Copertina
Autore Mark Haddon
Titolo Una cosa da nulla
EdizioneEinaudi, Torino, 2006, Supercoralli , pag. 360, cop.ril.sov., dim. 145x223x25 mm , Isbn 978-88-06-18503-9
OriginaleA Spot of Bother [2006]
TraduttoreMassimo Bocchiola
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe narrativa inglese
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Pagina 3

1.

Incominciò mentre George si stava provando un vestito nero da Allders, la settimana prima del funerale di Bob Green.

Non era stata la prospettiva del funerale a metterlo in subbuglio. Né la morte di Bob. A essere sincero, aveva sempre trovato un po' pesante la bonarietà cameratesca di Bob, e sotto sotto si sentiva sollevato di non dover piú giocare a squash. Inoltre il modo in cui era morto Bob (un attacco di cuore mentre guardava alla televisione la regata Oxford-Cambridge) era stranamente rassicurante. Susan era tornata da casa di sua sorella e lo aveva trovato lungo disteso al centro della stanza, con una mano sugli occhi e un'aria talmente placida da farle pensare lí per lí che stesse facendo un sonnellino.

Certo, doveva essere stato doloroso. Ma si può far fronte al dolore. E poi, presto intervengono le endorfine, seguite da quell'impressione della vita che ti passa davanti agli occhi provata da George stesso qualche anno prima, quando era caduto da una scala a pioli fratturandosi il gomito sul giardino roccioso e perdendo i sensi: un'impressione che non ricordava come sgradevole (chissà perché, aveva incluso una veduta molto vivida del Tamar Bridge di Plymouth). E probabilmente lo stesso valeva per quel tunnel di luce intensa, mentre gli occhi si spengono - data la quantità di persone che sentono la chiamata degli angeli e poi si svegliano trovando un medico fresco di laurea chino su di loro con il defibrillatore.

E dopo... niente. Sarebbe stata la fine.

Certo, era troppo presto. Bob aveva sessantun anni. E sarebbe stata dura per Susan e i ragazzi, anche se Susan sarebbe rifiorita, ora che poteva finire le frasi da sé. Ma in complesso sembrava un buon modo di andarsene.

No, era stata la lesione a prostrarlo.

Si era tolto i calzoni e stava infilandosi quelli del vestito, quando notò sul fianco una piccola escrescenza ovale di carne piú scura della pelle circostante, che si stava lievemente squamando. Provò una nausea tremenda e fu costretto a inghiottire una modica quantità di vomito risalitogli al fondo della bocca.

Cancro.

Non si era mai sentito cosí da quando la Fireball di John Zinewski aveva scuffiato, qualche anno prima, e lui si era trovato in trappola sott'acqua, con la caviglia annodata nel cappio di una cima. Però lí era durato al massimo tre o quattro secondi. E stavolta non c'era nessuno ad aiutarlo a raddrizzare la barca.

Avrebbe dovuto suicidarsi.

Non era un pensiero confortante, ma era una cosa che poteva fare, e questo gli dava l'idea di un minimo controllo sulla situazione.

L'unico problema era il come.

Saltare da un edificio alto era una prospettiva spaventosa: spostare il proprio baricentro in fuori, sopra il bordo del parapetto, con la possibilità di cambiare idea a metà caduta. E l'ultima cosa di cui aveva bisogno ora era altra paura.

Per impiccarsi ci voleva un equipaggiamento, e una pistola non la possedeva.

Se avesse bevuto abbastanza whisky sarebbe riuscito a raccogliere il coraggio necessario per andare a schiantarsi in automobile. Sulla A16, da questa parte di Stamford, c'era un grosso muro in pietra. Poteva andargli contro a centocinquanta all'ora senza nessun problema.

Ma se i nervi lo avessero tradito? Se fosse stato troppo sbronzo per controllare l'auto? E se qualcuno fosse sbucato dal viale? Se avesse ucciso altre persone, e lui fosse rimasto paralizzato e fosse morto di cancro in prigione su una sedia a rotelle?

- Signore?... Le dispiace rientrare in negozio con me? Un ragazzo di una ventina d'anni stava fissando intensamente George. Aveva i basettoni rossicci e una divisa blu di varie taglie troppo abbondante.

George capi di essere accovacciato sulla soglia piastrellata davanti al negozio.

- Signore...?

George si alzò in piedi. - Oh, mi rincresce.

- Le spiacerebbe venire con me?

George abbassò gli occhi e vide che indossava ancora i calzoni del vestito, con la patta slacciata. Si abbottonò in fretta. - Ah, sicuro.

Ripassò dalla porta e si diresse tra le borsette e i profumi verso il reparto abbigliamento maschile, con la guardia giurata al suo fianco. - A quanto pare, ho avuto un mancamento.

- Temo che di questo dovrà parlare con il direttore, signore.

I pensieri cupi che avevano affollato la sua mente pochi secondi prima sembravano risalire a moltissimo tempo addietro. È vero, si sentiva un po' malfermo sulle gambe - come quando, per esempio, ci si affetta un dito con lo scalpello, ma date le circostanze stava sorprendentemente bene.

Il direttore dell'abbigliamento-uomo era in piedi di fianco a una rastrelliera di pantofole, con le mani incrociate sul bassoventre. - Grazie, John.

La guardia giurata gli accennò un ossequioso saluto, poi fece dietrofront e si allontanò.

- Dunque, Mr...

- Hall, George Hall. Io le domando scusa, vede...

- È meglio che parliamo un momento nel mio ufficio, - disse il direttore.

Poi arrivò una donna con in mano i calzoni di George. - Li ha lasciati nello spogliatoio. Con il portafoglio in tasca.

George colse la palla al balzo. - Temo di avere avuto una specie di blackout. Mi dispiace di aver dato disturbo.

Com'era bello parlare con altre persone. Loro che gli dicevano qualcosa. Lui che rispondeva qualcosa. Il ticchettio costante della conversazione. Avrebbe potuto continuare cosí per tutto il pomeriggio.

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Pagina 68

23.

Jean rincasò alle quattro. Il suo pranzo prolungato con Ursula aveva prodotto la solita magia. L'incidente con Jamie era dimenticato, e George era tutto contento di una cena di stufato irlandese sulla quale avrebbero potuto commiserarsi amabilmente a vicenda sul prossimo sposalizio.

- C'è qualcuno a cui piacciono gli sposi dei figli? - Passò un triangolo di crosta di pane attorno alla scodella per raccogliere il liquido rimasto.

- Il marito di Jane Riley sembrava simpatico.

Jane Riley? George era ripetutamente sbalordito dalla capacità delle donne di ricordare le persone. Entravano in una sala affollata e la memorizzavano da cima a fondo. Nomi. Facce. Figli. Professioni.

- Alla festa di John e Marilyn... - spiegò Jean. - Quel tipo alto che aveva perso un dito in non so quale ingranaggio.

- Ah, sí -. Un nebuloso flashback. Forse era il dispositivo di recupero che mancava agli uomini. - Il commercialista.

- Geometra.

Dopo i piatti, si ritirò in soggiorno con Sharpe's Enemy e lesse le ultime venti pagine («Due corpi segnarono questo inverno. Quello i cui capelli erano stati sparsi sulle nevi della Porta di Dio, e ora questo. Obadiah Hakeswill, sollevato nella sua bara, morto...») Fu tentato di iniziare un altro dei regali di Natale ancora non letti. Ma bisognava lasciare che l'atmosfera di un libro si diradasse, prima di buttarsi nel prossimo, quindi accese il televisore e si trovò a metà di un documentario di medicina sull'ultimo anno di vita di un uomo che stava morendo per una varietà di cancro addominale.

Jean fece un commento caustico a proposito dei suoi gusti macabri e si rifugiò in un'altra stanza a scrivere delle lettere.

Forse avrebbe scelto un altro programma, se ci fossero state alternative valide. Ma un documentario, se non altro, ti insegna qualcosa. E qualunque cosa è meglio di un drammone di cattivo gusto ambientato dal parrucchiere.

Il tipo sullo schermo trafficava in giardino, fumava sigarette e passava un sacco di tempo sotto un plaid sul divano, collegato a diversi tubi. In definitiva, era soprattutto una barba. Un messaggio abbastanza rassicurante, a pensarci.

Il tizio uscí, e fece una certa fatica a chinarsi per dare da mangiare ai suoi polli.

La verità era che Jean era troppo schizzinosa. Forse Come moriamo non è la lettura che chiunque sceglierebbe prima di addormentarsi. Ma Jean leggeva libri di persone che erano state rapite a Beirut, o erano sopravvissute per otto settimane su un canotto di salvataggio. E mentre tutti moriamo, prima o poi, sono ben pochi quelli che necessitano di sapere come si fa a cacciare via gli squali.

La maggior parte degli uomini coetanei di George erano convinti di vivere in eterno. Da come Bob aveva guidato, si capiva che non aveva la minima idea di quello che può succederti non dico in cinque anni, ma in cinque secondi.

Il tizio alla televisione veniva accompagnato al mare, su una spiaggia di ciottoli. Restava seduto sulla sdraio fino a quando non diventava troppo freddo e lo riportavano nel camper.

Ovviamente sarebbe stato bello andarsene chiotti chiotti nel sonno. Ma andarsene chiotti chiotti nel sonno era un'idea inventata dai genitori per rendere meno traumatiche le morti di nonni e criceti. E senza dubbio alcuni se ne andavano chiotti chiotti nel sonno, ma la maggioranza lo faceva solo dopo parecchi round cruenti contro la Nera Signora.

George era propenso ai commiati rapidi e decisivi. Altri avrebbero chiesto tempo, per seppellire l'ascia di guerra coi figli distanti e far vedere alle loro mogli dove stava il rubinetto del gas. Personalmente lui preferiva che le luci si spegnessero senza preavviso, e con il minimo viavai di astanti. Morire era già abbastanza brutto senza doversi preoccupare della reazione degli altri.

Durante la pubblicità andò in cucina e tornò con una tazza di caffè, per ritrovare il tizio mentre stava entrando nelle sue ultime due settimane, ormai quasi sempre relegato sul divano, e con qualche momento di pianto a notte fonda. E se George avesse spento il televisore a questo punto, forse la serata sarebbe continuata piacevolmente uguale a se stessa.

Ma lui non spense, e quando il gatto del tizio sali sul plaid in grembo al suo padrone per farsi accarezzare, qualcuno svitò un pannello da un lato della testa di George, vi frugò dentro e strappò una manciata di fili molto importanti.

Provò un violento senso di malessere. Il sudore gli sgorgava da sotto i capelli, dal dorso delle mani.

Sarebbe morto.

Forse non questo mese, forse non quest'anno. Ma in qualche modo, in qualche momento, e in una maniera e a una velocità indipendenti dalle sue preferenze.

Sembrò che il pavimento fosse scomparso mostrando un vasto pozzo spalancato sotto il soggiorno.

Con chiarezza accecante, capí che tutti facevano capriole su di un prato estivo circondato da una foresta oscura e impenetrabile, in attesa del giorno sinistro in cui sarebbero stati tratti nel buio di là dagli alberi e macellati uno a uno.

Come aveva fatto, per Dio, a non accorgersene prima? E come mai gli altri non se ne accorgevano? Come mai non venivano trovati raggomitolati e ululanti sul pavimento? Come mai procedevano bel belli lungo i giorni, ignari di questo fatto indigeribile? E, una volta che la verità era apparsa, com'era possibile dimenticare?

Ora, inspiegabilmente, si trovava carponi fra la poltrona e il televisore e si dondolava avanti e indietro, e cercava di consolarsi facendo il verso della mucca.

Considerò l'ipotesi di prendere il toro per le corna e alzarsi la camicia e sbottonarsi i calzoni per esaminare la lesione. Una parte della sua mente sapeva che sarebbe stata confortevolmente uguale a prima. Un'altra parte sapeva con altrettanta certezza che avrebbe brulicato come una manciata di esche vive. E una terza sapeva che la precisa natura di quello che avrebbe trovato non contava rispetto a questo nuovo problema, che era piú vasto e decisamente meno risolvibile della salute della sua pelle.

Non era abituato ad avere la mente occupata da tre voci del tutto distinte. Sentiva una tale pressione nella testa che gli sembrò verosimile che gli scoppiassero gli occhi.

Cercò di ritornare alla poltrona, per decoro se non altro, ma non ci riusciva... era come se i pensieri terrificanti che lo ossessionavano gli fossero portati da qualche vento sferzante da cui i mobili potevano in parte ripararlo.

Continuò a dondolarsi e si rassegnò a emettere il muggito al piú basso volume possibile.

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Pagina 138

49.

Naturalmente era una sorpresa scoprirsi psicotico. Ma la cosa piú sorprendente per George fu scoprire quanto era doloroso.

Prima non ci aveva mai pensato. Suo zio, quegli individui che non si lavavano e urlavano al passaggio degli autobus, Alex Bamford quel Natale... Aveva sempre usato la parola matto. Come in erba matta, o cuore matto. Un'idea di disordine, di pandemonio, tutto sommato abbastanza divertente.

Sembrava meno divertente, adesso. A dire il vero, ripensando a suo zio segregato a St Edward's per dieci anni senza neanche una visita dei parenti, o all'uomo sfatto che ballava il tip-tap per qualche monetina in Church Street, sentiva un pizzicore agli angoli degli occhi.

Potendo scegliere avrebbe preferito che qualcuno gli avesse rotto una gamba. Uno non è costretto a spiegare cosa c'è che non va in una gamba rotta. E nessuno si aspetta che se la faccia guarire con la forza di volontà.

Il terrore andava e veniva a ondate. Nel momento in cui un'ondata lo investiva si sentiva piú o meno come qualche anno prima, quando aveva visto un bambino entrare di corsa nella via davanti a Jacksons evitando per un pelo il muso di una macchina in frenata.

Fra un'ondata e l'altra radunava le forze per quella successiva, tentando disperatamente di non pensarci nel caso questa si infrangesse piú in fretta.

La sensazione principale era un terrore opprimente, implacabile, che rombava e tuonava e oscurava il mondo, come quelle astronavi dei film di fantascienza, le cui fusoliere bruciacchiate in battaglia scivolavano sullo schermo, e continuavano a scivolare per un pezzo perché erano, in realtà, mille volte piú grandi di quello che ti aspettavi quando vedevi solo il muso conico.

L'idea di avere veramente il cancro cominciava a sembrare quasi una consolazione: la prospettiva del ricovero in ospedale, i tubicini infilati nel braccio, i medici e le infermiere che gli spiegavano cosa doveva fare senza piú scontrarsi col problema di superare i cinque minuti successivi.

Aveva rinunciato ai suoi tentativi di parlare con Jean. Lei ce la metteva tutta, ma sembrava che George non riuscisse a farsi capire.

Non era colpa di Jean. Se un anno prima fosse stato accostato da qualcuno con difficoltà analoghe, anche lui avrebbe reagito cosí.

Una parte del problema era che Jean non andava mai in depressione. Si impensieriva. Si rattristava. E questi sentimenti li provava con piú forza di quanto succedesse mai a lui (per esempio, quando George dopo il repulisti in cantina aveva buttato sul falò quella vecchia gabbia per gli uccellini, gli aveva persino dato un pugno). Ma in un giorno o due sparivano sempre.

Del resto Jean gli teneva compagnia, gli faceva da mangiare e gli lavava i panni: tutte cose di cui le era molto grato.

La ringraziava anche per la codeina. La scatola era quasi piena. Una volta scrollatosi l'orrore del risveglio, avrebbe potuto concentrare la mente su quelle due pastiglie all'ora di pranzo, sapendo che lo avrebbero avvolto in una nebbiolina soffice fino a cena, quando avrebbe stappato una bottiglia di vino.

Aveva cercato di passare quella prima notte sul divano, ma era scomodo e Jean sosteneva che le cose da matti favoriscono le idee da matti. Quindi ritornò a stendersi di sopra. Alla fine non fu male come si era aspettato, ritrovarsi nel letto dove aveva visto succedere la cosa. A pensarci, cose brutte erano capitate praticamente ovunque: omicidi, stupri, incidenti mortali. Per esempio, George sapeva che nel 1952 nella casa dei Farmer una vecchia era bruciata viva, ma non era un fatto di cui uno avvertisse la presenza quando andava là a bere un bicchierino.

Presto si rese conto che essere al primo piano aveva i suoi vantaggi. Quando eri a letto non dovevi aprire la porta, non ti capitavano visite inaspettate e potevi chiudere le tende senza suscitare una discussione. Quindi portò in camera il televisore e il videoregistratore e si barricò dentro.

Dopo qualche giorno si fece coraggio e si avventurò fino in videoteca per noleggiare alcune cassette.

E quando si svegliava di notte e ali orchi dalle facce bollite e scorticate lo aspettavano muti, a centinaia, nei giardini rischiarati dalla luna, scoprí di poter trovare una momentanea tregua andando in bagno, rannicchiandosi tra il water e la vasca e cantando tra sé, a voce bassissima, le canzoni che ricordava dalla sua prima infanzia.

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Pagina 191

63.

Per Jean sua sorella era sempre stata una gatta da pelare. Ancor prima che fosse una rinata. A essere sinceri, da quando era rinata era un po' meglio. Cosí almeno esisteva un motivo per cui Eileen era una gatta da pelare. Lo sapevi che non sareste mai andate d'accordo, in quanto lei era destinata al cielo e tu no, quindi non ci provavi neanche.

Ma Dio mio, quella donna riusciva a farti sentire materialista ed egoista anche solo col suo modo di vestire un cardigan informe color cane che fugge.

Mentre pranzavano fu perfidamente tentata di nominare David. Cosí, solo per vedere la faccia di sua sorella. Ma probabilmente Eileen avrebbe ritenuto suo dovere morale riferire l'informazione a George.

Beh, ormai non importava. Per un altro anno il supplizio era finito.

Quando arrivò a casa non vedeva l'ora di fare due chiacchiere con George. Su qualsiasi argomento.

Tuttavia, mentre stava armeggiando con le chiavi si rese conto di qualcosa di strano. Attraverso il quadratino di vetro smerigliato, vide che il tavolo del telefono era storto. E c'era un coso scuro steso ai piedi della scala. Il coso scuro aveva le braccia. Pregò il Signore che fosse una giacca.

Apri la porta.

Era una giacca.

Poi vide il sangue. Sulla scala. Sulla moquette all'ingresso. L'impronta insanguinata di una mano a lato della porta del soggiorno.

Gridò: George, ma non ebbe risposta.

Avrebbe voluto scappare via e chiamare la polizia dalla casa di un vicino. Poi immaginò il dialogo al telefono. Lei incapace di dire dov'era George o cosa gli era capitato. No, doveva essere la prima a vederlo.

Entrò in casa con tutti i peli ritti sul corpo, dal primo all'ultimo. Lasciò la porta socchiusa. Per mantenere un collegamento. Con il cielo. Con l'aria. Con il mondo normale.

Entrò in cucina. Schizzi di sangue su tutto il pavimento.

Era successo mentre George stava mettendo i piatti a lavare. Lo sportello della lavastoviglie era aperto e sul ripiano sovrastante c'era una scatola di Persil in pastiglie.

La porta della cantina era aperta. Scese lentamente i gradini. Ancora sangue. Grandi macchie di sangue all'interno della piscinetta, strie di sangue sul fianco del congelatore. Ma nessun corpo.

Stava sforzandosi al massimo per non pensare a quello che era successo li dentro.

Andò in sala da pranzo. Andò di sopra. Andò nelle camere da letto. Infine andò nel bagno.

Era qui che lo avevano fatto. Nella doccia. Vide il coltello e distolse lo sguardo, barcollò indietro, crollò sulla sedia in corridoio e diede sfogo ai singhiozzi.

Dopo lo avevano portato da qualche parte.

Doveva chiamare qualcuno. Si alzò in piedi e incespicò nella camera da letto. Prese il telefono. All'improvviso le sembrò un oggetto estraneo. Come se non lo avesse mai visto. I due pezzi staccati. Il leggero rumore che taceva. I tasti con i numeri neri.

Non voleva chiamare la polizia. Non voleva parlare con degli sconosciuti. Non ancora.

Telefonò alla ditta di Jamie. Non era in ufficio. Fece il suo numero di casa e gli lasciò un messaggio.

Telefonò a Katie. Non era in casa. Le lasciò un messaggio. Non ricordava i numeri dei loro cellulari.

Chiamò David. Lui disse che sarebbe arrivato in un quarto d'ora.

In casa faceva un freddo insopportabile e lei stava tremando.

Scese giú, mise il suo cappotto invernale e si sedette sul muretto in giardino.

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