Copertina
Autore Ha Jin
Titolo Pazzia
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2003, Le tavole d'oro , pag. 316, dim. 140x215x25 mm , Isbn 978-88-7305-913-4
OriginaleThe Crazed [2002]
TraduttoreMonica Morzenti
LettoreGiovanna Bacci, 2003
Classe narrativa cinese
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Pagina 7

Quando al professor Yang venne un ictus, nella primavera del 1989, fu una sorpresa per tutti. Aveva sempre goduto di ottima salute e i colleghi invidiavano la sua energia e la sua produttività. Aveva al suo attivo più pubblicazioni di tutti ed era una colonna portante della facoltà di Letteratura, dove dirigeva il corso di specializzazione, curava una rivista semestrale e insegnava a tempo pieno. Ormai del suo collasso parlavano persino gli studenti dei corsi inferiori; qualcuno sarebbe andato a trovarlo in ospedale se la segretaria Peng non avesse annunciato che il signor Yang, in terapia intensiva, non poteva ricevere visite.

La sua malattia fu un colpo per me, perché ero fidanzato con sua figlia Meimei e il professore mi stava preparando agli esami di ammissione al corso di specializzazione in Letteratura classica dell'Università di Pechino. Se fossi riuscito a superarli avrei potuto raggiungere la mia fidanzata nella capitale, dove avevamo progettato di costruire il nostro nido. Il ricovero del signor Yang interruppe il mio lavoro e per una settimana intera non fui in grado di prendere in mano un libro, dal momento che dovevo andare a trovarlo tutti i giorni. Ero angosciato: senza un'adeguata preparazione non ce l'avrei assolutamente fatta ad affrontare gli esami.

Ying Peng, la segretaria del Partito della nostra facoltà, mi aveva appena convocato nel suo ufficio. Sulla scrivania un ventilatore ronzava oscillando avanti e indietro per allontanare l'odore dell'insetticida spruzzato nella stanza contro le pulci. Agitando la frangetta grigia, mi illustrò il mio compito: a partire da quel momento avrei assistito il mio insegnante tutti i pomeriggi. Il mio compagno di corso Banping Fang, invece, se ne sarebbe occupato di mattina.

«Bene, Jian Wan», disse Ying Peng con un sorriso tirato, «tu sei l'unica persona di famiglia, qui, per il professor Yang. È venuto il momento di dargli una mano. L'ospedale non può offrirgli alcuna assistenza durante il giorno, dunque spetta a noi mandargli qualcuno». Sorbì un sorso di tè da una tazza alta e stretta. Beveva tè nero e fumava sigarette da due soldi, proprio come un uomo.

«Pensa che starà molto in ospedale?» chiesi.

«Non ne ho idea».

«Per quanto tempo dovrò assisterlo?»

«Finché troveremo qualcuno che ti sostituisca».

Con "qualcuno" intendeva una persona che la facoltà potesse assumere come aiuto-infermiera. Benché fossi seccato per il modo in cui mi aveva affidato il compito, non dissi nulla. In un certo senso ero contento dell'incarico, perché sarei comunque andato in ospedale tutti i giorni.

Dopo pranzo, mentre i miei due compagni di stanza, Mantao e Huran, facevano un pisolino, andai alla rimessa delle biciclette che si trovava tra i due edifici del dormitorio. Al contrario delle studentesse, che si erano da poco trasferite in massa nel nuovo alloggio all'interno dell'università, la maggior parte degli studenti maschi continuava a soggiornare nelle costruzioni a un solo piano vicino all'ingresso principale del campus. Tirai fuori la mia Fenice e mi diressi all'Ospedale centrale.

Questo si trovava nel centro di Shanning, e mi ci vollero più di venti minuti per arrivarci. Non era ancora estate, eppure l'aria era soffocante, impregnata di odore di grasso bruciato e rafano stufato. File di panni stesi - lenzuola, camicette, pigiami, salviette, canotte, tute - sbattevano languidi sui terrazzini dei condomini lungo la via. Oltrepassai un cantiere edilizio dove un altoparlante fissato a un palo del telefono stava trasmettendo una partita di calcio; il cronista sembrava addormentato nonostante le intermittenti esplosioni di urla dei tifosi. Tutti gli operai del cantiere stavano riposando all'interno della costruzione ingabbiata dal ponteggio di bambù. La gru, simile a uno scheletro, e le betoniere, che sembravano tamburi, erano immobili. Tre pale erano conficcate in un enorme cumulo di sabbia, oltre il quale una grande insegna gialla mostrava la scritta a caratteri rossi e cubitali: PUNTATE IN ALTO, METTETECELA TUTTA. Sentivo la camicia impregnata di sudore sulla schiena.

La signora Yang era in Tibet per un anno con un gruppo di veterinari. La facoltà le aveva scritto della malattia del marito, ma lei non ce la faceva a tornare a casa immediatamente. Il Tibet era troppo lontano. Doveva cambiare un sacco di pullman e treni e avrebbe impiegato più di una settimana ad arrivare. Scrissi a Pechino a Meimei, che stava sgobbando per prepararsi agli esami del corso di perfezionamento in medicina, raccontandole delle condizioni del padre e assicurandole che mi sarei preso cura di lui e che non doveva preoccuparsi troppo. Le dissi di non precipitarsi a casa, perché non esistevano cure miracolose per l'ictus. A essere sincero, mi sentivo in obbligo nei confronti del mio professore. L'avrei assistito di mia spontanea volontà, anche se non fossi stato il fidanzato di sua figlia, per la gratitudine e il rispetto che provavo per lui. Mi aveva dato lezioni individuali per più di due anni, nel corso dei quali aveva discusso con me di poesia e poetica classiche praticamente ogni sabato pomeriggio, mi aveva consigliato i libri da leggere, era stato il relatore alla mia tesi di specializzazione e mi aveva corretto gli articoli da pubblicare. Era il miglior docente che avessi mai avuto: preparatissimo nel campo della poetica, si dedicava con passione ai suoi studenti. Qualcuno dei miei compagni si sentiva a disagio ad averlo come relatore. «Pretende troppo», dicevano. Ma a me piaceva lavorare con lui. Non m'importava che talvolta mi chiamassero signor Yang junior; in fondo, ero il suo discepolo.

Quando entrai in camera, il signor Yang dormiva. La flebo che gli avevano applicato in terapia intensiva gli era stata tolta. La stanza era una sistemazione di fortuna, abbastanza larga per un letto singolo, ma tetra e piuttosto umida. La finestra quadrata si affacciava a sud, su una montagna di antracite ammassata nel cortile posteriore dell'ospedale. Dietro il mucchio di carbone due ciminiere di cemento sputavano nuvole di fumo biancastro e qualche pioppo oscillava pigramente la chioma. Il cortile posteriore dava l'idea di una fabbrica, anzi, di una centrale elettrica: persino l'aria, lì, pareva grigiastra. Per contrasto, il cortile sul davanti sembrava un giardino o un parco, pieno di cespugli di agrifoglio, salici piangenti, platani e fiori, tra i quali rose, azalee, gerani e iris. C'era persino uno stagno ovale, costruito con rocce e mattoni, brulicante di pesci rossi dalla coda a ventaglio. Medici e infermiere in camice bianco passeggiavano tra i fiori e gli alberi come se non avessero nulla d'urgente da fare.

Nonostante la stanza fosse piuttosto squallida, il solo fatto di goderne era un raro privilegio. Se a mio padre, che faceva il falegname presso una piantagione di alberi nel nordest, fosse venuto un colpo, sarebbe stato fortunato se gli avessero assegnato un letto in una stanza insieme ad altre undici persone. In realtà il signor Yang era rimasto per tre giorni in stato di incoscienza in un posto di quel genere, prima di essere trasferito qui. La segretaria Peng, con infinita insistenza, era riuscita a convincere i funzionari dell'ospedale che il signor Yang era un illustre studioso (benché non avesse ancora la cattedra) che il nostro paese intendeva proteggere come un tesoro nazionale; occorreva dunque che gli assegnassero una camera singola.

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Due giorni dopo il signor Yang ricevette la visita di Kailing Wang, la lettrice della facoltà di Lingue straniere. Aveva portato un mazzo di rose di seta rossa e una copia dell' Anima buona di Sezuan, appena uscito per la Tomorrow Press di Shanghai. Disse che il libro aveva avuto una buona accoglienza e che sulla rivista Teatro straniero sarebbe apparsa una recensione che tesseva le lodi della traduzione, briosa e ben strutturata. Non sapendo cosa fare con quei fiori finti, mi limitai a tenerglieli mentre lei tentava di parlare con il professore.

Era una donna di media statura e indossava un abito color pulce che la faceva sembrare più snella e dissimulava un po' il suo seno prosperoso. Guardandola mi tornarono alla mente le parole del signor Yang sui seni che sembravano pesche, ma cercai di tenere a bada i miei pensieri sfrenati. In realtà avevo un grande rispetto per Kailing. Dieci anni prima il marito, un ufficiale di stato maggiore, era stato ucciso in battaglia al confine tra la Cina e il Vietnam e da allora si era trovata da sola ad allevare il figlio. A quanto pareva non si era aspettata di trovare il professore in condizioni così miserabili. Con voce rotta mi disse: «Non era in questo stato, la settimana scorsa. Perché al telefono mi hanno detto che stava migliorando? È terribile!» Continuava a tormentarsi le mani e le si velarono gli occhi.

Effettivamente quel pomeriggio il signor Yang era troppo fuori di sé per parlare con chicchessia. Di tanto in tanto torceva le labbra in un sorriso infantile che lo faceva sembrare un mongoloide. Il libro che recava il suo nome in qualità di cotraduttore non gli fece il benché minimo effetto, e trattava Kailing come una perfetta sconosciuta. Qualsiasi cosa lei dicesse, lui non rispondeva. Non ero nemmeno sicuro che la riconoscesse. Grugniva e gemeva in modo vago, come in preda a un'emicrania, e la parte superiore del corpo era scossa da frequenti brividi.

Kailing prese la mano inerte del signor Yang e gli piegò le dita, quindi scoppiò a piangere. Continuava ad asciugarsi le guance con un fazzoletto bianco. Di colpo il suo viso sembrò più vecchio, un po' giallastro, come se i muscoli facciali avessero perso la loro elasticità. Aveva il naso chiuso e un pochino gonfio e quando singhiozzava il mento grassoccio sobbalzava in continuazione. Osservandola cercavo di trovare qualcosa da dire per consolarla. Poi si chinò in avanti per scrutare il suo sguardo, che continuava a essere vacuo e acquoso, privo di qualsiasi barlume di coscienza. Su quel volto gonfio, dalle labbra semiaperte, gli occhi erano due fessure filiformi. Lottai contro l'impulso di prenderlo per le spalle e di scuoterlo fino a farlo uscire da quello stato vegetale.

Kailing restò in piedi davanti a lui per più di venti minuti. Di tanto in tanto lo guardava negli occhi, sperando di capire se la riconosceva, ma il professore sembrava un ritardato privo di qualsiasi capacità sensoriale. Le dissi che si trattava soltanto di una brutta giornata e che di solito era molto più lucido e vivace. Lei annuì in silenzio.

Finalmente gli lasciò andare la mano. Appoggiandogli il libro vicino al ginocchio, disse: «Professor Yang, deve guarire. Ho bisogno di lei. Mi aveva promesso di lavorare con me alla poesia di Brecht». Nessuna risposta.

«Ho pronta una prima stesura di qualcuna delle sue poesie e mi piacciono molto», aggiunse.

L'altro continuò a tacere. Lei mi guardò, delusa, massaggiandosi la tempia con il pollice destro.

Quando se ne andò, mi raccomandò di farle sapere se il signor Yang aveva bisogno di qualcosa. Aggiunse in tono pacato: «Quando riprenderà conoscenza, fagli vedere il libro. Sarà contento».

«Non mancherò», promisi, appoggiando le rose sul letto per accompagnarla alla porta.

«Mi spiace dare sfogo così alle mie emozioni. Sono talmente sconvolta». Si sforzò di sorridere.

«La capisco».

«Avrei voluto portare dei fiori freschi. Sono stata in parecchi negozi ma non ne ho trovati».

«Non si preoccupi. Questi durano di più».

Fece un sorriso amaro e se ne andò. La accompagnai per qualche passo nel corridoio, poi mi fermai e la guardai allontanarsi strascicando i piedi, fino a quando non scomparve dietro l'angolo delle scale.

Qualunque fosse il suo ruolo nella vita del signor Yang, la sua visita mi intristì e mi addolorò. Era una vedova piuttosto chiacchierata, eppure quel giorno, in mia presenza, non si era vergognata di versare lacrime per lui, un uomo cui teneva molto. Secondo un luogo comune piuttosto diffuso certe donne, dopo aver studiato lingue straniere per qualche anno, tendevano a diventare espansive, romantiche, persino affettuose. Ecco perché le ragazze della facoltà di Lingue straniere di solito erano più attraenti di quelle che si dedicavano ad altre discipline. Ma questo non spiegava i miei sentimenti nei confronti di Kailing. La sua visita mi aveva commosso perché aveva portato un po' di calore umano in quella stanza spettrale, calore che continuavo a percepire anche dopo che se n'era andata.

Come mai in quei giorni L'anima buona di Sezuan era così di moda? Non riuscivo a trovare una risposta soddisfacente. Avevo letto alcuni articoli sulla commedia, ma in nessuno avevo trovato qualcosa di illuminante, poiché tutti si limitavano a poche note biografiche. I critici, che erano dei fanatici entusiasti, lo celebravano come un capolavoro, ma senza spiegare perché. Forse era bastato il fatto che la storia fosse ambientata in Cina, cosa rara nella letteratura occidentale impegnata, a spingerli a scriverne, non appena era stato di nuovo possibile tradurre Brecht in cinese dopo la Rivoluzione culturale. Secondo me, però, la pièce non era all'altezza di Madre Coraggio e i suoi figli e non era il caso di definirla il suo lavoro migliore come facevano loro.

Il signor Yang si agitò un po' e aprì gli occhi, che incominciarono a muoversi di continuo, inquieti. Ero sconcertato, mi chiedevo perché mai un attimo prima non avesse riconosciuto Kailing, visto che era perfettamente sveglio.

«Aiutami, per favore», bisbigliò ansioso.

«Come?» domandai stupito.

«Ho... ho bagnato il letto». Girò la faccia dall'altra parte.

Gli tastai il lenzuolo sotto le cosce. Santo cielo, aveva bagnato pigiama, trapunta, lenzuolo e il materassino di cotone. Doveva essersi bagnato anche il pagliericcio. «Non si muova, torno subito», dissi e mi precipitai fuori verso la sala infermiere.

Per caso era di turno Hong Jiang, l'infermiera anziana. Venne subito con me. Insieme spingemmo sulle ruote una sferragliante lettiga carica di lenzuola e biancheria pulite. A quanto ne sapevo era la prima volta che il signor Yang perdeva il controllo della vescica, cosa che Hong Jiang disse essere normale tra coloro che erano reduci da un ictus.

Quando ci vide, il professore mormorò: «Mi dispiace molto, davvero».

«Non c'è problema. Non deve sentirsi in imbarazzo», gli disse l'infermiera.

Lo aiutai a salire sulla lettiga in modo che Hong Jiang potesse cambiargli le lenzuola e tutto il resto. Non riuscimmo a spostare lo spesso materasso di paglia di riso, sul quale campeggiava un'evidente chiazza bagnata grande come una foglia di loto, allora l'infermiera la coprì con un sacchetto di plastica e poi, con gesti esperti, si mise a rifare il letto: srotolò il sottile materassino, ci stese sopra il lenzuolo e spiegò la trapunta.

Nel frattempo tolsi al signor Yang il pigiama a righe e i mutandoni a fiori. Li appallottolai e li usai per asciugargli schiena e cosce. Lui arrossì e tenne gli occhi chiusi per tutta la durata dell'operazione. Poiché collaborava, riuscii senza fatica a infilargli le mutande pulite che avevo tirato fuori dal comodino e gli cambiai i pantaloni e la casacca, bagnata sul bordo.

L'infermiera Jiang se ne andò spingendo la lettiga carica delle lenzuola e degli indumenti sporchi; io ero distrutto e senza fiato. Il signor Yang incominciò a piangere in silenzio. Stava sdraiato sul fianco, il viso rivolto alla finestra. Andai dall'altra parte del letto e lo consolai: «È normale. Non se la prenda così».

«Non avrei mai pensato di diventare una tale seccatura», disse lui. «Ah, sarei dovuto morire!»

«Su, non è colpa sua».

«Voglio che tu mi prometta di non raccontarlo mai a nessuno».

«Certo, non fiaterò».

«Grazie». Emise un profondo sospiro e chiuse di nuovo gli occhi.

Appoggiai la schiena al davanzale della finestra e rimasi a osservare le sue mascelle fremere e il pomo d'Adamo muoversi a scatti. Ogni qualche secondo tirava fuori la lingua per leccarsi i baffi grigi.

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Il professor Song venne a trovare il signor Yang il pomeriggio seguente. Non appena mise piede nella stanza, io mi ritirai verso la finestra e sedetti sul davanzale. Lui, nella poltroncina di vimini, estrasse la pipa di giuggiolo dalla borsettina in pelle scamosciata e iniziò distrattamente a riempire di tabacco il fornello. Sembrava stanco, aveva le occhiaie e l'alito gli puzzava di alcol. Anche se beveva, devo ammettere di non averlo mai visto ubriaco. Andava sempre in giro in bicicletta, eppure in un modo o nell'altro riusciva regolarmente a non fare incidenti.

«Shenmin, come va in questi giorni?» domandò affabile al signor Yang, chiamandolo per nome.

Il professore sollevò lo sguardo. «Male, morirò nel giro di due settimane». «Su, ho ancora bisogno di te per litigare. Il nostro corso di laurea non può fare a meno della tua consulenza. Non puoi lasciarci così in fretta».

«Basta litigi, ti perdono», farfugliò il signor Yang.

«Mi mancano i nostri battibecchi. A dire il vero, mi mancano le tue stoccatine».

«Tutto finito fra noi».

Cadde il silenzio. Il professor Song mi lanciò un'occhiata, poi chiese al signor Yang: «Come va l'appetito?»

«Qualcosa mangio».

«Cerca di mangiare di più».

«Non sono un goloso e neppure un buongustaio».

Il professor Song si ficcò la tozza pipa tra i denti per poter azionare l'accendino, ma si fermò e mi guardò con aria interrogativa. Prima che potessi fargli un segno di assenso, si tolse la pipa di bocca e la svuotò nel sacchetto che richiuse accuratamente e si rimise in tasca. Riprese a parlare: «Shenmin, non preoccuparti di niente e pensa solo a guarire, va bene?» Sembrava sincero.

«In questi giorni non ho pensato che a salvarmi l'anima».

«D'accordo, non preoccuparti delle lezioni e della rivista. Ho sistemato le cose, resterai redattore capo. Ho assunto qualche giovanotto che ti aiuti nel lavoro redazionale. È tutto sotto controllo».

«Fà un po' quel che ti pare. A me il lavoro da impiegato non interessa più. D'ora in poi penserò solo con la mia testa e non scriverò che per i posteri».

Un guizzo di sconcerto attraversò il viso del signor Song, che tuttavia riuscì a replicare: «Certo, è così che devi scrivere. Volevo dirti anche che la facoltà ha presentato la tua candidatura a cattedra. Sono sicuro che questa volta non ci saranno problemi. Te la meriti, una promozione, e da molto tempo».

«Datela a chi la vuole. A me non serve».

«Perché?» Il professor Song sembrava sbalordito.

«Non voglio più fare l'impiegato. Ho chiuso».

«Di cosa stai parlando? Non sei forse il nostro migliore studioso?»

«No, ho fatto l'impiegato per tutta la vita, proprio come te. Siamo tutti beni mobili dello stato».

Il professor Song lo guardò allarmato. «Questa non l'ho capita, Shenmin», gli disse. «Perché mai dovremmo buttarci così giù? Siamo due intellettuali, no?»

«No che non lo siamo. Chi può dirsi un intellettuale, in Cina? È ridicolo, chiunque abbia un'istruzione universitaria è definito intellettuale. La verità è che quelli che lavorano in campo umanistico sono impiegati e quelli che operano in campo scientifico sono tecnici. Dimmi un po': chi sarebbe un intellettuale davvero indipendente, con idee proprie e facoltà di dire il vero? Nessuno che io conosca. Non siamo altro che stupidi manovali, tutti quanti, controllati dallo stato: una specie retrograda».

«Dunque non saresti uno studioso?»

«Te l'ho detto, sono solo un impiegato, un piccolo ingranaggio nella macchina della rivoluzione. Anche tu sei come me, né meglio né peggio. Apparteniamo alla stessa schiatta e condividiamo lo stesso destino, ricaduti come siamo nella barbarie e nella viltà. Adesso questo ingranaggio si è consumato e va sostituito, quindi considerami cosa persa».

Il signor Song chinò il capo. Nella stanza c'era un tale silenzio che si sentiva il cinguettio dei passeri all'esterno.

Dopo un po' azzardò timidamente: «Non essere così pessimista. C'è ancora speranza».

«Quale speranza?»

«Tanto per fare un esempio, la nuova generazione di studiosi, come Jian, apporterà dei miglioramenti. È vero che le nostre vite sono andate per lo più sprecate, ma loro impareranno dai nostri errori e avranno una vita migliore».

«Balle. Al massimo diventerà un impiegato di livello superiore».

Il professor Song mi guardò e a me si strinse il cuore. «Shenmin», riprovò, «non essere così duro con i giovani. Oggi non sei in te. Io lo so che li ami, altrimenti non avresti voluto che Jian andasse all'Università di Pechino».

«Sì, voglio che ci vada. Che altro posso aspettarmi da lui? Non ha passato il TOEFL, dando quindi un calcio alla possibilità di studiare letteratura comparata all'Università del Wisconsin. Mi ha deluso». Sospirò e riprese: «Farebbe meglio ad abbandonare questa casa di ferro se non vuole finire a fare lo scribacchino. Nel nostro paese non c'è studioso che possa condurre una vita diversa da quella dell'impiegato. Siamo tutti automi senz'anima. Anche tu dovresti andartene prima che sia troppo tardi. Non restare intrappolato qui».

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