Copertina
Autore Marek Halter
Titolo La regina di Saba
EdizioneSpirali, Milano, 2009, romanzi 130 , pag. 348, cop.fle., dim. 14x21x2,5 cm , Isbn 978-88-7770-864-9
OriginaleLa reine de Saba
EdizioneLaffont, Paris, 2008
TraduttoreFrancesco Saba Sardi
LettoreFlo Bertelli, 2009
Classe narrativa polacca , narrativa francese , storia antica , storia: Africa
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Un pomeriggio, all'ora della siesta, re Salomone era assopito nel suo fastoso giardino di Gerusalemme: re di Giuda e d'Israele, regnava anche sui fiori, sulle sorgenti e sugli uccelli, e capiva i loro linguaggi. Ecco che cosa sentì.

Sul ramo di un albero alto sopra di lui spiccava il maestoso piumaggio dell'upupa del giardino: un'upupa regale che portava una tiara smagliante di piume rosse picchiettate di nero e faceva roteare l'occhio piccolo e tondo come una biglia.

L'upupa s'irrigidì: sul ramo di un albero vicino era comparsa una consorella. Era un'upupa ordinaria dal piumaggio bianco, con la cresta di un giallo pallidissimo che si diluiva nell'azzurro del cielo.

L'upupa regale parlò, alto il becco: — Da dove vieni mai, upupa, schiava del tuo padrone?

S'incupì il piumaggio dell'upupa ordinaria.

— E tu, upupa upupa, sorella mia, cosa fai su quel ramo, schiava del tuo regale padrone?

— Aspetto notizie dal mondo.

— Senza muoverti? senza spostarti?

— Senza muovermi, senza spostarmi.

— Upupa upupa, sorella mia, ecco perché non ti capita mai niente di straordinario.

Sbatté le palpebre l'upupa ordinaria e allungò il collo verso la consorella. Con il becco socchiuso si lasciò andare alle confidenze: — Quanto a me, carissima upupa upupa, mentre sorvolavo il paese di Kush ho visto la più bella delle regine: sta' certa, una regina di splendore. Il tuo padrone non ne troverà una simile fra le trecento legittime e le settecento concubine del suo harem.

— Quell'apparizione avrebbe un nome? — s'informò l'upupa non ordinaria in punta di becco.

— Makeda, figlia di Akebo, regina di Saba.

Sotto l'albero, Salomone, figlio di Davide, si mise a sperare.

M. H.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

1
Maryab, palazzo Salhξm



Era un'alba fresca. La pioggia della notte manteneva fitte le brume che ancora velavano l'immensità della piana. Riluceva il lastricato della grande terrazza. Come nei giorni precedenti, Akebo il Grande si era svegliato prima dei servi e di tutto il popolo del palazzo. Si sarebbe detto che lo stesso Almaqah, dio di tutte le volontà, vegliasse affinché Akebo fosse in piedi ai primi raggi del sole.

Se così era, Akebo gliene rendeva grazia. La stagione delle piogge era al termine. Il bacio del giorno sulle mura di Maryab era tornato a essere felicità e pace.

Per cinque lune Almaqah aveva fatto rombare i tuoni. La folgore aveva zebrato i cieli scuri, senza tregua. Le piogge avevano inondato i terreni e gonfiato gli uadi, come se lì si fossero riversate le lacrime dell'universo.

Disciplinati e infaticabili, gli uomini di Saba avevano fatto il loro dovere. Correndo da una diga all'altra, da una paratia all'altra, rinforzando gli argini e i moli, giorno e notte sgombrando il limo, svuotando i canali. Avevano placato il furore delle piene, canalizzandole verso i campi e gli orti. Una volta ancora, l'onnipotenza di Almaqah aveva generato non la distruzione ma la celeste manna dell'inseminazione.

Adesso era finita. Da qualche giorno nuvole, folgori e piogge si ritiravano sui dirupi delle montagne che circondano la piana di Maryab. Grazie al fuoco di Sham, l'ardente dio del sole, l'azzurro del cielo riprendeva il colore dell'infinito. La felicità poteva danzare nel cuore di Akebo, che aveva vissuto abbastanza per sapere che al mondo non c'è maggiore splendore della carezza del sole sulle montagne e sulle pianure di Saba. La luce del giorno era il dono offerto agli uomini saggi dagli dei appagati.

Akebo, stringendo sul torso nudo il mantello di ruvida lana, andò al muretto di pietra che orlava la terrazza, sullo strapiombo della falesia a ovest. La luce era ancora timida. Non si disegnava nessuna ombra. L'umidità del lastricato attutiva il frusciare dei sandali. Ma, non appena ebbe posato la mano destra sulle lastre verniciate, risuonarono i corni delle vedette.

Dalle torri di guardia sovrastanti il palazzo e dalle mura della città lo avevano visto. Le guardie emisero un urlo possente, per tre volte. Annunciavano al popolo di Maryab che Akebo il Grande era in piedi, con gli occhi aperti sul suo regno.

Le sue labbra ebbero un fremito di soddisfazione. Senza alzare la testa, levò alta la mano sinistra in risposta ai guerrieri di guardia.

Tutti riconoscevano da lontano quella mano puntata verso le brume. Una mano che attizzava il loro ardore in battaglia. Un palmo di ferro con due sole dita, pollice e indice. Tra quel pollice e quell'indice, nessuno lo ignorava, Akebo poteva spezzare il collo di un uomo come se fosse un baccello di carrubo.

Il suono rauco dei corni si dissipò fra lembi di bruma. Quasi che anche il cielo si piegasse ai segni destinati ai servi, si alzò da est una folata a scacciare la lanugine di umidità che stagnava tra i muri dei giardini, nei boschetti e lungo le recinzioni. Ancora lattescente, il sole s'insinuò tra le volute di bruma, le lacerò, le squarciò; le dita di Sham indorarono finalmente le torri del palazzo e allungarono l'ombra sui tetti della città. E gli infiniti verdi che modellavano l'altopiano fino ai contrafforti delle montagne si svelarono allora a uno a uno, incastonati nello sfavillio dei canali d'irrigazione, come i pezzi innumerevoli di un gioiello a intrecci d'argento.

Akebo socchiuse le palpebre. La ricchezza di Saba si risvegliava.

Tutt'attorno alla città, uomini già spingevano i muli imbastati lungo i viottoli serpeggianti, ancora umidi, tra i campi e i boschetti dí balsamiti, di cinnamomi e di olibani. Qua e là, tra i recinti di canne e di opunzie, si accalcavano branchi di cammelli dal mantello nero. I tetti di palma dei granai, da poco rinnovati, brillavano di un tenue verde contro l'ocra dei muri di argilla e paglia.

Tra poche ore, il sole avrebbe fatto salire i profumi, e fino a sera anche gli insetti avrebbero danzato in quell'ebbrezza. Tra meno di una luna, il popolo di Saba avrebbe dato inizio ai raccolti di foglie di aloe, i cui succhi promettono vertigini. Poi sarebbe stato il tempo della mirra e dell'incenso. L'oro di Saba stava sia nel suolo sia nel sottosuolo. Poteva essere ora verde ora scintillante.

Akebo trasalì. Una mano minuta si era appena chiusa sopra il suo indice e il suo pollice.

— La tromba mi ha svegliata.

Makeda! La figlia amata e unica. Akebo, preso com'era dalla bellezza che si offriva davanti a lui, non l'aveva sentita avvicinarsi.

— Buongiorno, figlia.

— Buongiorno, padre. Sapevo che eri qui, e sono corsa prima che Kirisha volesse mettermi la veste da giorno.

Era infatti a piedi nudi e il corpicino slanciato era coperto di una semplice tunica da notte. La folta capigliatura di fitti riccioli dai riflessi ramati le copriva in disordine le spalle. Certo, non era così che una giovane principessa avrebbe dovuto presentarsi al padre.

Akebo fece un sorriso senza rimprovero.

Quando si trattava di Makeda, aveva mai fatto altro?

La bellezza della figlia equivaleva alla bellezza della piana di Maryab. E poi, a sei anni, il suo carattere era già lo specchio di quello del padre. Come lamentarsi del dono che gli aveva fatto Almaqah? Anche se era stato al prezzo della più terribile perdita. Anche se una notte, in segreto, aveva versato lacrime. Anche se agli uomini gli dei non offrivano niente che non potessero riprendersi o distruggere.

Così andava la vita degli uomini: il caldo si alternava al freddo, il buio allo sfolgorio. E le lacrime nascevano nel pieno della risata. La saggezza stava nel non dimenticare mai ciò che il dolore insegnava.

Quasi indovinasse i pensieri del padre, Makeda gli serrò un po' più forte, con le sue fragili dita, la possente mano mutila.

— Questa notte — annunciò — mamma è tornata a visitarmi nel sonno. Ti manda a dire che è felice. Misura il tempo che la separa da noi.

L'emozione indurì i tratti di Akebo, che non replicò.

Makeda, con un sospiro, aggiunse: — Non più di tre giorni e due notti!

Akebo approvò. Condivideva l'impazienza della figlia. Non più di tre giorni, e le stelle di Almaqah si sarebbero trovate da una parte e dall'altra della luna. E sarebbe stato il momento di entrare nella cinta del nuovo tempio. Mano nella mano, padre e figlia, re e principessa, avrebbero calcato la sabbia di Mahram Bilqis, il più grande dei templi che un uomo di Saba avesse mai innalzato al suo dio, il più bello dei santuari mai costruiti per accogliere l'anima di una defunta: Bilqis, madre di Makeda, figlia di Yathξ'amar Bayan, sposa di Akebo il Grande. Bilqis, mille volte amata e mille volte pianta.

Malgrado le piogge e le folgori, centinaia di operai avevano costruito le enormi mura, tagliato le pietre, drizzato le colonne prima che cominciasse la stagione dei raccolti. Il tempio, costruito a un galoppo di cavallo dalla città, vicinissimo al letto dello uadi Dana e alla convergenza di tutte le strade che portavano a Maryab, avrebbe imposto al mercante, al viandante, al signore di deporre lì le offerte prima di varcare le mura della città.

La mano di Makeda tirò quella di Akebo, che distolse lo sguardo dallo spettacolo della piana dove il sole già cominciava a scavare le ombre.

— Vieni con me.

Lasciò fare. Sapeva dove lei lo portava. All'estremità opposta della terrazza si apriva una sorta di alcova con il tetto a cupola. Conteneva un modello del tempio in terracotta, plasmato esattamente secondo il piano della costruzione. Affascinata, Makeda, aveva trascorso ore intere a contemplarlo, quando la pioggia le impediva di andare a camminare nel cantiere.

La copia di terracotta dava modo di abbracciare l'immenso sito con un solo colpo d'occhio, a volo d'uccello. Ampio a ovest e incavato a est, il perimetro ovale era simile al ventre di una donna incinta. Lo stesso Akebo aveva vigilato in modo che la forma gli ricordasse il ventre di Bilqis quando era incinta di Makeda.

Quanto alla lunghezza, i sacerdoti l'avevano stabilita prendendo come punti di riferimento il tallone destro del re e la punta di una freccia scoccata dal suo arco più robusto. La freccia aveva percorso quasi tredici tese prima di conficcarsi nel limo.

Il muro era il più alto mai costruito per un tempio: sette volte l'altezza di un guerriero. Invalicabile!

Makeda fece oscillare il minuscolo battente di bronzo che apriva la cinta, in scala con il modello. Fece scivolare all'interno un toro di bronzo grande come il suo dito.

— I sacerdoti precederanno con i suonatori di corno — spiegò, come se suo padre non sapesse ancora nulla della cerimonia a venire e lei stessa non l'avesse già raccontata decine di volte. — Ma noi saremo proprio dietro il toro.

Spinse l'animale di bronzo sulla sabbia sparsa nello spazio del cortile.

— Dietro di noi, la gente del palazzo, le sacerdotesse e i portatori delle statue per il santuario. E più indietro ancora, le donne con i fiori, la mirra e gli incensi. Quando saremo tutti dentro, occorrerà dare l'ordine di chiudere le porte.

Cosa che Makeda fece subito sul modello.

— Gli altri resteranno fuori, ecco!

Il suo dito indicò il santuario di Almaqah costruito sulla parte incurvata della cinta.

— Soltanto noi potremo avvicinarci...

Un peristilio di trentadue colonne di granito a file di otto. Ciascuna sarebbe stata affiancata da una statua di bronzo con l'immagine dei potenti di Saba.

— I portatori delle statue si schiereranno davanti alle vasche delle offerte. Himyam farà segno alle sacerdotesse, che accenderanno i fuochi dei profumi...

Makeda posò il dito a ovest del santuario.

— Io mi metterò qui nel posto della stella giovane e tu — posò un dito sull'angolo opposto del santuario — condurrai il toro nel posto della vecchia stella.

Senza distogliere lo sguardo dalla figlia, Akebo indovinò che i servi già si affollavano sulla terrazza. Non osavano avvicinarsi senza un suo ordine, ma non prestò loro attenzione e continuò il gioco con Makeda.

— Ricordi le parole che dovrai pronunciare non appena si alzeranno i fumi?

Makeda accennò un'alzata di spalle. Il suo tono vibrò d'ironia. Quella domanda era un insulto al suo sapere.

— Io, Makeda, figlia di Bilqis, figlia di Akebo il Grande, figlio di Myangabo, io, Makeda, principessa di Saba, sono davanti al tuo santuario, o Almaqah, Onnipotente della vita, Onnipotente dell'ira del cielo. Mio padre è il tuo sangue in terra. Ti fa l'offerta della mia nascita come ti fa l'offerta di questo tempio perché mia madre Bilqis, tua amata serva, resti seduta alla destra del tuo trono. Sempre e per sempre...

Makeda aveva pronunciato le ultime parole cercando lo sguardo di Akebo. Gli occhi le brillavano di un'emozione che si affrettò a vincere. Tolse il toro di bronzo dal modello e lo brandì verso il volto del padre.

— Io so benissimo quello che devo dire, ma tu dovrai uccidere il toro con un solo colpo d'ascia!

— E tu, figlioletta, dovresti sapere che una principessa di Saba non se ne va in giro di giorno con la veste da notte! E, come se non bastasse, spettinata, i capelli arruffati come una contadina che torna dai campi!

Akebo e Makeda in uno stesso slancio, si volsero alla voce che interrompeva il loro gioco. Ancora prima di vedere il lungo viso scuro rischiarato dai cespugli innevati delle sopracciglia e della barbetta, avevano riconosciuto Himyam. Sacerdote di Almaqah, fedele consigliere di Akebo, era altissimo e magrissimo. La pelle era di un nero assoluto, e anche gli occhi. I denti, ingialliti, guastavano il suo sorriso e gli conferivano un'espressione sempre inquietante.

Nessuno sapeva la sua età, ma il suo vigore pareva che dovesse durare in eterno. Akebo sospettava che fosse assai più giovane di quanto sembrava, forse più anziano di lui di pochissimi anni. Himyam curava il proprio aspetto di saggio per impressionare la sua cerchia. Cosa utile per entrambi. E poi, nel corso degli anni Akebo si era accertato che Himyam possedeva le tre qualità che rendono indispensabile un uomo: era fedele, di suprema intelligenza e intransigente.

Con un movimento del bastone di ebano scolpito da cui mai si separava, Himyarn invitò ad avvicinarsi una bella giovane che si teneva rispettosa in disparte.

— Θ ora che Kirisha si prenda cura di tua figlia, signore — disse con uno sguardo d'intesa a Makeda.

— Me lo aspettavo che saresti venuto a cercarmi — ribatté la piccola senza lasciarsi impressionare.

— Perché sapevi dì essere in colpa.

— O perché non è così difficile indovinare ciò che stai per fare.

Akebo non seppe trattenere una risata da cui traspariva la fierezza per la figlia. Hìmyam si limitò a scuotere la testa, il volto solcato da una smorfia che poteva essere o un sorriso o una minaccia.

Makeda già si era voltata. Infilò la mano in quella di Kirisha. Le sorrise gentile e la tirò verso la terrazza dicendo: — Oggi, Kirisha, sei la più bella delle donne di Saba. E io ho riflettuto: so quale tunica mettermi per somigliare a te.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 125

1
Sabas



Le nuvole, nere come se trasportassero fuliggine, filavano rasente ai flutti rotti da onde enormi, ribollenti di schiuma. Il mare, verde, vicino alle coste lacerato da vaste striature rosse, sembrava la spina dorsale di un mostro divorato dall'ira e mai sazio di carneficina.

Makeda si aggrappava alla balaustra della terrazza. Il vento del sud, umido e gelido, trapassava il suo mantello di lana e le gonfiava la tunica. Le raffiche, potenti, la facevano vacillare.

Il giardino del palazzo e la cala del porto di Sabas offrivano uno spettacolo di desolazione. Alberi e rami divelti, coperture di magazzini e di povere catapecchie spazzate via. L'estremità della diga portuale, ormai vetusta, aveva ceduto. La furia dei marosi aveva rovesciato barche e barconi dai fragili ormeggi. Le navi tirate in secca si erano frantumate l'una contro l'altra, gli alberi spezzati, gli scafi sventrati come se fossero stati feti.

La tempesta era durata un giorno e una notte. Gli abitanti di Sabas e dei villaggi costieri avevano trascorso la notte nei santuari a implorare la clemenza di Almaqah. Invano. All'alba, avevano scoperto la rovina delle loro case, i raccolti distrutti, le greggi disperse e, qua e là, i cadaveri dei più vecchi e dei più deboli che non avevano saputo proteggersi dal furore del cielo.

Adesso, scaricata la sua furia, il vento disperdeva i pianti e i lamenti.

Makeda rabbrividì, le labbra tirate, i pugni serrati sulle pieghe del mantello. La voce di Tan'Amar la fece voltare.

Si avvicinava, con al fianco un uomo minuto dalla faccia scavata, gli occhi velati di stanchezza. La sua tunica e il suo mantello, che dovevano essere di buona qualità, erano sporchi e inzuppati. Una raffica vorticosa lo fece barcollare, gli fece fare un passo indietro, Tan'Amar gli tenne la spalla perché ritrovasse l'equilibrio.

Quando furono a pochi passi da Makeda, l'uomo s'inchinò umile.

— Lunga vita a te, mia regina. Che Ra e Almaqah tengano sopra di te i loro palmi!

— I loro palmi sono duri quanto il pugno di mio padre nella sua ira — replicò Makeda con una smorfia, la voce impaziente. — Lunga vita a te, Abo-aliah. Svelto, dammi notizie. La tempesta ha distrutto tutto anche laggiù?

Makeda indicò il promontorio naturale che celava allo sguardo l'altra parte del porto. Là, in una cala naturale, più stretta di quella del porto mercantile, erano state edificate vaste officine. Una nuova diga proteggeva un bacino d'acqua profonda. Là, sin dall'autunno, ottocento uomini costruivano biremi da guerra.

Lunghe navi con la ruota di prua a forma di dardo e placcata di bronzo. Due ponti avrebbero accolto ciurme di ottanta rematori. Un terzo, con le falchette ricoperte di scudi, avrebbe permesso d'imbarcare un centinaio di arcieri e di abbordatori.

Vicino alla prua si drizzava un albero tozzo, grosso quanto il torso di un uomo, in grado di sostenere una vela quadrata, per una più agile manovra.

Dopo essere stata consacrata regina di Saba davanti al popolo di Axum, Makeda aveva cercato di convincere il padre: il massacro di quanti avevano servito Arwe era il segno premonitore di una guerra. Shobwa e i mukarib di Kamna e di Kharibat mai avrebbero rinunciato, sia per orgoglio sia per cupidigia.

E poiché il mar Rosso era un gladio che tagliava l'unità del regno di Saba, di quello bisognava impadronirsi. Bisognava regnare sul mar Rosso per andare a sferrare colpi mortali ai traditori di Maryab sul suolo stesso che avevano insozzato.

Tan'Amar aveva approvato subito. Himyam pensò forse che il desiderio di vendetta di Makeda avrebbe portato sicuramente alla guerra, almeno quanto l'orgoglio e la stupidità di Shobwa, ma non lo disse.

Myangabo aveva convenuto con calma che si trattava di una buona politica e che la spesa sarebbe stata ragionevole. Guerra o non guerra, le navi da combattimento al momento giusto avrebbero consentito di difendere i convogli di merci. Una buona occasione per commerciare con i paesi del Nord senza passare per il Nilo di Faraone... E non era ciò che tutti si auguravano?

Akebo il Grande aveva rivolto alla figlia occhi divertiti.

— Tua è la decisione. A te ordinare e a te decidere, figlia mia, regina di Saba per sangue e giustizia.

Meno di una luna dopo, il cantiere aveva messo sottosopra il porto di Sabas. Bisognava approfittare dell'inverno, quando la navigazione era più ardua, per costruire le prime navi. In primavera, quelli di Maryab avrebbero avuto una brutta sorpresa. Il mar Rosso non sarebbe più appartenuto a loro.

Buona parte degli uomini che avevano innalzato il tempio di Ra ricevettero l'ordine di trasferirsi a Sabas per costruire le dighe necessarie. Con loro grande sorpresa, Makeda li accompagnò. Fece venire tutti gli uomini capaci di costruire l'ossatura delle navi. Il salario da lei offerto a ciascuno era un peso d'oro pari a una sfera di ambra e l'esonero per i prossimi cinque anni da ogni corvé. Da due a trecento carpentieri furono assoldati dopo avere dato prova della loro abilità.

Nel porto, Makeda si era fatta sistemare una modesta casa per sé e per le sue serve. Vi dimorava ormai da cinque lune. Non passava giorno senza che visitasse le officine, i bacini e persino i magazzini. Pronta a lodare il lavoro ben fatto. Ma, per un ritardo o per errori di costruzione, puniva e cacciava dal cantiere senza esitazioni. Ormai, nessuno osava allentare gli sforzi.

Così si era diffusa la diceria. Saba aveva ormai una regina che valeva un re. La figlia di Bilqis di Maryab era l'eletta degli dei. Il sangue guerriero di suo padre Akebo scorreva a fiotti nel suo corpo, e con tanto vigore da far sembrare che il suo fosse quello di un uomo. Ingannevole era la sua bellezza muliebre. Un inganno la sua giovane età. L'intero suo aspetto era una trappola. Almaqah le accordava la potenza dell'universo e Ra la velava sotto la bellezza del giorno. Ma guai a colui che se ne lasciasse accecare!

Mentre sulla terrazza s'inchinava davanti a lei, Abo-aliah, capo dei carpentieri, aveva in testa tutto questo. Mai aveva avuto ragione di lamentarsi di un'ingiustizia ma, come tutti al cantiere, temeva ogni parola che uscisse dalla bocca così fresca e così tenera della sua regina.

— I magazzini hanno tenuto, mia regina — si affrettò a rispondere. — La cala era più riparata del grande porto. L'ira di Almaqah l'ha appena sfiorata. E la nuova diga ha respinto le onde senza spezzarsi. Gli architetti hanno fatto bene il loro lavoro. Quanto al resto, abbiamo vegliato tutta la notte. I carpentieri hanno avuto il tempo di smontare gli alberi e di legare otri alle falchette prima che a tempesta giungesse al culmine. I marosi hanno causato solo pochi guasti. Abbiamo ripristinato gli ormeggi delle tre navi già in acqua che minacciavano di rompersi.

Makeda rivolse a Tan'Amar un'occhiata di sollievo.

— Ben fatto, Abo-aliah. Di' agli uomini che mi ricorderò dei loro sforzi.

Il capo dei carpentieri s'inchinò farfugliando ringraziamenti, già nell'atto di allontanarsi. Guardando ancora le catapecchie in rovina al di là del muro di cinta, Makeda lo trattenne.

— Abo-aliah, fa' interrompere per quattro giorni l'attività nel cantiere. Riposatevi tutti finché il sole arriverà allo zenit, poi andate ad aiutare quelli che hanno perso tetto e raccolti.

Abo-aliah stette a guardarla sorpreso, incapace della minima reazione.

— Va', di te non ho più bisogno.

L'uomo attraversò la terrazza barcollando nel vento. Tan'Amar restò accanto a Makeda, un po' teso, la mano sulla balaustra, il volto reso immobile dall'ammirazione e da qualcos'altro che faticava a dissimulare.

Makeda sfoggiava ormai l'acconciatura lunga e vaporosa delle sacerdotesse di Ra. Un anello d'oro le fermava sulla fronte quella massa ricciuta, non tanto però da impedire che il vento furioso la arruffasse. Ormai non usciva senza una corta mazza di ebano rivestita d'oro e sovrastata da un muso di toro le cui corna sostenevano il disco solare di Ra.

Sotto le tuniche, si indovinava un corpo di donna. Un seno che tendeva le stoffe, una piega che abbelliva le anche. La sua pelle nera sembrava più luminosa, di una grana finissima, tanto da fare temere che si lacerasse.

— Θ una buona decisione che ti farà amare a lungo — disse finalmente Tan'Amar.

Makeda parve udirlo appena, lo sguardo perso sul mare disseminato di relitti.

— La tempesta è stata terribile — mormorò come tra sé. — Ma è stata anche bella. Come se Almaqah si compiacesse di giocare con noi.

Tan'Amar non capì immediatamente ciò che lei canticchiava. Il vento si portava via un po' della sua voce.

Oh, io, muraglia
che sono venuta dal deserto.
Muraglia d'ira,
torre di vendette
contro il mio dolce seno,
vengo a ridestarvi
con la mia mano sinistra.
Il giorno della felicità
usciremo nei campi,
passeremo per i villaggi,
saremo il vento prezioso.


Tacque. Scosso più dalle parole che dal vento della tempesta in esaurimento, Tan'Amar non osava starle di fronte. Non aveva spesso occasione di vedere e di udire la sua regina cantare a quel modo, anche se conosceva, grazie a Kirisha, la bellezza dei suoi canti che rapivano le serve.

Makeda ruppe l'incantesimo. Si avvolse nei lunghi lembi del mantello. Con il tono con cui aveva parlato un istante prima al capo dei carpentieri, constatò: — Va bene, non ritarderemo troppo il lavoro. Ci occorrono altre tre navi pronte a far vela prima che finisca la cattiva stagione. Credi che Shobwa già sappia che cosa gli stiamo preparando?

Tan'Amar assentì con un borbottio.

— Θ probabile che nuove spie brulichino attorno a noi.

Si raddrizzò, fermo e indifferente al vento gelido, lasciando sventolare il mantello sulla corazza di cuoio, e soggiunse: — Ieri è arrivato un messaggero da Maryab. Ha attraversato il mare di giorno, prima della tempesta. La sua barca si è sfasciata mentre accostava. Poi, la rotta gli è stata resa difficile dall'inizio della tempesta. Θ stato condotto davanti a me durante la notte. Tu dormivi.

Makeda abbozzò un sorriso.

— Un messaggio del signore Yahyyr'an? Torna opportuno.

Tese la mano.

— Un rotolo con la sua pessima grafia?

Tan'Amar scosse la testa.

— L'uomo l'ha perso prima di raggiungere la costa.

— Come fai a essere certo che non menta e che non sia una spia?

— Sulla spalla reca impresso il marchio del signore Yahyyr'an.

— Ma chi può essere sicuro che non sia contraffatto?

— Non temere. Resterà qui, non tornerà a Maryab finché non avremo portato a termine la costruzione delle navi. Ma aveva imparato quello che doveva dire, e ciò somiglia proprio alle parole del signore Yahyyr'an.

— Ti ascolto.

— Sembra che Shobwa sia stato preso da grande furore alla notizia della morte delle sue spie e di quanti servivano Arwe. La notizia ha fatto grande impressione sul popolo. Ormai è considerato uno sbruffone, lui che aveva fatto credere che Akebo il Grande fosse un vecchio senza più forze. Una bella sorpresa. I signori di Kamna e di Kharibat si sono mostrati propensi a fare marcia indietro. Shobwa è più che mai furibondo. Vuole costringerli ad affrontarci.

— Θ nel suo carattere. Soltanto la morte lo fermerà. Lo so da quella notte a Maryab in cui tu mi hai spinta nei sotterranei.

Makeda sorrideva. Ma Tan'Amar conosceva a fondo il furore che quel sorriso copriva.

— Shobwa ha giurato davanti alle porte del tempio di Bilqis di colpire il cuore di Axum.

— Occorrerebbe che sapesse riconoscere un cuore.

Tan'Amar fu d'accordo. Tacquero. Poi, Tan'Amar con uno sforzo soggiunse: — Il signore Yahyyr'an, poi, ti manda a dire che attende soltanto la tua risposta per condurre un toro nel tempio.

Makeda si divertì: — L'uno vuole colpirmi al cuore, l'altro vuole che io gliene faccia dono! E tu te ne preoccupi.

— Sai quello che penso — mormorò lui.

— Sì. So che cosa pensi e che cosa senti. Puoi essere fiero dell'una come dell'altra cosa.

Tan'Amar non riusciva a staccare lo sguardo dalla grazia dei lunghi occhi della sua regina, dai suoi zigomi alti più attraenti dei frutti del paradiso. Spiò la sua bocca come un assetato nel deserto spia il miraggio di una sorgente.

D'un passo, Makeda gli si avvicinò. Tanto che i lembi del suo mantello, sbattuti dal vento, schioccarono sulle loro gambe. Il vento portava il suo profumo di ambra e di cannella.

Anche lei esitò. La sua mano destra si protese verso il volto del guerriero.

Tan'Amar lesse un fremito sulle sue labbra. Nello spazio di un lampo di follia, credette di essere lì lì per baciarle.

Ma la mano di Makeda scese a cercargli il pugno. Lo strinse. Se lo portò alla bocca. Gli baciò le dita, posandovi la sua guancia di seta.

— Tan'Amar! — bisbigliò a voce bassa, come in un canto. — Mai sposerò il signore Yahyyr'an. Mai e per tutto il tempo in cui Ra riapparirà all'orizzonte. Ho bisogno di lui solo per vincere Maryab. Forse andrà a uccidere un toro nel tempio di mia madre Bilqis, ma non credere che questo mi porterà al suo letto. Lo so io, e lo sai anche tu.

Chiuse le palpebre. Tan'Amar vide il suo sguardo tremolare sotto la lievità della carne. Lei di nuovo avvicinò il suo pugno alle labbra. Tan'Amar trattenne un gemito: i denti della sua regina affondavano nel suo palmo come le perle in uno scrigno. Il dolore lo scosse. Lui, il guerriero. Ebbe la strana sensazione che con quel morso Makeda lo prendesse al laccio del suo desiderio.

La violenza del vento, l'umidità e la stanchezza si attutirono. La potenza dei suoi muscoli svanì. Non ebbe altre sensazioni che la dolcezza delle labbra della sua regina e il bruciore del suo marchio. Una vertigine lo colse, quasi stesse ondeggiando, laggiù, lontano, nel mare scatenato.

— Se ci fosse un uomo in questo regno capace di portarmi al letto da sposa, quello sei tu — mormorò ancora Makeda. — Nel mio cuore tu sei un pensiero fresco e puro. Non c'è istante in cui io dubiti di te. So che le nostre strade hanno la stessa polvere e lo stesso orizzonte. E per questo tu sai quanto me che non è possibile...

Una protesta, un lamento, già aleggiava sulle labbra di Tan'Amar. Si levarono delle urla che li indussero a voltarsi.

Laggiù, nel porto, alcuni correvano sulla vecchia diga mezzo diroccata dalla tempesta. Indicavano un punto al largo.

Makeda lasciò andare la mano di Tan'Amar.

— Guarda, guarda!

Stava indicando le onde striate di schiuma. Lui focalizzò lo sguardo.

La si distingueva appena. Una piccola striscia nera, sballottata dall'onda. Appariva e spariva. Appena riconoscibile la forma di una nave. A meno di mezza lega dal porto.

Uno scafo senza albero. Quello che restava della struttura del ponte, le membrature dello scafo stagliate contro il cielo come ossa spezzate.

Tuttavia, si discerneva il movimento di una coppia di remi. Due coppie, forse. E uomini che tentavano di tenersi ritti, agitando le braccia con il rischio di finire in acqua.

— Eccole, le spiedi Shobwa! — gridò Makeda. — La tempesta è arrivata loro addosso prima che toccassero terra!

Senza consultare Tan'Amar, presa dall'eccitazione, ordinò: — Non lasciarli fuggire. Soccorrili, catturali. Li voglio vivi!

Lui mugugnò parole che il vento si portò via. E già correva alla scala che scendeva dalla terrazza.

| << |  <  |