Copertina
Autore Shulamith Hareven
Titolo Una città dai molti giorni
EdizioneGiuntina, Firenze, 2006, Israeliana , pag. 218, cop.fle., dim. 130x210x14 mm , Isbn 978-88-8057-267-1
Originale'Ir yamim rabim
EdizioneAm Oved, Tel Aviv, 1972
TraduttoreRosanella Volponi
LettoreGiovanna Bacci, 2006
Classe narrativa israeliana
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1



Il padre di Sara personalmente non aveva mai fatto conoscenza con la Moralità, perciò si poteva essere indulgenti con lui.

Anche nella Gerusalemme di allora, cordiale e generosa come i suoi quartieri, Don Yitzchak Amarillo passava per un uomo dal cuore eccezionalmente generoso, incapace di resistere alla dolcezza: la dolcezza della brezza pura che all'improvviso dissolversi della calura faceva risuonare come un flauto il vicolo; la dolcezza delle donne abbronzate, dei bambini variopinti, del gelsomino che chiede grazia nella profusione degli odori della sera nei cortili degli arabi; la dolcezza di un pastore coperto di polvere che fa ritorno dai campi con un agnello in braccio. Profumi di quiete, di santoreggia e di arak.

In momenti come quelli era assolutamente indifeso; lacrime di totale impotenza inondavano i suoi occhi buoni e miopi, ed era inerme come un bambino, capace di prendere tutto ciò che possedeva, la sua stessa anima, avvolgere il tutto in un fazzoletto, non sempre pulito, e darlo via, simile a un Gulliver grande e buono, che trasporta sulla tesa del suo cappello un nugolo di bambini che si agitano allegri e gli tirano le orecchie per spronarlo alla corsa.

E quando arrivava l'estate e con essa l'allegria sfrenata dei cocomeri accatastati al mercato presso la porta di Yafo, lungo la strada che scende giù dalle mura verso Hebron, lui era alla mercé di qualunque donna.

Forse fu in quell'ora in cui termina la calura, quando nei vicoli riprende la vita, come attizzata da un mantice, che egli asciugò le lacrime di Hanna, una giovane pioniera arrivata dalla Russia, venuta a vivere nella nuova zona di Bet Yisrael. Debole davanti alle sue lacrime, andò e riandò a trovarla, fino a che Hanna dette alla luce un figlio che chiamò Tanchum.

Don Yitzchak Amarillo lo riconobbe subito e, anche se non fosse stato il padre, probabilmente avrebbe agito alla stessa maniera perché, in effetti, un uomo della sua fatta come avrebbe potuto abbandonare un bambino, e per giunta un maschio.

Orgoglioso e confuso, con un casco coloniale bianco in testa, stava sulla soglia, con un mazzo di fiori in mano. Per un certo periodo si sentì in obbligo di abitare con Hanna a Bet Yisrael e di difenderla dai vicini per quella vergogna causatale dal suo buon cuore. Ma quei vicini, per la maggior parte, erano socialisti scarmigliati che portavano camice russe lise, che lavoravano fino a tardi nelle loro tipografie e a cui non veniva neppure in mente di interessarsi alle origini e alla genealogia del neonato berciante di Hanna.

Tre mesi dopo la nascita di Tanchum, Don Yitzchak venne convocato a casa sua perché sua moglie Gracia, la madre di Sara, aveva partorito una seconda figlia, Ofra. E ancora una volta Don Yitzchak stette là sulla soglia, pieno di orgoglio, confuso e con un mazzo di fiori in mano; ma questa volta fu sopraffatto dal pianto della moglie e tornò a casa.

In seguito Hanna si trasferì con Tanchum in un moshàv, dove faceva la maestra. Avrebbe potuto essere la fine dei guai di Don Yitzchak se, qualche anno dopo, non fosse venuta ad arenarsi a Gerusalemme una ragazza piuttosto stravagante. Arrivò carica di valigie e di pacchi; minuta ed esile, con un cappello grande come la ruota d'un carro e un vestito di mussola bianco. Parlava un francese sguaiato: correva voce che fosse figlia di un conte francese.

Don Yitzchak era uno dei notabili della comunità; lei una mattina si presentò nel suo ufficio come una vespa inamidata, un fascio di disegni sotto il braccio, e una strana storia da raccontare. I disegni, a suo dire, erano opera della sua defunta madre e tutto quello che chiedeva era che Don Yitzchak l'aiutasse ad organizzare a Gerusalemme une exposition, ovvero una mostra.

Seduta di fronte a lui, bagnava appena le labbra nella tazzina del caffè e raccontava la sua storia: era figlia di un conte e di una contessa francesi che si erano ritrovati in Libano e vi avevano risieduto per qualche tempo fino a quando, un giorno, si misero in viaggio per far visita alla loro famiglia in Francia, affidando lei a una coppia di domestici arabi. Durante il viaggio la nave fece naufragio e annegarono entrambi lasciandola orfana.

A questo punto del racconto, Don Yitzchak si sentì molto, molto impietosito, aveva la lingua incollata al palato e lei si fermò, perché il seguito della storia era ancora più triste: in verità, il domestico e sua moglie si prendevano cura di lei come di una figlia, ma erano degli zotici di cui lei non poteva sopportare la presenza; inoltre era cresciuta e non era brutta, come Don Yitzchak poteva giudicare con i suoi occhi, e per sua somma sfortuna il tutore aveva cominciato a insidiarla senza tregua. Lei aveva dunque raccolto le sue poche cose, praticamente nulla, aveva preso con sé i disegni di sua madre, ai quali teneva più di ogni altra cosa, ed era fuggita.

Don Yitzchak si asciugò gli occhi. Era pronto e disponibile, disse, ad aiutarla sotto ogni aspetto, ad allestire la exposition dei dipinti della madre a Gerusalemme – anche se non aveva la benché minima idea di cosa fosse una exposition e di come organizzarla – ed era disposto a tentare ogni strada per trovare il denaro affinché potesse intraprendere il viaggio per ritrovare la sua famiglia legittima in Francia. Ed era così desideroso di aiutarla da non prestare attenzione nemmeno quando cominciò a raccontargli dei suoi diamanti rimasti in possesso del domestico, di azioni di compagnie residenti a Panama e di molti altri affari in grado di far girare la testa a chiunque.

La mostra non venne mai allestita. Una volta perché la contessa era un peu indisposta, un'altra perché temeva che non ci fossero quadri a sufficienza per una mostra degna di questo nome; poi la annullò perché, secondo lei, non c'erano abbastanza ospiti, oppure non le sembravano abbastanza importanti e influenti. Quando alla fine venne trovata la sala, e Don Yitzchak aveva provveduto ad ogni cosa, fino all'ultimo dettaglio, compresi ospiti scelti e competenti nel giusto numero, lei gli inviò di prima mattina un ragazzo con una lettera che lo informava che i dipinti erano stati rubati durante la notte. Fine della storia.

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Il dottor Heinz Barzel era arrivato in Terra d'Israele con un percorso tortuoso perché nella sua città natale, Francoforte sul Meno, aveva sentito dire che das Klima là era torrido e incandescente, per cui decise, data la sua impostazione scientifica, di iniziare ad abituarsi al clima e, soltanto dopo, trasferirsi. E come fa un uomo ad abituarsi al caldo?

Il giovane dottor Barzel chiese in giro e gli dissero che il luogo più torrido nel quale potesse acclimatare il suo Organismus era il Golfo Persico.

Il dottor Barzel si diresse a Bandar-Abbas e prese alloggio in una camera di un albergo dove un ventilatore enorme ricopriva tutto il soffitto, con pale che si allungavano da parete a parete, ma a dire il vero non gli era di grande aiuto ed era costretto a farsi docce in continuazione, con un'acqua del colore della polvere e che sapeva di ruggine.

Quando si recò al mercato vide che i venditori di Bandar-Abbas, durante le ore più calde, stavano seduti dentro barili pieni d'acqua e soltanto quando si avvicinava un compratore venivano fuori per servirlo.

Ma ben presto non fu più il caldo ad essere un problema, il problema ora era la protesta ostile che tutti dimostravano – la città, le pietre, il golfo, il petrolio, il cielo – per l'intrusione di quell'uomo di Francoforte sul Meno, dai capelli color carota, che teneva nella sua stanza un violino in una custodia di alluminio.

Tutto complottava contro di lui e le zanzare ogni notte penetravano sotto la zanzariera, si prendevano gioco di lui e gli comunicavano la loro determinazione a espellerlo.

Il dottor Barzel, uomo di scienza, riferì le sue considerazioni in una lettera alla famiglia:

«Desidero farvi sapere che ho scoperto che Bandar-Abbas probabilmente è il luogo di origine della favola di Ali Babà e dei suoi ladroni che si nascondevano nei barili. Con ogni probabilità si rifà al folklore locale, dal momento che qui i venditori del mercato stanno dentro dei barili a causa del forte calore, e io porto questo fatto all'attenzione del mio amico professor Reichenbach. Quanto al mio violino, sembra che la custodia di alluminio sia stata un errore madornale, perché tutte le corde si sono spezzate, il ponticello si è curvato e il legno non mi sembra in buone condizioni, anzi sembra quasi cotto. Il mio Organismus non si è ancora completamente adattato ma gli intervalli fra una doccia e l'altra si sono allungati da ogni quarto d'ora ad ogni mezz'ora a partire da giovedì scorso».


Da Bandar-Abbas passò ad Abadan e da lì in Kuwait. Divenne famoso tra gli emiri e gli sceicchi del Golfo che vennero a sapere che tra loro c'era l'eminente dottor Heinz Barzel, e cominciarono ad usufruire dei suoi servigi. Ancora non si era scoperto che in quella parte del Golfo c'era il petrolio e la costa arabica era alla fine del mondo, lontana e dimenticata da Dio.

Il dottor Barzel fu convocato negli harem del Golfo, dove in fila stavano in attesa, avvolte nei manti e velate, tutte le donne dello sceicco locale, mogli, madre, zie, figlie, nipoti. Il più delle volte rifiutavano di spogliarsi e pretendevano che le visitasse guardando con una lente d'ingrandimento il palmo delle loro mani.

Scoprì che sette anni prima girava per il Golfo un tizio, proveniente dalla Jugoslavia, che si spacciava per medico che le visitava così. Non c'erano prove per dimostrare che con il metodo dello jugoslavo fossero morti più pazienti. Quando il dottor Heinz Barzel spiegò che lui visitava con un altro metodo, quello di Heidelberg, bisbigliarono tra loro, si consultarono e, alla fine, lo informarono che lo autorizzavano a visitarle con il suo metodo, ma solo attraverso i vestiti. Non avendo scelta, il dottore dai capelli rossi accettò e, solo in un caso – una donna con il corpo coperto di vesciche, che avevano cercato di curare con sterco di cammello – gli fu concesso, con l'approvazione dello sceicco, che la donna si spogliasse.

Il corpo della donna, stesa su un lettino, fu spinto nella stanza fino all'altezza del collo, il volto restò al di là della tenda di perline, così che il medico non fosse in grado di riconoscerla. Accanto a lei, dietro la tenda, le sue compagne dell'harem le asciugavano la fronte con i loro fazzoletti, e al suo fianco, nella stanza con il medico, stava il possessore legale, il vecchio sceicco in persona, il cadì e una vecchia che masticava khef e sputava sul pavimento.

«Non è possibile essere un cattivo medico nel Golfo,» scriveva il dottor Barzel a un amico «senza medici qui muoiono l'80% delle persone, e anche se sei un pessimo medico e uccidi il 70% dei pazienti, riesci a salvarne sempre il 10%».

E tra i meriti del dottor Barzel nel Golfo Persico ci fu anche un mezzo miracolo: la moglie di un emiro, una ragazza di diciassette anni, era incinta di due gemelli e la levatrice disperava perché i gemelli erano podalici. Quel giorno il dottor Barzel era in viaggio, in treno, da Zahran a Riyad, ma l'emiro inviò una squadra di uomini armati a cavallo che si affiancarono al treno e lo fermarono; fecero scendere il dottor Barzel, lo issarono su un cavallo possente con una sella provvista di una specie di baldacchino per ripararlo dal sole e, circondato da lance, lo condussero dalla giovane sposa.

La ragazza, curiosa ed ottimista, non era abbastanza spaventata da permettergli di prendersi cura di lei nel modo in cui si sarebbe dovuto procedere in quel caso. Anche l'emiro non dava il suo consenso: la ragazza era troppo giovane, disse. Il dottor Barzel, non avendo scelta, eseguì l'operazione come poteva e capovolse i due gemelli podalici attraverso il vestito.

«Come c'è riuscito?» gli chiedevano stupefatti i giovani dottori tirocinanti a Gerusalemme.

«Non avevo scelta, also ho premuto e spinto fino a quando i due feti non hanno avuto scelta neppure loro» rispondeva il dottor Barzel, e il suo corpo dinoccolato si agitava per il gran ridere.

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La città tremava; erano i giorni del mese di Elul. Le scille sbocciavano sotto i cipressi e sembravano i loro fiori. Miracolo tornò a seppellire solo i morti di morte naturale, ma c'erano ancora tanti feriti in ospedale e Sara era molto impegnata.

«Esausto, come tutti».

Così Elias Amarillo rispose a Sara quando gli chiese come andava. Era in ritardo, perché era appena uscita da un turno lungo e faticoso in ospedale, e si era sistemata un po' prima di incontrarsi con lui in un caffè di via Ben Yehuda. Appena era uscita aveva fatto il vuoto nella mente, preferiva non ricordare niente. Bevve il suo caffè con stanca avidità, grata che Elias non fosse uno dell'ospedale.

Gli raccontò che alcuni giorni prima, mentre usciva dall'ospedale, aveva sentito il bisogno di rinfrescarsi e si era fermata davanti allo specchio per mettersi il rossetto e un'infermiera anziana le aveva urlato: non ti vergogni? Truccarsi in giorni come questi!

Alle domande di Elias rispose con un gesto sconsolato della mano:

«Va male. Siamo deboli, Eli, e non c'eravamo resi conto di quanto eravamo deboli».

Perfino gli olivi in città le sembravano contorti dalla tensione, in preda a una vertigine, come vortici malvagi su un monte malevolo. Il monte e le sue trappole. Ogni cespuglio nel giardino un'imboscata.

«Eli, perché non ti unisci a uno dei gruppi che si stanno formando?».

«Non mi è possibile. Lavoro per il governo e gli devo fedeltà. Il giorno in cui deciderò di far parte di una organizzazione mi dimetterò dal mio incarico».

Sara sospirò.

«È una forma d'integrità estrema».

«È integrità».

Lo osservò con attenzione, era magro, alto, la bocca malinconica, parlava a voce bassa e tuttavia c'era in lui la forza di un giunco: si piegava ma non si sarebbe spezzato.

«Sara, ci ho pensato e ripensato. La verità è che in me c'è qualcosa che rifugge dallo stato di esaltazione di questa impresa. Odio il "dente-per-dente", il fanatismo, l'eccessivo fervore. È come una sorta di culto idolatra. Un movimento nazionalistico che mi lascia indifferente. Preferisco una strada meno romantica, ma dove mi sembra ci sia molta più luce».

«E in cosa vedi questa tua luce?».

«Nella logica. Nell'ordine. Non possiamo permetterci di perdere il controllo. È cosí facile trasformare questa nostra terra in una terra per una guerra dei cento anni. So che in questo momento il mio punto di vista non ti convince, perché sei sconvolta da tutto quello che hai visto. Ma fra un giorno o due forse mi capirai. Disapprovi quello che ho detto?».

«Disapprovare? Ovviamente no. Anch'io detesto tutto quello che è accaduto in questa città. Prima di tutto perché sono un'infermiera e non amo le malattie, caso mai le odio, e ora più che mai ne sono convinta. Odio questi venerdì di incitamento religioso alla violenza, questa febbre maligna che ha afferrato tutti. Ormai è impossibile passare incolumi da un quartiere all'altro, e poi tutte quelle autoambulanze con i feriti. La carne umana fatta a pezzi: è una vergogna, Eli, una pura e semplice infamia. Uno spreco senza senso di umanità».

«È proprio così, proprio così».

Un pallido fuoco si accese sul suo volto:

«Qualcuno deve rimanere al di fuori di questo circolo vizioso».

Appoggiò la sua mano su quella di lei:

«Sara, forse te lo chiedo in un momento poco adatto, ma in questa situazione non credo ci siano momenti più opportuni. Anzi penso che ora più che mai si debba cercare di vivere una vita normale, di avere figli, di mettere su casa con tutto ciò che comporta».

«La penso anch'io come te, più o meno,» disse piano Sara «ma dentro di me sento tutto questo ancora abbastanza remoto. Ancora teorico».

«D'accordo. Capisco che non puoi prendere subito una decisione come questa. Ma la prossima volta che c'incontreremo tieni a mente che esiste anche questa possibilità».

Un pomeriggio, quando l'albero di fichi coperto di polvere sembrava abbandonarsi mollemente sul tetto della casa, un giovanotto dell' Haganà si presentò da Saada. Lei se ne stava distesa sul divano di velluto nella stanza d'ingresso, che era la stanza più fresca della casa, e sbuffando si faceva vento con un ventaglio di carta. Appena vide il giovane gli disse:

«Non ora, le ragazze stanno riposando, torna stasera».

«Non voglio una ragazza,» le rispose il giovanotto in un inglese stentato «voglio parlare con te».

«Cosa devi dirmi?» si irrigidì Saada e immediatamente si frugò nella scollatura e ne tirò fuori dei certificati. «Controlla pure, tutte visitate, tutte sane. Grazie a Dio non c'è niente da nascondere qui da Saada. La mia è una casa pulita».

«Non sono dell'ufficio d'igiene. Sono dell' Haganà».

«A'uz billah!» [ «Che Dio ce ne liberi!» (arabo) ] bisbigliò allarmata guardandosi intorno. «Non parlare qua. Ma che razza di tipo sei? Qui ci sono le orecchie dell'Alto Commissario perfino nella stufa». Lo spinse nel cortile, spazzato con assai poca cura, dove c'era una panca di legno sotto il fico.

«Qui puoi parlare, non in casa»

Lui le spiego cosa voleva. C'era la possibilità che le sue ragazze venissero a sapere dai soldati inglesi notizie sulle perquisizioni alla ricerca delle armi nascoste, o sul coprifuoco. L' Haganà voleva essere informata ed era ben disposta a ricompensare le ragazze. Tutto il denaro, si affrettò ad aggiungere, sarebbe passato attraverso le mani di Saada. Saada lo osservò con sguardo acuto.

«A chi dovrò riferire ciò che ho saputo?».

«Lo riferirai a un ebreo del quartiere; decideremo poi chi. Forse Cordozo».

«No,» ci pensò su lei «riferirò al droghiere. Ci vado tutti i giorni. Con gli altri ebrei del quartiere non ho contatti».

Il giovanotto fu d'accordo. Fissarono ciò che c'era da stabilire e si accordarono anche con il droghiere nella cui bottega chiunque, anche se non del quartiere, poteva recarsi nelle ore più strane senza destare sospetto.

Il droghiere, che era un uomo astuto, comprese immediatamente che se non soltanto l'inviato dell' Haganà ma tutto il quartiere fosse venuto a conoscenza per tempo che ci sarebbe stato il coprifuoco, lui ne avrebbe tratto profitto, perché tutti sarebbero accorsi a fare incetta di generi alimentari. Perciò quando Saada lo avvertiva che stava per scattare il coprifuoco, lui informava tutto il quartiere con un bel canto sinagogale sefardita:

Felici coloro che risiedono nella Tua casa, continuamente Ti loderanno. Sela!

Se invece era prevista una perquisizione alla ricerca di armi nascoste, cantava:

Ma non potendo più nasconderlo prese una cassetta di papiro e la depose nel canneto sulla riva del fiume!"

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Di nuovo spari nella notte. Ogni notte senza eccezione. Le persone sono spogliate della loro identità, abbandonate come sacchi vuoti, sporchi, in una macchina crivellata di colpi lungo la strada o nelle loro case. Una giovane coppia per strada. Una famiglia in una casa isolata su un pendio che scende dalla città. Ancora spari. Chi ora? Dove? La gente è bloccata nelle case, silenziosa, attenta a ciò che avviene nella notte. Polizia. Un'ambulanza. Il silenzio.

La città ferita, oppressa, dolente. Al mattino, la vista innocente di un ramo in fiore riempiva gli occhi di lacrime. Così fragile. Lo potevano calpestare, sradicare, spezzare e fuggire via. La malvagità nelle strade. I bambini si coprivano il capo con le coperte e avevano paura di dormire, fino a quando il sonno non li afferrava, un sonno di piombo che non concedeva riposo.


Elias Amarillo, camminando per Machané Yehuda, vide che portavano dei rivestimenti corazzati per fissarli alla cabina dell'autista di un autobus.

«Lie-ber-man, buon viaggio, Lie-ber-man!» gridava all'autista un saldatore yemenita, dalla faccia fuligginosa.

Lieberman, grasso, calvo, sollevò le mani in un breve gesto di saluto: un autista che ha nelle sue mani la vita di tutti i passeggeri. Si sistemò al volante e girò la chiave di accensione.

«Tre blocchi sono stati rimossi vicino a Lod» gli disse calmo un giovane con un berretto, col gomito appoggiato al finestrino. «Non si può essere certi di cosa c'è dopo Lod. Lungo la strada è successo qualcosa?».

«Solo un lancio di pietre e un finestrino rotto».

«Bene. Buon viaggio».


I passeggeri si assieparono dietro i vetri corazzati dell'autobus. Allontanarono i bambini dalle fiancate e li misero a sedere sulle ceste e le valigie sul pavimento dell'autobus, al centro. Un silenzio totale.

Elias lottava con se stesso. Angeli e demoni. Il suo carattere lo portava a sostenere le istituzioni legali esistenti, ad evitare organizzazioni devianti al limite del diritto, ad essere leale. Sapeva bene di non avere la forza di Lieberman. Non si sarebbe mai messo alla guida di un autobus pieno di gente per lanciarlo a folle velocità e zigzagare per superare un posto di blocco sulla strada, prima che venissero sparati troppi colpi. Tutta la sua forza stava nella sua pazienza, nella sua fede ostinata. Magro, gambe lunghe e temperamento ansioso, si recava agli incontri del Brit-Shalom; conversava con il professor Buber, con Chajj Kamal ed-Din, in pace, in un'atmosfera da intellettuali. Nell'ufficio del procuratore generale, arabi e inglesi, con i loro completi, le loro toghe e le cartelle porta-documenti erano suoi amici. Davanti a un imparruccato giudice inglese si sentivano parte di un solo corpo. Il mio esimio collega Elias. Il mio onorevole collega Tawfik.


Tuttavia c'erano delle crepe. Aveva la sensazione che qualcosa in lui era cambiato e un mattino, in uno slancio, chiese a Sara la sua opinione sull'eventualità di modificare il cognome Amarillo in Amir. Suona decisamente più ebraico, le disse un po' imbarazzato.

Sara tu subito d'accordo. Dalla morte del nonno non vedeva più niente di straordinario nel nome Amarillo. Si era molto allontanata anche da Gracia che era tornata a Gerusalemme e anche da Allegra dalla faccia paffuta che, da Tiberiade, le inviava di tanto in tanto barattoli di olive e di olio e, soprattutto, da tutti i vari tios e tias che popolavano i quartieri della città. Hillel era contento del cambio di cognome. Nella scuola ashkenazita che aveva cominciato a frequentare Amir era più apprezzato di Amarillo, anche secondo il parere della maestra Zipporà. Nella scuola abbondavano i nomi che emanavano profumo di primavera: Nurit, Rakefet, Aviva, Chamuda, Vered, Oren e Tal.


Una sera, dopo una giornata dura passata a curare feriti, una giornata di amputazioni e di morti impossibili da evitare, il dottor Barzel, con in testa il berretto bianco da chirurgo, simile a quello di un macellaio, e l'odore di disinfettante appiccicato addosso, nel corridoio passò davanti a un gruppo di uomini in preghiera. Uno di loro gli chiese di indossare un tallèt e di unirsi alla recitazione dei salmi e delle preghiere per i defunti.

La collera che aveva accumulato durante tutto il giorno, che aveva trattenuto con difficoltà per non esplodere in urla e lacrime, esplose improvvisa:

«Non spreco il mio tempo in preghiere» disse in tono di scherno ad un vecchio; ma quello non si offese.

«Dottore, se vi presenterete davanti al tribunale celeste, sia pure a centoventi anni...».

«Se mai dovessi arrivare lassù, cosa di cui dubito molto, dirò a chi è responsabile di questo orrore cosa penso esattamente di lui. Perfino un bambino dell'asilo avrebbe disposto le cose con molta più compassione. C'è invidia lassù, ecco cosa c'è, e non c'è alcun Dio a cui rivolgersi. Siete ridicoli. Provo disprezzo per voi e per tutto ciò che fate. Andate piuttosto ad aiutare le infermiere a lavare il pavimento nella stanza del pronto soccorso».

«Non è dato all'uomo di conoscere tutte le sue intenzioni» disse il vecchio cercando di placarlo.

«Se ha delle intenzioni che non desidera far conoscere allora è semplicemente un cattivo comandante».

«Il dottore ha lavorato duramente per salvare delle vite,» disse un giovane studente «non si deve biasimare un uomo quando ha ancora i morti davanti a sé. Che il peccato del dottore possa essere perdonato».

«Ma di quale peccato parli?» Barzel si avventò contro di lui e mancò poco che lo aggredisse «Che parola è? La si può pronunciare anche al contrario: otaccep, otaccep, e allora?».

«Il dottore non sa cosa è il peccato?» chiese il vecchio con meraviglia.

«Lo so, lo so» rispose agitando le sue grandi mani lentigginose come una grande gru rossiccia. Aveva la mente stanca e non voleva più rimanere in mezzo a loro. Uscì nel giardino dell'ospedale immerso nell'oscurità della sera e accese una sigaretta. Le sue scarpe erano ancora sporche di sangue.

«Bisognava passare dalla teoria alla pratica» disse a se stesso con una sensazione di caos. «Tutti noi dobbiamo farlo». In una certa misura aveva già effettuato questo passaggio studiando medicina; ma là c'erano ancora degli spazi di redenzione personale, c'erano per tutti; la medicina non era in contraddizione con la formazione dell'anima, cosa che agli occhi del professor Barzel era sempre apparsa una cosa totalmente astratta.

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