Autore Omar Robert Hamilton
Titolo La città vince sempre
EdizioneGuanda, Milano, 2017, Narratori della Fenice , pag. 336, cop.fle., dim. 14x22x2,8 cm , Isbn 978-88-235-1669-4
OriginaleThe City Always Wins
TraduttoreMariella Milan
LettoreGiangiacomo Pisa, 2018
Classe narrativa egiziana , paesi: Egitto












 

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Indice


PRIMA PARTE.    Domani                  	 11

SECONDA PARTE.  Oggi                    	131

TERZA PARTE.    Ieri                    	225


 

 

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Pagina 15

1





9 ottobre 2011


Ha smesso di contare i morti un'ora fa. Questi corridoi sono talmente zeppi di corpi e rabbia e dolore che da un momento all'altro la situazione potrebbe diventare esplosiva. Ovunque grida per l'ennesima vittima, domande urlate, volti in preda al panico, lacrime al telefono. Sono morti, sono morti, sono tutti morti. L'obitorio dell'ospedale è al completo. Non è stato progettato per una cosa come questa. Ci sono dodici persone chiuse insieme a lei nell'infermeria. Undici sono morte. Attraverso la spessa porta di metallo sente le voci dei loro genitori. Dobbiamo seppellirli subito! Stasera! Undici dentro, almeno altri quattro in arrivo, dieci in un'altra stanza e chissà quanti ancora là fuori, quanti feriti, quanti ancora in fuga dall'esercito. Il medico legale sarà qui tra poco. Solo un'altra ora. Vi preghiamo di attendere. Undici più una donna seduta per terra, con le dita inerti di un uomo strette al seno, la faccia rigata di lacrime. L'uomo ha gli occhi chiusi – suo marito, suo fratello, il suo amato – i vestiti insanguinati e ridotti a brandelli dal metallo seghettato dei cingoli dei carri armati. Sul petto ha un ricamo del volto di Gesù. Undici qui dentro, in questa stanza che col passare dei minuti è sempre più rovente, e quanti ne arriveranno ancora? Quanto andrà avanti il massacro? Per quanto tempo resteremo chiusi in questa stanza, dove l'aria è più densa di qualunque aria mai respirata, dove ogni atomo è morte? I blocchi di ghiaccio si stanno sciogliendo tra i corpi dei caduti, i vapori sussurrano dalla carne di chi non ha più voce. Lei respira a fondo. Questa stanza. Questa minuscola stanza dove ogni respiro respira morte. Vi porteremo avanti. Vi porteremo dentro di noi. Inala. Nafas. Inala. Nafs. Queste molecole odorose che salgono dai vostri corpi, la vostra ultima offerta a questo mondo. Vi respirerò. Vi porterò dentro di me.

«Dobbiamo seppellirli subito.» Una voce maschile. Mariam sente da dietro la porta brandelli di un'accesa discussione. «La giustizia è per la prossima vita. Lasciate la giustizia al Signore. Dobbiamo seppellirli subito.»

Inala. Senti il frutto, il sudore, la polvere dei tuoi fratelli, dolce come il sangue, acre come la putredine che incombe. Presto sorgerà il sole. Inala. Ora siamo insieme. Gliela faremo pagare.

«Ma signore» — una voce più giovane, gentile, demoralizzata — «senza autopsie e senza prove l'esercito è libero di negare tutto.» Mariam riconosce la voce di Alaa, la prima persona che ha incontrato in ospedale, il viso incorniciato dai riccioli proprio come l'aveva visto in tv. «Per avere giustizia ci servono le autopsie.»

Inala. Sii forte. Otterremo giustizia. Sii forte, sii forte per questa donna di cui ancora non conosci íl nome, per le sue lacrime, per l'uomo che ama. Chiedile come si chiama, se ha bisogno di qualcosa. Ha bisogno che suo marito si risvegli. Lasciala stare. Ghiaccio. Ci serve più ghiaccio. Chissà per quanto tempo ancora dovremo lasciare i corpi senza sepoltura. Inala. Inala l'aria pesante che scende a spirali nei polmoni e si insinua nei loro anfratti, ricoprendoli per sempre di questa notte. Questi corpi diventeranno ciò che la mente non può dimenticare.

«Che diritto hai di pronunciare la parola giustizia? Quale giustizia? Quale giustizia? Non potrà mai esserci giustizia, non parlarmi di giustizia, non insultarmi con le parole. Mio figlio è morto. Mio figlio è là dentro morto e noi parliamo di giustizia? Quale giustizia per i poveri? Per i deboli? Per i copti? Non ci sarà mai e non potrà mai esserci giustizia. Quale giustizia? Come farai ad avere giustizia? Il prete dice di seppellirli adesso, prima dell'alba. Lascia perdere la giustizia. Lascia perdere le autopsie. Dobbiamo seppellire i nostri figli.»

«Vi prego. Manteniamo la calma.» Un'altra voce, grave di autorevolezza, una donna: «Mio fratello è là dentro accanto a suo figlio, signore. Questi sono i loro amici. Si fidavano di loro. Hanno fatto la rivoluzione insieme. Dovremmo stare a sentirli».

«E ora lo vediamo tutti cosa ci ha portato la vostra rivoluzione.»

Il corteo procedeva verso Maspero. Verso la sede della televisione e della radio di stato. L'esercito ha aperto il fuoco. Senza esitare. Hanno schiacciato la gente sotto i carri armati. Quanti morti ci saranno sparsi per le stanze di questo ospedale? Quanto passerà prima che vengano a prenderci qui? Una folla nervosa attende fuori dai cancelli. I militari verranno a sequestrare i corpi pieni di pallottole dell'esercito e a cancellare le prove? Lei è fuggita dai proiettili, si è nascosta dentro un palazzo e ha caricato sul sedile posteriore di un'auto il corpo sanguinante di un ragazzo. Gli ha tamponato la ferita con la camicetta e gli ha detto che sarebbe andato tutto bene. Lo ha portato qui, all'ospedale copto. Lo hanno tirato fuori e sono corsi dentro e poi un medico lo ha preso con sé e l'ha lasciata, confusa, nel corridoio fluorescente.

«Mariam» ha detto una voce. Un medico. Un amico di sua madre. «Stai bene? Sì? Vieni con me. Ho bisogno di una mano.»

«Per cosa?»

«L'obitorio è pieno. Stiamo usando una corsia. Mi serve che qualcuno stia li dentro. Una persona di buonsenso. Per tenere fuori la gente. Te la senti?»

Sono rimasti fermi per un attimo davanti all'infermeria, dove lutto e caos all'improvviso si sono dissolti. Mariam sapeva che una volta entrata non ci sarebbe stato modo di tornare indietro. Di dimenticare ciò che avrebbe visto. Ha abbassato la maniglia.

Ora la donna con la mano dell'amato stretta al petto è seduta sul pavimento, appoggiata alla porta. Non si è mossa. Mariam tira fuori dalla tasca íl cellulare. Scarico. Ma dovrebbe chiamare Khalil. Dove sarà ora? Si sono separati. Hanno portato insieme il ragazzo ferito e l'hanno caricato in macchina. Vai, le ha detto. Non c'è posto. Verrò a cercarti più tardi. Lei si è voltata e l'ha visto, con la T-shirt marrone di sangue rappreso, tornare all'ospedale da campo. Dove sarà ora? Sarà là fuori da qualche parte, tra i famigliari dei morti? Vai a cercare un caricabatterie, un po' d'acqua. Vai a recuperare un po' d'acqua per questa donna. Chiedile se le serve qualcosa. Nessuno può darle quel che le serve.

Là fuori la voce della donna, con quell'autorevolezza carica di coinvolgimento, lutto e tenacia, sta lentamente convincendo i famigliari. Sì. Sì. Dobbiamo combattere. Otterremo giustizia. Un lutto dopo l'altro, le voci si fondono in un proposito comune, come uno scudo. Niente sepolture affrettate di corpi e di verità. Ci saranno autopsie. Ci saranno prove. Ci sarà giustizia.

Al sorgere del sole Mariam esce nel corridoio. Ora il mondo è più tranquillo. La rabbia è diretta all'esterno, verso l'esercito. Lei cerca Alaa ma non lo vede. Il pavimento è pieno di gente seduta contro le due pareti, ancora in attesa del medico legale, di un attacco o di qualunque cosa stia per accadere. Si incammina in mezzo al corridoio, in cerca d'acqua. L'aria è più rarefatta, la sente sfiorarle le guance, i polmoni la cercano con avidità, ma lei fa respiri corti. Per rispetto.

Nel cortile dell'ospedale una giovane donna in felpa nera con la scritta FREE GAZA è seduta per terra, con un sacchetto di plastica pieno di bottiglie d'acqua.

«Potrei averne una?» chiede Mariam.

«Certo» risponde lei, passandogliene una.

Mariam si siede su un muretto polveroso. Una donna più anziana vestita di nero sta lì quieta. «Siete dei bravi ragazzi» dice, quasi senza parlare, quasi tra sé. «Mio figlio... magari lo conosci? Si chiama Ayman. È...»

Mariam aspetta, senza dire niente.

È dentro, lo sa. Ayman è dentro, sotto il ghiaccio. Sono venuti a cercarci ancora. E poi ancora. Una volta al mese, ogni mese, con manganelli, maschere, fucili, scarponi, pallottole, e ancora e ancora e ancora e per cosa? Mariam si avvicina alla donna, appoggiandole con delicatezza una mano sulla spalla mentre sgorgano altre lacrime. «Mio figlio... diceva che la sua vita era iniziata in piazza Tahrir.»

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Pagina 21

[...] Il Cairo è jazz: tutta contrappunti che si contendono l'attenzione, con qualche pregevole assolo che si innalza sopra il ritmo incessante della strada. New York potrà anche dire di essere il jazz, ma è da qui che si può vedere tutta la storia del mondo; è da qui che passa: nel Nilo che scorre dalle sorgenti verso nord e si getta nelle acque di antichi imperi, con tutta la brutalità e la bellezza che portano, per poi emergere selvaggia, dissonante e ribelle e trasformarsi in qualcosa di nuovo, indefinibile e incontrollabile. Queste strade, progettate per evocare l'ordine, le proporzioni e la gestione marziale della città moderna, oggi modellate dai ritmi sfrenati di commercianti, ambulanti, clacson e benzinai abusivi che se ne contendono il dominio, mescolano passato e presente, danno vita a una nuova contemporaneità fatta di nord e sud, di vecchio e nuovo, di città e campagna che si intrecciano rumorosamente in una bellezza sfacciata e incomprensibile. Sì, Il Cairo è jazz. Non il lounge jazz, non il jazz d'ascensore, addomesticato, che va bene per candeggiare la storia, ma quello infuocato di New Orleans o quello fibroso di Chicago: il jazz che è bellezza nella distruzione del passato, il jazz di un futuro incerto, il jazz che promette libertà dai brutti vecchi tempi.

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Pagina 66

21 novembre 2011

23.49


«È una guerra tra generazioni, cazzo.» Malik urla sovrastando l'eco dei colpi di fucile e il suono della pioggia martellante di migliaia di pietre. «È una cazzo di guerra totale e se non facciamo qualcosa ci metteranno in ginocchio finché camperemo! Perché non ci daranno una cazzo di tregua fino a quando non saranno tutti morti! Ecco! Fatevi le vostre cazzo di elezioni, coglioni. Bene. Adesso state zitti, eh? Non abbiamo altra scelta, dobbiamo strapparglielo a morsi, ai vecchi. Non è più questione di destra o sinistra, sono tutti uguali. È solo una questione di giovani contro vecchi. Ci spedirebbero tutti a morire in guerra, se potessero, quei bastardi. Chiunque sotto i quaranta, via. Prendete i vostri debiti e i vostri stupidi prestiti universitari e le vostre cazzo di lauree inutili e ficcateveli nel culo! È una guerra. Giovani contro vecchi. In tutto il mondo, cazzo.»

Malik: l'ennesimo emigrante tornato dalla diaspora. Rientrato da Glasgow per costruire un paese nuovo. Avvocato, lavora a un progetto di riforma delle forze di polizia. In una persona meno intelligente di Malik, quella voce e quel volume risulterebbero estremamente fastidiosi. Khalil tiene gli occhi fissi sull'imbocco di via Mohamed Mahmud, in cerca di sirene, di panico, della kefiah di Mariam.

Sul suo telefono un bip segnala un messaggio di Facebook:


Seguo sempre i tuoi post. Sono davvero colpita dall'audacia e dal coraggio che tutti voi state dimostrando. Promettimi che sarai prudente.

Diane x


Khalil sente la schiena raddrizzarsi in uno scatto di orgoglio virile; il mondo sta guardando. Tutte le tue ex stanno guardando.


Un audio fondamentale da @ChaosCairo. Sempre più forte la pressione sull'esercito egiziano e ora sulla questione del gas tossico.


«Sai cos'è?» Malik è inarrestabile come la battaglia dietro di lui. «Sai cos'è il mondo che hanno costruito con tanta merdosissima cura? È una di quelle cazzo di trappole per topi umane. È così: basta intravedere un barlume di formaggio e ci entri dentro di corsa, cazzo, perché (a) perché mai non dovresti? e (b) hai fame e (c) sei un cazzo di topo e poi zac, oh scusa, mi dispiace, la porta ti si è chiusa alle spalle e adesso eccoti qui, umanamente fottuto alla grande, libero di goderti la crosticina di formaggio con cui ti hanno comprato per tutto il resto della tua inutile vita.»


Impressionante incapacità dell'esercito egiziano. Chiedete che cedano immediatamente il potere a un governo civile!


L'Unico ascolta in silenzio la tirata di Malik. È un immigrato-vagabondo europeo della vecchia scuola, ha vissuto per decenni nello stesso appartamento in centro e per un breve periodo è stato sposato con un'egiziana. Un viaggiatore dei tempi in cui si andava da qualche parte e non si ripartiva di corsa col primo volo low cost. Khalil non si ricorda mai se sia bulgaro o ungherese e non può chiederglielo di nuovo. Nessuno ricorda nemmeno più perché lo chiamino l'Unico.

Khalil vede Mariam che cammina verso di loro sfilandosi la kefiah dal collo. Sembra stanchissima ma in ripresa.

«Tutto bene?» chiede Khalil.

«Sì» risponde Mariam. «Ho fame.»

«Cos'è questa storia del nuovo comitato?» chiede Khalil.

«Che comitato?» Si intromette Malik.

«Un comitato rivoluzionario» dice Mariam.

«A cui l'esercito dovrebbe cedere il potere in via transitoria» interviene Hafez.

«Chi c'è dentro?» domanda Malik.

«Parenti dei martiri. Avvocati. Autorità religiose. Accademici. Esperti legali. La lista non è niente male» dice Hafez.

«Pensate che i militari accetteranno?»

«Se capiscono che tutta questa merda non potrà finire senza qualche concessione di rilievo, forse sì. Questa situazione li fa sembrare sempre più deboli, ogni minuto che passa.»

Il telefono di Khalil vibra:


Forza e solidarietà da Atene ai compagni di Chaos! Siete fonte di ispirazione per il mondo intero!


Malik si sporge in avanti. «Dicono che all'aeroporto ci sono già gli aerei pronti per far scappare il Consiglio supremo delle forze armate.»

«Ma figurati.»

«Invece sì.»

«Be', allora che ci facciamo qui? Dobbiamo tornare là fuori.»

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Pagina 82

Era stata la musica a portare Khalil in Egitto. Avrebbe imparato a suonare il qanun, si sarebbe orientato nell'universo di significati racchiuso tra le sue settantadue corde e attraverso i suoi quarti di tono avrebbe comunicato sottigliezze inesprimibili a parole. Il qanun. La Legge. Interi mondi in potenza attendono, tesi e inquieti, nella sua cavità. Il qanun sarebbe stata la sua casa. Sarebbe stato lui a rivendicare dagli orientalisti il più maestoso dei suoni, gli avrebbe ritagliato un posto nel futuro, nella modernità, l'avrebbe portato nuovo fiammante nell'universo digitale.

Chi avrebbe immaginato, anche solo qualche mese fa, che ci saremmo trovati qui? Quanto sembrano lontani ora quei lunghi weekend nel garage di Kofi a bere birra e a scratchare, quei venerdì pomeriggio che si trascinavano lentamente in biblioteca, mentre aspettavamo che scoccassero le sei e poi ci scusavamo con i senzatetto che se ne tornavano al gelo, quelle notti insonni nella stanza di Diane, con le tende nere e la seggiola verde ricoperta da una pila di vestiti, e i poster di Hopper e quella sua ostinata innocenza nel voler disperatamente capire. C'è Internet in Palestina? Sì, Diane, c'è Internet in Palestina. Ma il muro non serve a salvare vite? No, Diane, il muro è una forma di apartheid e di occupazione. Ma non possono andarsene in Giordania e basta? Chi, Diane? I... palestinesi? No, Diane, sarebbe pulizia etnica, non parliamone più. Oh, ma io voglio capire.

Khalil varca una porta priva d'insegna e sale la scalinata di granito che porta al Greek Club. Non c'è bisogno di chiamare nessuno, basta entrare li per trovare intere tavolate di rivoluzionari, uomini e donne che si sono ritrovati insieme in piazza Tahrir, e ora sono impegnati a proiettare la rivoluzione nel futuro. Attivisti, registi, reporter, psicoterapeuti, urbanisti, storici, avvocati, e ogni giorno ne arrivano sempre di più: egiziani della diaspora tornati per contribuire alla costruzione di un paese nuovo; attivisti internazionali in cerca di una chiave per aprire il mondo nuovo; artisti e accademici galvanizzati e incuriositi dalla grande sorpresa che sta cambiando tutto.

Khalil spalanca l'alta porta di legno, saluta il gestore e per un attimo, passando davanti allo specchio, vede il proprio riflesso, i capelli neri sempre più in disordine e, anche da quella distanza, i primi fili grigi che spuntano dalle tempie. Attraversa il bar superando tavoli pieni di volti familiari che parlano di idee poco familiari: i pionieri della blogosfera che discutono di come usare il crowdsourcing per la nuova costituzione; i cineasti di via Adly che stilano il manifesto di un nuovo sindacato regionale degli artisti; i giornalisti che raccolgono fondi per aprire un'emittente televisiva pubblica; gli attivisti mediatici che abbozzano il progetto di un archivio globale del filmato politico; la coalizione sperimentale di attori e terapeuti che sta costruendo uno spazio artistico pubblico per bambini a rischio; e, in fondo alla stanza, un uomo strimpella sul pianoforte a coda una canzone di Lionel Richie.

Per un attimo Khalil si ferma ad ascoltare. Poi sente Rania.

«Arash!» grida Rania. «Entra. Vieni a conoscere gli altri.» Alto e ben vestito, l'aspetto di un intellettuale, Arash fa un cenno di saluto verso il gruppo. «Arash ha girato un film geniale. L'hai visto, Khalil? È sulla rivoluzione in Iran e lui sta organizzando una serie di proiezioni in tutto l'Egitto.»

Khalil avvicina una sedia al tavolo, lungo e affollato, e ordina da bere; le note di Lionel scorrono lisce come seta tra le parole. Khalil ha un'idea del mondo, una quadratura che pensava di riuscire a esprimere in musica laddove íl linguaggio veniva meno. La musica, come diceva suo padre, è l'unico modo per comprendere il mondo. Ed era la musica che l'aveva portato li, in Egitto. È la musica, si diceva Khalil, che può esprimere l'inesprimibile. Nelle melodie ci sono risposte e nell'armonia ci sono valori. Nella musica c'è la chiave del futuro e attraverso la musica Khalil aveva cercato di costruire il suo legame con il paese, la terra, la sua storia.

«Layla!» urla Rania. «Vieni qui a sederti! Vieni a conoscere gli altri.» Layla, tutta sorrisi smaglianti e movimenti rapidi e compatti, si prende una sedia. «Layla ha scritto un libro bellissimo su Denshawai e la resistenza egiziana e terrà una conferenza... quand'è, lunedì?»

«Hanan!» grida Rania. «Vieni qui a parlare con noi, fenomeno! Hanan sta lavorando sui prestiti tossici di Mubarak e su come far cancellare il nostro — com'è che l'hai chiamato? — 'odioso debito' da quei bastardi del FMI.»

Ma le dita di Khalil non erano all'altezza di quanto esigevano le sue orecchie. Dopo due anni di lentissimi progressi aveva gettato la spugna. Per un po' aveva studiato legge, aveva lavorato come fixer e come traduttore, aveva iniziato i disegni per un graphic novel, insegnato inglese e aiutato i rifugiati a procurarsi i documenti, lavorato all'igienizzazione dell'acqua con una ONG e all'energia solare con un'altra, imparato un po' di francese e praticato yoga e giocato a scacchi ogni martedì, e aveva fatto il volontario giocando a calcio e gestendo laboratori teatrali per i ragazzi di strada. Aveva lavorato come correttore di bozze e giornalista per un quotidiano di lingua inglese e guadagnato un po' di contanti traducendo testi scritti dall'arabo in inglese e testi orali dall'inglese in arabo. Si era comprato una vecchia macchina fotografica e aveva imparato a sviluppare le pellicole, aveva iniziato a rollarsi le sigarette e si era fatto degli amici che poi aveva perduto — sempre, ora lo capisce, in cerca di un'idea, di un modo per essere nel mondo.

«Lizzie!» sbraita Rania. «Come siamo messi con la valigia diplomatica? Quei candelotti di gas lacrimogeno devono arrivare a Brighton il più presto possibile.»

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Pagina 95

Hafez ordina un altro giro e riprende a scrivere sul suo taccuino fino a quando Nancy arriva e gli si siede accanto. Nancy e Hafez sono una coppia appena nata, figlia della rivoluzione. Si sono conosciuti nella cupa magia di Tahrir, fumando e guardando la battaglia lungo via Mohamed Mahmud. Marwan si avvicina e le chiede se vuole una birra.

«Sì. Grazie» dice lei. Poi, con un crescendo della voce, aggiunge: «Meglio bere tutti quanti finché si può, no? Avete visto cosa stanno facendo, vero? Avete visto il video su Facebook che abbiamo visto tutti quanti? Si comprano i voti! Se ne stanno là fuori a comprare voti! Interi pullman della Fratellanza che distribuiscono sacchi di viveri. È disgustoso! Dovrebbero essere esclusi!»

Hafez, la penna ancora in mano, solleva lo sguardo dal taccuino. «Non sarà una cosa del tutto pulita, ma chiunque con un po' di iniziativa può prendere e andare a distribuire viveri.»

«Sì, ma noi non lo facciamo!»

«E sarebbe colpa della Fratellanza?»

«Sono loro che portano avanti questo programma criminale. Hanno avuto decenni per prepararsi. Chi è che può competere con un'organizzazione del genere?»

«Cosa significa noi?»

«Lo sai benissimo, Hafez, cosa significa noi. Liberali, laici eccetera, chiunque non voglia creare spiagge separate e versare tutto l'alcol nel Nilo.»

«Ma non è la Fratellanza a stabilire le tappe del programma» dice Khalil. «È l'esercito.» Punta il dito su un titolo del giornale aperto sul tavolo.


PORTAVOCE DEL CSFA CONFERMA I TEMPI
DEL PASSAGGIO DEI POTERI

Entro il 30 giugno avremo un presidente eletto e l'esercito avrà un solo compito, proteggere il paese. Il Consiglio supremo delle forze armate non intende mantenere il potere né interferire nella vita politica.


«L'esercito ha le mani legate» dice Nancy. «Hanno fatto una promessa alla nazione e sono costretti a mantenerla.»

Mariam entra e Khalil si sente addosso lo sguardo di tutti gli uomini nel bar mentre lei lo bacia sulla guancia e, per un istante, la sua mano gli sfiora il ginocchio.

Dal tavolo in fondo nell'angolo, Khalil sente la voce di Malik al massimo del volume. «Noi siamo la crisi! Prosperiamo nella crisi! Il nostro cazzo di lavoro è creare la crisi! Senza crisi c'è solo il cazzo di regime o sistema o come cazzo lo volete chiamare. Senza crisi tutto resta sempre uguale, cazzo!»

L'Unico è seduto di fronte a lui. Tra loro un cimitero verde di bottiglie vuote e posacenere stracolmi e pacchetti di sigarette e cellulari e piatti di formaggio, pomodori e ceci.

«E se» grida Hafez verso il fondo della sala, «e se quello che viene dopo è peggio? Non si può vivere per sempre nella crisi. La gente comincia a stufarsi.»

«La gente non può pretendere che una rivoluzione arrivi tutta bell'e pronta in dieci mesi. Per queste cose ci vogliono anni.»

«Be', allora bisogna convincere la gente che vale la pena aspettare anni. Sono loro che devono scegliere. Dobbiamo mostrargli che esiste un progetto. Hanno bisogno di idee concrete.»

«E cos'è esattamente, caro Hafez, un' idea concreta? Non si può progettare un'utopia anarchica, è questo il punto. Si possono soltanto avere dei principi. È tutta una questione di principi. Sono tutti là fuori che la menano con la democrazia, ma io e te saremo d'accordo nel dire che non è di democrazia che stanno parlando. Le elezioni sono un diversivo da milioni di dollari. In una vera democrazia tutti hanno la stessa posta in palio. Perciò non possiamo far altro che puntare sui principi, e poi costruire da li.»

«Sono tutte belle parole» dice Hafez. «Ma bisogna comunque dare alla gente qualcosa a cui aggrapparsi. Perché la rivoluzione è meglio della non-rivoluzione? Se non si riesce a rispondere a questa domanda con una semplice frase, si perdono persone ogni giorno.»

«Si riassume tutto in un unico slogan: pane, libertà, giustizia sociale.»

«La gente non vuole poesie. Vuole un progetto.»

«Dici? O vogliono soltanto che gli si dica che tutto andrà bene? Il fatto è che questa è una battaglia che si svolge tra il cinque per cento della popolazione, perché solo il cinque per cento è disposto a combattere veramente. Tutti gli altri si accoderanno semplicemente al vincitore.»

«Hai appena sintetizzato tutto ciò che la rivoluzione non è» dice Hafez.

«La rivoluzione è una storia che si racconta alla gente perché si metta dalla tua parte. Ma alla fine, la maggior parte delle persone se ne sta a casa sua.»

«E cosa succede» — tutte le teste si girano; l'Unico parla raramente — «cosa succede se una delle parti è pagata e l'altra no? O quando la tua metà del cinque per cento si stufa e vuole smettere di giocare alla rivoluzione e andare avanti con la propria vita? O quando la tua metà si divide?»

Nessuno si affretta a rispondere. Hafez si accende la sigaretta. Malik è troppo educato per dirlo, ma Khalil sa cosa sta pensando, lo sente anche lui: sono finiti i tempi in cui stavamo ad ascoltare le lezioni di democrazia di qualche vecchio ubriacone europeo.

«Quindi per chi votate?» continua l'Unico.

«Io voto per Hamdin» dice Nancy, e Khalil riesce quasi a sentire Mariam, lì accanto, che alza gli occhi al cielo.

«Tutti gli altri sono per il boicottaggio» dice Mariam.

L'Unico annuisce con aria saggia.

«Io sono indeciso» dice Khalil.

«Non dici sul serio» dice Mariam.

Ci pensa di continuo. La Fratellanza vuole le elezioni. L'esercito vuole le elezioni. L'America vuole le elezioni. Quindi di sicuro noi dovremmo non volerle? Le elezioni sono la morte della politica. La cabina elettorale esiste per spegnere la rivoluzione. La democrazia è sempre in vendita al più alto offerente. Noi vogliamo una strada diversa, una strada ancora sconosciuta. Khalil sente le parole, vede già la polemica. A morire sono i giovani, mentre i vecchi vanno a votare perché altri vecchi stronzi dicano ai giovani cosa fare. È evidente. Basta dire no. Ma non riesce a smettere di pensare a cosa succede dopo che si è detto no.

«Che altro modo c'è per prendere il potere?» dice Khalil.

«Ma è una truffa. Come si fa a votare con l'esercito che controlla i distretti elettorali e i seggi, con la Fratellanza che distribuisce gratuitamente viveri in giro per il paese? È tutto un teatrino e il voto non fa che legittimarlo.»

«È già legittimo» dice Khalil. «La gente lo vuole e non sarà il boicottaggio a fermarlo.»

«Ma è tutto un teatrino!» ripete Mariam. «Quello che succederà è già deciso. L'esercito e la Fratellanza si sono messi d'accordo. Perciò un'alta affluenza servirebbe solo ad aiutarli.»

«Ma se non partecipi mai alle elezioni, come fai a prendere il potere?»

«Ma io non voglio prendere il potere! Tu sì? Vuoi fare il politico? Noi siamo l'opposizione, siamo un elemento di disturbo, siamo quelli che devono tenere in riga il potere.»

«Siamo crisi!» urla Malik.

Mariam annuisce convinta. «Non voglio il potere. Voglio fidarmi della strada. Sta arrivando qualcosa di nuovo che ancora non riusciamo a vedere. E dobbiamo tener viva la crisi quel tanto che basta perché possa succedere.»

«Qualsiasi cosa venga dopo» dice Khalil, «sono convinto che bisogna comunque cercare di prendere il potere.»

Tra loro cala il silenzio.

Dopo qualche istante, Hafez si inserisce nella breccia: «Sto leggendo un libro sui movimenti indipendentisti in Africa, sulla decolonizzazione. E praticamente ogni volta va nello stesso modo: arriva la rivoluzione e sembra gloriosa e popolare e invincibile, qualcosina va storto e l'esercito organizza un colpo di stato, la gente viene massacrata e finisce in galera, poi un altro generale depone il precedente con promesse di democrazia e via dicendo. Ed è sempre così. Ogni volta».

«Qui non succederà» dice Malik senza la minima incertezza. «Adesso è diverso. Ci sono i cellulari e Internet. Serve ben altro che un esercito per controllare le persone. Il mondo intero se ne sta andando affanculo e tutti ne parlano. L'idea è troppo forte. E non possono uccidere tutti quanti.»

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Pagina 165

Senza avvertire, porta qualche confezione di succo di frutta, le posa davanti ai genitori di Alia e si richiude la porta alle spalle in silenzio. Alia sta dimagrendo, ha la faccia smunta, sempre più gialla in questo reparto sempre buio. Mariam sorride con dolcezza ai genitori.

«Coma va oggi?»

«Nessun cambiamento, cara.» La madre di Alia è giovane. Molto più giovane del padre. Tra loro si trattano in modo formale.

«Se Dio vuole, presto si sveglierà» dice Mariam.

«I medici non sanno niente.» La voce del padre è bassa e profonda. «Non sanno perché non si sveglia.»

«E presto dovremo cominciare a pensare alle spese.»

«Non preoccupatevi per i soldi» dice Mariam. «I soldi ve li trovo io.»

«Che Dio ti benedica, mia cara.»

A ogni giorno che passa i loro cuori si induriscono. Alia, un'altra amica che non ho mai conosciuto. Intrappolata dalla morsa di uomini, ghermita da venti paia di mani, stuprata con la lama di un coltello sporco. Mariam prende la mano di Alia e la accarezza.

Cos'è che può farti risvegliare dopo un sonno di due settimane? Accarezza la mano di Alia. Supereremo questa cosa. Arriveremo dove dobbiamo arrivare. Abbiamo guardato altrove per troppo tempo. Tutti questi anni passati a lavorare dentro un sistema marcio, a incalcinare dall'interno un cadavere in decomposizione. Il popolo chiede la caduta del regime. E così sostituiamo Mubarak con Tantawi e poi con Morsi, Sharon e Obama e con chiunque altro arrivi, li sostituiamo uno dopo l'altro mentre scriviamo dei gran libri e discutiamo fino a notte fonda del «popolo» e di quello che secondo noi vuole. Avremo il tempo di farlo qualche altra volta, poi il mondo finalmente cadrà in preda alla febbre che lo libererà per sempre della nostra civiltà batterica. Oppure facciamo l'unica cosa che ancora non abbiamo tentato, quella che potrebbe cambiare tutto. Ora o mai più, il popolo è pronto: l'unica rivoluzione rimasta è una rivoluzione delle donne. Domani diremo «basta». Tutte le donne smetteranno di lavorare, di gestire, di tenere in piedi il mondo e lo guarderemo cadere a pezzi. È l'unica cosa che ancora non abbiamo provato a fare. Tutte noi ne avvertiamo le potenzialità, una corrente sotterranea che crepita attraverso la città, lo vediamo l'una negli occhi delle altre lungo le strade piene di pericoli, sentiamo le ossa sempre più dure man mano che il compromesso sgocciola via dai nostri corpi. Ora o mai più: la situazione è perfetta. Sarà l'Egitto: la rivoluzione scorre attraverso il paese ma la cresta dell'onda non è ancora arrivata. Da Mubarak all'esercito alla Fratellanza, li inghiotte uno dopo l'altro finché non resterà altro che l'ingiustizia ultima del patriarca. Ora o mai più, il popolo è qui, la fiamma è accesa: test di verginità, reggiseni blu, aggressioni di massa: l'obiettivo siamo noi, gli oppressi siamo noi, la prima linea siamo noi, e mentre tutti gli altri hanno sbriciolato le proprie armi politiche in frammenti privi di efficacia, quale forza è più coesiva di questa: semplicemente, le donne. Le donne che subiscono gli stessi oltraggi da Alessandria ad Al-Arish, dall'Alaska a Adelaide. Ora o mai più, il popolo è qui. Diciamo basta. La vostra Primavera araba non sarà niente in confronto a ciò che deve ancora venire.

Faremo giustizia per te, Alia. Svegliati e vedrai.

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Sono seduto a fumare da solo nella calura del balcone.

Le auto passano suonando i clacson con ritmi festosi. Famiglie allegre e sudate urlano Lunga vita all'Egitto.

La voce di Dalida sale senza sosta trasportata dal vento da un negozio sulla strada:


    La mia speranza è sempre stata, patria mia
    poter tornare di nuovo qui, patria mia
    restare qui vicino a te per se-e-mpre!

Silenzio silenzio silenzio.


***

Qualcuno ha strappato gli occhi dall'adesivo di Nefertiti sulla mia porta, ha raschiato via il «No» e scribacchiato ai Processi Militari per i Civili.


***

Dí notte la città è silenziosa. Nessuno si aggira nell'oscurità rovente del coprifuoco. Le strade sono immobili.


***

Parli nel sonno. Non a me. «Scappa» dici. «Scappa.» Sono disteso in silenzio accanto a te, e cerco di cogliere indizi sulle cose di cui non parliamo. Sarei dovuto venire con te. Avrei dovuto esserci. «Così arriviamo tardi, Tussi» dici immersa nel sogno. «Ci stanno aspettando.» Ascolto le parole su cui non posso chiedere. Ho dimenticato come si fa a dormire.


***

La stanza trema. I tuoi occhi si aprono mentre un elicottero dell'esercito ci sorvola a bassa quota.


***

Il mondo alla luce del giorno è peggio.

Sisi è ovunque. Sui manifesti in tutte le strade, sui parabrezza delle auto, sulle collanine, sui portachiavi e sui cupcake il sorriso melenso del Grande Saggio si apre raggiante verso di noi, i suoi trafelati sottoposti. Il centro del Cairo è diventato un luna park a tema militare con panini, magneti e poster di Sisi, e oli da cucina rietichettati col suo nome, torte glassate con la sua faccia e donne in pantaloni mimetici che posano per un selfie, sfoggiando sorrisi da vampiro e artigli in gel. Nessun talk show osa andare in onda senza un peana alle sue doti di virilità e carisma, gli opinionisti delle radio invocano il grand'uomo chiedendo ulteriori massacri. Nessuna vetrina è al sicuro dalla folla incendiaria senza il suo sguardo apollineo che ti osserva dall'alto. Novecento morti ammazzati in un giorno. L'Egitto è all'apice della gloria. Per la patria siamo pronti a ucciderne novemila. Non ti senti sollevato? Non sei egiziano? Non ami il tuo paese? Vuoi vederlo restare in ginocchio? Ora si capisce da che parte stai davvero. Ora sappiamo chi venire a cercare di notte. Ci siamo sbarazzati dei terroristi, finalmente, siamo salvi. Il paese stava crollando, l'Egitto era in ginocchio, la Fratellanza era una forza d'occupazione e ora il grande Sisi ci ha liberati. Finalmente liberi, finalmente liberi, grazie a Dio onnipotente siamo finalmente liberi. Sisi, lo sapevi?, era il vero nome di Ramses III. Sisi il leone e il cuor di leone. La nostra aquila, il nostro berretto e la nostra bandiera sono una cosa sola in te, Sisi, e nella vittoria a cui ci hai condotto. Oh Sisi, mio Sisi, hai restituito l'Egitto agli egiziani, ci hai condotti fuori dal deserto. Alle donne tremano le ginocchia e gli uomini si alzano ritti in piedi al suono del tuo nome e tutti insieme affronteremo i terroristi. Oh Sisi, mio Sisi, gli ultimi tre anni sono stati talmente duri. Oh Sisi, mio Sisi, sei la risposta al mio cruciverba. Il tuo nome, nella sua eterna e perfetta simmetria, mi farà vendere perfino le patate. Sisi, Sisi, ovunque, inevitabile, ineluttabile.

«Maschere! comprate le vostre maschere di Sisi! Carte d'identità! Carte d'identità di Sisi!»

Sono davanti al campionario di un venditore di strada: Sisi che posa orgoglioso accanto a un leone photoshoppato, maschere di Sisi con i buchi per gli occhi, le carte d'identità di Sisi. Nome: Abd al-Fattah al-Sisi. Indirizzo: ministero della Difesa. Professione: salvatore dell'Egitto.

Se non altro i fascisti non sono mai divertenti.

Il nuovo inno pop di El Generai riecheggia per la strada:


    Ecco l'eroe che ha sacrificato la sua vita
    che ha risollevato il tuo nome, patria mia

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