Autore Ramachandra Guha
Titolo Ambientalismi
SottotitoloUna storia globale dei movimenti
EdizioneLinaria, Roma, 2016 , pag. 247, ill., cop.fle., dim. 12x18x1,5 cm , Isbn 978-88-907017-8-8
OriginaleEnvironmentalism: A Global History [2000]
CuratoreGabriele Mina
PrefazioneMarco Armiero
TraduttoreMaria Teresa Maschio, Paola Mussano
LettoreLuca Vita, 2016
Classe ecologia , movimenti , natura , economia , storia sociale









 

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Indice


 11     Introduzione   Diventando verdi


        Parte prima
        La prima ondata ambientalista

 25  1. Ritorno alla terra!

        L'amore inglese per la campagna, 25
        I nazisti erano verdi o i verdi sono nazisti?, 35
        La vita semplice nella visione gandhiana, 38

 45  2. L'ideologia della conservazione scientifica

        L'internazionalismo della tutela ambientale, 45
        L'estensione globale delle scienze forestali, 57
        Un bilancio della selvicoltura scientifica, 64

 69  3. L'evoluzione del concetto di wilderness

        La tutela ambientale nelle colonie, 69
        La wilderness in chiave americana, 73

 85     Postilla   Fuori categoria


        Parte seconda
        La seconda ondata ambientalista

 93     Prologo   L'epoca dell'innocenza

103  4. L'ecologia dell'abbondanza

        Il ruolo di Silent Spring, 103
        Onde dentro l'onda: il dibattito ambientale, 110
        Il movimento ambientalista: dalle idee all'attivismo, 117
        L'ambientalismo radicale americano, 125
        I verdi tedeschi, 131

143  5. La sfida del sud

        L'ambientalismo dei poveri, 143
        India e Brasile: un confronto, 157
        Chipko/Chico: un confronto, 166
        Ridefinire lo sviluppo, 171

175  6. Comunismo e ambientalismo: una parabola

        Il primo ambientalismo sovietico, 175
        Le Tre Gole: una protesta cancellata, 181
        I legami fra democrazia e ambientalismo, 187


193     Conclusione   Un mondo o due?

205     Bibliografia ragionata

217     2000-2015: nota del curatore

229     Postfazione di Marco Armiero
        Dal mondo all'Italia. Andata e ritorno

243     Elenco delle illustrazioni


 

 

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Pagina 11

Introduzione

Diventando verdi


Il movimento ambientalista, fra quelli nati negli anni '60, è il movimento che più ha mantenuto la sua rotta nel corso del tempo. Mentre altre espressioni di quel decennio di lotte - il pacifismo, la controcultura o la battaglia per i diritti civili - hanno perso la loro spinta iniziale, l'ambientalismo non accenna a scomparire. Qualcuno potrebbe anzi dire che rifiuta di crescere, conservando intatta la sua forza ed energia, ma anche l'impazienza e l'intolleranza di un movimento sempre giovane: il solo ad aver costantemente guadagnato terreno, potere, prestigio e, cosa forse più importante, consenso pubblico. A prescindere dal sostegno popolare, il successo del movimento si è consolidato in particolar modo negli USA, grazie anche alla conservazione delle foreste e delle aree naturali, oltre alle numerose leggi abrogate o emanate. È stata proprio la pressione degli ambientalisti, più che l'autonoma azione del governo, a favorire la creazione di un sistema di parchi nazionali esteso e perlopiù ben gestito. Desiderando proteggere vaste aree di natura dalla minaccia dello «sviluppo», gli ambientalisti americani hanno rivolto sempre più la loro attenzione al controllo dei dannosi effetti collaterali dell'industrializzazione: l'inquinamento dell'aria e dell'acqua, la produzione di scorie tossiche e radioattive.

Anche in questo caso hanno riscosso un grande successo, spingendo il congresso a convertire in leggi più di settanta misure ambientaliste: fra queste la National Environment Protection Act del 1969, una legge di così vasta portata da suscitare l'invidia degli attivisti di altri paesi che vorrebbero far rispettare ai loro governi gli standard minimi. L'agenda verde è in grado di influenzare l'esito di elezioni locali, statali o federali: i sondaggi dimostrano che oltre i due terzi della popolazione sarebbero a favore di misure ambientali più rigide e disposti a contribuire in favore della causa. Anche i contendenti politici ostentano un'immagine ecologista, pur di conquistare quell'elettorato. Un presidente repubblicano, George Bush, pronunciò la famosa frase: «Oggi siamo tutti ambientalisti», mentre i democratici, per non esser da meno, nominarono come vicepresidente Al Gore, autore di Earth in the Balance, un bestseller sui danni ambientali. D'altronde, come fa notare il politologo Richard Andrews, l'influenza del movimento è ormai «dimostrabile a tutti i livelli amministrativi per la straordinaria quantità di leggi, norme e stanziamenti economici, così come per la continua attenzione offerta dai media». Riferendosi agl'importanti risultati conseguiti dai verdi, l'editorialista del «New York Times», John Oakes, ha commentato: «i parchi nazionali sono sacri per la maggior parte degli americani, quanto la bandiera, la mamma e la torta di mele». I parchi nazionali non sono del resto una prerogativa americana: per bellezza e diversità di specie e habitat, il Serengeti in Tanzania è probabilmente più famoso di Yellowstone nel Wyoming, e il Manas nell'India orientale è altrettanto straordinario dello Yosemite in California. L'ambientalismo è divenuto un movimento internazionale, diffuso con vari gradi d'intensità in numerosi paesi. Inoltre, nell'epoca di internet, i gruppi nazionali non lavorano più isolati e le informazioni vengono trasmesse istantaneamente da un luogo all'altro del pianeta. L'ambientalismo ormai costituisce un settore dove diverse persone e organizzazioni anche lontane collaborano, o a volte competono, dando vita a una corrente che ormai trascende i confini nazionali. Guardando oltre l'esperienza americana, questo libro vuole presentare una storia globale dell'ambientalismo. L'obiettivo non è puntato su natura, crescita dell'inquinamento, deforestazione tropicale, estinzione delle specie o aumento del carbonio nell'atmosfera: temi che per certo verso sono di competenza degli esperti. Qui si vuole piuttosto offrire un resoconto storico e un'analisi delle origini e delle espressioni delle diverse problematiche ambientali, analizzando come persone e istituzioni diverse abbiano percepito e affrontato il degrado. In breve, il libro tenta di stimolare la riflessione e l'azione più che proporre uno studio scientifico sullo stato della natura o il bilancio dell'impatto degli esseri umani sul pianeta.

In quanto programma di riforme politiche e direttive concrete, l'ambientalismo deve prescindere da una limitata visione estetica o da una mera considerazione scientifica del mondo naturale. Le tradizioni letterarie classiche hanno manifestato un interesse costante per il paesaggio naturale: il poeta romano Virgilio e il drammaturgo sanscrito Kalidasa potrebbero essere definiti «amanti della natura», avendo entrambi scritto sulla bellezza di uccelli, animali, fiumi e campi. Fin dal tardo Medioevo, anche gli esploratori europei delle Americhe e dell'Asia dimostravano un interesse rispetto alle ricchezze e alla diversità della natura. L'esuberanza di piante e animali tropicali è documentata da numerosi scienziati europei: Charles Darwin è forse il più noto e influente. Ma l'ambientalismo, come sostengo nel libro, va oltre il piacere letterario del paesaggio e l'analisi scientifica delle specie: va considerato come un programma sociale, un manifesto con l'obiettivo di tutelare habitat preziosi, protestando contro il loro degrado e sostenendo tecnologie e stili di vita meno dannosi. Qual è allora la data di inizio di questo corso? La maggior parte della documentazione, che concerne la realtà americana, sceglie la pubblicazione di Silent Spring, nel 1962: il libro di Rachel Carson sull'inquinamento da pesticidi è descritto come «la Bibbia», l'evento fondante del moderno ambientalismo. Come movimento popolare, in effetti, emerse solo negli anni '60, in grado di influenzare positivamente la politica comunitaria in materia di ambiente grazie a due fattori combinati, le proteste nelle strade e le pressioni sui legislatori nei corridoi del potere. Ciò nonostante, l'interesse intellettuale per la tutela e la conservazione della natura risale alle ultime decadi del XVIII secolo, per poi crescere rapidamente nel secolo successivo, quando si iniziò a influenzare i governi occidentali: pur non riuscendo sempre a mobilizzare le masse, questa prima generazione di ambientalisti diede avvio a estesi programmi per la conservazione dell'acqua e delle foreste, contribuendo alla realizzazione dei primi parchi nazionali. La storia dell'ambientalismo ha seguito uno schema simile anche in altri paesi: dopo un primo periodo, pionieristico e profetico, si approda a un diffuso movimento sociale, caratteristico delle ultime decadi del XX secolo. Si può quindi parlare di una «prima ondata» di ambientalismo come risposta iniziale all'avvio dell'industrializzazione e di una «seconda ondata», che ha dato maggiore forma e forza, grazie al largo consenso popolare, a istanze essenzialmente intellettuali. Vi sono quindi origini ben più antiche di quanto in genere si creda.

Nelle sue forme contemporanee il movimento è certamente figlio degli anni '60 del XX secolo, ma, come vuol far capire questo libro, è anche nipote degli anni '60 del secolo precedente. La prima ondata procede di pari passo con la rivoluzione industriale, ovvero il più esteso processo di mutamento sociale nella storia dell'uomo. L'industrializzazione alterò drammaticamente la realtà naturale attraverso nuovi metodi di estrazione, produzione e trasporto delle risorse: la portata e l'intensità con cui la natura veniva usata (e abusata) aumentarono in modo esponenziale, mentre i progressi in campo medico consentirono una crescita costante della popolazione. Più si produceva e più si consumava, più aumentavano l'inquinamento e il degrado ambientale, facendo della natura una fonte continua di materie prime a basso costo e una discarica per gli scarti della crescita economica. Le miniere a cielo aperto e gli appetiti sempre maggiori dell'industria decimarono foreste e terre selvagge, nuovi e pericolosi agenti chimici furono rilasciati nei fiumi e nell'atmosfera. In Europa l'industrializzazione causò anche importanti cambiamenti nell'economia rurale. Gli stabilimenti e le grandi città avevano continua necessità di materiali da trasformare e consumare: simili richieste modificarono radicalmente l'agricoltura, con l'adozione di metodi di produzione orientati alle esigenze di mercato. Pascoli, siepi e piccole fattorie a coltura mista lasciarono così il posto a un monotono paesaggio fatto di ininterrotte distese di monocultura. Lo sviluppo dell'economia europea influenzò anche le condizioni ambientali di Asia, Africa e America del Nord, dato che i colonizzatori bianchi presero possesso di gran parte delle terre, riorientando le economie locali in base alla domanda della madrepatria. Navi inglesi venivano costruite in teak birmano, i loro marinai indossavano abiti di cotone prodotto in India e bevevano caffè kenyota, addolcito con zucchero coltivato nei Caraibi. Nel XVIII e XIX secolo gli inglesi erano i leaders indiscussi della deforestazione e decimarono le foreste del nord-est degli USA, dell'Africa meridionale e nei Ghati occidentali in India, per citare solo tre regioni. A emularli, chi più chi meno, furono gli olandesi, i portoghesi, i francesi, i belgi, i tedeschi: tutte potenze europee che sarebbero diventate le principali responsabili della devastazione ambientale nelle loro colonie. L'inquinamento non era certamente sconosciuto in passato, ma per la prima volta nella storia dell'uomo nacque la percezione di una «crisi» del sistema naturale: da qui scaturì la prima ondata dell'ambientalismo, che s'interrogava sulla sostenibilità dell'enorme incremento di ricchezza e prosperità determinato dalla moderna industrializzazione. Le città erano le principali responsabili dell'inquinamento, ma gli effetti si ripercossero anche nelle campagne e nelle colonie. Come vedremo più avanti, a capo della prima ondata ambientalista c'erano i residenti delle campagne inglesi, come William Wordsworth , ma anche quanti erano malvolentieri sottomessi al potere coloniale, come il Mahatma Gandhi.

Come risposta sociale alla rivoluzione industriale, l'ambientalismo può essere paragonato ad altri tre movimenti della modernità: la democrazia, il socialismo e il femminismo. In opposizione all'assolutismo, la democrazia chiede che i comuni cittadini abbiano una maggiore influenza sulle decisioni riguardanti le loro esistenze. In opposizione sia al feudalesimo che al capitalismo, il socialismo chiede una maggior equità nella distribuzione della ricchezza e delle risorse produttive. Infine, in opposizione al patriarcato, il femminismo vuole garantire più diritti politici ed economici alle donne. Il programma ambientalista è stato a volte complementare, altre volte in competizione, con quello degli altri movimenti: ha esteso le nozioni di diritto e giustizia, rivendicando una maggiore attenzione ai diritti della natura e agli stili di vita sostenibili. Le connessioni tra ambientalismo da un lato e democrazia, socialismo e femminismo dall'altro saranno analizzate nel testo. Come in tutti i movimenti sociali, nell'ambientalismo si riconoscono individui, tendenze, tradizioni e ideologie diverse, così come esistono, per esempio, diverse forme di femminismo.


La prima parte del lavoro esplora tre diversi filoni, in risposta alla comparsa e all'impatto della società industriale:


1. Prima di tutto la critica morale e culturale alla rivoluzione industriale, ossia il «ritorno alla terra». Per i grandi poeti romantici, come Blake o Wordsworth, gli «oscuri mulini satanici» dell'era industriale minacciavano di annientare per sempre la loro verde e ridente terra, l'idillio pastorale dell'Inghilterra rurale e tradizionale. Romanzieri come Charles Dickens e intellettuali come Friedrich Engels criticarono le condizioni disumane di lavoro e di vita del tempo, le squallide abitazioni e le buie e umide fabbriche inquinanti. Altri, come Gandhi, unirono la critica morale a uno stile di vita semplice: abitare la terra con delicatezza, disapprovando il moltiplicarsi di tutte quelle esigenze create dalla civiltà moderna.


2. Il secondo filone, quello della «tutela scientifica», scelse di non voltare le spalle alla società industriale, ma di lavorare per arginarne gli eccessi. Piuttosto che su una reazione puramente artistica o emotiva, si fondava su accurate ricerche di tipo empirico per dimostrare che, senza la guida di tecnici esperti, l'industrializzazione avrebbe rapidamente consumato le risorse e inquinato l'ambiente. La tutela era il «vangelo dell'efficienza»: le competenze scientifiche apparivano le sole in grado di gestire la natura e le risorse naturali, in modo efficiente e duraturo. Divenne fondamentale il concetto di «rendimento sostenibile»: il consumo di foreste, acqua o fauna non doveva attingere alla riserva di capitale naturale ma limitarsi all'incremento annuale di tali risorse. Intorno alla fine del XIX secolo tale orientamento emerse come movimento globale, grazie ai selvicoltori che diffusero in Asia, Africa, Europa e America del nord alcuni metodi di gestione delle risorse, ispirati a diversi criteri scientifici.

3. Il terzo filone mette insieme morale, scienza ed estetica ed è conosciuto come wilderness idea. In risposta all'industrializzazione in Europa e all'insediamento e all'espansione europea nel nuovo mondo, responsabili della distruzione di ampie zone di foresta e territori incontaminati, sorse un movimento di artisti e ricercatori che volevano circoscrivere le aree ancora vergini e liberarle dai possibili danni cagionati dall'uomo. L'obiettivo era quello di proteggere tutte quelle specie minacciate di estinzione, come l'orso grizzly, o di salvare habitat e paesaggi unici, come Yosemite. Tale approccio, lo vedremo più avanti, si sviluppò con maggior forza negli USA, nonostante fosse nato altrove.


La prima parte del libro definisce e documenta questi tre filoni, tracciandone l'evoluzione e le diverse espressioni attraverso i secoli e i continenti. La seconda parte approfondisce invece la nuova ondata dell'ambientalismo, ossia la sua trasformazione in movimento di massa e lo sviluppo delle tre diverse tendenze dagli anni '60 in poi. In un paese dopo l'altro, è sorto un movimento sociale, vitale e popolare che si dedica a proteggere o ricostituire l'ambiente. Si analizza inoltre come l'ambientalismo globale sia stato condizionato dalla paura dell'esplosione demografica, dal movimento femminista e soprattutto dalla divisione tra le ricche nazioni del nord del mondo e quelle più povere del sud. Mentre la prima parte inizia con l'analisi delle tradizioni inglesi, la seconda comincia con un esame delle tendenze americane. Questa scelta vuole mettere in evidenza come l'industrializzazione sia all'origine dell'ambientalismo. Se il Regno Unito è stato la sede della prima rivoluzione industriale, in seguito sono stati gli USA a rappresentare il modello industriale mondiale: un paese ha aperto la strada alla prima ondata ambientalista, l'altro ha mostrato la strada alla seconda. Entrambi i capitoli partono da un unico paese per continuare poi lo studio nelle altre culture: si rivelano così diversità e similitudini fra i vari movimenti nazionali, che hanno adottato differenti strategie di protesta e differenti idee sulla tipologia di ambiente da proteggere.

Scrivere la storia globale di un argomento, qualunque esso sia, ma a maggior ragione di un fenomeno così complesso e di vaste proporzioni come l'ambientalismo, impone necessariamente una decisa selezione. Inevitabilmente alcuni degli esempi più significativi provengono dalla storia delle due nazioni che mi sono più familiari, India e USA, anche se ho voluto estendere il mio studio anche al passato e ad altri contesti. Il materiale sull'ambientalismo indiano e statunitense proviene dal mio lavoro di ricerca, quello su Asia, America latina, Africa e Europa ha origine da testi ed esperienze di altri studiosi. Ciò nonostante, alcuni lettori potranno lamentarsi del fatto che abbia omesso il loro paese preferito o che non abbia reso omaggio al loro ambientalista favorito. Storici, giornalisti, ricercatori e sociologi - tutti americani - hanno scritto fiumi di parole sulla storia dell'ambientalismo statunitense. Seguendo il loro esempio, altri studiosi hanno ricostruito la storia ambientalista del proprio paese, anche se negli scaffali delle librerie - alla voce «Movimento ambientalista» - continuano a prevalere i saggi americani. Da qualche anno sono affiancati da nuovi studi tedeschi, svedesi, inglesi o brasiliani. L'obiettivo di questo libro è rompere uno schema così consolidato, evitando di presentare un'altra storia nazionale e proponendo invece una prospettiva transnazionale sul dibattito ambientale, con il confronto e la contrapposizione dei processi storici nei sei continenti. Inserita nell'esperienza di altre culture e corredata di una nuova lettura, la vicenda americana viene così collocata più correttamente nel suo contesto globale. Un secondo obiettivo è quello di documentare il flusso e il continuo e influente scambio di idee tra le culture, grazie al quale le battaglie in tanti paesi si sono trasformate, rinvigorite o talora deviate. Mi si permetta un rapido accenno ad alcuni esempi, che sviluppo in modo approfondito più avanti. Gifford Pinchot, fondatore dell' United States Forest Service, considerava suo mentore e ispiratore il botanico tedesco Dietrich Brandis, che in India aveva creato un dipartimento forestale, ai tempi probabilmente il più grande e influente apparato burocratico sulle risorse naturali. Un secolo dopo, questo debito fu ripagato pienamente quando le idee di Gandhi furono riprese dai verdi tedeschi, la più potente espressione politica dell'ambientalismo contemporaneo. Lo stesso Gandhi, spesso visto come la quintessenza dell'indianità, fu profondamente influenzato dal populismo russo, grazie agli scritti di Lev Tolstòj con cui fu anche in contatto, dall'individualismo radicale americano di Henry David Thoreau , i cui saggi sulla disobbedienza civile sono stati considerati come il suo personale testamento politico, e in maniera ancora più significativa dall'anti-industrialismo inglese, mediante l'opera di John Ruskin. Infine consideriamo la Deep Ecology, una corrente ambientalista americana d'avanguardia che si batte per una «uguaglianza biocentrica»: gli esseri umani devono essere considerati alla pari e non al di sopra delle altre specie. La maggior parte dei suoi seguaci si trova sulla costa occidentale degli USA, ma la teoria della Deep Ecology è stata formulata per la prima volta dal filosofo norvegese Arné Naess , autore di una dissertazione su Gandhi!

La suddivisione del libro è sia temporale che spaziale. Secondo la suddivisione accademica, gli storici si occupano del passato, mentre sociologi e antropologi si dedicano al presente: così gli studi sull'ambientalismo tendono a concentrarsi solo su uno dei due differenti periodi, raramente su entrambi. Questo saggio invece colloca il presente nel passato, per mostrare l'influenza nel movimento contemporaneo di modelli e processi che hanno resistito nel tempo, oppure che sono caduti nell'oblio, salvo riapparire più avanti. In tal senso il libro s'ispira a Wallace Stegner, poeta di Stanford, quando scrive:

Risalire all'origine delle idee è un enigma. Non si può dire chi per primo ha avuto un'idea, ma solo chi per primo l'ha presentata in modo autorevole, chi l'ha formulata in qualche forma, poema, equazione o immagine, in cui altri potranno imbattersi, venendo colpiti nel riconoscerla. Le idee radicali che hanno cambiato i nostri atteggiamenti rispetto al nostro habitat esistono da sempre.

Vorrei solo sostituire quel «da sempre» del poeta con «da almeno un centinaio di anni»: meno evocativo ma storicamente più preciso.

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Pagina 46

[...] Lo studioso ed esploratore tedesco Alexander von Humboldt (1769-1859) fece un'analisi pionieristica sulla deforestazione. Da uno studio sulle variazioni dei livelli dell'acqua di un lago venezuelano giunse a questa conclusione:

I cambiamenti che la distruzione delle foreste, il disboscamento e la coltivazione dell'indaco hanno prodotto in mezzo secolo, da un lato sulla quantità d'acqua che affluisce e dall'altro sull'evaporazione del suolo e sul calore dell'aria, sono cause sufficienti per spiegare il calo del lago Valencia [...] Abbattendo a tutte le latitudini gli alberi che coprono le cime e i fianchi delle montagne, gli uomini tramandano alle generazioni future due calamità in un colpo solo: la mancanza di combustibile e la carenza d'acqua [...] Una volta distrutte le foreste, come è successo in America a causa delle coltivazioni degli europei, le sorgenti si prosciugano completamente con rapidità sconcertante, oppure si riducono. Rimanendo secchi per gran parte dell'anno, i letti dei fiumi si trasformano in torrenti quando a monte cade una forte pioggia. Prateria, muschio e macchia del sottobosco, spariti dalle pendici delle montagne, non riescono più a frenare l'acqua piovana. Invece di accrescere lentamente il livello dei fiumi, attraverso progressive filtrazioni, l'acqua scava solchi profondi nei fianchi delle colline, soprattutto in caso di forti temporali, provocando improvvise inondazioni in grado di devastare il paese. Dunque è ormai chiaro che la distruzione delle foreste, la mancanza di sorgenti permanenti e la presenza di torrenti sono tre elementi strettamente connessi. Paesi situati in emisferi opposti, come la Lombardia, circondata dalla catena delle Alpi, e il Perù, racchiuso tra il Pacifico e la cordigliera delle Ande, sono prove inconfutabili della validità di tale affermazione.


Osservazioni scritte nel 1819 che, come fa giustamente notare lo storico inglese Richard Grove, restano a oggi insuperate. Humboldt era il più sofisticato di un gruppo di studiosi sensibili alla conservazione ambientale. Il processo di distruzione degli habitat, sia nelle città sia nelle colonie, era visto con orrore da questi scienziati conservazionisti. L'avidità individuale - in particolare l'aratro del pioniere e la scure del boscaiolo - aveva contribuito alla deforestazione: era possibile arrestare il degrado e fornire una stabile crescita economica trasformando rapidamente le foreste e le altre risorse naturali in proprietà pubbliche. Divenne fondamentale l'idea di «rendimento sostenibile», fondata sulla convinzione che si potesse calcolare precisamente l'incremento annuale delle risorse naturali rinnovabili, come legno e acqua, pesci e fauna selvatica. Per mantenere integro il capitale natura, e quindi assicurare un rendimento in grado di essere sostenibile nel lungo termine, l'utilizzo doveva limitarsi entro tale incremento.

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Pagina 93

Prologo

L'epoca dell'innocenza


La green agenda descritta nella prima parte trovò all'epoca pochi consensi, non tanto per una sua intrinseca debolezza, quanto per un evento dalle conseguenze davvero globali: la seconda guerra mondiale. I costi umani del conflitto superarono quelli della guerra del '14-'18 e gli esiti furono molto differenti. La prima guerra portò una ventata di pessimismo sugl'intellettuali di tutta Europa: buona parte trovò rifugio in un fantasioso passato preindustriale, quando gli scontri tra vicini non sembravano esigere un così terribile prezzo. Al contrario, l'ultima guerra generò un rinnovato ed evidente ottimismo sul futuro dell'umanità: a differenza della precedente, fu subito intesa come una lotta del bene contro il male, le democrazie inglesi e statunitensi schierate per la libertà contro l'autoritarismo fascista di Italia e Germania. Per giunta, vinse la parte «giusta». Un'identificazione così netta di virtù e peccato non era possibile nel primo conflitto, che era un mero scontro fra imperialisti rivali su materie prime e territori. I significati morali inerenti alla seconda guerra mondiale emersero anche nel 1947, quando la Gran Bretagna concesse l'indipendenza all'India, il «gioiello della corona» imperiale: sembrò che le potenze occidentali volessero mettere in pratica il rispetto della democrazia, liberando le loro colonie.

Altre nazioni avrebbero seguito l'esempio britannico, anche se l'indipendenza politica in molti paesi fu il risultato congiunto di una forte spinta nazionalista e della magnanimità dei colonialisti che liberavano il campo. Gli olandesi lasciarono l'Indonesia nel 1948, gli americani rinunciarono alle Filippine l'anno dopo, gl'inglesi progressivamente si ritirano dalle numerose colonie in Asia e Africa. Più riluttanti ad andarsene furono i francesi e i portoghesi, che dovettero combattere sanguinose guerre - gli uni in Algeria e Indocina, gli altri in Angola e Mozambico - prima di dichiarare definitivamente superata l'epoca della dominazione dei bianchi. Le conseguenze della pace in occidente e della decolonizzazione in Asia e Africa coincidevano per quanto riguardava un aspetto cruciale: il primo compito dei governi era ora quello di soddisfare, anche eccedendo, le aspettative economiche dei loro cittadini. Nel nord del mondo intellettuali e politici concordavano nel ritenere che la creazione e la distribuzione di ricchezza avrebbe aiutato, più di ogni altra cosa, a spazzare via i cattivi ricordi. La vittoria conseguita sui lontani campi di battaglia della seconda guerra mondiale fu generalmente percepita come una vittoria sia della tecnologia che della democrazia. Finito il conflitto, la strada per la futura salvezza sembrava trovarsi nella fruttuosa applicazione della tecnologia al processo di produzione. Come ribadì il presidente Truman nel suo discorso inaugurale del 20 gennaio 1949 «una maggiore produzione è la chiave della prosperità e della pace».

Nell'America post-bellica si palesava - come osserva l'economista John Kenneth Galbraith - la «preoccupazione per la produttività e la produzione», in modo analogo accadeva nell'Europa del dopoguerra. In queste società, la popolazione era stata per lo più ben alloggiata, vestita e nutrita: ora nasceva il desiderio di «auto più eleganti, cibi più esotici, abiti più sensuali, intrattenimenti più sofisticati». Quando Galbraith definì l'America degli anni '50, «la società del benessere», voleva dire non solo che si trattava di una società in cui la maggior parte dei suoi membri erano immensamente agiati, se paragonati ad altre nazioni e ad altri tempi. Galbraith sottolineava anche che la società americana era così dedita alla ricchezza da trasformare il possesso e il consumo di beni materiali nel simbolo esclusivo del successo individuale e collettivo. Una cultura - scrive l'antropologo Geoffrey Gorer - che «si oppone con orrore irrazionale a ogni mezzo o norma capaci di interferire, o che possano essere visti come suscettibili di interferenze, con la disponibilità di beni nuovi e sempre più abbondanti, tanto quanto il credente si oppone all'empietà o il guerrafondaio al pacifismo». Nel 1941, rivolgendosi al Congresso, Franklin Roosevelt, uno dei più grandi presidenti americani, sperava «in un mondo fondato sulle quattro libertà essenziali»: la libertà d'espressione e di culto, l'affrancamento dal bisogno e dalla paura. Dieci anni più tardi, con la guerra ormai relegata a un passato lontano, sembrava però che le quattro libertà più care alla società del benessere fossero la libertà di produrre, di consumare, di diventare ricchi e di diventare... ancora più ricchi.

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Pagina 98

[...] La prospettiva di una crescita economica senza fine attraeva i paesi non ancora sviluppati, che volevano diventare esattamente come l'America e vivere come gli americani. La scienza era considerata una «frontiera senza confini», la tecnologia una «fonte inesauribile»: insieme avrebbero allontanato ogni preoccupazione per la carenza temporanea o permanente di risorse. Era l'opinione di uomini come Vannevar Bush della NASA o il geologo Kirtley F. Mather di Harvard: la stessa Madre Terra, in fatto di risorse, aveva «quanto basta e anche di più».

Esistevano certo delle occasionali voci dissonanti. Una era quella del grande geografo Carl Sauer, di Berkeley, che contestualizzò con precisione quell'esuberante ottimismo nel tempo e nello spazio. Osservò che «la dottrina che ha sostituito la frontiera della natura con la frontiera, permanente e in espansione, della tecnologia è un'espressione contemporanea, caratteristica della cultura occidentale, a sua volta prodotto di un contesto storico-geografico». Tale idea di frontiera «ha l'incoscienza di un ottimismo che è divenuto abituale, ma che è un residuo dei tempi gloriosi, quando i predoni europei invasero il mondo imponendo tributi».

Sauer avvertiva che la fase di crescita, a spese della natura, non sarebbe durata indefinitamente: riferendosi ai suoi colleghi occidentali, osservava con saggezza che «non abbiamo ancora imparato la differenza tra raccolto e bottino. Non ci piace essere realisti in economia». Un'altra posizione di dissenso fu espressa da Ernst Friedrich Schumacher, economista tedesco stabilitosi in Inghilterra per fuggire dal nazismo. Schumacher credeva che «oggi l'espansione economica è un'ideologia comune a tutto il genere umano» che legittima un rapace sfruttamento delle risorse non rinnovabili, come carbone e petrolio. Nel 1954 scrisse:

Dimentichiamo che viviamo del capitalismo, nel senso più profondo della parola [...] il genere umano per migliaia di anni ha sempre vissuto di rendita. Solo negli ultimi cento anni è penetrato a forza nella dispensa della natura, svuotandola con una velocità incredibile, in continuo aumento.


Una voce lungimirante fu quella di Lewis Mumford , che era soprattutto preoccupato per gli strumenti con i quali si stava devastando la natura.

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Pagina 103

4. L'ecologia dell'abbondanza




Il ruolo di Silent Spring


Mettete due storici in una stanza e avrete un dibattito, aggiungetene un paio in più e otterrete una cacofonia di voci dissonanti. Ma questa tribù, nota per le sue dispute e i disaccordi, trova una sorprendente unanimità rispetto a un punto: l'inizio del moderno ambientalismo. «Il libro di riferimento è Silent Spring» scrive Ralph H. Lutts, «che ebbe un ruolo di vitale importanza per stimolare il movimento ambientalista contemporaneo». Stephen Fox si spinge oltre: «Silent Spring diventò uno dei volumi determinanti nella storia della tutela ambientale, la Capanna dello zio Tom dell'ambientalismo moderno». Kirkpatrick Sale è ancora più categorico e citando un vibrante paragrafo della prefazione commenta: «Si può dire che con quelle parole indignate e intransigenti cominci il movimento ambientalista moderno».

Rachel Carson , l'autrice di Silent Spring, aveva lavorato come biologa per tanti anni per il U.S. Fish and Wildlife Service e aveva già scritto altri due libri di successo sul mare, anche se non altrettanto polemici. L'influenza del suo terzo libro, uscito nel 1962, è provata dalle straordinarie vendite: mezzo milione di copie in edizione rilegata.

[...]

Silent Spring è una perla di scienza divulgativa e militante, ricca di esempi ben scelti e casi dettagliati, tratti da lavori scientifici specialistici, organizzati e presentati al pubblico in una prosa mirabilmente costruita. Dietro e al di là dei fatti propone una questione filosofica più profonda: la natura dev'essere rispettata in quanto «sistema complesso di relazioni tra esseri viventi, preciso e altamente integrato, che non può essere ignorato senza rischi, più di quanto la legge di gravità possa essere sfidata impunemente da chi si sporge sull'orlo di un precipizio». Gli ambientalisti si erano occupati per qualche tempo della protezione di specie o habitat in pericolo, ma Silent Spring li spronò ad andare oltre, a rendersi conto che «in natura nulla esiste come singola unità» ma esistono «relazioni intime ed essenziali fra le piante e la terra, fra piante e altre piante, fra piante e animali»: la natura è «un'intricata trama vitale, i cui fili intrecciati conducono dai microbi fino all'uomo».

L'intreccio della vita nella sua complessità richiede un atteggiamento umile e delicato, non il prepotente e aggressivo cammino intrapreso dalla chimica sintetica con i suoi prodotti: altrimenti quella trama può facilmente trasformarsi in un intreccio di morte. Ovviamente l'influenza di Silent Spring non dipendeva da un'accettazione di questa filosofia sulla natura: i dati dell'abuso di pesticidi e le sue conseguenze sulla natura e sugli uomini parlavano da soli. Vent'anni dopo la sua pubblicazione, uno storico scriveva che il libro aveva ottenuto un consenso più ampio

di quello goduto da qualsiasi precedente dibattito ambientale. Mai prima di allora si era visto un insieme così eterogeneo di persone, dagli amanti del birdwatching ai forestali, dai professionisti della salute pubblica agli abitanti dei sobborghi, tutto unito contro una comune minaccia.

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Dopo Silent Spring, sia in Europa sia in America del nord, ci fu un prolifico fiorire di opuscoli ambientalisti: alcuni equilibrati ed eruditi, altri appassionati e polemici. Molti portavano avanti approcci caratteristici della prima ondata del movimento. L'eredità del pensiero wilderness era evidente nei neo-malthusiani, quali Hardin e Ehrlich, preoccupati dall'esplosione demografica che invadeva pericolosamente lo spazio vitale delle altre specie. Naess e White deploravano, come già Muir e Leopold, il diffuso tentativo di domare e dominare la natura, invece di comprenderla e proteggerla. Allo stesso modo, la corrente dell'ambientalismo scientifico fu rinnovata dai tecnocrati (ad esempio i membri del Club di Roma) che suggerivano di moderare lo sviluppo economico mondiale a favore di un approccio sostenibile, e dai più radicali ecosocialisti (come Commoner ), che insistevano sulle tecnologie alternative non inquinanti e su un maggior controllo statale sopra i processi produttivi. Fra le tendenze del passato la meno fortunata fu il ritorno alla terra: in quegli anni rimanevano ormai ben pochi contadini in Europa da difendere o con cui identificarsi. Tuttavia le voci di Ruskin e Carpenter riecheggiano in Small is Beautiful di Schumacher e nel Blueprint for Survival, uscito nel 1972 sulla rivista londinese «Ecologist»: due pubblicazioni che, più che difendere la natura, muovevano un attacco su vasta scala agli eccessi della società industriale. Così gli autori di Blueprint:

Il limite principale dello stile di vita del mondo industriale è quello di non essere sostenibile. È inevitabile che si esaurisca prima della fine della generazione attuale, salvo che non continui ancora a essere sostenuto da una minorità arroccata su se stessa, a costo di imporre grandi sofferenze al resto dell'umanità.

Queste nuove espressioni delle vecchie formule erano fortemente in disaccordo tra loro, ma erano tutte contrapposte a un comune nemico, l'ideologia dominante dell'età dell'innocenza. I suoi propugnatori si rivoltarono contro i diversi ambientalisti, chiamandoli «reazionari che guardano al passato», «profeti della sventura» o peggio. Non era insolito essere considerati un infiltrato della CIA oltre la cortina di ferro o un agente del KGB nel mondo libero: i socialisti accusavano i verdi di spostare l'attenzione dalla lotta di classe, i capitalisti li accusavano di ostacolare i mercati. Il contrattacco era guidato da economisti convinti che mercato e tecnologia avrebbero trovato surrogati a una risorsa esaurita o a un fiume prosciugato. Paul Samuelson del MIT, futuro premio Nobel, reagì duramente al rapporto del Club di Roma, insistendo sul fatto che «le meraviglie della rivoluzione industriale non sono finite». Dall'altra parte dell'Atlantico, Wilfred Beckerman della London University arrivò persino a predire che la crescita economica sarebbe continuata «ininterrottamente per 2500 anni».

Gli economisti valutano la crescita su misure statistiche aggregate, quali il PIL o il reddito pro capite, numeri che sovente celano svariate pecche. Gli ecologisti sono più interessati alle componenti della crescita: le tecnologie che producono i beni, i processi di consumo dei beni stessi, l'impatto cumulativo della produzione e del consumo sugli ecosistemi terrestri. Il loro approccio li rendeva meno ottimisti: mentre gli economisti guardavano positivamente all'aumento del PIL nei futuri mille anni, gli ecologisti guardavano indietro criticamente a quanto accaduto negli ultimi venticinque anni. E ovunque guardassero vedevano o fiutavano il pericolo, causato dalle scorie di quelle tecnologie, pericolosamente innovative, elaborate nell'epoca dell'innocenza. Commoner scrisse senza mezzi termini che

una motivazione economica ha mosso i radicali cambiamenti anti-ecologici, verificati dopo la seconda guerra mondiale nella tecnologia di produzione. Tali cambiamenti hanno trasformato fabbriche, fattorie, veicoli e negozi della nazione in vivai d'inquinamento: nitrati dai fertilizzanti, fosfati dai detergenti, residui tossici dai pesticidi, fumi e gas di scarico cancerogeni dai veicoli, una lista sempre più lunga di prodotti chimici tossici e cumuli di contenitori di plastica, imballaggi e cianfrusaglie non degradabili dall'industria petrolchimica.

Simili «effluvi del benessere», per usare un'espressione dallo studioso spagnolo Joan Martinez Alier, ispirarono le ricerche di scienziati quali Carson e Commoner e avrebbero generato una più vasta risposta sociale: al dibattito ambientalista si aggiungeva ora un movimento.

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Il movimento ambientalista: dalle idee all'attivismo


Università di Copenaghen, marzo 1969: è in corso un seminario di storia naturale, con alcuni dei più famosi ricercatori danesi presenti. Un gruppo di studenti entra nella sala della conferenza, chiude le porte e spegne l'aerazione. Gridando slogan contro l'inquinamento, bruciano l'immondizia che hanno portato con loro e spruzzano acqua proveniente da un lago inquinato su tutti i partecipanti. Brandiscono un'anatra impregnata di petrolio e gridano agli scienziati: «Venite a salvarla! Parlate di inquinamento, allora perché non fate niente?». Queste intimidazioni e questo sinistro simbolismo vanno avanti per un'ora, prima che i giovani riaprano le porte. Ma la protesta non è finita: trascinano i naturalisti nella sala vicina, dove si sta tenendo l'incontro inaugurale di NOAH, un'organizzazione che voleva portare la tutela ambientale danese oltre alla garbata discussione, verso un'incisiva azione sociale. Il drammatico episodio segna la distanza tra ambientalismo della prima e della seconda ondata. Muir e Leopold, Marsh e Ruskin, erano tutti attivisti, a modo loro. Ma il loro attivismo consisteva per lo più nel parlare e nello scrivere, usando il potere delle loro parole e la precisione delle loro analisi per persuadere gli altri. Altri ambientalisti lavorarono a stretto contatto con amministratori e funzionari pubblici, cercando di influenzare le decisioni politiche a favore della protezione delle foreste o della gestione delle acque.

L'ambientalismo contemporaneo non ha affatto evitato simili strategie di propaganda e di pressione, ma il suo potenziale è stato fortemente aumentato da forme di azione più militanti. Sotto quest'aspetto, naturalmente, l'ambientalismo assomiglia ad altri movimenti della fine degli anni '60 e '70, quando il mondo occidentale fu colpito da una raffica di iniziative dal basso, un approccio nuovo e partecipativo alla politica. Vari movimenti sociali, desiderosi di partecipare a questi processi, avrebbero poi acquisito proprie identità distinte: il movimento femminista, il movimento per la pace, il movimento per i diritti civili e il movimento ambientalista. Quest'ultimo condivideva con gli altri movimenti alcune tattiche di protesta, ma stava anche forgiando per conto proprio metodi innovativi.

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Si possono identificare un certo numero di caratteristiche dell'ecologia terzomondista. Innanzitutto, l'interesse per l'ambiente è fortemente connesso alla giustizia sociale: per costoro, scrive David Cleary, «la realtà è un intreccio continuo di costrizioni sociali e ambientali, che non ha senso polverizzare in opposte categorie». Lo sfruttamento commerciale delle foreste, le trivellazioni petrolifere, le grandi dighe: tutto danneggia l'ambiente, ma per le loro vittime costituiscono una minaccia ancor più dolorosa, quando privano i popoli tribali del legno da ardere e della piccola selvaggina, quando distruggono i raccolti dei contadini, quando sommergono su vasta scala terre e case dei villaggi che hanno la sfortuna di trovarsi sul loro cammino. L'opposizione a questi fenomeni rappresenta sia una difesa del sostentamento, sia un movimento ambientale nel senso stretto del temine. L'inscindibilità della sfera sociale e ambientale è ben rappresentata da una petizione del dicembre 1990. Era indirizzata al presidente messicano da una comunità di indios Nahuatl, a cui si chiedeva di spostarsi per far posto a una diga sul fiume Balsa:

Signor Presidente, noi dichiariamo pubblicamente e collettivamente il nostro rifiuto alla diga di San Juan. Non possiamo permettere a questo progetto di distruggere l'economia, l'eredità storica e culturale e le risorse naturali da cui dipendiamo [...] Questo progetto, con l'allagamento dei nostri villaggi e delle nostre terre, causerebbe grandi perdite e stenti di ogni tipo: perderemmo le nostre case, chiese, palazzi, strade, sistemi di irrigazione e altre opere collettive, intraprese con grandi sacrifici in molti anni. Perderemmo il migliore terreno agricolo che ci dà da vivere; perderemmo i pascoli che danno sostentamento al nostro bestiame; perderemmo i nostri frutteti e gli alberi da frutta; perderemmo i depositi di argilla e altre materie prime che usiamo per il nostro lavoro; perderemmo i nostri cimiteri, dove i nostri morti sono seppelliti; perderemmo le nostre chiese e le caverne, le sorgenti e gli altri posti sacri dove facciamo le nostre offerte; perderemmo, tra gli altri, Teopantecuanitlan, un sito archeologico unico e di grande importanza [...] perderemmo tutte le risorse naturali che conosciamo e usiamo per il nostro sostentamento, come insegnatoci dai nostri antenati. Perderemmo così tante cose che non possiamo elencarle tutte, perché non finiremmo mai questo documento.

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Ridefinire lo sviluppo


Nutrendosi di dottrine indigene di giustizia sociale - gandhismo, buddhismo, cattolicesimo - e incoraggiati da una più generale rivendicazione di eco-femminismo, l'ambientalismo dei poveri ha contribuito a un profondo ripensamento del concetto stesso di sviluppo. Gl'intellettuali simpatizzanti verso questi movimenti hanno criticato le politiche industriali e urbane dei governi, insistendo sulla necessità di aprirsi a una forma di sviluppo decentralizzata, socialmente consapevole, amica dell'ambiente: una forma più «gentile» di sviluppo. Tali sforzi hanno qualche volta attinto esplicitamente alle idee degli ambientalisti delle origini, di cui si è discusso nel primo capitolo, arricchiti da più contemporanee riflessioni sull'ecologia e le scienze sociali. Lo sviluppo, così come è convenzionalmente concepito e praticato, è stato affrontato sul piano filosofico, ma i critici non si sono sottratti al confronto con la realtà, offrendo soluzioni specifiche. Nel campo della gestione dell'acqua, alle grandi dighe si è opposta l'alternativa di piccole dighe e/o il ripristino dei metodi tradizionali di irrigazione attraverso cisterne e pozzi. Nel campo della selvicoltura ci si è chiesto se il controllo delle foreste naturali da parte delle comunità non fosse un'opzione più giusta e sostenibile, piuttosto che consegnare su un piatto d'argento il suolo pubblico alle piantagioni industriali.

Rispetto alla pesca si sono deplorati i sostegni ai motopescherecci a strascico, a spese delle barche tradizionali, suggerendo che un'attenta demarcazione delle acque oceaniche, con il restringimento delle zone in cui possono operare i primi, garantirebbe libertà di movimento agl'indigeni e faciliterebbe il rinnovamento naturale delle scorte. Come nel nord del pianeta, anche nel sud esiste un attivo dibattito ambientale, ma vanno fatte notare alcune salienti differenze. Dove l'ambientalismo del nord ha messo in luce il mutamento dei valori (l'avvicendamento al cosiddetto postmaterialismo), i movimenti del sud sembrano essere più fortemente radicati ai conflitti materiali, con rivendicazioni di giustizia economica: l'accesso alle risorse naturali da parte delle comunità più povere, che sono parte integrante dei movimenti verdi. Per questo non si adoperano soltanto per un cambio di cultura, ma anche, e a volte principalmente, per un cambio nel sistema di produzione. I gruppi nel terzo mondo sono inclini a un maggiore antagonismo rispetto allo stato, opponendosi a leggi e politiche considerate distruttive o ingiuste, mentre nel primo mondo ha più spesso prevalso un atteggiamento costruttivo di collaborazione con i governi e promozione di leggi e politiche favorevoli all'ambiente. In ambedue i contesti è stata accumulata una vasta riflessione a integrazione dell'azione diretta, anche se nei paesi poveri il rapporto di casualità sembra correre in una diversa direzione, con l'elaborazione intellettuale per lo più sospinta dalla protesta popolare. Nei paesi ricchi sono stati invece libri come Silent Spring a scatenare il movimento ambientale.

Infine, i verdi del nord sono stati più profondamente toccati dai diritti delle piante e degli animali, immolati e in via d'estinzione, mentre i verdi del sud sono più attenti ai diritti dei membri meno fortunati della loro stessa specie. Li accomuna invece un medesimo avversario: la lobby anti-ambientale.

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Il libro ha messo in luce l'assoluta varietà dell'ambientalismo, la sua ricca ed esuberante espressione nel tempo e nello spazio. Nel passato sono esistite diverse battaglie nazionali, che peraltro si sono creativamente influenzate. Gli scontri sui trattati segnalano un nuovo tipo di confronto fra ambientalisti, non più vantaggioso per le parti ma discordante e potenzialmente distruttivo. Tuttavia, al di là delle differenze, resta qualcosa che accomuna. Se esiste veramente un'idea che li unisce, che mette insieme l'americano John Muir con il Mahatma Gandhi in India, Wangari Maathai in Kenya con la tedesca Petra Kelly, questa è, penso, l'idea di moderazione. Nel corso di tutta la storia, coloro che hanno esercitato un potere hanno dimostrato nella loro condotta una forte inconsapevolezza del limite, sia rispetto l'ambiente sia rispetto gli altri esseri umani. I capitalisti hanno sfruttato i lavoratori, i socialisti hanno represso i cittadini, entrambi hanno voluto dominare la natura, nella convinzione che questa non potesse ribattere. Nel loro credo, e spesso nella pratica, i verdi sono piuttosto caratterizzati dalla moderazione: lo stupore e la riverenza con cui il discepolo della wilderness guarda la natura selvaggia, la tenerezza con cui il romantico bucolico accarezza la terra, o ancora, i calcoli statistici con cui lo studioso ambientalista cerca di conservare il patrimonio naturale, preservando la crescita. Un'indicazione che riunisce tutte le sfumature del verde, tutte le varietà dell'ambientalismo, si ritrova in un'osservazione del sinologo indiano Giri Deshingkar: la civiltà moderna ci separa dal passato e dal futuro, sottovalutando il sapere e le istituzioni tradizionali, e dunque spezzando i legami con i nostri avi, allo stesso tempo concentrandosi sul successo individuale, qui e adesso, finendo così per svalutare drasticamente il futuro. «Nel lungo periodo siamo tutti morti»: la frase del grande economista inglese John Maynard Keynes potrebbe benissimo essere assunta come epitaffio del XX secolo. I processi che hanno guidato lo sviluppo economico nel primo e nel terzo mondo, nelle nazioni socialiste e quelle capitaliste, hanno prodotto - in alcune aree e per alcuni popoli - un autentico e sostanziale aumento del benessere. Sono stati però processi contraddistinti da una profonda insensibilità verso l'ambiente, un'indifferenza spietata nei confronti dei bisogni delle generazioni a venire. Hanno anche perpetuato, e a volte intensificato, le divisioni sociali, fra i ceti che consumano e i salariati. Il movimento verde globale ha scosso con grande insistenza popolazioni e governi dalla loro paralizzante cecità: l'ha fatto lottando per un mondo in cui la tigre possa continuare a percorrere le foreste del Sunderbans e il leone possa attraversare maestosamente le pianure africane. Un mondo in cui il raccolto potrà essere più equamente distribuito ai membri della specie umana, in cui i nostri figli potranno liberamente bere l'acqua dei nostri fiumi e respirare l'aria delle nostre città. In questo senso il movimento ambientale ci ha indicato il nostro futuro comune e i molteplici sentieri per percorrerlo.

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2000-2015: nota del curatore


Cronologia


Ramachandra Guha pubblica questo pioneristico saggio nel 2000. Nei successivi quindici anni sono innumerevoli gli eventi, sparsi nei vari continenti, sui quali basare una storia dell'ambientalismo mondiale. Sono stati (anche) gli anni dell'amministrazione americana di George W. Bush, distruttiva dal punto di vista della tutela ambientale, della preoccupazione per lo scioglimento dei ghiacci e per gli sconvolgimenti climatici, delle campagne di Greenpeace, del rinnovato dibattito sul nucleare e le energie rinnovabili, della green economy... Ne ho selezionati alcuni - in continuità con i temi analizzati da Guha - dalla preziosa timeline offerta da www.environmentalhistory.org.

2000 L'artista e attivista svizzero Bruno Manser, dichiarato persona non grata dal governo malese, scompare mentre cerca di raggiungere nel Sarawak i guppi Penan, con i quali lotta contro la deforestazione. La morte è ufficializzata nel 2005.

2001 Nuova repressione in Cina contro quanti contestano il progetto delle Tre Gole. Nel frattempo circa trecento funzionari sono incriminati per corruzione. La diga viene inaugurata nel 2003, dopo una serie di evacuazioni di massa.

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2014 Il dipartimento di giustizia americano infligge a Andarko Petroleum una multa di 5,15 miliardi di dollari per i danni subiti dai Navajo in seguito all'estrazione di uranio.

2015 Si svolge a Parigi Cop 21, la ventunesima sessione annuale della conferenza delle parti della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici. L'accordo internazionale punta alla riduzione delle emissioni di gas serra e al contenimento del riscaldamento del pianeta. La popolazione mondiale ha raggiunto i 7,3 miliardi di individui: gli studiosi stimano che nel 2050 la specie umana toccherà i 9 miliardi.

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