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| << | < | > | >> |Pagina 9Sono fuori di casa. Non lontana dalla porta d'ingresso, però sono uscita, da sola. Stamattina, al risveglio, non ho pensato che fosse questo il gran giorno. Non mi sembrava il giorno giusto, o forse ero io che non me la sentivo, però la telefonata di Vivienne alla fine mi ha convinta. «Dammi retta, pronta non ti sentirai mai», ha detto. «Devi essere tu a deciderti a fare il gran passo.» E Vivienne ha ragione, è una cosa che devo fare. Attraverso il cortile acciottolato, poi infilo il viale coperto di ghiaia. Ho con me solo la borsetta, e questo mi dà una strana sensazione di leggerezza. Gli alberi sembrano un arazzo intessuto di colori sgargianti: rosso, marrone, qua e là delle macchie di verde. Il cielo ha il colore dell'ardesia bagnata. Non è il solito mondo, quello dove mi muovevo prima: tutto è più vivido, come se lo sfondo della natura, che un tempo davo per scontato, ora reclamasse prepotentemente la mia attenzione. La macchina è parcheggiata in fondo al viale, davanti al cancello che separa The Elms dalla strada. Io non dovrei guidare, in teoria. «Ma che sciocchezze!» Così Vivienne ha liquidato, con un moto d'impazienza, il parere del medico. «Non è un posto lontano, e se tu seguissi tutte quelle stupide regole, in questo periodo dovresti essere terrorizzata a muovere anche solo un dito.» In effetti mi sento printa a guidare, anche se appena appena. Mi sono ristabilita abbastanza bene dall'operazione, forse grazie all'iperico che mi sono prescritta, forse grazie al primato della mente sul corpo: ho bisogno di essere in forze, quindi le forze ci sono. Giro la chiavetta dell'accensione e premo energicamente sul pedale dell'acceleratore. La macchina si risveglia tossicchiando. Mi porto sulla strada, mentre la velocità aumenta in modo lento ma regolare. «Arriva a ottanta come niente, in una mezz'ora», scherzava mio padre quando la Volvo la guidavano lui e la mamma. Sento che guiderò questa macchina finché non cadrà a pezzi. Mi ricorda i miei genitori come niente altro al mondo. Per me è come un vecchio parente affezionato, che della mamma e del papà ha un ricordo caro quanto il mio. Tiro giù il finestrino, inspiro una boccata di quest'aria fresca che mi schiaffeggia il viso e penso a quante orribili storie di ingorghi ci vorranno ancora, prima che la gente smetta di associare l'automobile alla libertà. Sfrecciando lungo strade praticamente vuote, oltre fattorie e campi, mi sento più potente di come sono in realtà. Una piacevole illusione. Non mi permetto di pensare a Florence, alla distanza che in questo momento sta crescendo tra noi due. Dopo sei o sette chilometri di aperta campagna, la strada che sto percorrendo diventa la via principale di Spilling, il paese più vicino. C'è un mercato nel mezzo della strada costeggiata da lunghe file di bassi edifici elisabettiani con le facciate di colori pastello. Alcuni sono adibiti a negozio, altri immagino siano le case di vecchi snobboni pieni di soldi, quei noiosi personaggi che sembrano nati già con le lenti bifocali e ti fanno una testa così con gli aneddoti sulla storia locale. Probabilmente sono ingiusta a pensarla in questo modo. Certo è che Vivienne non abita a Spilling, anche se è il centro abitato più prossimo. Se qualcuno le chiede dove abita, lei immancabilmente risponde «The Elms» e basta, come se casa sua fosse una località rinomata. Ferma al semaforo, ne approfitto per frugare nella borsa alla ricerca delle indicazioni stradali che mi ha dato. A sinistra alla rotonda piccola, poi la prima a destra, e a quel punto comincia a cercare il cartello. Eccolo, lo vedo in questo istante: «Waterfront», una scritta bianca in corsivo che campeggia su uno sfondo blu scuro. Svolto nel viale di accesso, che gira intorno all'edificio squadrato sormontato da una cupola, e mi fermo nel grande posteggio sul retro. L'atrio del Waterfront profuma di gigli, e infatti guardandomi attorno ne vedo spuntare un po' ovunque da certi vasi alti, rettangolari, sistemati in ogni angolo disponibile. La moquette – blu scuro con un disegno di rose rosa – è di quelle costose, che non danno l'idea di essere sporche anche quando lo sono. C'è un andirivieni di gente con le borse da ginnastica, chi sudato, chi fresco di doccia. Al banco della reception mi accoglie una ragazza con i capelli biondi sparati in fuori come aculei di un riccio. «Kerilee» – così dice la targhetta appuntata sul petto – sembra ansiosa di essermi d'aiuto. Sono contenta di avere scelto di chiamare mia figlia Florence, un nome vero con dietro una storia, non una stranezza che pare inventata dal marketing di una popstar quindicenne. Avevo paura che David e Vivienne mettessero il veto, ma per fortuna è piaciuto anche a loro. «Sono Alice Fancourt», dico. «Mi sono appena iscritta.» Le allungo la busta che contiene il modulo compilato con i miei dati e mi viene da sorridere al pensiero che Kerilee non immagina nemmeno lontanamente cosa significhi per me questa giornata. Il nostro incontro ha un'importanza completamente diversa, nella mia e nella sua mente. Oh, lei è la nuora di Vivienne! Ha appena avuto un bambino! Quando è stato, due settimane fa?» «Sì, esatto.» Questa iscrizione al Waterfront è un regalo di Vivienne, o meglio, è il premio per averle dato una nipotina. Credo che costi sulle mille sterline all'anno, ma Vivienne è una delle poche persone la cui generosità non è inferiore alla ricchezza. «Come sta Florence?» chiede Kerilee. «Vivienne ne va pazza! Chissà come sarà contento Felix ora che ha una sorellina, eh?» Che strana cosa sentir parlare di Florence in questo modo. Per me lei è la prima e unica figlia. Ma del resto è anche vero che per David è la seconda. Felix lo conoscono tutti al Waterfront, ci passa quasi altrettanto tempo che a scuola. Se non ha qualche torneo di golf ci sono sempre le lezioni di nuoto, oppure i giochi o le gare che organizzano qui per i ragazzini, e nel frattempo Vivienne divide equamente il suo tempo tra la palestra, la piscina, il salone di bellezza e il bar. Pare proprio che si trovino bene loro due, a venirci insieme. «E così si è rimessa per benino, allora?» mi domanda Kerilee. «Vivienne ci ha raccontato tutto del parto. A quanto ho capito deve essere stata parecchio dura!» Mi sento vagamente spiazzata. «Sì, è stato spaventoso, però Florence non ha avuto nessun problema e questa è la cosa che conta.» D'improvviso arriva, acutissima, la nostalgia di mia figlia. Cosa ci faccio al banco della reception del Waterfront quando potrei essere a casa a godermi la mia piccola, bellissima bambina? «Questa è la prima volta che la lascio», esplodo. «È la prima volta che esco di casa da quando sono tornata dall'ospedale, mi sembra tutto così strano...» Di solito non mi confido con persone che non conosco, ma visto che Kerilee sa già tutto del parto, decido che male non può fare. «Gran giorno, allora» commenta lei «Vivienne diceva che magari si sarebbe sentita un po' debole, oggi.» «Ah sì?» Vivienne pensa proprio a tutto. «Sì, e mi ha raccomandato di accompagnarla per prima cosa al bar, e di farle bere un bel cocktail.» Scoppio a ridere. «Già, peccato che devo guidare, dopo. Anche se Vivienne dice...» «Che più si è sbronzi più si guida con prudenza», Kerilee finisce per me, e tutte e due ci facciamo una bella risata. | << | < | > | >> |Pagina 68Vedo un solo agente. Sono quasi sicura che ne mandano due, se pensano che la cosa sia grave. Così succede in televisione, per lo meno. Ho voglia di gridare tanto ci rimango male, ma mi costringo a non farlo. David ha appena detto al detective Waterhouse che sono pazza, completamente pazza, quindi devo stare bene attenta a non comportarmi in modo da dargli ragione. Il poliziotto mi intravede in cima alla scalinata e sorride brevemente. È un sorriso preoccupato, e lui continua a guardarmi anche dopo che si è spento. Non saprei dire se sta cercando di capire in che stato mentale mi trovo o di ricavare qualche indizio dalla mia persona o dai vestiti che ho addosso, ma è certo che resta lì a fissarmi parecchio. Non porta l'uniforme. Si è presentato dicendo di essere un detective. Forse questi due dettagli sono un buon segno, credo di aver sentito dire che i poliziotti in borghese hanno più esperienza. Il suo aspetto è rassicurante. Non è un bell'uomo, ma dà un'impressione di serietà e di solidità. Meglio ancora, ha l'aria molto sveglia, non l'aria di chi arriva al lavoro e innesta il pilota automatico, facendo il minimo che si può fare per arrivare alla fine della giornata. Gli occhi grandi, grigi, sono ancora fissi su di me. Ha un fisico muscoloso, le spalle larghe: massiccio senza essere grasso. Corpulento, è la parola che mi viene in mente. Il naso è leggermente storto, come se lo avesse rotto. Vicino a lui David sembra esile. E vanesio, con quella sua pettinatura alla moda. Il detective Waterhouse ha dei capelli castani corti e ispidi che sembrano usciti dalle mani di un barbiere economico. La faccia è quadrata, i lineamenti piuttosto irregolari. È il classico tipo di faccia a cui si adatta la definizione «scolpita nella roccia». Non fatico a credere che sia un uomo che protegge e soccorre il suo prossimo, che fa giustizia. Spero che farà giustizia anche per me. Dovrebbe avere più o meno la mia età, forse qualche anno di più. Mi chiedo come si chiami di nome. «Sono Alice Fancourt», mi presento, mentre avanzo su gambe deboli e inadeguate a reggermi, come due scopettini. Quando sono abbastanza vicina allungo la mano per stringere la sua. David è furioso perché non sto balbettando istericamente a conferma delle sue parole. «Ha bevuto», dice. «È tornata a casa che puzzava di alcol. Non avrebbe nemmeno dovuto guidare! Si è sottoposta a un serio intervento chirurgico solo due settimane fa. Ha minacciato di accoltellarmi.» Sento la gola stretta, un po' per lo shock, un po' per la rabbia. So che David è sconvolto, ma perché precipitarsi a denigrarmi in questo modo davanti a un perfetto estraneo? Io non riuscirei mai a fare la stessa cosa nei suoi confronti. Non è che l'amore abbia un interruttore che si può accendere e spegnere a proprio piacimento. Ma mi viene in mente che forse è proprio l'intensità dell'amore che David prova per me ad alimentare questa sua rabbia. Spero che sia così. L'ultima volta che ha parlato al telefono con Vivienne era d'accordo anche lui che potevo benissimo guidare, nonostante l'ostetrica l'avesse sconsigliato. A quanto sembra, ora ha cambiato parere. David non ha l'abitudine di trovarsi in disaccordo con sua madre: di fronte a una sua presa di posizione, di solito non si pronuncia oppure si adegua passivamente. In assenza di Vivienne declama le sue teorie su come va il mondo, come se stesse cercando di vestirsi con una personalità che gli va troppo grande. A volte mi chiedo se e fino a che punto David conosce sé stesso. O forse sono io, quella che non lo conosce. «La prego signor Fancourt, si tenga su un piano di correttezza», dice il detective Waterhouse. «Avrete modo di dire la vostra, tutti e due, ma proviamo a risolvere questo pasticcio, d'accordo?» «È peggio che un pasticcio, qualcuno ha rapito mia figlia. Lei deve andare a cercarla!» Il poliziotto sembra a disagio mentre pronuncio queste parole. Sospetto che sia imbarazzato per me. Come fa a dire una cosa del genere, penserà, quando al suo fianco c'è il marito con in braccio la bambina? Sarà tentato di tirare la conclusione più ovvia: se in casa c'è una neonata, quella neonata non può che essere la loro figlia. «Ma se è qui, Florence», ribatte secco David. «Penso che mio marito si senta in colpa...» cerco disperatamente di spiegare, conscia che il contegno che mi sono imposta sta mostrando i primi segni di cedimento. E in quel momento mi rendo conto di quello che non va: manca completamente ogni urgenza, nella procedura che il detective sta seguendo. Sta andando tutto al rallentatore, il che significa che questo poliziotto non mi crede. Le parole mi escono di bocca a fiotti: «E la colpa si manifesta in forma di rabbia. Si è addormentato mentre avrebbe dovuto badare alla bambina. Quando sono rientrata in casa ho trovato la porta d'ingresso aperta. Non è mai aperta! Deve essere entrato qualcuno, che ha preso Florence, nostra figlia, e al suo posto...» Faccio un gesto con la mano, incapace di proseguire. «Ma no, che sciocchezze. Questa qui è Florence! Dia retta a chi la tiene, ispettore, a chi si occupa di lei. A chi le dà il biberon, a chi la calma quando sua madre dà in escandescenze.» David si si volta verso di me. «Colpa che si manifesta in forma di rabbia! Ma che mucchio di idiozie. Lo sa che lavoro fa, ispettore? Su, dài, diglielo.» «Non sono un ispettore, sono un semplice agente investigativo», puntualizza Waterhouse. «Signor Fancourt, lei non ci è di aiuto comportandosi in modo così aggressivo.» David non gli è simpatico, però gli crede. «È aggressivo perché ha paura», dico. Credo davvero che sia così. La mia teoria – con mio marito mi è toccato ricorrere alla teoria, in questi anni, visto che lui non si confida mai con me – è che all'origine di molti dei comportamenti di David ci sia la paura. A quanto pare David pensa che il lavoro che faccio sia un buon motivo per screditarmi, e ciò mi umilia e mi ferisce. Ho sempre dato un'importanza estrema al suo giudizio, e credevo che mi stimasse. Siamo sposati da due anni e prima di oggi fra noi non ci sono state né cattiverie né discussioni né scenate. Credevo fosse così perché siamo innamorati, ma, a ripensarci ora, quel nostro rapporto sempre improntato alla massima cortesia aveva qualcosa di innaturale. Una volta gli ho chiesto per quale partito votava. Lui ha evitato di rispondere alla domanda, e sono certa che è rimasto scioccato dal fatto che glielo abbia chiesto. Mi ha fatto sentire da schifo, una zoticona senza il minimo tatto. Vivienne ritiene che parlare di politica sia poco educato, anche in famiglia. David è molto bello. Solo a vederlo mi tremavano i polsi, fino a non molto tempo fa. Eppure in questo momento non riesco né a concepire né a ricreare il senso di attrazione che lui suscitava in me. Sembra assurdo, non meno che sentirsi attratti da un'illustrazione. Ammetto con me stessa, per la prima volta, che mio marito è un estraneo per me. La sintonia e la complicità che cerco da quando lo conosco mi hanno eluso, hanno eluso entrambi. David lavora per un'azienda che produce giochi per computer. Lui e il suo amico Russell si sono messi in società. Russell lo conoscevo dai tempi dell'università, è stato al suo matrimonio che ho conosciuto David. Ero finalmente uscita dalla depressione ma non da un senso bruciante di solitudine, che di giorno riuscivo a soffocare tenendomi occupata e che ritornava puntualmente alla sera, facendomi piangere per ore e ore. Mi scoccia ammetterlo, ma mi ero persino inventata un amico immaginario. Gli avevo dato un nome: Stephen Taylor, un nome molto comune, che non aveva niente di speciale e proprio per questo me lo faceva sentire più reale. In quel periodo riuscivo ad addormentarmi solo facendo finta che fosse lì a tenermi tra le sue braccia e a dirmi che potevo contare su di lui. Stephen è scomparso il giorno del matrimonio di Russell. Qualcuno ha scritto il mio nome accanto a quello di David, sul tavolo da pranzo, e mi ha salvato la vita. O almeno, così ho creduto.
Una delle prime cose che David mi ha detto era che
sua moglie lo aveva lasciato prima della nascita del loro
figlio, per cui vedeva Felix solo di tanto in tanto, per un
paio di ore e non di più. C'è dell'ironia nel fatto che allora la cosa che mi ha
colpito più favorevolmente, in David, sia stata la sua capacità di aprirsi. Non
sapevo che non si sarebbe mai più confidato con me come quel
giorno. Forse c'era un elemento di calcolo in quelle confidenze, e la storia di
Felix era l'equivalente di una di quelle frasi a effetto che si dicono per fare
colpo su una donna.
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