Copertina
Autore Masha Hamilton
Titolo La biblioteca sul cammello
EdizioneGarzanti, Milano, 2007, Nuova biblioteca 43 , pag. 288, cop.ril.sov., dim. 15x22x2,7 cm , Isbn 978-88-11-68597-5
OriginaleThe Camel Bookmobile [2007]
TraduttoreSara Caraffini
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe narrativa statunitense , libri
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Pagina 9

SCAR BOY



Il bambino, fermo a gambe divaricate, si leccò via la polvere dalla mano stretta a pugno e cercò di fingere che quello che stava assaggiando fosse latte di cammella. Lì accanto, suo padre parlava a un'acacia spinosa mentre il fratello maggiore lanciava pietre contro un termitaio. Nessuno dei due badava a lui, e agli occhi del piccolo, loro tre formavano un'unica entità. Era come se stesse contemporaneamente bevendo polvere, implorando un albero e lanciando sassi. Dava per scontata questa loro unità. Era troppo giovane per riconoscere il concetto di «separato». Né sapeva del cambiamento, della paura o del castigo della siccità. La vita gli sembrava ancora totalmente prevedibile, eterna e sicura.

Adesso, per esempio, l'entità bambino-padre-fratello fu avviluppata dallo spegnersi del giorno, quando la brezza aumentò d'intensità, il colore defluì dal cielo e le ombre scurirono simultaneamente tre paia di gote. Il bambino diede il benvenuto a quel momento. La consistenza della luce sempre più grigia trasformava i volti. Rendeva le persone simili a ritratti a carboncino, avrebbe pensato in seguito.

Qualcosa, tuttavia, disturbò il crepuscolo distogliendo bruscamente l'attenzione del piccolo dall'intimo conforto della sua lingua sulla pelle e dal gusto pungente della polvere. Dalla penombra dei vicini cespugli emerse qualcosa di rigido, sottile, perfettamente immobile ma vibrante. Davvero strano. In base alla sua esperienza, tutto camminava o correva, volava, era trasportato dal vento o piantato nel terreno – in altre parole, si muoveva palesemente o, più di rado, non lo faceva. Cosa pensare, invece, di quell'acre fremito immobile, di quel teso e ostinato accenno di flessibilità? Il bambino gli si avvicinò strisciando, poi si sedette per osservarlo.

La nuova prospettiva gli permise di notare un altro oggetto, piccolo e tondo tanto quanto l'altro era lungo e stretto. Aveva il colore di una fiamma.

In realtà ce n'erano due.

Ah-ha, pensò soddisfatto: il puzzle cominciava a prendere forma. Gli occhi, naturalmente, si muovevano e si immobilizzavano repentini, ed erano capaci di guizzare come la luce del fuoco. Quindi l'oggetto doveva essere umano. O magari animale. O forse uno spirito ancestrale.

Comunque fosse, qualcosa di imprecisato, un ricordo o un'intuizione ereditati, gli fece capire che aveva bisogno di tutto sé stesso per affrontarla, così chiamò le altre sue parti, il padre-fratello. «Sono qui», disse. Nemmeno mentre parlava distolse lo sguardo dagli occhi e dalla coda rigida di quella creatura misteriosa che cominciava a ingrandirsi. Poi balzò in avanti. Si unì a lui, quasi volesse entrare a fare parte dell'entità figlio-padre-fratello.

Non si rese conto del dolore. Il momento gli parve invece irreale e sconcertante, come assopirsi nel bel mezzo di uno dei racconti cantati dal padre e perdere così il filo della vicenda. Cos'era già successo? Cosa stava ancora accadendo? Avrebbe dovuto chiederlo al padre, il mattino seguente.

Solo una cosa rimase perfettamente nitida: il suono che gli sarebbe riecheggiato nella mente fino alla fine dei suoi giorni. L'umido, stridulo lacerarsi della sua carne di bimbo di tre anni mentre la iena maculata, resa folle dalla fame, gli si avventava sulla gamba, gli dilaniava rumorosamente la vita per poi avvicinarsi al suo volto e sgranocchiare, grugnendo di piacere.

In seguito avrebbe sentito raccontare come suo padre si voltò, uccise la belva con un coltello, prese in braccio il figlio e si mise a correre, il sangue del bambino che gli scendeva lungo le braccia. Avrebbe scoperto che era successo tutto in meno di cinque respiri meditabondi – ma non ci credette fino in fondo. Nel suo ricordo, lo scricchiolio delle ossa e lo strapparsi della carne si protraevano per un'intera decade di tramonti e albe, spazzando via tutti gli schemi, rendendo ogni cosa separata e terrificante, indefinita e fugace per l'eternità.

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Pagina 47

6.
LA MOGLIE DELL'INSEGNANTE



Quale paradosso era annidato nella sua argomentazione nitida, cristallina. Jwahir lo percepiva persino mentre perorava la sua causa, persino mentre il marito, Matani, l'ascoltava attentamente, a capo chino. Era sicurissima che la donna bianca e il bibliotecario di Garissa fossero pericolosi invasori. I libri che portavano, colmi di falsi valori e seduzioni illusorie, minacciavano la stabilità e l'armonia del gruppetto di famiglie di Mididima. Se i giovani avessero assimilato una concezione straniera della vita, che cosa ne sarebbe stato della gente di Jwahir? Conosceva già la risposta: sarebbero stati spazzati via – storia e tradizione sradicate dall'anima di ogni bambino, come se Matani avesse accolto a braccia aperte degli assassini. E lei era la moglie di quel folle incauto. Aveva il dovere di parlare.

Ma cosa avrebbe fatto se Matani si fosse piegato ai suoi desideri? Se avesse sollevato la testa e accettato di difendere Mididima, di scacciare i forestieri?

Cosa avrebbe fatto se le visite dei cammelli fossero cessate?

Guardandolo soppesare così scrupolosamente le sue asserzioni, capì che la resa finale del marito alla sua richiesta non era solamente possibile ma inevitabile. Matani credeva nei libri, su questo non c'erano dubbi, ma si sarebbe lasciato convincere da Jwahir e alla fine ne avrebbe assecondato i desideri. Per amore, ecco come avrebbe spiegato la cosa, con negli occhi un'area preoccupante di inerme devozione. A quel punto cosa sarebbe successo? Cosa ne sarebbe stato della spasmodica attesa, da parte di Jwahir, di quel giorno che giungeva due volte al mese? Cosa ne sarebbe stato della piacevole stretta al cuore, del formicolio tra le cosce?

Quello era il giorno in cui avrebbe visto Abayomi, il tamburaio. A tu per tu. Lo vedeva ogni giorno, naturalmente. E non sarebbero stati soli. Eppure era quella l'impressione che aveva: loro due insieme, il resto di Mididima in lontananza, distratto dai libri.

E là, nello spazio sempre più esiguo tra lei e Abayomi, era insediata l'incongruenza tra le convinzioni sentite nel profondo del cuore e il cuore stesso.

E se la biblioteca non fosse mai arrivata? Lei e Abayomi avrebbero continuato a incrociarsi semplicemente per il resto della vita? E se le sue visite fossero cessate, come avrebbero potuto continuare le loro conversazioni? Lei non poteva rinunciare a quel legame, così diverso da qualsiasi altro avesse mai conosciuto, che scendeva in picchiata e si librava alto permettendole di avanzare lungo la nuda intelaiatura degli altri giorni, quelli senza biblioteca. Ne aveva bisogno così come una zanzara ha bisogno di sangue.

Il loro incontro - il loro vero incontro, dal suo punto di vista - era avvenuto durante la prima visita della biblioteca. Pochi attimi prima si era allontanata barcollando dallo spettacolo di Matani che presiedeva un regno di carta, un regno così palesemente illusorio da darle la nausea. I libri, prima irrilevanti per la loro vita o quella degli antenati, erano sistemati su una stuoia come ospiti di riguardo invece che serpenti pronti a colpire. I vicini di Jwahir, quasi tutti analfabeti come lei, si assiepavano lì intorno carponi, come animali.

Quanto a Matani, sfavillava come un cacciatore che abbia appena ucciso la preda - solo che non era affatto un cacciatore; in lui non c'era traccia di quell'istinto, di quell'acciaio interiore. Lei era rimasta così delusa dall'uomo che chiamava marito, che si allontanò di corsa dai cammelli e dai libri e da Matani, a capo chino, cieca nella sua angoscia, ignara di dove si posavano i piedi. Non aspettandosi di incontrare anima viva. Chiunque altro, in fondo, si trovava con Matani e i cammelli e i libri.

E là, tra le capanne, si era scontrata con Abayomi. Letteralmente scontrata. Una sagoma che attutì la sua caduta e la riportò delicatamente sulla terra.

Tenne la testa china, imbarazzata. Confusa dalla solidità dell'uomo, dal suo aroma grezzo, dalla propria volubilità. Si scostò, aspettando che lui proseguisse, ma Abayomi non lo fece. Le mani che la presero per le spalle, le stesse che forgiavano i tamburi da cui sgorgava la musica che lei amava, erano tiepide e salde. All'inizio Jwahir non riuscì a sollevare lo sguardo. Lui aspettò che alzasse finalmente gli occhi fino ai suoi. La tenerezza che Jwahir vi vide rischiò di travolgerla. Ebbe l'impressione di fluttuare nell'aria. Avrebbe voluto toccargli il viso per riacquistare l'equilibrio e per poco non lo fece.

«Stai bene, Jwahir?»

Lei riprese fiato, si preparò a rispondere affermativamente, a scostarsi, ad andare per la sua strada. Ma quando aprì bocca, ne uscirono parole diverse.

«I libri...» disse. «Matani!»

All'inizio incespicò nelle parole, ma lui l'ascoltava più attentamente di quanto chiunque avesse mai fatto, agevolando il flusso del suo discorso e rendendolo ben presto più rapido. Mentre gli altri abitanti di Mididima si assiepavano accanto ai cammelli e si davano da fare con caduchi pezzi di carta, lei parlò del suo timore che le nuove idee distruggessero l'antica saggezza. Si accalorò sempre più. Se non stavano attenti, dichiarò, ciò che era essenziale sarebbe stato rimpiazzato da ciò che non lo era. Alla fine spostò la conversazione da Mididima a sé stessa. Le storie dei libri di suo marito, gli spiegò, apparivano insignificanti, mentre la musica dei tamburi di Abayomi sembrava sacra.

Lui sorrise. Non rispose. Non servivano risposte.

Poi parlarono d'altro. L'uomo raccontò di essere rimasto seduto accanto alla moglie morente e di quanto si crucciasse per il figlio Taban, quello che chiamavano Scar Boy - un soprannome che Jwahir non avrebbe mai più ripetuto ad alta voce, ora che capiva. Lei parlò del desiderio che provava mentre sedeva all'esterno del kilinge, lo spazio sacro, ascoltando i tamburi che si univano ai canti notturni.

La nudità delle parole che pronunciava stupì persino lei.

La conversazione si era protratta lungo otto incontri, due volte al mese, durante le visite della biblioteca sui cammelli. Quell'altalenante colloquio prese a vivere di vita propria, e Jwahir lo guardava con soggezione e gratitudine. Schernivano ed elogiavano con lo stesso respiro. Sprofondavano l'uno negli occhi dell'altra, poi distoglievano bruscamente lo sguardo. La loro conversazione segreta era viva e tangibile, come un bambino che avessero generato insieme e di cui condividessero la cura.

Un bambino che avvizziva e quasi moriva ogni volta che i cammelli se ne andavano. Jwahir e Abayomi non potevano parlare con una simile intimità, laddove altri potevano ascoltarli. E senza la biblioteca non restavano mai da soli.

Jwahir lo osservava, però. Osservava – con scaltrezza, mentre scaldava il latte di cammella su un fuoco oppure spazzava una macchia di terriccio - quando Abayomi restava seduto davanti alla sua capanna a costruire tamburi. Lavorava per giorni e giorni sullo stesso strumento, e ognuno di essi era diverso, come un uomo da un altro. I muscoli delle braccia si muovevano con armonia sotto la superficie della pelle mentre faceva macerare il legno e piegava i vari pezzi per costruire i telai, o puliva le pelli. Lei lo osservava mentre donava vita ai tamburi, tendendo le pelli sui telai, fornendo loro sia un corpo sia un battito cardiaco.

Donava la vita. Ecco cosa faceva, come la pioggia stessa. E per Jwahir aspettare la visita seguente della biblioteca sui cammelli era come trattenere il fiato fino a sentirsi scoppiare i polmoni.

Era possibile riuscirci solo grazie ai minuscoli talismani che si regalavano a vicenda non appena restavano di nuovo soli: parole che accennavano alla frequenza con cui ognuno dei due aveva pensato all'altro nei giorni trascorsi dall'ultimo incontro e a cosa provavano adesso che erano insieme. Parole caute, controllate, ma che lei ripeteva mentalmente centinaia di volte finché non ne giungevano di nuove a sostituirle.

«Una sera, la settimana scorsa, avrei tanto voluto poterti parlare di...» cominciava a dire. L'avvenimento in questione era irrilevante, la menzione del desiderio incaricata di esprimere tutte le sue brame.

«Quella stessa sera sono andato a dormire inquieto e mi sono svegliato in piena notte. Evidentemente intuivo che volevi dirmi qualcosa», ribatteva l'uomo, e lei sentiva rafforzarsi il legame tra di loro.

Di recente avevano cominciato a parlare del matrimonio di Jwahir, ma con un linguaggio cifrato, visto che quello era il terreno più infido di tutti. Lei aveva accennato alla propria frustrazione, lui aveva annuito con l'aria di capire. Avevano smesso gradualmente di parlare. Non si toccavano, ma Jwahir riusciva ancora a sentire la pressione delle dita di Abayomi sulle spalle.

Da quanto conosceva quell'uomo, Abayomi? Da tutta la vita. Da ancora prima di conoscere Matani, rimasto per molti anni nella Città Lontana. Abayomi era già un uomo quando lei era nata, e si erano visti quasi ogni giorno, nel corso della vita di Jwahir. Visti senza vedersi.

Adesso le sembrava che tra loro ci fosse sempre stato un sentimento, qualcosa di ampio e solido che lei non aveva semplicemente notato fino a quando la biblioteca itinerante attraversò faticosamente il bush per arrivare sotto la grande acacia di Mididima. I libri? Erano destinati agli sciocchi o ai fuorviati del villaggio. Ma la biblioteca portava con sé un dono: un dono noto unicamente a lei e ad Abayomi.

Eccola lì, dunque, intrappolata in una contraddizione da lei stessa creata. Giocherellando nervosamente con le perline che le ciondolavano tra i seni, si interruppe a metà discorso, si alzò e si allontanò dal marito quietamente sconcertato. All'improvviso si sentiva stremata dal dover censurare severamente la biblioteca ad alta voce, mentre, con altrettanto fervore, dentro di sé la benediva.

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Pagina 104

Lei si sedette a gambe incrociate.

«Gradisce del chai?»

Fi si sentì tutt'a un tratto tremendamente americana. Non voleva il chai, voleva arrivare subito al punto. Ma si era presentata a casa di Mr A. senza preavviso, quindi doveva fare le cose a modo suo.

«Volentieri, grazie», rispose.

L'osservò raggiungere un angolo, dove accese quella che sembrava una versione leggermente più grande di un fornelletto da campeggio, sul quale poggiava un bollitore celeste da cui usciva già il vapore. Aprì una piccola dispensa da cui prese una grossa tazza su cui campeggiava il disegno di una pantera simile a uno di quei souvenir dell'Africa che si possono acquistare all'aeroporto. Vi fece cadere delle foglioline di tè scuotendo un sacchettino di plastica, poi aggiunse la miscela bollente di latte e acqua. Non la guardò mentre lavorava, e lei intuì di non dovere parlare. Dopo qualche minuto lui le portò la tazza e le si sedette di fronte.

«Grazie», disse Fi, e si costrinse a bere un sorso. Il chai era senza zucchero, leggermente speziato. Dopo quel sorso, però, non riuscì a trattenersi oltre. «Mr A., perché è diventato un bibliotecario?» chiese.

Lui le rivolse un'occhiata al contempo divertita e impaziente. «Miss Sweenev, cosa c'entra questo con la biblioteca sui cammelli?»

«Mi accontenti, Mr A. È perché ama i libri? O forse la lettura?»

Per un attimo lui non rispose. «Amo molto alcuni libri. Shakespeare, per esempio», dichiarò alla fine, poi abbassò la voce e intonò: «Occhio di ramarro e dito di rana.»

Fi scoppiò a ridere e l'uomo sorrise per la prima volta da quando era arrivata.

«Ma se vuole proprio saperlo», aggiunse, «sono un bibliotecario a causa di Miss Fetegrin.»

«Chi?»

«Fetegrin. La prima bibliotecaria che abbia mai conosciuto. Una londinese pragmatica, con i capelli corti. Portava tailleur attillati e aveva un vitino minuscolo, ma tutto dipese dai suoi occhi: racchiudevano una tale passione, soprattutto quando parlava della biblioteca di Saint James Street.» La sua voce era animata da un insolito fervore, ma si interruppe, come se si fosse reso conto che si stava lasciando trascinare. Si schiarì la gola. «Comunque, arrivò da Londra e venne a trovarmi a scuola - presumo che gli insegnanti mi avessero raccomandato. Mi intervistò per una borsa di studio relativa a un corso di biblioteconomia in Inghilterra. E la ottenni.»

«Una volta là ha considerato l'eventualità di rimanere all'estero invece di tornare a casa?»

Mr Abasi scosse il capo. «Mi piace questo posto, Miss Sweeney», rispose, stupito dalle sue stesse parole. Poi tacque, e Fi capì che aveva finito di mettersi a nudo.

«Io sono stata piuttosto lenta nell'imparare a leggere», confessò lei dopo un istante. «Un'imprecisata difficoltà d'apprendimento non diagnosticata, immagino, ma dovetti arrivare quasi ai nove anni prima di riuscire a leggere un libro da sola. Lo adorai. Capii subito che i libri potevano portarci fuori da noi stessi e renderci più grandi. Persino fornirci relazioni umane di cui altrimenti non godremmo.» Si interruppe. L'uomo la guardava, impassibile. «A casa collaboro con il programma di alfabetizzazione per adulti. Sa quante persone vanno in biblioteca - persino quelle che non sanno leggere - per trovare risposte e soluzioni?»

«Bene», ribatté Mr Abasi. «Qual è il succo di tutto questo, Miss Sweeney?»

Lei sorrise del suo tono, tutt'a un tratto brusco e impaziente. «Mididima.»

Lui annuì, sul viso un'espressione soddisfatta. «Lo immaginavo.»

«Mr A., lei giudica sicuramente importante l'alfabetizzazione. Come può essere un bibliotecario e pensare altrimenti?»

«Non ho detto...»

«Sa che l'alfabetizzazione può anche aumentare il reddito?»

Le sopracciglia di Mr Abasi si inarcarono. «Nel bush?»

«E vi sono anche benefici meno tangibili. Per esempio, un incremento della propria autostima.»

«Voi americani...» disse lui, in tono esasperato e insieme indulgente. «Con la vostra incrollabile fiducia nella vostra capacità e nel vostro diritto di cambiare il corso della storia altrui.»

Fi allungò le gambe e fletté le dita dei piedi. «Ho sempre odiato la parola amministrazione. È un termine secco, noioso, non trova? Dopo che mi dissero che facevo parte dell' amministrazione della biblioteca ho cominciato a immaginarmi giustiziata da un plotone d'esecuzione.»

«Sì, Miss Sweeney?» la sollecitò Mr Abasi dopo un minuto.

«Ma gli abitanti di Mididima riescono a farmi apprezzare di nuovo il mio lavoro, Mr A. Sono intelligenti. Meritano una chance. E io posso aiutarli. Senza istruzione e contatti con il mondo moderno non hanno futuro.»

«Certo che ce l'hanno.» Lui distolse lo sguardo per un attimo, il volto raggrinzito da un'apparente frustrazione. «La gente di Mididima esiste, in questa o quella forma mutevole, da migliaia di anni, Miss Sweeney. Da più tempo del suo paese.»

Fi osservò la tazza di chai e poi bevve un sorso. Decise di cambiare tattica. «Sto pensando da un po' a un mio particolare talento», raccontò. «Riesco sempre a trovare i libri. È un dono meraviglioso, per una bibliotecaria. Ogni qual volta un volume finisce fuori posto, chiamano me per rintracciarlo. Non so bene come ci riesco, mi limito ad allungare le braccia e a camminare tra gli scaffali, come un rilevatore di libri vivente. La cosa sbalordisce persino me.»

«Sa quante persone vivono a Mididima, Miss Sweeney?» domandò lui. «Non più di 175.»

«Sta dicendo che sono troppo poche per preoccuparsene?»

«Sto dicendo che ci sono molti altri posti che la sua biblioteca può visitare, ora che la popolazione di Mididima ha infranto le regole.»

«Lo trovo gratuitamente crudele.»

«Crudele? No. È pratico.» Mr Abasi si alzò per versarsi ancora del chai. «C'è un'altra cosa, Miss Sweeney», aggiunse mentre riempiva la tazza anche a lei. «Qualcosa che ho imparato quando vivevo a Londra. A volte i paesi come il suo credono che il loro sia l'unico modo.»

«Non voglio certo contraddirla, ma temo di non capire cosa intende. Io sto parlando di libri, non di un'invasione militare.»

«Lei ama l'idea di ciò che, a suo parere, sta ottenendo a Mididima. Ma quelle persone hanno un loro approccio alla vita, Miss Sweeney. Non dia per scontato che lo si debba cambiare.»

«Che genere di vita? Penuria di cibo. Penuria d'acqua.»

«Lasci che le racconti una storia su un insediamento non troppo lontano da Mididima», disse Mr Abasi, sedendosi di nuovo. «I suoi abitanti andavano ad attingere l'acqua in un pozzo che distava quattro ore di cammino. Qualche anno fa una missione cristiana raccolse i fondi necessari e cominciò a costruirne uno che avrebbe richiesto solo quindici minuti di marcia. Prima che riuscissero a terminarlo, il pozzo venne distrutto. Ricominciarono a costruirlo, e fu demolito ancora. Alla fine chiesero alla popolazione del villaggio se erano delle tribù rivali a danneggiarlo. No, risposero gli abitanti, erano loro. Le donne avevano sempre affrontato quelle quattro ore di strada, una volta alla settimana, e non lo giudicavano un viaggio troppo lungo. Concedeva loro una pausa dalle noiose incombenze quotidiane e un'opportunità di andare a trovare i vicini. Inoltre era diventato un rito di passaggio dall'adolescenza all'età adulta, parte integrante della loro cultura. Non volevano un pozzo che distava appena quindici minuti. Questa gente ha legami con la terra e con le tradizioni che gli estranei possono non capire.»

«Ma cosa può esserci di male nell'imparare a leggere, Mr A.?»

«I libri che portiamo sono scritti in swahili e in inglese, e non nelle lingue locali. Non sono libri sulla loro vita», rispose lui. «Sono libri che potrebbero addirittura farli vergognare della loro vita.»

«Ci servono testi diversi, sono d'accordo.»

«Non sono sicuro che il tipo di libri di cui hanno bisogno esista davvero, Miss Sweeney.» Sospirò. «Ma ha già preso una decisione, vedo.» La invitò con un gesto a bere un altro sorso di chai e aspettò che lo facesse. «Sa che molta della nostra gente si ritiene obbligata a fornirti sempre nutrimento e riparo se conosci cinque espressioni colloquiali nella sua lingua tribale? Ma...» Si interruppe come per sincerarsi che lei lo stesse ascoltando attentamente. «Ma se ne conosci meno di cinque, non ti deve nemmeno un sorso d'acqua.»

Fi annuì, capendo cosa intendeva, ma lui insistette.

«Impari quelle cinque frasi, Miss Sweeney», la sollecitò.

«Forse addirittura dieci, Mr A.», ribatté lei.

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Pagina 165

23.
L'AMERICANA



Un crampo allo stomaco la destò. Fi aprì gli occhi per scoprire, alla sua destra e alla sua sinistra, la ragazza e la nonna immobili, quasi inerti come fossero immerse nel pesante torpore che segue una notte insonne. Se non fossero state così profondamente addormentate, temeva che il suo stomaco rumoroso avrebbe potuto svegliarle. Sgattaiolò fuori, dandosi pacche delicate sul ventre come per zittirlo.

Non che avesse fame, non proprio. Le offrivano razioni generose, in base agli standard della tribù. Ma quante porzioni extra di granturco mischiato a latte o sangue di cammella si potevano prendere? La sera precedente, prima di andare a letto, Matani le aveva offerto una leccornia locale: «latte che ha dormito». Lasciato riposare per un'intera notte e poi mescolato energicamente con un rametto, era considerato più nutriente e saporito di quello fresco. Non gli era stato facile procurargliene una tazza, visto che di solito solo gli anziani erano autorizzati a gustarlo, quindi lei soffocò l'impulso di annusarlo prima di bere una sorsata generosa. Sapeva di caglio ed erba, come se provenisse da un cammello con l'indigestione. L'unica cosa che Fi potesse dire del «latte che ha dormito» era che le disturbava il sonno.

Decise di mangiare un altro po' della sua scorta di cioccolato d'emergenza, e ritornò nella stanza per prendere una tavoletta dalla sacca da viaggio, insieme a una bandana per i capelli. Staccò un quadratino di cioccolato e riscivolò fuori. Mangiò rapidamente il primo boccone ma poi rammentò a sé stessa di rallentare, lasciando che la porzione seguente le si ammorbidisse in bocca. Cominciò a camminare senza meta, concedendo al cioccolato il tempo di rinvigorirla. Presto, lo sapeva, le donne si sarebbero alzate per badare a capre incinte, cammelli e mucche, mentre gli uomini si sarebbero allontanati con contenitori di plastica infilati sotto il braccio per andare a prendere l'acqua in bacini lontani. Ma per il momento gli esseri umani e i loro animali non erano del tutto svegli e le fiere notturne erano finalmente piombate nel sonno, e Mididima era avviluppata da un silenzio che lei non aveva mai sentito da nessun'altra parte.

Superò con agilità il recinto di biancospino che circondava Mididima durante la notte e che non era ancora stato rimosso per la giornata. Aveva bisogno di riflettere su Taban e i libri; aveva bisogno anche di riflettere su Kanika e l'insegnamento – ma il cioccolato e la pienezza del silenzio la fecero pensare chissà come alla moglie di Matani. Jwahir, con i grandi occhi e le labbra carnose, sembrava una donna perfettamente consapevole della propria bellezza. Mentre le altre della tribù portavano la chioma suddivisa in treccine che correvano lungo il cuoio capelluto per poi cadere all'indietro, lei aveva un'unica treccina sulla fronte. Gli occhi erano truccati e aveva disegni tatuati intorno ai polsi, dettaglio che Fi non aveva notato nelle altre donne. Jwahir sembrava abituata a lasciarsi viziare, almeno nei limiti consentiti dalla vita nel bush, e per un attimo si chiese se la moglie di Matani fosse degna di lui, poi scacciò deliberatamente quel dubbio.

Un suono penetrante, tanto acuto da farla sobbalzare, la strappò alle sue riflessioni. D'istinto si accovacciò dietro un cespuglio e chinò la testa. Dopo pochi secondi sbirciò fuori.

Il suono proveniva da sinistra, una dozzina di passi più in là. Un gruppetto di scimmie stava balzando di ramo in ramo. Avevano il corpo grigio, il muso nero e lunghe sopracciglia candide. All'inizio le trovò graziose e buffe nella loro iperattività ma poi, osservandole con più attenzione, trattenne il respiro.

Avevano le orecchie posizionate sulla nuca. Una nube di mosche ronzanti le circondava. E, cosa più inquietante di tutte, la loro espressione sembrava spiritata.

Rimase inginocchiata, osservandole. Le scimmie, capì alla fine, stavano lanciando pietre contro un imprecisato bersaglio dietro di lei. Spostando il corpo e muovendosi piano piano verso sinistra, riuscì a vedere, sprofondato sotto l'erba circostante, un vitello. Aveva le zampe allargate posate sul terreno. Sembrava si stesse riposando, osservando il mondo, solo che Fi notò che gli occhi sgranati erano vitrei, come per lo shock.

Per quale motivo le scimmie lo stavano bersagliando? E perché lui si lasciava aggredire così passivamente? Poi Fi vide che la zampa anteriore sinistra era piegata in modo innaturale – forse rotta? Povera bestia ferita, pensò. L'intera scena le sembrò surreale.

Trovò un bastone e lo picchiò prima sul terreno e poi contro un cespuglio, alzandosi e urlando. «Smettetela!» Sentendo la sua voce, le creature in fermento si voltarono a guardarla, e i loro strilli si placarono. Erano grandi circa un terzo di lei ma la fissavano con occhietti così freddi da causarle una scarica di apprensione. Alcune lasciarono ciondolare la testa di lato. Un paio mostrarono i denti. All'improvviso Fi immaginò che la colpissero oppure le si avventassero contro, mordendo, artigliando, avvolgendole le lunghe code intorno al collo. «Sciò», disse, stavolta un po' più debolmente di quanto avrebbe desiderato.

Una, più grande delle altre, dava l'impressione di essere il capo. Rimase sull'albero ma balzò di ramo in ramo avvicinandosi a lei, si lasciò dondolare all'indietro per poi lanciarsi di nuovo nella sua direzione con atteggiamento aggressivo. Le altre la circondarono, rivolgendole occhiate in tralice, le loro strida ormai più flebili, più simili a un sibilo.

Fi fece un passo in avanti, esitante, poi un altro, più sicuro. «Indietro», disse, rivolgendosi direttamente alla scimmia più grossa, cercando di parlare con maggiore sicurezza di quella che provava. Picchiò di nuovo il bastone a terra e poi lo fece oscillare verso l'animale. «Via!»

Le scimmie si immobilizzarono, quasi all'unisono, muovendo soltanto la testa per guardare ora lei ora il loro capo. Fi sentì il sangue pulsarle alla base del collo. Si fece avanti, sempre brandendo il bastone, in modo da frapporsi tra le scimmie e il vitello.

La tenue brezza del primo mattino era scomparsa e sembrava che tutto l'ossigeno nell'aria fosse stato risucchiato. Sentì un unico grillo, poi la scimmia più grossa si lasciò cadere dall'albero, oscillando. Picchiò per due volte i pugni sul terreno di fronte a sé.

I suoi occhi erano vitrei. Fi rimase in attesa, incapace di prevederne la mossa seguente.

La scimmia si voltò. Si allontanò saltellando senza mai girarsi, e le altre la seguirono. Prima di andarsene, una di quelle più piccole sollevò una zampa al di sopra dell'erba per agitare un pugno silenzioso, come per dire: «Sia maledetta tua madre». Poi scomparvero. Era tutto finito.

Fi trasse un respiro e rilassò le spalle prima di avvicinarsi al vitello, che parve agitarsi ancora di più ora che le scimmie se n'erano andate. Si rizzò sulle zampe posteriori come per tentare la fuga, ma non ci riuscì a causa di quella anteriore spezzata. Emise un flebile lamento.

«Sshh, sshh, piccolino.» Fi lasciò cadere il bastone che aveva continuato a stringere con forza e avanzò piano piano per dargli dei colpetti sul collo con la mano protesa. Cercò di canticchiare a bocca chiusa come aveva sentito fare alle ragazzine mentre badavano alle mandrie. «Oh, lo, lo. Oh, stai tranquillo. Oh, lo lo. Ti porteremo a casa.»

Dopo qualche minuto, il vitello le lasciò cadere la testa sul ginocchio, impossibile dire se per sfinimento o fiducia, ma lei provò un empito di tenerezza e decise di non lasciarlo solo, nemmeno per cercare aiuto. Forse avrebbe potuto trasportarlo fino al villaggio. Era talmente magro che probabilmente pesava meno di quindici chili.

Saggiò lo spessore del bastone. Sembrava perfetto: non si sarebbe piegato troppo né era troppo rigido. Togliendosi la bandana dalla testa e lacerandola con i denti fino a ricavarne tre strisce, creò una stecca per tenere ferma la zampa del vitello.

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Pagina 231

Miss Sweeney sorrise. «Le andrebbe di parlare, mentre mangio?»

«Di cosa?»

«Della sua vita.» Miss Sweeney mescolò il suo ugali. «La madre di Kanika era la sua unica figlia?» chiese lentamente.

«No. Ne ho persi due, prima di lei. Entrambi durante il parto. Una maledizione provocata dall'essermi seduta su un masso.» Il masso su cui l'aveva mandata sua cugina, quello che non l'aveva trasformata abbastanza per permetterle di evitare la circoncisione ma era riuscito lo stesso a causarle problemi durante il travaglio.

«Mi dispiace.»

Neema fece ondeggiare una mano. «All'epoca fu doloroso, ma è da parecchio che non penso a quei due piccini. Dahira, invece, mi manca ancora. Accade che chi va a prendere l'acqua con te è più difficile da perdere di coloro che sono semplici possibilità.»

Miss Sweeney posò la ciotola ma lei la prese e gliela passò di nuovo. Aspettò di vederle inghiottire un altro boccone. «Mia figlia era mia madre rinata», spiegò. «Entrambe più miti di me. Ho perso la madre una seconda volta, quando Dahira è stata uccisa.»

Miss Sweene inghiottì un'altra cucchiaiata e mise da parte la ciotola. «Cos'è successo, di preciso?»

Neema distolse lo sguardo. «Non ne parlo», affermò.

«Mi scusi.»

«Non è per risparmiare me che taccio. È per risparmiare Kanika.»

«In tal caso, forse sbaglia.» Miss Sweeney allungò una mano per toccare le sue, come per addolcire le proprie parole. Parve ancora più stanca. «Anche mia madre aveva dei segreti, e io non percepivo certo la cosa come un dono», spiegò. «Avrei preferito sapere. Era la mia storia, oltre che la sua.»

Neema piegò il capo e studiò la donna pallida che aveva davanti. «Perché dovrei opprimere Kanika con una tristezza che non le appartiene? Ne avrà abbastanza di sua, alla fine. Non ha bisogno della mia.» Poi indicò il cibo. «Ne mangi ancora.»

Miss Sweeney inclinò la ciotola per mostrarle che era vuota.

Neema si alzò, si piazzò dietro di lei e cominciò a passarle le dita tra i capelli castani e ricciuti. «Voglio farle le treccine», annunciò. Che almeno una cosa venisse messa in ordine, in quella giornata di anarchia.

L'altra inclinò un poco la testa all'indietro. «Può parlare mentre lo fa? La prego.»

Neema raccolse i capelli dietro la nuca, tastandone la consistenza. Trovava faticoso parlare in inglese. D'altra parte, le storie di altre vite lette negli ultimi mesi l'avevano portata ad apprezzare più profondamente il filo della sua esistenza: un'infanzia trascorsa accanto all'oceano, poi, quando era ragazza, il suo restare ammaliata da un uomo proveniente dal deserto, un uomo con una pelle stupenda e occhi scintillanti che la portò a vivere tra la sua tribù e la lasciò vedova troppo presto. Grazie alla forza di volontà, era diventata l'unica vedova di Mididima a occuparsi del gregge di famiglia. Aveva cresciuto da sola la figlia e poi la nipote. Adesso stava istradando Kanika su un sentiero che le avrebbe procurato molte storie tutte sue.

Ma, ben presto, Neema avrebbe lasciato quel posto. Un'improvvisa consapevolezza della cosa le saettò dentro. Senza la biblioteca sui cammelli, la sua ora si sarebbe avvicinata di nuovo, ne era sicura.

Se non raccontava adesso le sue storie, non l'avrebbe fatto mai.

«Un dissidio legato ai diritti sull'acqua», cominciò, parlando piano. Erano parole in inglese più numerose di quelle che aveva dovuto usare in precedenza. «Ecco perché mia figlia e suo marito furono uccisi accanto a un piccolo bacino. I nostri uomini giurarono di vendicarsi. Raggiunsero a frotte l'insediamento dell'altra tribù. Ma, una volta là, si accontentarono di otto bovini e quattro capre in cambio di mio genero, tre mucche in cambio di mia figlia. Visto che mi stavo occupando di Kanika, ricevetti io tutti gli animali. Non molto per la vita di una figlia.»

Non aveva mai pettinato capelli con la consistenza di quelli di Miss Sweeney. Erano sottili, le treccine si scioglievano facilmente. Ne avrebbe usati meno, decise, facendo treccine più strette. Si inumidì le dita sulla lingua e riunì i riccioli arruffati accanto alla tempia destra della donna.

«Non mi trovai d'accordo con quanto fecero i nostri uomini», spiegò. «Il compromesso non reca alcuna pace al cuore. Un anno dopo l'uccisione di Dahira feci mangiare a una delle mie mucche la radice velenosa della pianta di chuchi e la macellai subito, affinché il veleno restasse nella carne.»

Si interruppe, rammentando come, una mattina di buon'ora, aveva portato la mucca lontano dal villaggio per poi farle uscire dal collo abbastanza sangue da riempire un vaso; infine, mentre l'animale indebolito era steso a terra ansimante, gli aveva tagliato la gola. Ricordò la repentina ondata di sollievo scaturita dall'atto di togliere la vita a qualcuno e come quel senso di liberazione le avesse insegnato qualcosa che non aveva più scordato.

Miss Sweeney si mosse, piegando la testa per guardarla dal basso. «Stia ferma», le disse, e aspettò che si immobilizzasse di nuovo.

«Gli uomini volevano sapere come mai avevo sprecato la mucca», continuò, «ma io risposi le ragioni di quanto facevo si trovavano dentro la mia cesta. Andai al pozzo dove avevano ucciso mia figlia e raccolsi legna da ardere e arrostii la carne. Le fanciulle della tribù che uccise Dahira vennero ad attingere acqua e, vedendo una sconosciuta, tornarono indietro a chiamare i giovani uomini.»

Ormai aveva acquisito un certo ritmo. Le sue mani si stavano muovendo sul cuoio capelluto di Miss Sweeney come fianchi che oscillino a tempo con la musica, creando file ordinate laddove c'era stata una massa intricata. La donna teneva la testa reclinata all'indietro, gli occhi chiusi.

«Gli uomini giunsero con i loro toni sgradevoli», raccontò Neema. «Io parlai con la voce docile della mia defunta figlia. Dissi: "Sono venuta a lasciare della carne per un figlio che ho perso e, con il vostro permesso, sistemerei l'offerta accanto al pozzo in modo che lui possa bere mentre mangia". Erano giovani. Dal modo in cui pronunciai la parola "figlio" dedussero che mi riferissi a un bimbo e immaginarono di avere più da guadagnare che da perdere, con uno spirito così piccolo. Risero di me e accettarono.»

Ormai le treccine cingevano la testa di Miss Sweeney. Neema lavorava sui capelli rimasti sulla nuca.

«Resi la carne il più profumata possibile», aggiunse, «poi me ne andai. Dovette passare un'intera luna prima che sapessi che due di loro erano morti avvelenati.»

Miss Sweeney posò le mani sulle sue per fermarle. «Ma la cosa non proseguì?» chiese. «Gli uomini dell'altra tribù non si vendicarono a loro volta?»

«Non avrebbero potuto. Persino se avessero indovinato quale fosse la fonte del veleno. Avevano rubato la carne a uno spirito.»

Neema ricominciò a intrecciare i capelli e, dopo un attimo, l'altra parlò «E se coloro che morirono non erano i diretti responsabili della morte di sua figlia?»

A Neema non sfuggì il dubbio nella sua voce. Evidentemente Miss Sweeney proveniva da un luogo dove, a dispetto – o forse a causa – di tutta la sua magia moderna, gli uomini erano meno determinati.

«Ogni qual volta si infrange un giuramento o qualcuno viene disonorato, gli spiriti maligni vengono attirati contro la nostra gente», dichiarò risoluta. «Il castigo per il trasgressore – o chiunque lo rappresenti – deve essere severo, altrimenti gli spiriti maligni se la prenderanno con noi.»

Indietreggiò per esaminare Miss Sweeney. Il viso della donna bianca era esposto alla luce del giorno, nudo, i capelli finalmente quietati. Benché adesso fosse più difficile non notare l'espressione angustiata della donna, Neema aveva fatto senza dubbio un ottimo lavoro. Le posò i pollici al centro della fronte per poi spingerli verso le tempie, come per lisciare la superficie della pelle.

«Ora sei mia figlia», annunciò. «Appartieni a noi. Quindi non preoccuparti. Ci prenderemo cura l'una dell'altra.»

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