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| << | < | > | >> |Indice9 Prefazione di Simone Siliani LA DIAGONALE DI PITAGORA 15 Nasta 17 Ippaso 23 La battaglia del fiume Sagra 29 I dieci punti 35 Teano,Trofonio, Milita 43 Crotone 49 La stazione per Metaponto 57 Cilone 61 Il Maestro 67 Il Pentagramma 77 La tetrade 89 La morte di Aradeo 97 Gli oligarchi 105 Il tempio di Hera 109 Il pentagono 119 L'odio 125 Il precipizio 129 Epilogo 131 Postfazione OLTRE IL CIELO DEI GIUSTI 141 Capitolo primo 159 Capitolo secondo 177 Capitolo terzo [...] 357 Capitolo diciannovesimo 361 Era ormai l'ultimo mese della primavera e dell'anno... LA MATEMATICA DI PITAGORA 367 Appendice A I numeri amicabili 368 Appendice B I numeri perfetti 370 Appendice C Incommensurabili 373 Appendice D Proporzione estrema e media 377 Appendice E Fibonacci 379 Appendice F L'Ultimo teorema 384 Appendice G I numeri primi sono infiniti 386 Appendice H La radice quadrata di 2 non è un numero razionale 389 Appendice I Rapporto tra lato e diagonale del pentagono regolare 393 Appendice L Numero Aureo 395 Appendice M Relazione fra Φ e successione di Fibonacci 399 Appendice N Il più irrazionale degli irrazionali 401 Appendice O Le terne pitagoriche sono infinite 403 Bibliografia di riferimento |
| << | < | > | >> |Pagina 17La mente si andava schiarendo durante la camminata che lo portava dalla campagna alle rade casupole di periferia. Fra le tinte verdi della vegetazione sprazzi morbidi di luce, il bianco della via. I muscoli delle gambe, indolenziti allo sforzo dei primi passi, erano tornati in armonia con il movimento. Si era fermato più volte a bere dell'acqua e si sentiva davvero bene. Sceso il crinale della collina e percorso un ampio tratto di radura dove il pietrisco della strada si diradava scomparendo nell'erba dei prati, rimontò il promontorio di Cocinto. Appena cominciò ad avvertire la fatica incurvò le spalle, piegò la testa, mantenne l'andatura. La via curvava verso destra, ma lui proseguì dritto, con i sandali calpestò dapprima terriccio soffice, poi lastre rocciose, finché si bloccò. Prese fiato, alzò di pochi gradi lo sguardo: in fondo al dirupo, risplendenti, le architetture degli edifici sacri, la piana allungata verso il mare, il porto. Si spostò con attenzione lungo il bordo del pendio per accostarsi ai massi sporgenti, si sollevò a più riprese, facendo ogni volta leva sul piede destro, fino a guardare più lontano che poteva. Piccoli uomini stavano caricando due grandi navi dai legni tersi, indovinava al lavoro carpentieri, funai, velai, falegnami. Le ginocchia gli vibravano per lo sforzo e la vertigine. Doveva affrettarsi, riprese il cammino e ritornò sulla strada quando era ormai in prossimità delle mura. Meditava su quella città amica intorno a sé, che la leggenda voleva fondata da Caulonio, figlio dell'amazzone Clete, al tempo remoto della guerra di Troia. Si ricordò che il giorno prima alla locanda aveva ascoltato il racconto di quando, alleata di Crotone, era stata sconfitta sul fiume Sagra dalla città di Locri. Aradeo si rifugiava nei pensieri per ingannare il tempo del tragitto e tenere lontana l'apprensione dell'incontro, ma nella sua mente si affacciavano infingardi gli interrogativi che sapeva avrebbe dovuto porsi e a cui avrebbe presto dovuto rispondere: perché l'appuntamento? Quali amici glielo avevano comunicato per bocca del servo? E chi era quel Nasta per il quale il servo lo aveva scambiato? Avrebbe voluto liberarsi da quelle domande, rimandare le risposte a un momento successivo, ma ci riusciva sempre con maggiore difficoltà. Era giunto alle strade del centro gremite di quel via vai animoso di chi vende e di chi acquista, movimento continuo caotico solo in superficie; un nugolo di bambini in corsa lo avvolse, e mentre saltellavano festosi in girotondo ne approfittò per rallentare l'andatura, la gola nuovamente arsa. Un vecchio ricurvo che gli veniva incontro vacillò al turbinio della ciurma dei pargoli che spostava il suo baricentro, alzò a mezz'aria e aprì le braccia mostrando il dorso delle mani ossute, nella destra stringeva un ramo secco. Aradeo gli era a fianco e ruotò il busto. L'anziano, che aveva gli occhi e la bocca nascosti dal giro del mantello, riprese il passo esitante con il bastone teso in avanti mosso a segnare un semicerchio. Seguì la figura che si allontanava, intravide da un lato, fra la calca di avventori, un emporio con giare e larghi recipienti aperti, rigogliosi di frutta e ortaggi. Continuò a girarsi, guardandosi intorno fino a ritrovare la direzione originaria, e decise di cercare un'anima benevola a cui chiedere dell'acqua. Scosse la polvere dalla tunica, si approssimava l'ora dell'incontro. L'uomo dalla barba corvina, con il corpo adornato da una raffinata clamide, appoggiato al muricciolo di quello che doveva essere il suo cortile, sbraitò, pochi istanti e un ragazzo sbucò dalla porta della casa vicina con un bacile. Poteva avere otto o nove anni, i suoi occhi neri spalancati non si staccavano dal forestiero che raccoglieva l'acqua con le palme delle mani unite per bere e per lavarsi. Aradeo aveva un fratello più piccolo di quella età e ne ebbe nostalgia, perciò gli sorrise con tenerezza. Il ragazzo non rispose al sorriso ma continuò a fissarlo sbigottito. L'uomo urlò ancora e il ragazzo scomparve. Le folte ciglia e la barba marcavano il viso felino, doveva essere il padre, aveva esaudito il suo desiderio, era stato gentile in sostanza, ma senza un accenno di comprensione né un sorriso. Sembrava guardarlo in trasparenza come si fa con gli estranei di cui si ha pregiudizio. Ringraziò, riprese il cammino; era più vicino di quanto avesse pensato, e alla fine dell'ultima stretta traversa, svoltando nel corso, la piazza centrale gli si aprì davanti come un anfiteatro in piena rappresentazione: uomini a gruppi si contendevano la parola e si agitavano, mentre ovunque donne con bambini, ambulanti, vecchie elemosinanti davano insieme vita a quel flusso in movimento costante proprio dell'agorà, il cuore pulsante della polis. Si fece largo tra la folla, seguendo o contrastando la corrente, a suo agio eppure domandandosi ancora perché i suoi amici gli avessero fissato quell'appuntamento. Quali amici, poi? Quelli che aveva conosciuto il giorno prima alla locanda, di cui non sapeva quasi niente e che niente sapevano di lui? O gli amici che appartenevano alla Scuola, forse? Doveva incontrare Ippaso, uno degli uomini di spicco a Crotone, conosciuto e riconosciuto in tutta la regione e oltre. Perché Ippaso era a Caulonia, e per quale ragione aveva voluto un appuntamento con lui – o, meglio – con Nasta, per il quale era stato scambiato? Aradeo, pur di buona cultura, non aveva nessuna frequentazione con i potenti e non faceva parte della Scuola che aveva raccolto in poco tempo tanti proseliti fra le famiglie importanti della città, anche se conosceva bene qualcuno dei suoi membri, con i quali aveva discusso e condiviso una parte degli insegnamenti di vita che vi si impartivano. Non appena avesse appagato la sua curiosità, dato che non aveva incombenze imminenti, sarebbe tornato a Crotone. Dall'alto la moderna architettura dell'agorà formava un quadrato, il centro di un formicaio dai cui angoli si immettevano uniformi minuscoli esseri laboriosi. Si erano andati casualmente a disporre lungo la diagonale, presagio di un giorno incerto. Iniziò cercando Ippaso sugli scalini del grande palazzo, domandando alle persone ai margini dei gruppi, ma nessuno lo aiutò, erano tutti oltremodo intenti alle loro disquisizioni. Finalmente arrivò nel punto centrale della piazza dove alcuni uomini silenziosi, che sembravano in attesa di un qualche evento, gli risposero. Ippaso sarebbe dovuto arrivare a momenti. Ai margini della piazza, sul lato est, per un attimo qualcuno avrebbe potuto intravedere fulmineo il bagliore del coltello sotto il chitone, stretto nella mano di un uomo che non distoglieva lo sguardo da Aradeo, che con gli altri attendeva. «Eccolo, sta arrivando Ippaso» annunciò un uomo a mezza voce indicandolo. Non seppe come, ma lo individuò anche lui e subito gli andò incontro. Li separavano una ventina di metri, e Aradeo si aprì la strada con modi spicci, fissando il traguardo: temeva di perderlo di vista. All'incedere di Ippaso, invece, si apriva spontaneo davanti a lui un varco. Quasi un'aura esaltava la sagoma della figura minuta, eppure imponente, di quell'uomo così sobrio ed elegante. Guardandolo più da vicino, la fronte, le rughe e il mento ne rivelavano l'intelligenza, il giudizio, l'umiltà. «Scusami, Ippaso, se così mi presento! Il mio nome è Aradeo». Cordiale Ippaso rispose: «Ma figurati, è per me un piacere. Cosa posso fare per te?». «È che dovevamo incontrarci qui, prima del tramonto...». Ippaso ebbe un'esitazione, infine chiese: «...Ci conosciamo?». «No, o almeno non personalmente, dei miei amici mi hanno detto, o meglio mi hanno fatto sapere, che dovevo incontrarti qui a questa ora». «Capisco» commentò pensieroso Ippaso. «Come dici di chiamarti?». «Aradeo è il mio nome, anche se oggi mi hanno chiamato Nasta...». Gli occhi di Ippaso, prima velati di sospetto, si illuminarono, e con slancio lo avvicinò a sé stringendolo in un abbraccio e sussurrandogli: «Qui non possiamo parlare». Per un momento la coppia, ora unita e confidente, si era completamente isolata dal resto. «Tu certo conosci il significato dei numeri, sai il valore del 3 e del 10. Ma forse non sai che neppure la musica si può descrivere solo attraverso numeri interi...». Ippaso sciolse la stretta, prese per un braccio Aradeo e cominciò a portarlo tra la folla verso un punto preciso. «Torniamo a Crotone» gli disse, «durante il viaggio ti racconterò». D'improvviso ci fu un movimento appena percepito alle loro spalle e Ippaso si accasciò su Aradeo, che d'impulso lo sostenne per non farlo cadere e per non cadere a sua volta. Per aiutarlo stese il braccio intorno alla sua schiena finché la mano si ritrovò a impugnare il duro manico di un coltello, la lama infissa nella carne di Ippaso. Il silenzio s'impadronì della piazza, i gruppi si sciolsero per formare un unico, fitto cerchio nel quadrato dell'agorà. Allora la folla si aprì, e al centro la scena del delitto si stagliò come un gruppo statuario, un uomo che sosteneva un corpo pugnalato a tradimento, il corpo del ben noto Ippaso. Tutti videro Aradeo appoggiarlo a terra, girarsi intorno attonito e sorpreso, affannarsi, gridare: «No! Non sono stato io! Aspettate, non è come pensate!». Si rese conto che nessuno poteva pensare altro, che non c'era altro da pensare, e che la moltitudine stava iniziando a richiudersi e a serrarsi su di lui, l'assassino, l'assassino che aveva appena ucciso Ippaso. Allargò rapidamente il braccio ruotandolo, minacciò: «Fermi! State lontano!» non stringeva niente nella mano ma minacciava come se puntasse una lama, e istintivamente i più vicini si ritrassero. Avanzava rigido a brevi passi, tenendo il braccio proteso davanti a sé. Capì che non c'era più tempo e affrettò il passo, buttandosi in avanti con la furia del terrore. Nella direzione in cui si stava muovendo la ressa formava un angusto corridoio che si andava restringendo come un imbuto. Ci si scaraventò dentro e, cieco, cominciò a correre, correre, correre. | << | < | > | >> |Pagina 77Lo afferrarono di peso, ancora una volta, ma per trascinarlo fuori, quanto tempo sarà passato?, uscirono dall'edificio, poco tempo, è ancora notte, ombra e luce ancora si alternavano finché gli sembrò che fossero giunti a un palazzo nei pressi dell'agorà, dove entrarono e lo abbandonarono in una stanza, di nuovo. Non era buia, due fiaccole ai muri opposti la rischiaravano. Si accorse di non essere legato, e per qualche ragione gli sembrò strano. Si guardò meglio intorno. La stanza era un immenso e spoglio salone, e lui ne occupava il centro. Due sedie si fronteggiavano a breve distanza, in attesa. In mezzo un piccolo tavolo. Alle sue spalle la porta da cui era entrato, di fronte quella da cui qualcuno sarebbe presto arrivato. Il suo aguzzino? Rimaneva in piedi, spossato, gli occhi non riuscivano a fissarsi se non nel vuoto, le pareti roteavano. Una serratura scattò, la porta di fronte si aprì, entrò Cilone, che si presentò e gli disse: «Accomodati, prego... Ma i tuoi vestiti sono fradici!». «Non sono Nasta, non ho ucciso Ippaso, questa è la mia città, io sono Aradeo!» gridò. Cilone lo guardò e sorrise: «Lo so, e adesso ti cambierai anche i vestiti». Voltò la testa verso la porta aperta: «Servi! Presto, portate la veste!». Un brivido caldo gli accarezzò la schiena, si sentiva sollevato, si sentiva frastornato. Due servi portarono una tunica pulita e un panno. Si asciugò, si cambiò, si accasciò finalmente sulla sedia. Cilone era in piedi, al centro della stanza, e parlò: «Ascoltami». «Nasta è uno di noi, agisce per nostro conto». «Nasta non esiste. L'ho creato io, per ingannare i nemici della nostra città». Ascoltando il tono asciutto e la voce calma di Cilone, Aradeo recuperava il possesso dei propri sensi. Raddrizzò la schiena, fino a prendere completa coscienza del suo interlocutore che intanto continuava a raccontare: «Ippaso voleva collaborare, dirci qualcosa di importante, una informazione fondamentale: il giorno in cui i nemici della polis tenteranno il colpo di stato per diventare i padroni di Crotone, e forse anche le modalità con cui si muoveranno». Capiva. Nasta doveva incontrare Ippaso. «Ma se è un fantasma» intervenne, «una vostra creazione, come avrebbe mai potuto incontrarlo davvero? E poi chi sono i nemici di Crotone? L'oligarchia di Locri forse?». Un sorriso beffardo apparve sul volto di Cilone. «Mi meraviglia» disse, «che tu non lo abbia già capito, Aradeo, così colto e perspicace, discendente di una delle famiglie più antiche della città! Ho creato Nasta per deviare l'attenzione dei nemici e insieme preparare il terreno per bloccarli. Ippaso è andato a Caulonia proprio per stare lontano dai congiurati che vivono nella nostra città e per poterci incontrare con maggiore sicurezza. Loro lo hanno seguito. Gli uomini che obbediscono ai miei ordini, pur senza conoscere l'intero disegno, hanno reso Nasta un fantasma vivente, per confondere il nemico. Ma tu, Aradeo, tu sei capitato proprio nel posto sbagliato al momento sbagliato. Certo, tu poi hai agito di conseguenza, sappiamo bene il carattere che hai, e permettimi anche di dirti che hai agito da stolto. Anche Ippaso sapeva che Nasta era dei nostri, per avere la massima copertura dovevamo farlo credere anche a lui. Nessuno oltre me sa la verità, neppure il governatore che proteggo e per il quale agisco. Hanno ucciso Ippaso prima che potesse incontrare noi, ma dopo che aveva incontrato te. Quindi io ti chiedo, Aradeo: a te Ippaso cosa ha detto?». La figura di Cilone trasmetteva evidente sicurezza, il suo tono di voce era rassicurante, affabile, ma qualcosa nei suoi occhi, nel suo modo di porsi, non convinceva Aradeo, che tuttavia rispose subito: «Ha avuto solo il tempo di dirmi due parole sull'armonia e sui numeri che la descrivono, niente di comprensibile che vi possa essere di aiuto... Ma, tu, Cilone, non hai risposto alla mia domanda: chi sono i nemici della nostra città di cui parli?». Cilone sbuffò divertito: «Il fatto è, vedi, che nel tempo la Scuola è diventata una setta, aperta esclusivamente ai suoi adepti, chiusa in se stessa e nel suo sapere... Non mi segui?». Aradeo lo osservava attonito. Continuò. «D'accordo, facciamo un passo indietro. Tu pensi a quella grande costruzione defilata dove non pelli di capra ma cuscini ripieni di foglie secche accolgono i glutei dei discepoli che si riuniscono e si esercitano sulle relazioni fra le discipline: matematica, musica, astronomia, medicina, fisiologia, discipline fondamentali e duplici, da un lato l'arte, dall'altro la scienza». «Si, appunto» interloquì Aradeo rispondendo alla domanda retorica. «Pensi a quell'edificio e lo trasfiguri. «Non sei il solo, molti dei nostri concittadini idealizzano il luogo dove poco dopo il Suo arrivo... eri ancora un bambino o forse non eri neppure nato... a decine si presentarono e chiesero con umiltà di essere accettati, ora sono sei o settecento. Un esito apparentemente imprevedibile, prodigioso. «Per essere ammessi si deve sostenere una prova, lo sai? È una questione più prosaica di quanto sembri: si viene respinti o accettati, e molti portano in dono denaro». «Sì appunto, è da sempre consuetudine apportare il proprio alla comunità». «In quel luogo Egli arrivò e divenne da subito il Maestro. «Uomo affascinante, di straordinaria bellezza, forse un dio... qualcuno dice di aver visto che ha una coscia d'oro... e che il fiume Nesso lo salutava mentre lo stava attraversando... con i capelli lunghi e bianchi legati dietro alla testa, Egli è custode di segreti che gli si sono stati rivelati durante viaggi di conoscenza, dalle sue asserzioni enigmatiche si sprigionano profumi di Ionia, Caldea, Persia, Egitto, Arabia, Fenicia, Tracia... «...e acquistò da subito un grande potere. «Lo sai davvero come si è ammessi alla Scuola?». «Viene richiesto di essere se stessi, senza remore». «E bravo! E allora anche tu lo credi un esame fra i più impegnativi, in cui l'aspirante deve mostrarsi senza imbroglio, mentre Egli lo analizza nei dettagli: viso, corpo, andatura...». «...E il timbro della voce» aggiunse Aradeo, «è importante per loro, è la vibrazione intima, l'Essere. So che il Maestro valuta con severità ma anche con generosità, conosce lo scompiglio che si annida nell'uomo, lo sconcerto...». «Sì, forse, ma è Lui, solo Lui a decidere: o si viene ammessi o respinti, per sempre». «Credo che qualche volta inviti l'aspirante a prepararsi con maggiore convinzione e ripresentarsi, gli viene data una seconda opportunità». «In ogni caso, non ti sembra un potere fortemente discrezionale? Non vedi il pericolo nel porre ogni decisione nelle mani di un solo uomo? «Dopo quell'incontro il Maestro non rivolge più la parola al novizio fortunato per lungo tempo, tempo in cui è la comunità che lo prepara e lo osserva, costantemente». «So che sono deprecati i pettegolezzi e le critiche» interloquì Aradeo, «viceversa si incoraggiano la fratellanza e l'amicizia!». «È vietata ogni critica, certo, e ammessa solo l'ubbidienza. Dopo tre anni il novizio, se non è stato allontanato prima, assurge al titolo di Acusmatico e seguono altri cinque anni nei quali gli è vietato di esprimere opinioni sugli argomenti che riguardano le discipline fondamentali. Può solo ascoltare. Vige una regola: il Silenzio». Puntualizzò ancora Aradeo. «È solo perché così può prepararsi al lavoro mistico e scientifico, imparare a essere padrone di se stesso, a conoscersi». «Sarà... non potendo parlare di scienza alcuni Acusmatici si occupano di politica, ma lasciamo perdere questo argomento... tuttavia ora l'allievo ha il privilegio di incontrare il Maestro, il quale, celato da una tenda, lo ascolta svelare tutto di se stesso, donarsi completamente. «Alla fine il Maestro saprà tutto di lui». «Un momento Cilone, dal tuo resoconto anche questo atto appare subdolo o perlomeno ambiguo. Al contrario, da quel che mi hanno riferito gli amici della Scuola, le intenzioni del Maestro sono cristalline: incoraggiare nel discepolo la catarsi, la purificazione, non imponendola ma lasciando che avvenga spontaneamente. «Il Maestro non accusa né giudica, non chiede pentimento. L'Allievo deve solo lasciarsi andare senza timore o vergogna, la tenda evita che il suo sguardo si incontri con quello del Maestro, lo libera dal pudore, evita che si rinchiuda in se stesso. Così il discepolo scava fino in fondo e porta in superficie le sue lotte interiori, le sue sconfitte, le verità inconfessabili e disonorevoli, e comprende, alla fine, comprende che ne è proprio lui la vittima prima. «È l'inizio della liberazione». «Addirittura... Lo sai caro amico mio che il paziente, il discepolo non ancora libero dal male, racconta i suoi sogni, e il Maestro vi discerne... l'essenziale dal superfluo, evince e indica il comportamento da seguire, quale strada intraprendere». Cilone aveva un sorriso ironico disegnato sulle labbra, Aradeo serio prese di nuovo la parola per cercare una spiegazione. «Mi ricorda una pratica in uso negli oracoli narratami da Enea, il mio precettore. «Un uomo che soffre di un male, dorme nelle stanze più recondite del tempio, attende i sogni per raccontarli al sacerdote – un intermediario di Asclepio, padre di Igea, la Salute – che capirà da quale male è afflitto e gli offrirà la cura. «La vita della comunità deve essere allo stesso modo parca e intensa. Alle prime luci dell'alba gli allievi meditano passeggiando sulla spiaggia mentre sul promontorio in lontananza si delinea il profilo del tempio di Hera Lacinia. La mattina la dedicano allo studio religioso e agli esercizi del corpo, il pomeriggio alla musica, alla danza, alle abluzioni. «Prima di prendere sonno, ognuno, solo di fronte a se stesso, rivive tre volte gli accadimenti del giorno, esercita la memoria e si chiede: quali errori ho commesso? Quali compiti ho portato a termine? Quali obblighi importanti ho eluso? Vita severa e faticosa, sottomessa alle regole stabilite...». «Solo...». Cilone calca con forza la parola, poi riprende. «...alcuni, pochi, degli Acusmatici dopo cinque anni saranno selezionati e diverranno Matematici». «I Matematici possono studiare e produrre idee, formulare ipotesi proprie, confrontarsi con il Maestro nel cortile della casa... ecco perché gli Acusmatici discutono di politica, non possono farlo certo i Matematici, completamente dediti a faccende di ben altro profilo». «I Matematici vivono immersi nella comunità e non possono parlare del loro lavoro con alcuno al di fuori di essa. Anche a loro è negata la parola! «Il primo silenzio, quello degli Acusmatici, lo hai giustificato con la ricerca... cosa hai addotto... sì certo, la scoperta interiore, e questa seconda proibizione della parola come la motivi?». Cilone non era interessato alla risposta e proseguì senza una pausa. «Ti ripeto, nel tempo la Scuola è diventata una setta, aperta esclusivamente ai suoi adepti, chiusa in se stessa nel suo sapere. In particolare... è diventata soprattutto una setta che diffonde idee reazionarie». Aradeo era sconcertato da quell'affermazione. Pitagora da Samo e la sua scuola nemici della città! Il Grande Maestro... «Come è possibile?!» esclamò. | << | < | > | >> |Pagina 139«Ci siamo quasi?». chiedeva insistentemente una voce dentro di me. E non sapevo se la risposta che avrei desiderato sentire fosse sì oppure no. Può capitare di non sapere esattamente ciò che si vuole, ed ero in uno di quei momenti. Ed ecco che ancora scorrevano pigramente davanti ai nostri occhi i declivi costellati di alberi di ulivo, che tracciavano con la chioma forme cangianti sullo sfondo del cielo blu dell'Enotria. Eravamo in viaggio a piedi, era il terzo giorno di cammino ed eravamo partiti già da parecchie ore – fin dalle prime luci dell'alba in effetti – facendoci lentamente strada fra le dolci alture che da Metaponto levitavano gradualmente, accompagnando il corso del fiume Bradano, diretti verso un luogo «segreto» in cui Pitagora aveva deciso di andare a trascorrere le sue ultime ore insieme a noi, i suoi discepoli, amici e compagni di vita. Eravamo i più intimi tra quei pochi che erano rimasti al suo fianco, e alcuni dei presenti (non includo me, Clito, in questo novero) erano come le colonne portanti su cui il tempio filosofico di Pitagora e i suoi progetti terreni s'erano innalzati; affluenti di un grande fiume che era tale anche in virtù del loro contributo. Tante esperienze erano scorse rapidamente, come l'acqua dei torrenti di primavera; e ora, così sembrava, tutto stava per finire. Camminavamo in silenzio, un silenzio solo verbale, quel genere di silenzio che si avverte gravido di pensieri, di conversazioni interiori appassionate e prolungate. Ero infatti certo che ognuno, come stavo facendo io, si stesse chiedendo che ne sarebbe stato dell'avventura della nostra vita, dopo tutto quello che il nostro amico e maestro ci aveva insegnato. L'incertezza un po' crepuscolare faceva rabbrividire l'animo: eccitazione, malinconia, e il senso di un destino incombente. Tutto conduceva al momento della verità, come quando l'atleta sta per tagliare il traguardo vittorioso, carico della spinta emozionale datagli dalla visione della meta, e di tutta l'intensità della fatica accumulata non solo nei muscoli, ma in tutto il suo essere. Ma i cuori non sembravano pesanti – il mio non lo era, perlomeno – sebbene ammutolite fossero le bocche, pensierose le menti e stanche le membra. Pitagora ci aveva comunicato che la gioia di vivere trascende i confini dell'esistenza terrena, e anche adesso, nelle sue ultime ore, era forse l'unico del nostro gruppo a conservare una baldanza giovanile nel passo, nonostante l'età. E ancora, in alcuni fuggevoli attimi, gli si poteva cogliere in viso quel suo sguardo furbesco, ammiccante, che da sempre aveva contraddistinto i suoi mobilissimi occhi neri, perennemente sorridenti anche quando insegnava, pacato e sereno, riflessivo o meditabondo. Quando impartiva ai suoi discepoli la straordinaria conoscenza che nobilita l'esistenza, ci proiettava in un universo spirituale di transiti ciclici in questo sempre più stanco, distratto mondo, in cui l'uomo sembra essere stato gettato per un assurdo gioco del destino, balocco degli dei o del fato. Ma ormai noi sapevamo che non era affatto così che stavano le cose. La sera prima di partire per il suo ultimo viaggio, Pitagora ci aveva riuniti tutti nella sua casupola appena fuori Metaponto — in cui si era adattato a vivere dopo l'esilio impostogli dai governanti di Crotone — per un ultimo pasto insieme, forse un po' meno frugale di quelli che eravamo soliti consumare in sua compagnia. Si trattava di un momento – piuttosto insolito – di atmosfera conviviale, nel corso del quale il maestro intendeva preparare i cuori dei suoi discepoli, perlomeno di quelli che gli erano più vicini nello spirito (ché molti altri ne aveva ancora sia a Metaponto che a Crotone, e sparsi qua e là nell'Ellade italica) e alleggerirli di un peso inutile, quello del dolore per la sua imminente assenza. Perciò quella sera non mancarono le risate, le canzoni e gli aneddoti, le reminiscenze buffe o anche drammatiche degli anni vissuti insieme, dai «fasti» della scuola da lui fondata a Crotone, l'accademia italica (o akousmatica, come lui preferiva definirla, una definizione che ne illustrava fin da subito gli scopi e le caratteristiche), a quelli più oscuri ma pur sempre ricchi di intima crescita del dopo-esilio. Quando l'ora si fece tarda Pitagora abbandonò il tono giocoso e si rivolse a noi tutti, in tono sobrio ma ricco di dolcissime venature, che trasparivano soprattutto dallo sguardo. Sostava su ciascuno di noi con la leggerezza di una farfalla e la fermezza di una roccia immemore della propria origine; con l'intensità di un tramonto d'estate, che non si impone alla vista ma attrae tutta la tua attenzione, con la serenità del lento scorrere delle nuvole primaverili nel cielo azzurro. «Abbiamo fatto tanta strada insieme» esordì, «e tanta ne farete ancora voi, alcuni insieme, altri da soli. Ho percepito – e assorbito – in questi anni l'essenza di ciascuno, che mi ha arricchito, e ne sono profondamente grato, perché in essa vedo all'opera una mano divina intenta a comporre un'immagine variegata, attraverso le diverse tracce interiori che ogni persona – un cosmo a sé stante – lascia sul terreno dell'esistenza.
«So che ciascuno di voi è stato toccato dal divino, e lo esprime a suo modo,
secondo la manifestazione particolare della
sua essenza, la sua diversità, le sue peculiari caratteristiche e
predisposizioni. Tutto ciò mi ha sempre rallegrato, e non cesso
di stupirmi di fronte alla saggezza e alla multiforme espressione
del creatore divino che si esprime in tutti voi, in ognuno in
modo diverso. Per questo ho riflettuto su tutto ciò e ho pensato, se voi lo
permettete, di salutarvi con un ultimo suggello
sul senso unico della missione individuale di ciascuno di voi, la
vostra missione particolare in questa vita, lo scopo per cui siete
venuti al mondo, identificando così il bersaglio da centrare con
maggiore accuratezza.
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