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| << | < | > | >> |Pagina 3I.Incominciò mentre George si stava provando un vestito nero da Allders, la settimana prima del funerale di Bob Green. Non era stata la prospettiva del funerale a metterlo in subbuglio. Né la morte di Bob. A essere sincero, aveva sempre trovato un po' pesante la bonarietà cameratesca di Bob, e sotto sotto si sentiva sollevato di non dover piú giocare a squash. Inoltre il modo in cui era morto Bob (un attacco di cuore mentre guardava alla televisione la regata Oxford-Cambridge) era stranamente rassicurante. Susan era tornata da casa di sua sorella e lo aveva trovato lungo disteso al centro della stanza, con una mano sugli occhi e un'aria talmente placida da farle pensare li per li che stesse facendo un sonnellino. Certo, doveva essere stato doloroso. Ma si può far fronte al dolore. E poi, presto intervengono le endorfine, seguite da quell'impressione della vita che ti passa davanti agli occhi provata da George stesso qualche anno prima, quando era caduto da una scala a pioli fratturandosi il gomito sul giardino roccioso e perdendo i sensi: un'impressione che non ricordava come sgradevole (chissà perché, aveva incluso una veduta molto vivida del Tamar Bridge di Plymouth). E probabilmente lo stesso valeva per quel tunnel di luce intensa, mentre gli occhi si spengono — data la quantità di persone che sentono la chiamata degli angeli e poi si svegliano trovando un medico fresco di laurea chino su di loro con il defibrillatore. E dopo... niente. Sarebbe stata la fine. Certo, era troppo presto. Bob aveva sessantun anni. E sarebbe stata dura per Susan e i ragazzi, anche se Susan sarebbe rifiorita, ora che poteva finire le frasi da sé. Ma in complesso sembrava un buon modo di andarsene. No, era stata la lesione a prostrarlo. Si era tolto i calzoni e stava infilandosi quelli del vestito, quando notò sul fianco una piccola escrescenza ovale di carne piú scura della pelle circostante, che si stava lievemente squamando. Provò una nausea tremenda e fu costretto a inghiottire una modica quantità di vomito risalitogli al fondo della bocca. Cancro. Non si era mai sentito cosí da quando la Fireball di John Zinewski aveva scuffiato, qualche anno prima, e lui si era trovato in trappola sott'acqua, con la caviglia annodata nel cappio di una cima. Però lí era durato al massimo tre o quattro secondi. E stavolta non c'era nessuno ad aiutarlo a raddrizzare la barca. Avrebbe dovuto suicidarsi. Non era un pensiero confortante, ma era una cosa che poteva fare, e questo gli dava l'idea di un minimo controllo sulla situazione. L'unico problema era il come. Saltare da un edificio alto era una prospettiva spaventosa: spostare il proprio baricentro in fuori, sopra il bordo del parapetto, con la possibilità di cambiare idea a metà caduta. E l'ultima cosa di cui aveva bisogno ora era altra paura. Per impiccarsi ci voleva un equipaggiamento, e una pistola non la possedeva. Se avesse bevuto abbastanza whisky sarebbe riuscito a raccogliere il coraggio necessario per andare a schiantarsi in automobile. Sulla A16, da questa parte di Stamford, c'era un grosso muro in pietra. Poteva andargli contro a centocinquanta all'ora senza nessun problema. Ma se i nervi lo avessero tradito? Se fosse stato troppo sbronzo per controllare l'auto? E se qualcuno fosse sbucato dal viale? Se avesse ucciso altre persone, e lui fosse rimasto paralizzato e fosse morto di cancro in prigione su una sedia a rotelle? - Signore?... Le dispiace rientrare in negozio con me? Un ragazzo di una ventina d'anni stava fissando intensamente George. Aveva i basettoni rossicci e una divisa blu di varie taglie troppo abbondante. George capi di essere accovacciato sulla soglia piastrellata davanti al negozio. - Signore... ? George si alzò in piedi. - Oh, mi rincresce. - Le spiacerebbe venire con me? George abbassò gli occhi e vide che indossava ancora i calzoni del vestito, con la patta slacciata. Si abbottonò in fretta. - Ah, sicuro. Ripassò dalla porta e si diresse tra le borsette e i profumi verso il reparto abbigliamento maschile, con la guardia giurata al suo fianco. - A quanto pare, ho avuto un mancamento. - Temo che di questo dovrà parlare con il direttore, signore. I pensieri cupi che avevano affollato la sua mente pochi secondi prima sembravano risalire a moltissimo tempo addietro. È vero, si sentiva un po' malfermo sulle gambe - come quando, per esempio, ci si affetta un dito con lo scalpello, ma date le circostanze stava sorprendentemente bene. Il direttore dell'abbigliamento-uomo era in piedi di fianco a una rastrelliera di pantofole, con le mani incrociate sul bassoventre. - Grazie, John. La guardia giurata gli accennò un ossequioso saluto, poi fece dietrofront e si allontanò. - Dunque, Mr... - Hall, George Hall. Io le domando scusa, vede... - È meglio che parliamo un momento nel mio ufficio, - disse il direttore. Poi arrivò una donna con in mano i calzoni di George. - Li ha lasciati nello spogliatoio. Con il portafoglio in tasca. George colse la palla al balzo. - Temo di avere avuto una specie di blackout. Mi dispiace di aver dato disturbo. Com'era bello parlare con altre persone. Loro che gli dicevano qualcosa. Lui che rispondeva qualcosa. Il ticchettio costante della conversazione. Avrebbe potuto continuare cosí per tutto il pomeriggio. - Si sente bene, signore? La donna gli appoggiò la mano aperta sotto il gomito e George scivolò di traverso su una sedia che sembrava piú solida, comoda e servizievole di qualunque altra sedia a sua memoria. Per qualche minuto le cose si fecero un po' vaghe. Poi gli misero in mano una tazza di tè. - Grazie -. Bevve. Come tè non era buono, ma era caldo e stava in una tazza di porcellana appropriata, confortante da tenere in mano. - Desidera che le chiamiamo un taxi? Probabilmente, pensò, sarà meglio che torni a casa e mi compri il vestito un altro giorno. | << | < | > | >> |Pagina 5718.George stava sistemando i telai delle finestre. Ai lati del davanzale c'erano sei corsi di mattoni. Muratura sufficiente per reggerli bene. Stese la malta e collocò il primo al suo posto. In effetti non era soltanto per il volo. Le vacanze in genere non erano molto su nella classifica degli interessi di George. Visitare anfiteatri, camminare sul sentiero costiero del Pembrokeshire, imparare a sciare. Dietro queste attività ci vedeva una logica. I mosaici di Piazza Armerina avevano quasi giustificato un lugubre weekend in Sicilia. Quello che non riusciva a capire era trasferirsi in un paese straniero per oziare sul bordo di una piscina, mangiare roba qualunque e bere vino da due soldi nobilitati chissà perché dalla vista di una fontana e da un cameriere che parlava male l'inglese. Nel Medioevo sapevano il fatto loro. Giorni santi. Pellegrinaggi. Canterbury e Santiago de Compostela. Trenta ardui chilometri al giorno, locande semplici e una meta da raggiungere. La Norvegia sarebbe andata bene. Montagne, tundra, coste accidentate. Invece bisognava andare a Rodi, o in Corsica. E d'estate, per giunta, quando gli inglesi lentigginosi dovevano sedersi sotto dei tendaloni a leggere il «Sunday Times» della settimana prima con rivoli di sudore sulla schiena. Ora che ci pensava, durante quella visita a Piazza Armerina gli era venuto un colpo di calore, e dei mosaici ricordava soprattutto quello che aveva visto nel pacchetto di cartoline comprate nel negozio prima di chiudersi nell'auto presa a nolo con una bottiglia d'acqua e un pacchetto di Nurofen. La mente umana non era concepita per i bagni di sole e i romanzi leggeri. Comunque, non per dedicarvisi giorni e giorni di fila. La mente umana era concepita per fare le cose. Fabbricare lance, cacciare antilopi... Il fondo era stato toccato nel 1984 in Dordogna. Diarrea, falene grosse come criceti, una calura da fonderia. Sveglia alle tre del mattino su un materasso umido e bitorzoluto. E poi il temporale. Come qualcuno che martellasse su delle lamiere. Il lampo cosí intenso da vedersi attraverso il cuscino. La mattina dopo, sessanta o settanta rane morte che si rigiravano lentamente nella piscina. E in fondo qualche cosa di piú grosso e peloso - un gatto, forse, o il cane dei Franzetti - che Katie stava punzecchiando con il respiratore. Doveva bere qualcosa. Riattraversò il prato, e stava togliendosi gli stivali sporchi quando vide Jamie, in cucina, che posava la sua borsa e accendeva il bollitore. Si fermò a guardare come avrebbe potuto fermarsi a guardare se ci fosse stato un cervo nel giardino, come ogni tanto succedeva. Jamie, lui, era una creatura un po' schiva. Non che nascondesse le cose. Però era riservato. Ora che George ci pensava, abbastanza all'antica. Con vestiti diversi e un altro taglio di capelli, te lo vedevi accendersi una sigaretta in un vicolo di Berlino - o sul binario di una stazione, seminascosto dal vapore. A differenza di Katie, che non sapeva cosa volesse dire la parola riserbo. L'unica persona che lui conosceva capace di aprire l'argomento mestruazioni a pranzo. Eppure lo sapevi che teneva segrete delle cose, cose che ti avrebbe comunicato quando le saltava in mente di farlo. Come il matrimonio. Di sicuro la settimana dopo avrebbe annunciato di essere incinta. Dio buono. Il matrimonio. Jamie doveva essere venuto per quello. Poteva farcela. Se Jamie avesse chiesto un letto matrimoniale, George avrebbe risposto che la camera degli ospiti era già occupata e gli avrebbe prenotato un bed and breakfast di lusso nei dintorni. Pur di non dover usare l'espressione il tuo ragazzo. Si riscosse dalla fantasticheria e capí che Jamie stava salutando con la mano dalla cucina, e sembrava un po' turbato dalla mancanza di riscontro. Ricambiò il saluto, si sfilò l'altro stivale ed entrò. - Qual buon vento ti porta da queste parti? - Oh, cosí, ho fatto un salto. - Tua madre non mi aveva detto niente. - Non ho telefonato. - Nessun problema. Sono sicuro che abbiamo da mangiare anche per te. - No, lascia... Non pensavo di fermarmi. Un tè? - propose Jamie. - Grazie -. George tirò fuori i Digestive mentre Jamie metteva una bustina in una seconda tazza. - Allora... queste nozze? - disse Jamie. - Queste nozze... che cosa? - chiese George, cercando di far sembrare che non ci avesse ancora riflettuto. - Cosa ne pensi? - Io, penso... - George si sedette e sistemò la sedia cosicché fosse precisamente alla distanza giusta dal tavolo. - Penso che dovresti portare qualcuno. Ecco. Se doveva dar retta al suo giudizio, quello era un tono neutro. - No, papà, - disse Jamie, stancamente. - Parlavo di Katie e Ray. Che ne pensi del fatto che si sposano? Era vero. Non c'è limite ai modi in cui si può dire la cosa sbagliata ai propri figli. Tu porgi loro un ramoscello d'ulivo, e sarà il ramoscello sbagliato al momento sbagliato. - Allora? - chiese un'altra volta Jamie. - A essere sincero, sto cercando di mantenere un distacco buddhista rispetto a tutta la faccenda, affinché non mi tolga dieci anni di vita. - Però lei fa sul serio, eh? - Tua sorella fa sul serio in tutte le cose. Se poi in questa farà ancora sul serio tra quindici giorni, quello resta da vedere. - Ma lei che ha detto? - Solo che si sposavano. Tua madre potrà ragguagliarti sugli aspetti emotivi. Io temo di essere rimasto impantanato a parlare con Ray. Jamie posò una tazza di tè davanti a George e alzò le sopracciglia. - Ci scommetto che è stato meglio che andare sull'ottovolante. Ed eccolo, il pertugio che si apriva brevemente. Non avevano mai stretto il classico sodalizio padre-figlio. Un paio di sabati pomeriggio al circuito di Silverstone. Costruito insieme il capanno in giardino. Niente di piú. Del resto aveva visto dei suoi amici stringerlo, il sodalizio padre-figlio, e a occhio consisteva in poco piú che sedersi vicini alle partite di rugby e scambiarsi barzellette oscene. Madre-figlia, la cosa aveva un senso. Vestiti. Chiacchiere. Tutto sommato, probabilmente non stringere il sodalizio padre-figlio significava scamparla bella. E tuttavia c'erano i momenti come questo in cui vedeva quanto si assomigliassero lui e Jamie. - Sí, confesso che Ray è un bel peso, - disse George. - In base alla mia lunga e dolorosa esperienza, intinse un biscotto nel tè, - cercare di far cambiare idea a tua sorella è fatica sprecata. Credo che la strategia sia trattarla da adulta. Non scomporsi. Essere cordiali con Ray. E se nel giro di due anni andrà tutto a rotoli, beh, l'esperienza nel settore non ci manca. L'ultima cosa che desidero è far sapere a tua sorella che la disapproviamo, e poi ritrovarmi un Ray genero spigoloso per i prossimi trent'anni. Jamie bevve il suo tè. - Pensavo solo... - Cosa? - Niente. Probabilmente hai ragione tu. Dovremmo lasciarla fare come vuole. Jean apparve sulla soglia con una cesta di panni sporchi. - Ciao, Jamie. Che bella sorpresa. - Ciao, mamma. - Bene, ecco il tuo secondo parere, - disse George. Jean appoggiò la cesta sulla lavatrice. - Riguardo a che? - Jamie si domandava se dovremmo salvare Katie da un matrimonio temerario e scriteriato. - Papà... - fece Jamie stizzito. E fu qui che le strade di Jamie e George si divisero. A Jamie le battute non piacevano affatto, almeno quando erano su di lui. A essere onesti, era un po' permalosetto. - George... - Jean lo guardò con aria truce. - Cosa hai detto? George non volle abboccare. - Sono soltanto in pensiero per Katie, - disse Jamie. - Siamo tutti in pensiero per Katie, - disse Jean, cominciando a riempire la lavatrice. - Anch'io, potendo, non avrei scelto Ray. Ma è andata cosí. Tua sorella è una donna che sa quello che vuole. Jamie si alzò in piedi. - Sarà meglio che vada. Jean smise di riempire la lavatrice. — Ma sei appena arrivato. - Lo so. In realtà, avrei dovuto telefonare. Volevo solo sapere cos'aveva detto Katie. Sarà meglio che vada. E uscí dalla stanza. Jean si rivolse a George. - Perché lo devi sempre prendere per il verso sbagliato? George si morse la lingua. Di nuovo. - Jamie! - Jean andò in corridoio. George ricordava fin troppo bene quanto aveva odiato suo padre. Da affabile orco che trovava le monete nelle tue orecchie e faceva origami di scoiattoli, con gli anni si era ridotto a un ometto incattivito e alcolizzato, convinto che fare dei complimenti ai figli li rendesse inetti; e non ammise mai che suo fratello era schizofrenico, e continuò a rimpicciolirsi al punto che, quando George e Judy e Brian furono abbastanza grandi per sfidarlo, gli era riuscito il trucco piú grandioso di tutti: quello di trasformarsi in una figurina artritica che passa il tempo ad autocommiserarsi, troppo inconsistente per fare da bersaglio alla rabbia di chicchessia. Forse il meglio che si potesse sperare era di non ripetere lo stesso con i propri figli. Jamie era un bravo ragazzo. Non il tipo piú virile del mondo, ma andavano abbastanza d'accordo. Jean ritornò in cucina. - Se n'è andato. Che cosa è successo? — Lo sa Dio —. George si alzò in piedi e posò la tazza vuota nel lavello. — Il mistero dei figli non finisce mai. | << | < | > | >> |Pagina 13648.Jean telefonò a Brian. Disse che George non era stato bene ed era tornato a casa. Lui le chiese se era grave. Penso di no, rispose lei. E il cognato ne fu rincuorato al punto da non fare altre domande, con estremo sollievo di Jean. Dormiva come un sasso sul divano da cinque ore. Era grave? Lei non sapeva assolutamente cosa pensare. Si era presentato quel mattino alle nove e mezza con un taglio in testa e l'aspetto di uno che ha dormito in un fossato. Lei immaginava che gli fosse successo qualche cosa di terribile. Ma lui si era limitato a dire che aveva dormito in un albergo. Gli aveva chiesto perché non avesse telefonato per tranquillizzarla, ma lui non aveva risposto. Era chiaro che si era ubriacato. Sentiva su di lui odore di alcol. A questo punto Jean aveva perso la pazienza. Poi George le aveva detto che stava morendo, e lei aveva capito che qualcosa non andava. Le aveva spiegato che aveva il cancro. Solo che non era cancro. Era un eczema. Aveva voluto a tutti i costi mostrarle uno sfogo cutaneo sul fianco. Jean aveva cominciato a temere sul serio che stesse diventando matto. Avrebbe voluto chiamare un medico, ma lui glielo aveva tassativamente proibito. Aggiungendo che era già stato dal medico. Il medico non aveva altro da dire. Jean telefonò in libreria e alla segreteria scolastica, e disse che per qualche giorno non sarebbe andata al lavoro. Chiamò David con il telefono al primo piano. Lui ascoltò tutta la storia e disse: - Forse non è cosí strano. Tu non ci pensi di morire, a volte? In quelle notti quando ti svegli alle tre e non ce la fai piú a riaddormentarti? E poi, andare in pensione fa strani scherzi. Ti ritrovi con tutto il tempo fra le mani... George incominciò a muoversi verso l'ora del tè. Jean gli preparò cioccolata e pane tostato, e lui prese un'aria un po' piú umana. Cercò di farlo parlare, ma nei discorsi di George non trovò piú logica di quanta ce ne fosse la mattina. Jean vedeva che per lui era penoso soffermarsi su quell'argomento, e a un certo punto lo lasciò cadere. Gli disse di restare dov'era e andò a prendergli i suoi libri e i suoi dischi preferiti. Piú che altro sembrava stanco. Circa un'ora dopo, Jean preparò la cena e la portò lí, in modo che potessero mangiare insieme sul tavolino davanti al televisore. George mangiò tutto, chiese dell'altra codeina e guardarono un programma di David Attenborough sulle scimmie. Il panico di Jean cominciò ad attenuarsi. Era come rimettere indietro l'orologio di trent'anni. Jamie con la sua febbre ghiandolare, Katie con la frattura alla caviglia. Minestra di pomodoro e bastoncini di pane tostato. Guardare insieme Crown Court, Il dottor Dolittle e Le avventure della famiglia Robinson. Il giorno dopo George annunciò che si sarebbe ritirato in camera. Portò di sopra il televisore e si piazzò a letto; e, onestamente, Jean si rattristò un poco. Ogni mezz'ora entrava a dare un'occhiata per assicurarsi che stesse bene, ma in complesso George sembrava autosufficiente. Che poi era una delle cose che di lui aveva sempre ammirato. Non si lagnava mai e non cercava di essere al centro dell'attenzione. Si limitava a rinchiudersi nella sua cuccia, come un cane indisposto, raggomitolandosi fino a quando non era di nuovo pronto a riportare il bastone. Alla sera le disse che poteva anche restare solo, perciò l'indomani mattina Jean andò in centro e vendette libri per quattro ore, e pranzò insieme a Ursula. Cominciò a raccontarle cosa era successo, poi capí che non avrebbe potuto spiegarglielo veramente senza parlare del cancro, dell'eczema e della paura di morire e dell'alcol e del taglio in testa, e non volendo far sembrare che fosse impazzito disse che aveva annullato la gita in Cornovaglia per colpa di un brutto virus intestinale, e Ursula le raccontò tutte le gioie di un soggiorno a Dublino con la figlia e i quattro nipotini intanto che il genero muratore sventrava il bagno. | << | < | > | >> |Pagina 13849.Naturalmente era una sorpresa scoprirsi psicotico. Ma la cosa piú sorprendente per George fu scoprire quanto era doloroso. Prima non ci aveva mai pensato. Suo zio, quegli individui che non si lavavano e urlavano al passaggio degli autobus, Alex Bamford quel Natale... Aveva sempre usato la parola matto. Come in erba matta, o cuore matto. Un'idea di disordine, di pandemonio, tutto sommato abbastanza divertente. Sembrava meno divertente, adesso. A dire il vero, ripensando a suo zio segregato a St Edward's per dieci anni senza neanche una visita dei parenti, o all'uomo sfatto che ballava il tip-tap per qualche monetina in Church Street, sentiva un pizzicore agli angoli degli occhi. Potendo scegliere avrebbe preferito che qualcuno gli avesse rotto una gamba. Uno non è costretto a spiegare cosa c'è che non va in una gamba rotta. E nessuno si aspetta che se la faccia guarire con la forza di volontà. Il terrore andava e veniva a ondate. Nel momento in cui un'ondata lo investiva si sentiva piú o meno come qualche anno prima, quando aveva visto un bambino entrare di corsa nella via davanti a Jacksons evitando per un pelo il muso di una macchina in frenata. Fra un'ondata e l'altra radunava le forze per quella successiva, tentando disperatamente di non pensarci nel caso questa si infrangesse piú in fretta. La sensazione principale era un terrore opprimente, implacabile, che rombava e tuonava e oscurava il mondo, come quelle astronavi dei film di fantascienza, le cui fusoliere bruciacchiate in battaglia scivolavano sullo schermo, e continuavano a scivolare per un pezzo perché erano, in realtà, mille volte piú grandi di quello che ti aspettavi quando vedevi solo il muso conico. L'idea di avere veramente il cancro cominciava a sembrare quasi una consolazione: la prospettiva del ricovero in ospedale, i tubicini infilati nel braccio, i medici e le infermiere che gli spiegavano cosa doveva fare senza piú scontrarsi col problema di superare i cinque minuti successivi. Aveva rinunciato ai suoi tentativi di parlare con Jean. Lei ce la metteva tutta, ma sembrava che George non riuscisse a farsi capire. Non era colpa di Jean. Se un anno prima fosse stato accostato da qualcuno con difficoltà analoghe, anche lui avrebbe reagito cosí. Una parte del problema era che Jean non andava mai in depressione. Si impensieriva. Si rattristava. E questi sentimenti li provava con piú forza di quanto succedesse mai a lui (per esempio, quando George dopo il repulisti in cantina aveva buttato sul falò quella vecchia gabbia per gli uccellini, gli aveva persino dato un pugno). Ma in un giorno o due sparivano sempre. Del resto Jean gli teneva compagnia, gli faceva da mangiare e gli lavava i panni: tutte cose di cui le era molto grato. La ringraziava anche per la codeina. La scatola era quasi piena. Una volta scrollatosi l'orrore del risveglio, avrebbe potuto concentrare la mente su quelle due pastiglie all'ora di pranzo, sapendo che lo avrebbero avvolto in una nebbiolina soffice fino a cena, quando avrebbe stappato una bottiglia di vino. Aveva cercato di passare quella prima notte sul divano, ma era scomodo e Jean sosteneva che le cose da matti favoriscono le idee da matti. Quindi ritornò a stendersi di sopra. Alla fine non fu male come si era aspettato, ritrovarsi nel letto dove aveva visto succedere la cosa. A pensarci, cose brutte erano capitate praticamente ovunque: omicidi, stupri, incidenti mortali. Per esempio, George sapeva che nel 1952 nella casa dei Farmer una vecchia era bruciata viva, ma non era un fatto di cui uno avvertisse la presenza quando andava là a bere un bicchierino. Presto si rese conto che essere al primo piano aveva i suoi vantaggi. Quando eri a letto non dovevi aprire la porta, non ti capitavano visite inaspettate e potevi chiudere le tende senza suscitare una discussione. Quindi portò in camera il televisore e il videoregistratore e si barricò dentro. Dopo qualche giorno si fece coraggio e si avventurò fino in videoteca per noleggiare alcune cassette. E quando si svegliava di notte e gli orchi dalle facce bollite e scorticate lo aspettavano muti, a centinaia, nei giardini rischiarati dalla luna, scoprí di poter trovare una momentanea tregua andando in bagno, rannicchiandosi tra il water e la vasca e cantando tra sé, a voce bassissima, le canzoni che ricordava dalla sua prima infanzia. | << | < | > | >> |Pagina 17758.Vedere il dottor Barghoutian era stato quasi piacevole. Inutile dire che nelle ultime settimane i suoi parametri di cosa fosse o non fosse piacevole si erano abbassati molto. Tuttavia, parlare dei suoi problemi con qualcuno pagato per ascoltare era stranamente rasserenante. Piú rasserenante che guardare Volcano o The Peacemaker, durante i quali aveva sempre l'impressione di sentire una specie di basso continuo, rimestante, pauroso, simile a dei muratori al lavoro nella casa di fronte. Strano, poi, scoprire che descrivere le sue paure ad alta voce era meno terrificante che cercare di non pensarci. Come quando vedi il tuo nemico in campo aperto. Meno buone erano le pillole. La prima notte faticò a dormire, e la seconda andò decisamente peggio. Piangeva molto, e doveva respingere l'impulso di partire per lunghe passeggiate nelle prime ore del mattino. Adesso a colazione prendeva un paio di pastiglie di codeina, quindi a metà mattinata beveva un whisky abbondante, lavandosi poi i denti per non insospettire Jean. Cominciò a trovare sempre piú appetibile l'idea di entrare in una clinica psichiatrica. Ma come si fa per entrare in una clinica psichiatrica? Bisogna saltare nel giardino di un vicino con l'auto? O dar fuoco al proprio letto? Non poteva sdraiarsi in mezzo alla strada? Contava che uno facesse quelle cose volontariamente? O fingersi pazzo era di per sé un sintomo di pazzia? E se il letto fosse stato piú infiammabile di quello che pensava? Magari avrebbe potuto versare dell'acqua sulla moquette attorno al letto in un ampio cerchio, per creare una barriera. La terza notte fu quasi insopportabile. Tuttavia, continuò caparbiamente a prendere le pillole. Il dottor Barghoutian aveva detto che non erano esclusi effetti collaterali e George, tutto sommato, preferiva le cure che davano dolore. Dopo la caduta dalla scala a pioli era andato da un chiropratico il quale faceva poco piú che battergli le mani dietro la nuca. Dopo qualche altra settimana di patimenti era andato da un osteopata il quale lo afferrava saldamente da dietro e lo tirava su con violenza, facendogli schioccare le vertebre. Dopo un paio di giorni aveva ripreso a camminare come prima. Comunque fu contento quando, il sesto giorno di cure, scoccò l'ora dell'appuntamento con la psicologa clinica. George non aveva mai incontrato psicologi clinici, né per motivi professionali né per altro. Nella sua mente non erano cosí lontani da quelli che leggevano i tarocchi. Possibilissimo che lo avrebbe interrogato su quando aveva visto sua madre nuda o era stato angariato dai bulletti a scuola (chissà che fine avevano fatto i famigerati gemelli Gladwell...) O quelli erano gli psicoterapeuti? Non aveva le idee molto chiare sulla differenza. In realtà il suo incontro con Miss Endicott non comportò nessuna delle smancerie che si aspettava. Anzi, non ricordava di avere mai avuto una conversazione cosí appassionante. Parlarono del suo lavoro. Parlarono del suo pensionamento. Parlarono dei suoi progetti per il futuro. Parlarono di Jean, e Jamie e Katie. Parlarono delle nozze imminenti. Lei si informò sui suoi attacchi di panico: quando lo colpivano, cosa provava, quanto tempo duravano. Gli chiese se aveva pensato al suicidio. Gli chiese cosa esattamente gli faceva paura, e lui con una pazienza infinita si sforzò di mettere in parole delle situazioni difficili da mettere in parole (per esempio gli orchi, o la sensazione che il pavimento cedesse). E anche se lui ogni tanto si trovava in imbarazzo, l'attenzione di lei era seria e incrollabile. Chiese a George della lesione, e gli disse che il dottor Barghoutian avrebbe potuto mandarlo da un dermatologo in grado di aiutarlo. - No, - rispose, spiegando che in cuor suo anche lui sapeva che si trattava di un semplice eczema. Gli chiese se aveva degli amici con cui aveva discusso questi argomenti. George rispose che non si discutono questi argomenti con gli amici. Comunque lui non avrebbe gradito che uno dei suoi amici gli esponesse problemi di quel genere. Era inopportuno. Lei annui. Usci dallo studio senza compiti da svolgere né esercizi da effettuare, salvo la promessa di un secondo appuntamento dopo una settimana. Nel parcheggio gli venne in mente che non aveva parlato degli effetti collaterali della cura. Ma poi pensò che lui non era piú lo stesso uomo che aveva preso l'autobus quel mattino. Era piú forte, piú solido, meno spaventato, e poteva assorbire gli effetti collaterali di un paio di pillole. Quel pomeriggio guardò un torneo di golf su Bbc2, steso sul letto. A lui quel gioco non aveva mai detto granché. Ma c'era qualcosa di rassicurante in quei maglioni sportivi e in tutto quel verde che si stendeva a perdita d'occhio. Però gli sembrava ingiusto che i suoi sforzi per venire a capo degli aspetti mentali del problema non avessero avuto alcun effetto nel venire a capo degli aspetti fisici del problema. Pensò che se la lesione fosse stata a un dito di una mano o di un piede, se la sarebbe fatta rimuovere e amen. Poi sarebbe bastato prendere le sue pastiglie e andare ogni settimana dalla psicologa finché tutto fosse tornato alla normalità. Nella sua mente stava delineandosi un piano.
Gli sembrava che fosse un buon piano.
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