Autore Jingfang Hao
Titolo Pechino pieghevole
Edizioneadd, Torino, 2020, Asia , pag. 348, cop.fle., dim. 14,4x21x2,3 cm , Isbn 978-88-6783-276-7
OriginaleThe Depth of Loneliness [2016]
TraduttoreSilvia Pozzi
LettoreMargherita Cena, 2020
Classe fantascienza












 

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Indice


PECHINO PIEGHEVOLE                        7

L'ARPA TRA CIELO E TERRA                 55

AL CENTRO DELLA PROSPERITÀ              101

IL TEATRO DELL'UNIVERSO                 129

L'ULTIMO EROE                           141

TRA VITA E MORTE                        165

PALAZZO EPANG                           211

CERERE IN VOLO                          265

LA CLINICA DI MONTAGNA                  299

LE STANZE DELLA SOLITUDINE              331

IL PROCRASTINATORE                      341


 

 

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Pagina 7

Pechino pieghevole


Mancavano dieci minuti alle cinque del mattino mentre Lao Dao camminava sull'affollatissima strada pedonale. Era diretto da Peng Li.

Era passato da casa a fare una doccia e a cambiarsi dopo il turno di lavoro alla discarica, si era infilato gli unici vestiti decenti che possedeva, un paio di pantaloni marroni e una camicia bianca, arrotolando Ie maniche sino al gomito per nascondere i polsini ormai lisi. Era un quarantottenne celibe. Non aveva qualcuno che si prendesse cura di lui e nemmeno l'età per preoccuparsi ancora del proprio aspetto. Erano anni che andava avanti con quell'abbinamento. E comunque usava quegli abiti raramente, per poi piegarli e rimetterli via appena rientrava a casa. Lavorando in una discarica, non aveva alcun bisogno di vestirsi bene, li indossava nelle occasioni speciali, magari per il matrimonio del figlio di un amico. Quel giorno doveva presentarsi da gente che non conosceva, quindi voleva apparire in ordine e non trascinare con sé il puzzo fetido di cinque ore filate in discarica.

Nella via c'era una fiumana di persone appena uscite dal lavoro. Uomini e donne si accalcavano attorno ai venditori ambulanti contrattando a gran voce sul prezzo degli ortaggi a chilometro zero. I clienti ai tavoli di un ristorantino all'aperto si avventavano sui loro vermicelli di riso in salsa agro-piccante, con la faccia nascosta dietro una nuvola di vapore bianco. Nell'aria c'era odore di fritto. Sulle bancarelle troneggiavano pigne di giuggiole selvatiche e noci sotto pezzi di pancetta penzolanti. Era il momento più vivace della giornata quello: tutti avevano finito di lavorare e dopo tante ore di fatica si accalcavano per accaparrarsi un pasto caldo.

Lao Dao, procedendo a fatica nella ressa, si mise nella scia di un cameriere che a urla e spintoni si faceva strada per servire ai tavoli.

Peng Li abitava in fondo a un vicoletto. Quando arrivò a destinazione, non lo trovò in casa. Il vicino gli disse che di solito rientrava poco prima della chiusura del mercato, non aveva saputo essere più preciso.

Lui era un po' in ansia. Controllò l'orologio. Le cinque.

Tornò di sotto ad aspettarlo al portone d'ingresso, dove c'era una banda di ragazzi affamati come lupi. Un paio li conosceva, li aveva già incontrati lì una o due volte. Ciascuno aveva la sua porzione di vermicelli di riso o di spaghetti saltati, in più avevano condiviso altri due piatti, facendo un pastrocchio con le bacchette nei contenitori alla disperata ricerca delle fettine di carne tra i peperoncini. Sullo sfondo del grigiore e del caos di quella mattina qualunque, Lao Dao si annusò istintivamente le ascelle.

«Oh, ma lo sapete a quanto vendono lo stracotto di maiale?» disse uno, che si chiamava Xiao Li.

«C'è dentro la sabbia, cacchio!» esclamò Xiao Ding, quello ben piazzato, coprendosi la bocca. Aveva le unghie sudicie. «Che ladri! Facciamoci restituire i soldi!»

«Trecentoquaranta yuan!», proseguì Xiao Li. «Oh! Trecentoquaranta! E quattrocentoventi il bollito di manzo!»

«Scherzi? Così tanto?!» mugugnò Xiao Ding tenendosi la guancia.

Gli altri due, non interessati al discorso, continuarono a masticare a testa bassa. Xiao Li li fissò, trafiggendoli con lo sguardo come se vedesse qualcosa di immateriale alle loro spalle. I suoi occhi brillavano.

A Lao Dao brontolava lo stomaco. Perciò si voltò dall'altra parte, ma era troppo tardi, era in preda ai morsi della fame, gli girava la testa. Saltava la colazione da un mese. Un pasto costava all'incirca cento yuan, in un mese diventavano tremila, e con quella cifra avrebbe pagato due mesi di retta dell'asilo a Tangtang.

Guardò in lontananza. Arrivavano i camion della nettezza urbana.

Doveva tenersi pronto, decidere come muoversi nel caso in cui Peng Li non si fosse sbrigato a tornare. Nonostante i molteplici rischi, non c'era tempo da perdere, bisognava agire in fretta. Il filo dei suoi pensieri fu interrotto dagli strilli della donna che vendeva le giuggiole lì vicino, la sua voce era così assordante da dare il mal di testa. Iniziavano già a smantellare le bancarelle in fondo alla strada e le persone cominciavano a dileguarsi come i pesci in uno stagno quando si agita l'acqua con un bastone. Nessuno si sarebbe sognato di intralciare i netturbini che, a quell'ora, incedevano pazientemente sui camion, in attesa che gli ambulanti pian piano smontassero tutto. Quelli erano gli unici mezzi autorizzati a circolare sulla strada pedonale. Se un pedone si fosse attardato, sarebbe stato portato via con la forza.

Sopraggiunse Peng Li, con lo stuzzicadenti in bocca e i bottoni della camicia slacciati. Non camminava né lento né veloce, facendo un rutto dietro l'altro. Ora che aveva sessant'anni, era trasandato e apatico, con le guance cascanti da shar pei e gli angoli della bocca all'ingiù da eterno insoddisfatto. A vederlo, non ci si sarebbe mai immaginati come potesse essere da giovane. Sembrava uno senza nerbo, capace solo di mangiare e bere. Eppure Lao Dao aveva ascoltato il padre raccontare le sue imprese sin da quando era piccolo.

Gli andò incontro. Quello stava per salutarlo, ma lo interruppe: «Adesso non ho tempo di spiegarti. Devo andare nello Spazio Uno, dimmi come fare».

Peng Li era allibito, non sentiva nominare lo Spazio Uno da almeno un decennio. Inconsciamente spezzò lo stuzzicadenti tra le dita. Dopo un attimo di silenzio, vedendolo sulle spine, lo trascinò dentro il palazzo. «Ne parliamo di sopra», propose, «tanto devi passare da lì se vuoi andarci.»

Alle loro spalle si avvicinava un camion, che spazzava la gente in casa come fa il vento d'autunno con le foglie secche. «Forza, via, via! Sta per iniziare la transizione», urlavano gli uomini a bordo.

Peng Li lo precedette lungo le scale e lo fece entrare nel suo monolocale, che era identico a tanti altri appartamenti in affitto: una stanza di sei metri quadrati con angolo cottura e un bagno. Dentro c'erano un tavolo, una sedia e un letto-capsula con sotto il cassettone per riporre indumenti e roba varia. Sui muri si vedevano macchie di umidità e impronte di scarpe. Non aveva fatto alcun intervento di ristrutturazione, solo aggiunto qualche gancio storto alla parete a cui erano appesi una giacca e un pantalone. Peng Li tirò subito via vestiti e asciugamani e li infilò in un cassetto a portata di mano. Non si poteva lasciare in giro niente durante la transizione. Una volta anche Lao Dao viveva in un monolocale come quello, entrando era stato assalito dai ricordi.

«Se non mi spieghi il perché, non ti dirò come si fa», disse Peng Li guardandolo dritto negli occhi.

Erano le cinque e trenta, rimaneva soltanto mezz'ora.

Lao Dao raccontò brevemente l'antefatto: aveva trovato un messaggio dentro una bottiglia, allora passando dal canale dei rifiuti era andato di nascosto nello Spazio Due, e lì gli avevano commissionato un incarico. Spiegò di cosa si trattava. Non poteva soffermarsi sui dettagli, doveva partire.

«Ieri ti sei intrufolato nel canale dei rifiuti? E sei stato nello Spazio Due?» Peng Li aggrottò le sopracciglia. «Hai dovuto aspettare ventiquattro ore quindi.»

«Per duecentomila yuan», rispose lui, «aspetterei anche una settimana.»

«Sei a corto di soldi?»

Rimase un istante in silenzio. «Tra un anno Tangtang andrà all'asilo. Senti, ora non ho tempo», disse poi.

Quando era andato a informarsi per la scuola, gli era preso un colpo. Per le strutture decenti, i genitori si mettevano in fila già due giorni prima per l'iscrizione, muniti di sacchi a pelo e dandosi il cambio, uno mangiava un boccone o andava al bagno, mentre l'altro stava in coda. E dopo più di quaranta ore così non si aveva nemmeno la certezza di assicurarsi un posto. Chi poteva permetterselo si era già accaparrato quelli in cima alla lista, i pochi che rimanevano erano per coloro che erano disposti a fare la fila. E questo succedeva con gli asili discreti. Per i migliori le code erano inutili, l'unica possibilità era pagare. Lui non aveva grandi ambizioni, ma Tangtang adorava la musica già a diciotto mesi. Quando sentiva una canzone per strada, si accendeva e ballava muovendo a ritmo le mani e i piedi. Era troppo carina. Irresistibile. Era come se fosse su un palco, illuminata dall'occhio di bue, lui non vedeva altro. Doveva iscriverla a una scuola dove insegnavano musica e danza a qualunque costo.

Peng Li si tolse la giacca e, mentre parlava con lui, si lavò la faccia. O meglio, si sciacquò sommariamente. Stavano per sospendere la fornitura idrica, dal rubinetto scendeva un filo d'acqua. Agguantò un asciugamano sozzo dalla parete, si diede una strofinata, poi cacciò pure quello nel cassetto. I capelli umidi erano lucidi e unti.

«Ma vale la pena», chiese, «rischiare così tanto? Non è nemmeno tua figlia.»

«Smettila. Spiegami come fare.»

Peng Li sospirò. «Sappi che se ti prendono, non dovrai solo pagare una multa, ti sbatteranno al fresco per mesi.»

«Non ci sei stato tante volte tu?»

«Quattro. Alla quinta mi hanno beccato.»

«Se mi prendessero dopo esserci andato quattro volte, non sarebbe affatto male.»

Doveva andare nello Spazio Uno e fare una consegna. Se ci fosse riuscito, avrebbe guadagnato centomila yuan, che diventavano duecentomila se tornava con una risposta. Era una grave infrazione alle regole, ma le probabilità di essere catturato non erano poi così elevate se avesse fatto le cose come si deve. E avrebbe messo da parte parecchi soldi. Non intravedeva un motivo per non accettare. Da ragazzo Peng Li era stato più di una volta nello Spazio Uno per denaro, per il contrabbando di liquori e sigarette. Dunque, era fattibile.

Cinque e quarantacinque. Bisognava muoversi.

Peng Li fece un altro sospiro. Era inutile insistere. Alla sua età, la stanchezza e il fatalismo avevano preso il sopravvento, ma sapeva che se avesse avuto una decina di anni in meno avrebbe fatto la stessa cosa. A quel tempo non gli importava di finire in gattabuia: tenevi duro qualche mese, incassavi un po' di botte, poi però quando uscivi, ti ritrovavi con un bel gruzzolo in tasca. Era fattibile, a patto di non lasciarsi strappare di bocca dove avevi nascosto i soldi, in fondo le misure di sicurezza dell'Ufficio dell'ordine erano una semplice formalità. Portò Lao Dao alla finestra indicandogli il vicolo nascosto nell'ombra.

«Scendi lungo il tubo dell'acqua, sotto il feltro ci sono degli appoggi per i piedi che avevo messo io ai tempi, se stai schiacciato le telecamere non ti vedranno. Passa di là e mantenendoti nell'ombra striscia fino al bordo, sentirai la fessura, e la vedrai pure. Seguila, in direzione nord. Mi raccomando, nord, non ti sbagliare.»

Gli spiegò come scavalcare il blocco durante la transizione. Bisognava sfruttare il momento del sollevamento e percorrere strisciando i cinquanta metri della sezione per andare dall'altra parte, poi muoversi verso est, fino a un cespuglio al quale tenersi e dove rimanere nascosto mentre la terra si ricomponeva. Prima che finisse la frase, Lao Dao era già fuori dalla finestra, pronto a scendere.

Gli porse il braccio per aiutarlo a calarsi mentre lui cercava un appoggio per i piedi sotto il davanzale. All'improvviso Peng Li lo trattenne. «Ti dirò una cosa che non ti piace», disse, «mi sa che è meglio se non ci vai. Non per altro, una volta che ci sarai andato, non cambierà granché, solo che ti sarà chiaro quanto la tua vita faccia schifo e sia priva di senso.»

Lao Dao stava esplorando la parete con il piede, aggrappandosi al davanzale. «Pazienza», rispose con il fiato corto, «non mi serve andare lì per sapere che fa schifo.»

«Stai attento», fu la sua ultima raccomandazione.

Lui scese in fretta seguendo le istruzioni. Gli appoggi per i piedi erano perfetti. Guardò la sagoma di Peng Li alla finestra che si accendeva una sigaretta. Aspirò grosse boccate veloci, e poi la spense. Si sporse come per dirgli qualcosa, ma alla fine rientrò. Dai vetri chiusi proveniva una luce spettrale.

Lao Dao sapeva che l'amico si sarebbe infilato nella capsula un minuto prima della transizione: come decine di milioni di abitanti della città, all'ora prefissata, avrebbe inalato il gas narcotizzante rilasciato al suo interno, scivolando in un sonno profondo. Capovolto, come tutto quanto il resto, e in totale incoscienza avrebbe dormito quaranta ore esatte per riaprire gli occhi la sera del giorno dopo. Ora che era vecchio, era uguale ad altri cinquanta milioni di persone.

Lao Dao si calò più velocemente possibile, quasi senza appoggiare i piedi, e quando fu vicino abbastanza spiccò un salto e rotolò al suolo. Il monolocale di Peng Li era al quarto piano, poco più in alto. Si alzò e corse nell'ombra che l'edificio proiettava sul lago. Vide la fessura nell'erba, il punto dove la terra si sarebbe aperta, prima di raggiungerla, udì alle sue spalle un boato poderoso intervallato da scricchiolii stridenti. Si girò, il palazzo di Peng Li si stava aprendo in due e la metà superiore si stava ribaltando verso di lui, lenta ma inesorabile.

La osservò impressionato. Poi corse fino alla fessura e si stese accanto.

La transizione ebbe inizio. Quel rito si ripeteva ogni ventiquattr'ore: il mondo intero cominciava a ruotare. Ci fu un frastuono di barre d'acciaio e di mattoni che si incastrano, come una catena di montaggio a sigghiozzo. I palazzi si ritraevano e si univano trasformandosi in cubi. Le luci al neon, le insegne dei negozi, i balconi e qualsiasi cosa sporgesse rientrava all'interno dei muri, o vi si spalmava sopra come se fosse una seconda pelle. Ogni millimetro era sfruttato, ogni spazio riempito.

La terra si stava sollevando. Lao Dao rimase in attesa che la fessura si allargasse, quindi prese ad arrampicarsi come rincorrendola, mentre il blocco si alzava con un moto costante. Si aiutò con le mani e con i piedi prima sul bordo in marmo, poi lungo la sezione di terra. Si aggrappava agli spuntoni di metallo che uscivano dal terreno, all'inizio si muoveva verso il basso, tentando di tenersi attaccato con i piedi, ben presto, però, per via della rapida rotazione si ritrovò a dondolare nel vuoto.

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Pagina 64

Il maestro Lin aveva un ruolo attivo nella resistenza. Non so perché. Prima dell'invasione se mi fossi immaginato una situazione del genere e avessi dovuto indovinare i possibili sovversivi, di certo non lo avrei preso in considerazione. Era un insegnante di musica, con una specializzazione nel ruolo di professore d'orchestra, ormai prossimo alla pensione. Aveva un carattere introverso, non era uno di quelli che partecipano alle manifestazioni di piazza o a un movimento politico. Mai e poi mai avrei pensato a lui. Aveva iniziato la carriera suonando il violino, e mi aveva impartito lezioni da quando avevo dieci anni, diventando per me il modello dell'ideale classico. Viveva di musica, in un universo più vasto del mondo materiale: concentrato, taciturno, assorto nei suoi pensieri. Doveva avere delle preoccupazioni anche lui, ma non le lasciava trasparire. A sessant'anni non aveva ancora smesso di studiare.

Come immaginarsi che volesse distruggere la Luna?

«Per adesso lasciamo stare», disse trascinandomi verso la finestra, «vieni a vedere questo.» Gli avevo chiesto dello stadio di avanzamento del suo progetto appena ero arrivato da lui. Ma aveva qualcosa di più urgente da dirmi e prima di affrontare qualsiasi altro argomento mi aveva portato alla scrivania.

Fui costretto a mettere da parte la curiosità e a seguirlo al tavolo disseminato di fogli e spartiti. Posai lo sguardo sulla fitta serie di numeri che mi mostrava, disposti come schemi metrici di poesie. Erano tutte frazioni, riportate su più righi, due o tre su alcuni, a volte anche solo una, in una piacevole asimmetria senza una logica apparente. Sul retro del foglio, in corrispondenza di ciascun rigo, c'erano delle note musicali, sotto le quali aveva annotato simboli e lettere dell'alfabeto. Sembrava un codice segreto. Notai altri cinque o sei fogli identici a quello.

«Ho scoperto troppo tardi che l'universo è pieno di note», l'entusiasmo nella sua voce era velato di tristezza, «ce ne sono dappertutto, dappertutto. È musica naturale. Mi sarebbe piaciuto saperlo prima.» Prese un disegno. Era una riproduzione a colori del sistema solare. «Guarda. Le orbite dei pianeti emettono la medesima nota, ciascuna vale il doppio della precedente, se fossero corde salirebbero di ottava in ottava. E poi guarda qui. Sono segnali registrati in prossimità di un buco nero, sono segnali periodici che si chiamano... com'è che si chiamano?»

Il maestro Lin si era girato mentre ripeteva la domanda. Mi voltai. C'era un uomo sul divano di fronte alla porta, era poco più giovane di me. La luce dalla finestra gli arrivava in faccia, che sembrava incredibilmente pulita. Aveva i capelli a spazzola e un lieve sorriso. Mi guardò ed emise un risolino, come per scusarsi, poi rispose con naturalezza: «Oscillazioni quasi periodiche».

«Giusto. Oscillazioni quasi periodiche.» Il maestro quindi proseguì: «Oscillazioni quasi periodiche in prossimità di un buco nero, che in genere vengono registrate con due picchi. Vedi la frequenza di risonanza? Do-sol, una quinta giusta, poi do-fa, un intervallo di quarta. Sempre e solo accordi bellissimi e naturali. Il mio obiettivo è adattare queste frequenze assolute a un orecchio relativo», in mano teneva il foglio con i numeri e le note che avevamo appena guardato, «e utilizzarle per comporre un'opera con accordi omofonici. Ovviamente si intitolerà Il buco nero.» Il suo sguardo era profondo, eloquente e acceso di speranza, con un'intensità senza età. La voce bassa tremava per la commozione.

«Che peccato non avere capito tutto questo prima! La potenza della risonanza, le onde armoniche. Sai che il nostro universo è stato creato attraverso la risonanza? Come quella naturale tra triadi maggiori. Che meraviglia, tutto è nato dall'impulso vibrazionale di onde armoniche. Sarebbe fantastico ricostruire le origini, risalire al momento in cui si è formato l'universo, trasformare la frequenza del Big Bang in accordi, traducendola in musica. Sarebbero accordi armoniosi e pieni di luce. Sarebbe bellissimo. Un requiem per l'universo, dalla nascita all'eternità. Peccato essere vecchi. Io non farò in tempo, magari Qi Yue...»

D'un tratto gli venne in mente qualcosa e mi tirò con dolcezza per il braccio: «Mi sono dimenticato di presentarvi. Lui è Qi Yue, studia con me violino da due anni, è un astrofisico».

[...]


Qi Yue parlava con passione, con una voce piena di trasporto. Era come per noi musicisti parlare di Beethoven, lo capivo. L'entusiasmo non scaturiva dalla semplice ammirazione, ma dal desiderio profondo di condivisione con gli altri.

«Ma veniamo a noi», proseguì Qi Yue. «Tesla era un personaggio curioso. Ieri ho citato una sua frase, no?! Sembra che lui l'avesse pronunciata dopo un esperimento, non so se sia vero: era andato sul tetto di un edificio in costruzione e lì aveva collocato un piccolo oscillatore sulla struttura in acciaio, che aveva cominciato a vibrare, seminando il panico tra gli operai. In quell'occasione avrebbe detto che gli sarebbe bastato un oscillatore per spaccare la Terra in due. Un po' sulla falsariga di "Datemi una leva e vi solleverò il mondo". Lui però era molto più ambizioso, quella di Archimede era una metafora, lui parlava di qualcosa di fattibile.»

«Stai parlando della... risonanza?»

Le mie conoscenze di fisica erano piuttosto superficiali.

«Sì, se le frequenze sono uguali o multiple tra loro, le vibrazioni si amplificano reciprocamente.»

«E la vibrazione può generare un terremoto?»

«Se le vibrazioni superano la capacità di resistenza del materiale, sì.»

«Quindi... il maestro vuole sfruttare questo principio per fare esplodere la Luna?»

Annuì. «Sì, con la scala celeste.»

«La scala celeste?»

Mi vennero i brividi.

Fino a quel momento non ci avevo capito granché, ma sapevo bene cosa fosse la scala celeste. Era una scala nanoscopica che partiva dalla Terra e arrivava fino alla Luna. La gente la chiamava "il fagiolo magico", perché ti portava oltre le nuvole come nella favola. La conoscevano tutti. I media avevano dedicato molto spazio a quella notizia, e le immagini del raggiungimento della Luna erano rimbalzate per mesi ai quattro angoli del globo. Il progetto era stato finanziato da numerosi Paesi e sviluppato da una cordata di organizzazioni. Un team internazionale di astronauti aveva collaborato alla sua realizzazione. Già tutto questo aveva creato scalpore, figuriamoci la prospettiva di collegare direttamente la Luna e la Terra! Le risorse minerarie lunari sarebbero state trasferite sulla Terra, mentre nell'altra direzione avrebbero invece spedito le provviste alimentari per gli scienziati e gli esploratori impegnati sul satellite. Si sarebbero costruiti centri sperimentali, stazioni di lancio e complessi residenziali. Purtroppo, però, due anni dopo il completamento della scala, avvenuto nel 2022, erano arrivati i metalieni. Da quel momento in poi qualsiasi attività era stata sospesa e la scala celeste era rimasta abbandonata a se stessa. Non me la sarei mai ricordata, se non l'avesse nominata lui. Come tutti, la mia prima preoccupazione era sopravvivere. Cinque anni passano in fretta, quei cinque, in particolare, erano volati. Avevo ancora impresso nella memoria il momento del lancio e, sebbene cinque anni dopo l'opera fosse ancora lì, noi non eravamo più gli stessi invece.

Il contrasto tra l'abbondanza che c'era prima della venuta dei metalieni e la devastazione del dopo era agghiacciante, sconvolgente.

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Pagina 77

Quella sera tornai a casa a piedi, riflettendo sui dettagli del piano. La lunga strada pedonale era desolata. Ogni tanto mi superava qualcuno con un passo frettoloso. I negozi chiusi rendevano tutto ancora più deprimente. Non riuscivo a farmi un'opinione sul senso di quel progetto, cosa avrebbe aggiunto, cosa avrebbe tolto, se ne valesse la pena, se bisognasse concretizzarlo. La situazione mi era chiara, eppure non mi sapevo decidere. L'aria pungente mi manteneva lucido, ma non era una questione di lucidità. Era un problema di cuore. Più analizzavo la situazione con oggettività, meno ero in grado di decidere se intraprendere quell'azione.

Cominciavo a capire perché la scelta del maestro fosse ricaduta su Brahms.

Per la scaletta dell'ultimo concerto aveva previsto l'esecuzione di due opere. La Sinfonia n. 6 di Čajkovskij e la n. 4 di Brahms. La Patetica di Čajkovskij, con la sua melodia toccante, piena di commozione e pessimismo, era un'opzione prevedibile. Invece mi era sembrata un'idea strana includere Brahms, che in genere ha i tratti rassicuranti tipici di un compositore moderato, conservatore, senza picchi. Gli mancano il furore di un Beethoven e l'impetuosità di un Wagner. Brahms non rompe nessuna regola. Non mi pareva che si prestasse a una chiamata alle armi. Non mi spiegavo perché il maestro non avesse pensato invece alla Sinfonia del destino di Richard Strauss o a riproporre la Resurrezione di Mahler. È improbabile che in un momento di grande pathos possa venirti in mente Brahms.

Quando avevo chiesto al maestro cosa ne pensasse di Brahms, lui aveva tergiversato, facendone una questione di gusti personali. Ma quella sera all'improvviso capii. La nostra non era una lotta gloriosa, ma una rinuncia lugubre e senz'appello. Anche se Qi Yue mi aveva spiegato i principi teorici a sostegno della realizzabilità del progetto, io avevo seri dubbi in proposito. Secondo me non c'erano possibilità di successo. Nonostante la sua determinazione, il maestro sapeva che non sarebbe stata una rivolta eroica, ma un atto di ribellione devastante con un epilogo tragico. La distruzione della Luna non era assicurata, ma se la risonanza avesse scatenato un terremoto nel luogo dell'esibizione noi non avremmo avuto scampo. Però saremmo morti per una giusta causa, la libertà.

In quella fase storica Brahms e soltanto Brahms poteva essere in sintonia con l'umanità. Alcuni miei amici dicevano che, dopo avere ascoltato di tutto, non restava che tornare a lui. All'inizio lascia indifferenti, poi non ascolti più nient'altro. La sua musica è tragica nell'essenza, non ha bisogno di coloriture drammatiche, di esagerazioni, perché lo è per natura. Esprime un dolore compresso, profondo, che non emerge in superficie. Il suo fervore appare calmo come un oceano. Lo immaginavo andarsene dai salotti di Weimar, solo con i suoi ideali di classicismo, faccia a faccia con il proprio destino. Affrontava abbandonato da tutti il destino inesorabile del mondo.

Ascoltavo negli auricolari la melodia sognante e dolorosa del Doppio concerto per violino e violoncello. Quella notte, sulla strada deserta, mentre i netturbini spazzavano lo spesso tappeto di foglie secche, conobbi la potenza della musica di Brahms. Ci sono momenti in cui si è disarmati. È questo il destino: vedere le cose con chiarezza e sentirsi impotenti. A quel punto non si può che andare incontro alla solitudine. Quando tutti gli ideali sono crollati, badare a se stessi diventa un atto di coraggio.

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Pagina 116

Erano arrivati sulla Terra da alcuni anni ormai e occupavano molte zone strategiche. Avevano preso sotto la loro tutela A Jiu da tre anni. Lei non conosceva il nome di chi la stava proteggendo, ma il subconscio le diceva che era una forza potentissima. A Jiu era una dei numerosi agenti dormienti che loro avevano scelto. Ed era una vincente, nel senso più volgare del termine. Era arrivata seconda al concorso e il suo primo disco era pubblicizzato sui giganteschi schermi nelle piazze delle città. Le opere che aveva composto ora erano eseguite nei più prestigiosi teatri e i critici si sperticavano in elogi per la loro "tensione soave". Fioccavano richieste per la realizzazione di colonne sonore. Alle serate di gala era l'ospite d'onore. Negli ultimi due anni aveva scalato le classifiche e la sua ultima opera sinfonica era nel cartellone dei concerti delle migliori orchestre. Lei viveva tutto questo con meraviglia, senza sapere chi ci fosse veramente dietro. Partecipava alle prove della filarmonica e la sera tornava a casa a comporre. Del resto si occupavano altre persone. Lei era in una bolla.

Era un sogno da cui non aveva il coraggio di svegliarsi. Mentre pensava a ciò che le era capitato fu colta da una sensazione di straniamento, come se percepisse una predestinazione. Dopo tanta fatica, impegno e talento avevano dato i loro frutti. Lei credeva di avere realizzato i propri desideri, le ambizioni, invece quel giorno aveva capito di essere caduta in una gigantesca trappola. A tentoni, spiata dal nemico, era fuggita lungo un corridoio buio e infinito opprimente come una prigione e, quando credeva di esserne uscita, si era ritrovata davanti al tribunale del destino.

L'avevano incastrata, colpendola nel suo punto debole. Era in grado di affrontare la solitudine, ma non era disposta ad accettare che le sue opere non fossero più eseguite e cadessero nell'oblio. Si era dedicata alla musica con tutta se stessa. Era la sua lingua, la sua gioia, la sua rabbia, la vita. Amava la composizione. Le capitava di non riuscire a scrivere, ma quando si concentrava sullo spartito e teneva la mente occupata su una potenziale melodia, allora trovava la pace. Ogni cosa tornava al suo posto. Le faccende quotidiane, il lavoro, il sonno erano i macchinari silenziosamente al lavoro dietro le quinte, ma la musica era quello che andava in scena quando si apriva il sipario. Avrebbe potuto accettare di essere scoperta dopo la sua morte, come Bach, che era stato rivalutato da Mendelssohn, o come Mahler da Bernstein, ma non che la sua musica sparisse per sempre. Questo avrebbe significato toglierle la speranza di sopravvivere.

Cosa scegliere? La volta precedente la sua debolezza aveva preso il sopravvento e lei era rimasta in silenzio. Ora avrebbe voluto stare dalla parte dei terrestri, ma questo comportava una decisione di puro altruismo. Aveva sottovalutato la forza potente che si muoveva nell'ombra e che l'aveva sostenuta, quando tutto era in nuce, e pieno di luce radiosa. Ma stavolta, stavolta cosa doveva scegliere?

A Jiu si trascinò verso casa, camminando al rallentatore, con passi pesanti come il suo umore.

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Pagina 129

Il teatro dell'universo


Glasgow era una città fredda già nell'era tradizionale e lo era diventata ancora di più nell'Encefalocene.

[...]


Girarono l'angolo ed entrarono in una piccola chiesa.

Era una chiesa sconsacrata del XVIII secolo che da un centinaio di anni ospitava una galleria d'arte moderna con opere surrealiste di carattere tecnologico. Nell'Encefalocene i visitatori si erano fatti rari e la sua funzione espositiva era ormai priva di senso. Aprivano al pubblico una o due volte l'anno. Helene era innamorata di quel luogo pieno di opere creative e commoventi che non suscitavano più alcun interesse.

Lo fece accomodare in prima fila, sulle sedie di plastica che aveva disposto provvisoriamente lì per ricreare l'effetto di una platea degli spettacoli delle feste di piazza. Osservò nuovamente l'uomo, sembrava così ingenuo ed entusiasta. Anche lui la fissava, animato da una strana curiosità.

Quando si abbassarono le luci, nello spazio intorno a loro apparvero immagini tridimensionali che li catapultarono in mezzo all'universo. A un tratto videro il pianeta Terra.

Sul palco davanti ai loro occhi presero forma numeri, formule, pixel, nodi di rete, strutture in rapida trasformazione, infine la nostra galassia, la Via Lattea, la Terra, l'avanzamento e il ritiro dei ghiacciai, la scomparsa delle superfici verdi, la fioritura e il declino delle città, la crescita e la successiva diminuzione della popolazione. Le generazioni si moltiplicavano propagandosi sull'intero globo, poi la loro proliferazione raggiungeva un apice fino a che la tendenza si invertiva bruscamente, al punto che l'umanità si riduceva a qualche piccolo insediamento di minoranze: era l'inizio dell'Encefalocene. Per tutta la durata della proiezione, nell'aria erano fluttuate facce di ogni tipo. Alcune ridevano compiaciute, altre erano tristi, disperate, o fiere, oppure con un'espressione di dignitosa sofferenza. Sembrava di sentire le loro voci nel silenzio.

«In tempi lontani tutto era sacro», disse Helene, «nulla di strano per popoli che abbiano appreso da poco a coltivare la terra, e per i quali i fenomeni metereologici sono tanto vitali quanto imprevedibili. L'unica scelta era pregare sperando di ricevere un qualche segnale di protezione. Fu così che ebbero origine i sacrifici. Curiosamente le feste nacquero ancora prima.»

Il cantante si era zittito, rapito dalle immagini e aveva perso la sua loquacità.

Dopo averlo guardato di sguincio, Helene proseguì: «Sì, proprio come pensi. È l'antica Cina. Con il passaggio dallo sciamanesimo ai riti, i cinesi furono tra i primi a vivere il disincanto del mondo, per dirla con Weber. In questo Paese fondato sull'etichetta si dava estrema importanza alla ritualità e all'aspetto collettivo delle celebrazioni. Secoli dopo l'Impero Romano interpretò le festività come carnevali. C'è una differenza enorme, che prefigura il cammino completamente diverso intrapreso dalle due civiltà».

[...]

Si interruppe mentre osservava scene di celebrazioni. «...L'ultima è il 5 ottobre, in assoluto la festività più strana. I terrestri la chiamavano la festa della condivisione cerebrale, ma ho sentito girare anche un altro nome, vagamente macabro, la festa dell'aborto, sarà capitato anche a te di sentirlo.»

Quando le immagini si esaurirono, nel loro campo visivo rimase soltanto la proiezione del pianeta blu che ondeggiava solitario.

«Impressionante.» Furono le prime parole del cantante dopo un lungo silenzio.

«Cosa ne pensi?» chiese Helene.

«Ti farei la stessa domanda», disse girandosi, «mi sfugge il senso generale, dimmi quello che pensi tu.»

«Molte cose. Difficile spiegarlo in due parole.»

«Perché fai questo lavoro?»

Helene non lo guardò in faccia, tenne gli occhi fissi sulla Terra virtuale: «Per comprendere la condivisione cerebrale».

«Per comprenderla? Cosa ti è poco chiaro?» lui sembrava stupito, «l'attività cerebrale di ogni persona è stata integrata a internet così da condividere la capacità di calcolo e sopprimere le limitazioni date dall'esperienza individuale, cos'altro c'è da spiegare?»

[...]

«Sai cosa penso della scomparsa delle feste?» Helene piegò la testa indicando l'immagine virtuale del globo. «Si tratta di un complotto che risale a oltre un secolo fa.»

Le pupille del cantante si restrinsero: «Cosa intendi?»

«Sai qual era il significato delle feste per i terrestri?» continuò lei. «La teoria dell'evoluzione ha evidenziato che gli orangotanghi e l'uomo primitivo appartengono a una stessa sottospecie molto aggressiva. Gli umani sono diventati animali civili solo quando si sono organizzati in società stanziali articolate, con una suddivisione del lavoro. Ma come avvenne tutto ciò? Una volta si pensava che fosse conseguenza della scoperta dell'agricoltura, poi si è capito che la stanzialità è comparsa con un millennio di anticipo rispetto alle tecniche di coltivazione. Gli esseri umani prima si sono aggregati in comunità e solo in un secondo tempo hanno cominciato a coltivare i campi. Cosa li ha spinti allora a rinunciare alla loro aggressività e a unirsi tra loro? Le feste di per sé non hanno un significato particolare, sono semplici punti di riferimento temporali. Però spingono una comunità a celebrare gli stessi rituali in contemporanea, a recitare le stesse preghiere, a sospendere le normali occupazioni quotidiane per sentirsi parte di un tutt'uno. La consapevolezza di questo senso di appartenenza è all'origine della forza di coesione dell'umanità. Poi con l'arrivo sulla Terra di "osservatori" da un altro pianeta, le festività sono via via scomparse. All'inizio nessuno se n'è accorto perché si era creata una tale proliferazione di feste di ogni tipo, alcune letteralmente inventate, che la gente era giunta alla saturazione. Era un'epidemia. L'insofferenza si è estesa anche alle festività tradizionali, che poi sono sparite una dopo l'altra. Nessuno le celebrava più, e le persone hanno cominciato a disumanizzarsi, a non dare più importanza ai rapporti interpersonali, tantomeno al concetto di collettività. Le attività di gruppo sono state estirpate radicalmente. Siamo diventati individui solitari e disinteressati che cercano rifugio nella rete, cioè in un mondo virtuale dove sentirsi liberi dall'angoscia causata dalla mancanza di un senso di appartenenza. Nessuno sa come tutto questo sia accaduto. Si ritiene sia stato un fenomeno naturale, intanto si celebrano i grandi progressi del mondo virtuale. A nessuno è venuto in mente di collegarlo all'arrivo degli "osservatori".»

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«Poi», riprese SJ 47, «ho supplicato mio padre di portarmi dal mio organismo di partenza e dagli altri cloni. Nell'istante in cui li ho incontrati, mi sono sentito a casa, era come se mi fossi finalmente svegliato.»

Il vecchio non ebbe reazioni, era concentrato a tagliare le patate.

«Questa storia è troppo sdolcinata per i miei gusti», fu il commento.

«Ti è mai capitato», proseguì lui, dopo avere fatto gli ultimi due tiri, «di avvertire un legame talmente forte con il tuo organismo di partenza o con un tuo clone che quando raccontavano qualcosa successo a loro avevi la sensazione che fosse capitato a te?»

«Certo», rispose il vecchio, «è normale.»

«Ti sei domandato perché?»

«Perché?»

«Perché avete una vita in comune.»

«Ah, ah», il vecchio fece una risata gelida, «non la butterei sul filosofico. Avendo lo stesso DNA, ormoni e struttura del cervello sono identici, quindi lo sono anche le nostre reazioni. Non c'è niente di speciale.»

«Non è così semplice», replicò lui, «è qualcosa che coinvolge l'essenza della vita. Ti sei mai chiesto che cos'è la vita? È un oggetto imprigionato in un corpo? No. Esiste a prescindere dal corpo fisico. Ciascuno di noi, ciascun replicante condivide la vita dell'altro. Ti faccio un esempio. Prendi i libri. Se distruggi un libro, puoi dire che quel libro non esiste più? No. È sufficiente della carta per ristamparlo. Sarà lo stesso identico libro. Il contenuto è la sua anima, che con la carta non c'entra nulla. Continuerebbe a esistere anche se eliminassi tutte le copie al mondo.»

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