. La clientela era africana americana, perché il proprietario era stato scacciato da New Orleans proprio a causa delle solide relazioni commerciali con la comunità africana americana. Purtroppo, il proprietario non aveva molto tempo per le domande stringenti di uno sconosciuto arrivato dal Nord. Fui accolto dallo stesso silenzio che aveva incontrato Elwood nella sua ricerca di fonti orali tra i discendenti degli anarchici a Paterson. Sapevo che ci sarebbero voluti anni per districare una storia di quel tipo. Le storie dei linciaggi e la repressione contro la sinistra non sono accomunate soltanto dal rifiuto degli immigrati italiani di considerare nemici gli africani americani, ma anche dalle pesanti conseguenze del loro tentativo di unire le forze. Una simile trasgressione costituiva una sfida al nucleo fondamentale della supremazia bianca, e fu il motivo per cui i militanti vennero attaccati, assassinati, ridotti al silenzio. | << | < | > | >> |Pagina 171In prima lineaL'hip-hop, la vita e la morte del razzismo
di Manifest
Ho trovato il mio mezzo di espressione e riconosciuto la mia vocazione nel momento stesso in cui ho sentito una base e ho cominciato a fare rime. Rispettato, innalzato, maestro del riff, non esito a migrare per manifestare il dono che mi ha benedetto [...] rivelato alla nascita, portato sulla terra, venuto dalla fonte, lo Spirito: l'unica forza dell'universo. Primogenito, ho subito cominciato a rimare, spezzare il ritmo, forzare i cancelli ai concerti [...] fede completa nella creatività, pratico l'umiltà, MC autentico all'ennesima potenza. Il seguito è un'odissea, che mi ha catapultato dai tranquilli sobborghi ai ghetti più violenti, dalla paura del palco alla forza del palco, con il microfono e la base. Sono nato a Elmhurst, nel Queens, nel 1970, lo stesso giorno in cui l'anima di Jimi Hendrix saliva in cielo. Mio padre, il maggiore di undici figli, era cresciuto in una enorme famiglia proletaria italiana a Corona, nel Queens. Era un giovane intellettuale intraprendente, libero e brillante, che lasciò presto l'enclave alla ricerca di grandi spazi aperti. Mia madre veniva da una grande famiglia operaia irlandese di Flatbush, a Brooklyn, e si unì a lui per affrontare l'impresa di crescere dei figli. Terzo e ultimo figlio, sono cresciuto poche miglia a nord del Bronx, leggendaria culla dell'hip-hop, molto lontano dalla povertà che si erano lasciati alle spalle.
A quei tempi il mio quartiere era un miscuglio omogeneo di operai e
impiegati, ma non c'era molta gente di colore. Ai nostri vicini sembravamo una
normale famiglia bianca appena approdata alla borghesia dei sobborghi. In realtà
eravamo qualcosa di molto diverso. All'inizio del 1973, nello stesso momento in
cui i quattro elementi dell'hip-hop – DJing, MCing, breakdance e graffiti – si
cristallizzavano in una cultura, mia madre, ventottenne, tornava al creatore
dopo una battaglia lunga un anno contro il cancro. Avevo due anni e mezzo e ne
fui sconvolto. Così come il resto della famiglia. Precipitammo in una spirale di
dolore lancinante, depressione, senso di colpa, confusione e abbandono. La
nostra casa si riempì di un dolore scuro e profondo.
Back at home, it was all wrong Sad song after Mom died It was like the love was all gone / Oh no! Two years old, low blow With my bro and my sis, had to roll with the sitch / And my Pop gone mad Took the wrong turn, got burned real bad, make ya hate Dad / On the surface, nervous, I deserve this Hurt, this dirt, this worthless purpose / Heard this voice say, «join Mommy, desert this Earth» On my third birthday / Ognuno di noi fece quello che poteva per adattarsi, mentre mio padre si sbatteva per tenere insieme i pezzi, lavorando a tempo pieno e prendendosi cura di noi da solo. Avevamo disperatamente bisogno d'aiuto, e tutti i fine settimana ci rifugiavamo a Flushing nella casa dei nonni paterni, che a loro volta erano figli di immigrati da Napoli e dalla Basilicata. Era una casa ancora piena di ragazzi, e diventò la nostra seconda casa, un approdo sicuro al riparo dalla tempesta. Ogni domenica, l'intero gruppo di paisà rumorosi si ritrovava per pranzi squisiti, festeggiamenti gioiosi, discussioni accese e divertimenti. L'incredibile quantità d'amore che si riversava su di noi rinnovava la nostra fiducia e ci ritemprava per la settimana seguente. È stato nella casa dei nonni, nel corso di quei raduni settimanali pieni di magia e di mistero, annebbiati dal fumo delle sigarette, in mezzo a cugini di primo, secondo e terzo grado, zie, prozie, zii, fidanzate degli zii, fidanzati, generi, cognati e suoceri, vicini, preti di quartiere, viaggiatori stanchi, vagabondi e truffatori, che sono diventato più consapevole della «razza» e del razzismo.
Siamo una combriccola complicata, passionale, spesso irascibile, e a
volte riusciamo a essere d'accordo solo su una cosa: essere in disaccordo.
Prima, durante e dopo cena, un evento lungo un giorno intero,
grandi e piccole discussioni infuriavano su miriadi di questioni. Tra gli
argomenti più gettonati: cibo, moda, conoscenti, cinema, sport, politica locale
e nazionale. A livello locale, le preoccupazioni erano incentrate sul
«quartiere» e il suo mutamento razziale ed etnico, chi stava «prendendo il
sopravvento» e se la zona si stava «rovinando» o no per questo. Una delle
lamentele più frequenti era che gli immigrati più recenti «non parlano neanche
inglese», dimenticando opportunamente che mio bisnonno Giuseppe, emigrato in
America nel 1890, aveva vissuto a New York più di ottant'anni rifiutando
ostinatamente di imparare e di pronunciare una sola parola d'inglese. Eppure,
sentivo commenti su come «sono maleducati» e «scostanti». Molti si domandavano
a voce alta perché non potessero, anche «loro», migliorare le loro condizioni
«come avevamo fatto noi». Le storie del lavoro massacrante che le generazioni
precedenti avevano dovuto affrontare per sopravvivere riuscivano sempre a
ridurci al silenzio, a chiudere la discussione, rendendoci grati per il cibo che
avevamo nel piatto. Eppure, da bambini, sentivamo che la storia non era tutta
lì.
Illegal hero, heave-ho, eager get this dough Regal dago, payroll, wrote this so they know / See I came with a bang, traveled overseas Had no thang, but my game, had to move them ki's / Or that booze, all that weed, hustle bustle feed my seed Muscles bleed lugging bricks for stuck up lunatics / Soon to fix, sly fox, sewing up ya blocks Got them cops in the Bronx Got them crooked-boogie Brooklyn-woogie / Bookies, hooker rookies never look us in the eye They shook, they book, they quick to take a dive / I survive, thrive, stay alive, get my piece of pie Piece of mine, piece of yours, ain't no peace in do or die / Means war, hardcore, come knocking atcha door Greasing these indecent whores in all ya courts of law /
Ho incontrato per la prima volta l'hip-hop nelle strade di New York,
grazie a mio padre. Da vero amante delle culture diverse, mi fece conoscere «la
città» e i suoi abitanti nel corso di molte folli scorribande: il mercato del
pesce di Fulton prima dell'alba, Chinatown dopo il tramonto, le chiese gospel a
Harlem, macellerie e panetterie in Arthur Avenue, dervisci roteanti di Astoria,
l'anello superiore infestato d'erba dello Yankee Stadium di Reggie Jackson,
tanto per dirne alcune. Enormi murales multicolori inghiottivano i muri degli
edifici abbandonati e bruciati. I treni della metropolitana si trasformavano in
tele viventi e ansimanti, serpenti tatuati che fendevano il labirinto caotico
d'acciaio e cemento. Scatoloni appiattiti agli angoli di strade polverose
divennero il luogo delle classiche sfide dei b-boy. Ritmi martellanti e rime
approssimate salivano nell'aria densa e calda come grandi zaffate d'incenso. Ero
ipnotizzato, incantato, l'hip-hop mi colpì come un fulmine incandescente. E
portò con sé l'opportunità di trasformare per tutta la vita il mio dolore in
qualcosa di positivo. Ben più di un semplice genere musicale, l'hip-hop per me è
diventato uno stile di vita e una valvola di sfogo per la frustrazione e l'ira,
per elaborare la rabbia e la paura, per esprimere la gioia, l'amore e il dolore,
per immaginare e svelare un mondo libero dalla sofferenza.
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