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| << | < | > | >> |Pagina 3Luglio 1988.La seconda sera che trascorsero nel porto del Bahrein un qualche assistente dell'ammiraglio decise che quelli della Vincennes si meritavano come minimo un pacchetto di sigarette a testa. Il gesto fu ben accolto finché la mensa e i distributori automatici non terminarono le scorte, lasciando a una cinquantina di uomini tra soldati semplici e sottufficiali la sensazione di essere stati privati dell'unico riconoscimento offertogli per quel che avevano passato. Alcuni di loro, decisamente sbronzi, si stavano già aggirando nei pressi dello spaccio, sostenendo che bisognava aprirlo perché una promessa era una promessa. Rendendosi conto che il problema era serio, l'assistente dell'ammiraglio prese da parte Vrieger, gli allungò una busta di banconote di piccolo taglio, e gli disse che al cancello lo aspettavano una jeep e un autista. - Lo spaccio sulla al-Budayyai dovrebbe essere ancora aperto. Prendi quel che puoi. Anche delle mentine se è il caso. Ma vedi di fare in fretta. - Andiamo, Fanning, - disse Vrieger. - Facciamo un giretto. - Ma io ho le mie, - rispose Doug, mostrando il suo pacchetto di Carlton mezzo vuoto. Le tre o quattro birre che si era scolato lo avevano sedato a dovere e ora, seduto su quella panca accanto alla mensa ufficiali, cercava soltanto un po' di riposo. - Non si tratta solo di te. Sollevando a fatica lo sguardo dal pavimento di linoleum, Doug vide incombere su di sé la faccia da luna piena del suo capitano di corvetta. Era tutt'altro che bello, con occhi troppo piccoli per l'ampia circonferenza della testa, bocca grande e mascella pronunciata. Gli occhiali quadrati con la montatura metallica accentuavano l'aspetto da persona di mezza età, anche se in effetti, con i suoi trentun anni, era solo una decina d'anni piú vecchio di lui. Vrieger era l'unico in tutta la marina militare a sapere qualcos'altro sul conto di Doug oltre alla città di provenienza e le basi in cui era stato addestrato, e questo doveva pur contare. Issandosi lentamente dalla panca, Doug segui Vrieger attraverso la porta che dava sul retro. Fuori, la temperatura era scesa intorno ai ventisette gradi, ma l'aria era ancora umida e striata dell'odore dei gas di scarico. A un miglio di distanza, in mezzo alla pianura desertica, le guglie e i minareti della Grande moschea si innalzavano alla luce dei riflettori contro il vuoto del cielo notturno. L'avamposto navale di Juffair non eia che un'isoletta, una piccola area di servizio nel Golfo Persico, pochi chilometri quadri di costruzioni allineate all'estremità sudorientale del porto di Manama. Se tutto fosse andato secondo i piani, Doug avrebbe dovuto congedarsi e ripartire proprio da li per gli Stati Uniti. Ma adesso chissà come sarebbe andata a finire? Si lasciò cadere sul sedile posteriore della jeep, non proprio sdraiato ma neanche seduto. - Dove andiamo? - domandò l'autista mentre procedevano lungo la logora strada a due corsie che portava alla capitale. - Dirigiti verso il centro, - rispose Vrieger. - Avete fatto una bella cagnara, eh, ragazzi? - Questo qui parla come se avesse quindici anni. Ehi, tu, parli come uno di quindici anni, - gli gridò Doug. - No, signore, ne ho diciotto. - Non c'è stata nessuna cagnara, - ribatté Doug. - Niente cani, e niente cagnara. - Silenzio, - ordinò Vrieger, e sporgendosi fin quasi a sfiorare la faccia dell'autista gli domandò se stavano per caso rispettando un qualche limite di velocità. La jeep accelerò di colpo. Sprofondando ancora piú in basso nel sedile per ripararsi la faccia dal vento, Doug chiuse gli occhi. Era stato tutta la mattina al telefono con un tizio del Centro armamenti navali della Virginia a riascoltare i nastri della Vincennes, poi tutto il pomeriggio con quelli della commissione di indagine, che gli avevano ripetuto mille volte le stesse domande: Quando l'aereo è apparso per la prima volta sul monitor di Siporski, come ha reagito il capitano di corvetta Vrieger? Ha chiesto il codice di identificazione. E qual è stata la risposta? Codice 3. Quindi alla prima richiesta di identificazione avete ottenuto il codice corrispondente a un volo civile, giusto? Sí. Avanti cosí per ore, a ripetere ogni sua risposta in forma di domanda, come se non capissero una parola di quel che diceva. E tutto senza uno straccio di commento, che so, qualcosa tipo «dev'essere stata tosta», senza neanche una stretta di mano all'inizio. Doug gli aveva detto la verità. A ogni loro domanda, aveva risposto dicendo la verità. I nastri li avevano sentiti. Sapevano benissimo che cosa aveva visto sul suo monitor e che cosa non aveva riferito. Eppure non gli avevano mai domandato quali informazioni avesse trasmesso a Vrieger, come se sapessero fin dall'inizio che storia volevano raccontare. A casa, probabilmente, i Comandi congiunti dell'esercito avevano già cominciato a travisare i fatti. Il contatto si è verificato in acque internazionali. Falso. La Vincennes aveva il compito di proteggere una petroliera battente bandiera statunitense. Falso. Il ragazzo al volante faceva lo slalom tra le buche, la jeep ondeggiava dolcemente qua e là, e la radio suonava una canzone dei Journey. La stessa canzone che Doug aveva ascoltato sull'auto di un amico nel parcheggio di un centro commerciale di Alden, Massachusetts, la settimana prima di partire per arruolarsi in marina. Ad ascoltarla ora - quel grande inno da stadio del rock con la chitarra alle stelle, la voce dura e lacerata del cantante che raccontava con rabbia l'amore perduto e il danno irrimediabile - si immaginava sua madre sola in casa, e per un istante pensò che sollievo sarebbe stato se la jeep avesse sbandato troppo in là nella corsia opposta, e magari si fosse scontrata con un camion che viaggiava a fari spenti, e vide con gli occhi della mente l'esplosione che li avrebbe consumati, una deflagrazione istantanea, come quando un missile partito da una nave centra un aereo. Ma un pensiero cosí era segno di debolezza. Lui non voleva essere debole. Tre anni erano passati da quando era partito da Alden senza dire una sola parola a sua madre. E benché nelle ultime ventiquattr'ore, da quand'era successo il fatto, fosse stato tentato di chiamarla, aveva intuito che facendolo sarebbe stato obbligato a dar conto di se stesso, mentre in realtà tutto quel che voleva era raccontare la storia a qualcuno. A qualcuno che non fosse lí. La mattina precedente era stata come tante altre. Caffè e cereali nel quadrato, poi una passeggiata sul ponte di poppa, prima che la temperatura superasse i trentasette gradi e i parapetti si scaldassero al punto da non poterli piú toccare. Sporgendosi a guardare l'acqua aveva visto galleggiare sulla schiuma le pance lattescenti delle meduse rivoltate faccia al sole dalla scia della nave, mescolate alla spazzatura gettata fuoribordo dalle petroliere. Durante il viaggio di andata, nel bel mezzo del Pacifico, aveva compilato l'ennesima domanda di iscrizione al college, piú alcune lettere destinate alle banche e alle società di intermediazione da cui sperava di farsi assumere durante gli studi, anche soltanto per star dietro a uno sportello o smistare la posta se non avevano niente di meglio da offrirgli. Di solito chi era prossimo al congedo si cercava un impiego presso le aziende private che operavano nell'ambito della difesa, nel settore elettrotecnico o roba simile; ma lui voleva di piú, e l'aveva sempre saputo. Nel buio della postazione di comando tattico, il suo turno era cominciato in tutta tranquillità, nulla da segnalare sul suo monitor e neanche su quello di Siporski a parte un P-3 iraniano in pattugliamento lungo la costa e alcuni voli commerciali a breve raggio, partiti da Bandar Abbas e diretti a Doha o Dubai. Dal giugno precedente la Vincennes era stata assegnata all'operazione «Earnest Will», con il compito di scortare le petroliere kuwaitiane attraverso lo stretto di Hormuz. Il Kuwait era il principale alleato di Saddam nella guerra contro l'Iran, e la quinta flotta degli Stati Uniti era stata incaricata di proteggere le navi kuwaitiane dagli attacchi delle cannoniere iraniane. Ufficialmente gli Stati Uniti avevano assunto una posizione neutrale nella guerra Iran-Iraq, ma lo sapevano tutti che il nemico erano gli ayatollah: quelli che avevano preso in ostaggio gli americani nel '79, quelli che avevano fatto saltare in aria la caserma dei marines a Beirut. | << | < | > | >> |Pagina 302.Erano mesi che Charlotte Graves si sforzava di non guardare la nuova costruzione. E tuttavia, com'era possibile che gli occhi non cadessero nella trappola di quell'enormità? Era fatta apposta per attirare l'attenzione. Mentre scendeva con i cani al guinzaglio il mattino successivo, la vide per l'ennesima volta: un'immane, ingombrante massa candida con un corpo centrale a tre piani, due ali laterali e un'ulteriore protuberanza che secondo qualcuno doveva essere una veranda o un porticato chiuso da vetrate. Il tutto sormontato da una cupola delle dimensioni di un piccolo padiglione da orchestra, affiancata da due pingui comignoli di mattoni. L'enorme ingresso padronale era incorniciato da un portico a colonne. Ai lati di quest'ultimo, lungo la facciata principale, si estendeva una bordura di cespugli di tasso attorniati da scaglie di corteccia fresche di posa. Somigliava, con ragionevole approssimazione, a un country club appena aperto, e in effetti quelle aiuole ovali ancora vuote ritagliate dal tappeto erboso di importazione come da un cartoncino verde brillante, e il prato rasato a strisce perfettamente parallele senza neanche un'erbaccia di passaggio, facevano pensare a un campo da golf. Un giorno, in coda alla farmacia, Charlotte aveva sentito un agente immobiliare definirla «una residenza di campagna in stile neoclassico». Aveva preso il posto dei boschi che il nonno di Charlotte aveva donato alla città affinché fossero preservati. Un obbrobrio con i muscoli gonfiati. Nell'ultimo anno, mentre i lavori di costruzione andavano avanti, si era sforzata di rammentare a se stessa che quella casa era soltanto l'estrema, esasperante avanguardia di un'invasione ben piú massiccia, iniziata decenni addietro con lontane avvisaglie e sparsi avvistamenti: un passeggino di foggia inusitata tra gli scaffali della biblioteca, un'ansia crescente per gli apporti calorici al banco della macelleria. Da ultimo erano arrivate le auto giganti, che sembravano fatte apposta per montarci le mitragliatrici, come se quei marmocchi che ti guardavano truci dai loro seggiolini non vedessero l'ora di fare fuoco. Erano anni che i telegiornali parlavano di attentati in Medio Oriente - ma non solo: adesso avevano colpito anche la cara, vecchia New York - e degli uccelli da preda che l'America aveva scatenato a mo' di rappresaglia, ma nessuno accennava mai alla sopita violenza che ribolliva negli sguardi dei giovani benestanti. Charlotte se n'era accorta a scuola, dalle frasi acuminate dei suoi alunni, trasformati in spade taglienti nelle mani dei loro padroni. Appena aveva osato parlarne apertamente il preside era andato all'ufficio pensioni e si erano sbarazzati di lei. Quasi quarant'anni a insegnare la Storia a generazioni di ragazzi, e alla fine l'avevano sbattuta fuori perché aveva detto la verità. Con i Bennett nella casa a fianco e i boschi dall'altra parte, Charlotte si era sempre sentita abbastanza al sicuro dall'invasione. La sua casa, la vecchia casa di famiglia, era diventata una specie di fortino. Dopo tanto tempo, i ricordi contenuti in essa non erano piú né un conforto né un tormento per lei. Erano semplicemente tracce degli esseri con i quali aveva condiviso quel luogo. Poco per volta, tutto quel tempo passato in solitudine aveva consumato la rigida scorza dell'io che per tanti anni si era chiusa a pugno di fronte alla solitudine, ma che ormai non aveva di che alimentarsi. Non piú nutrita dalle altrui barriere, la paura degli estranei tendeva ad avvizzire. La membrana che la separava dal mondo era diventata permeabile. E benché avesse sopito l'ansia dei suoi primi anni, quand'era ancora sposata con la storia del suo matrimonio, quella mite dispersione l'aveva poco a poco dischiusa a un terrore piú profondo, anche se meno privato. Si immagini, ad esempio, non il pensiero ma l'accidentale intuizione di ogni anima in bilico su questo pianeta, ora dopo ora. Impossibile sopportarla per piú di un minuto senza annientare l'integrità della propria mente individuale. Perciò si accolgono pochi destini alla volta, sperando che i paraocchi tengano. Con i cani al suo fianco, ce la faceva a malapena. Che conforto era per lei la loro bisbetica presenza, quando l'ottusa moltitudine umana insisteva nel farsi le proprie ragioni. Prima che i lavori di costruzione della casa cominciassero sul serio c'erano state motoseghe ed escavatori, e alberi trascinati sulla strada come cadaveri. Poi motori di bulldozer, betoniere, pistole sparachiodi. Si era chiusa in casa, incapace persino di guardare. Avevano rimosso una tale quantità di terra, che persino la pendenza del terreno era cambiata. Il filare di aceri che avevano lasciato sopravvivere in cima alla collina, dove adesso la visuale era libera fin giú alla sponda del fiume, non era riuscito a nascondere il nuovo cantiere neppure con i rami pieni di foglie; al ritorno dell'autunno, la nuda ossatura lignea della casa in costruzione si era vista chiaramente attraverso i rami spogli. Con l'esperienza di un'insegnante che ben conosceva la grettezza della pubblica amministrazione, Charlotte avrebbe dovuto saperlo che presto o tardi la città avrebbe tradito gli accordi presi con il nonno. Magari suo padre avrebbe potuto fare qualcosa in proposito. Graniticamente fedele alla legge, aveva perseguito senza tregua ogni illecito. Episcopale per nascita, presbiteriano per temperamento, morigerato come un quacchero e laico fino al midollo, suo padre avrebbe sicuramente trovato il modo di fermare quegli imbecilli. Ma non Henry; lui no di certo. Dopo essersi brevemente consultato con il piú giovane titolare dello studio legale Cott e figlio, il fratello minore di Charlotte aveva suggerito che se proprio la faccenda le riusciva tanto insopportabile, forse era giunto il momento di vendere la casa e scegliere una sistemazione, per cosí dire, piú pratica. Dunque era rimasta sola a combattere quella battaglia. Sulle prime era stata cosí ingenua da tentare la via della persuasione, indirizzando lettere a consiglieri comunali e quotidiani locali. Avendone ricavato nient'altro che una serie di cortesi repliche, Charlotte si era messa a raccogliere firme fuori del supermercato e a ragguagliare i passanti sui progetti del comune. Appena qualche anno prima, molti si sarebbero fermati se non altro a salutare. Dopo tutto era stata la loro insegnante, o l'insegnante dei loro figli, o tutt'e due. E invece adesso la guardavano con compassione. Con i bilanci non si scherza, avevano detto al comune. Erano profondamente dispiaciuti di dover mettere all'asta un lotto di terreno. Tuttavia il referendum per i finanziamenti alla scuola era stato bocciato dalle urne, pertanto si vedevano costretti ad alienare una parte di patrimonio. Al diavolo le promesse infrante. Al diavolo la stupida, superficiale miopia del tutto: come se un incasso una tantum bastasse a coprire le spese di un anno. Cos'era ormai la pubblica amministrazione, se non una svendita sottobanco di pubblici interessi? Oh, ma quanto se ne sarebbero pentiti! Perché Charlotte aveva finalmente preso la decisione che andava maturando da anni: licenziare quell'incompetente doppiogiochista del giovane Cott, il figlio del vecchio avvocato di famiglia che solo in apparenza aveva tentato di opporsi all'avidità della giunta; dopodiché era andata di persona a rovistare negli archivi del comune. E lí aveva scoperto la menzogna di quegli imbecilli. Il giovane Cott aveva detto che non c'era modo di adire le vie legali. Ma si sbagliava: ora Charlotte avrebbe fatto causa al comune. E non le serviva un avvocato per presentarsi davanti a un giudice. Avrebbe sgominato quei mascalzoni senza l'aiuto di nessuno. Anche se ormai era tardi, e gli alberi ormai abbattuti, e quella mostruosità ultimata, come le sarebbe parsa dolce la vittoria quando alla fine avrebbe sfrattato quel bellimbusto e raso al suolo la sua casa. | << | < | > | >> |Pagina 865.Il liceo di Finden, un parallelepipedo di mattoni rossi con le finestre ad arco e un grande orologio al centro di un tozzo pinnacolo, era stato costruito nel 1937 nell'ambito di un programma di opere pubbliche. Come molti edifici del genere, la sua sostanziale mediocrità era solo parzialmente compensata da qualche fronzolo art déco: gli arabeschi di acciaio intorno alle entrate principali o le linee a zigzag scolpite sotto il quadrante modernista dell'orologio. All'arcigna funzionalità di un edificio industriale, i suoi progettisti non avevano aggiunto che una vaga ombra di stile. Di fronte alla scuola, sul lato opposto di Wentworth Street, una distesa di campi sportivi scendeva fino al fiume. Poco lontano dal campo da calcio vi era il luogo, evidenziato da una targa commemorativa e da una panchina, ove secondo la locale Società per la tutela dei luoghi storici erano approdate le prime famiglie di origine europea, salpate da Boston a bordo delle loro canoe negli anni Trenta del XVII secolo. Stando alle cronache del tempo, i coloni avrebbero voluto attribuire a quel solitario territorio di caccia dei pellerossa algonchini il nome di «Contentment», ma il tribunale generale del Massachusetts, animato da intenti piú pratici, aveva respinto la proposta e battezzato la nuova comunità con il serio toponimo inglese di Finden, meglio intonato ai recenti agglomerati di Roxbury, Gloucester e via dicendo. Come ogni autunno si rammentava agli studenti riuniti per la lezione collettiva sulla storia locale (ovvero, beccati 'sta predica e sentiti un verme), che uno dei primi gesti ufficiali della nuova collettività era stata proprio la fondazione di una scuola pubblica, che da allora, preservandosi intatta nel monotono dipanarsi della storia cittadina, aveva sempre affiancato l'originaria comunità poi diventata avamposto commerciale indi centro agricolo e infine quartiere residenziale del XX secolo. Da qualche anno i richiami dei conferenzieri al contributo delle popolazioni native tendevano ad ampliarsi, ma la filippica si concludeva sempre e invariabilmente con un'orgogliosa menzione dell'alta percentuale di ex studenti iscritti ai corsi universitari quadriennali, circostanza che gli studenti erano caldamente invitati a correlare, attraverso le nebbie del tempo, all'ardimentoso viaggio anticamente intrapreso dai pii e coraggiosi coloni. Ma ecco che, nella primavera del 2002, uno studente di nome Nate Fuller sembrava voler offuscare la gloria di quelle statistiche. L'autunno precedente non aveva presentato neppure una domanda di ammissione al college, e in primavera si era ben guardato dall'interpellare le facoltà che non avevano ancora chiuso i termini. Il suo tutor lo aveva cercato piú volte, chiedendogli notizie di progressi che Nate era ben lontano dall'aver fatto. Né tanto meno aveva pensato a come sfruttare un eventuale anno sabbatico per incrementare le opportunità di ammissione l'autunno successivo. A detta dei suoi insegnanti, stava né piú né meno andando alla deriva. Lo si incrociava spesso nei corridoi: un diciassettenne dall'incarnato latteo in pantaloni color cachi e felpa blu con il cappuccio, capelli lunghi sulle orecchie e occhi gonfi di sonno. Suo padre era morto il settembre precedente, e Nate era mancato da scuola per tre settimane. Non aveva mai recuperato il terreno perso durante l'assenza, non era mai andato a chiedere informazioni in qualche università e non aveva mai scritto una riga sui suoi progetti futuri. Ciononostante, a dispetto di una generica aria di spossatezza, Nate possedeva ancora la mutevole qualità dei giovani, eternamente in bilico tra mugugno e sorriso. E benché gli importasse assai poco della scuola, aveva promesso a sua madre di far visita all'insegnante di Storia che la sua prof gli aveva indicato, esortandolo a prendere ripetizioni se ci teneva a passare l'esame del corso avanzato. In una nuvolosa giornata di metà aprile, dopo l'ennesimo inconcludente colloquio con il suo tutor, Nate varcò un'uscita posteriore della scuola e attraversò il cortile in direzione di Pratt Road, costeggiando i prati ancora umidi per la pioggia mattutina. Di solito il venerdí pomeriggio era il momento migliore della settimana, un preludio all'agognata libertà, ma oggi gli toccava sorbirsi la prof di Storia. Avrebbe potuto darle buca e raccontare a sua madre che c'era andato, ma attuare quell'inganno comportava comunque un dispendio di energie, perciò tanto valeva dedicarci un'ora. Vuoi per il nuovo impiego di sua madre alla biblioteca, vuoi per il costante impegno di Nate nel restare fuori casa fino a tarda sera, i due non si vedevano granché ultimamente. Durante i rari pasti condivisi, Nate accettava di buon grado il distacco di sua madre, la sua palese disattenzione, le risposte spesso incongrue: brevi ragguagli sulle vicende di amici o parenti, ricordi di viaggi passati. Solo cosí era tollerabile stare insieme. Assenti entrambi, ognuno a suo modo. Le difficoltà sorgevano quando, all'occorrenza, lei gli sottoponeva una realtà tangibile - un voto, un certificato sanitario - alla quale sentiva un'improvvisa, estemporanea necessità di commisurare il proprio ruolo genitoriale. Allora diventava impossibile evitarsi, e tutta la fatica che lei faceva da un anno a quella parte per tenere insieme le loro vite, mantenere la casa e pagare le bollette si riversava nella sua voce intrisa di panico, di colpo tramutando un'evenienza per quanto piccola in una questione di vita o di morte. Incapace di reggere quei momenti, Nate acconsentiva a qualsiasi richiesta purché entrambi potessero tornare a voltarsi le spalle. Appena un anno prima il padre di Nate era in piena euforia: veniva a prenderlo a scuola a mezzogiorno e lo portava a pranzo al Four Seasons, o in una qualunque sera di metà settimana lo scarrozzava sino in fondo a Cape Cod a bordo di una vecchia Rolls-Royce per mostrargli il riflesso della luna sulle acque scure dell'Atlantico. Sapendo che a casa sua madre era in ansia e neppure immaginava dove fossero, Nate trovava assai difficile godersi quei momenti, per quanto suo padre ne fosse entusiasta. Era un anno e mezzo che aveva perduto l'ultimo incarico da consulente, e Nate lo sapeva che erano quasi al verde. I suoi torrenziali monologhi sulla prossima attività che avrebbe intrapreso lo travolgevano con forza quasi materica, come schegge di vetro portate dal vento. La minuzia con cui suo padre prospettava opportunità e finanziamenti, descritti e calcolati fino all'ultima cifra, era un vero e proprio tormento. Quell'energia indomabile era durata sei mesi. Un giorno, a metà giugno, suo padre era rincasato e si era messo a letto, restandoci quasi tutta l'estate, salvo occasionali sortite in garage o in cantina per sottrarsi alla calura. Mangiava poco e parlava a malapena, e intanto la madre di Nate si sforzava di fingere che tutto andasse come al solito. Alla fine, recuperata un po' di energia, aveva ripreso a uscire di casa, concedendosi lunghe passeggiate sui sentieri della riserva naturale. Partiva prima dell'alba e rientrava verso l'ora di pranzo. Il giorno in cui non era tornato la signora Fuller aveva chiamato il supermarket dove Nate lavorava dopo la scuola e gli aveva chiesto di andare a cercarlo. Inoltratosi nel bosco per circa un quarto di miglio, Nate era arrivato al punto in cui l'acquedotto attraversava la palude, sorretto da una struttura in cemento punteggiata dai graffiti dei ragazzi che ci venivano a bere nei fine settimana. Lui e suo padre avevano attraversato quel ponte centinaia di volte, gironzolando senza meta nei pomeriggi del sabato, esplorando tratti del fiume sui quali gli sarebbe piaciuto navigare se avessero avuto una canoa. Prima di allora Nate non si era mai fatto domande sul loro idillico cameratismo: era così da sempre, tutto qui. Attraversò il ponte e prosegui lungo il sentiero che seguiva il crinale inoltrandosi nella foresta. La riserva naturale si estendeva ancora per circa un miglio, fino alla strada che ne costeggiava il margine opposto. Non erano in molti a spingersi a piedi sin lí, quindi a Nate era parso normale che il sentiero fosse deserto. Ma non aveva proseguito a lungo. Non aveva percorso tutto il viottolo che conduceva all'acqua; e tornando indietro non aveva guardato sotto le arcate del ponte né esplorato la riva del fiume come avrebbe potuto, eventualmente, fare. Si era affacciato alla nera, ferrea sponda del ponte e aveva guardato in lontananza verso le foglie agitate dal vento, pensando tra sé che suo padre doveva smetterla di far preoccupare cosí tanto la mamma. Il mattino successivo, il sergente di polizia era rimasto sul vago. «Dalle parti dell'acquedotto», aveva detto alla madre di Nate che voleva sapere dove il marito si fosse impiccato. Quando, non l'aveva indicato. E cosí Nate non aveva potuto sapere se era ancora vivo mentre lui lo cercava, talmente a disagio da non osare neppure chiamarlo a voce alta. Dei mesi successivi, Nate non ricordava granché. I suoi migliori amici lo avevano trattato con i guanti per un paio di settimane, poi per fortuna avevano ricominciato a coprirlo di merda come al solito, e la sua vita era tornata a essere almeno una parvenza di quel che era prima. | << | < | > | >> |Pagina 146Ancor prima di laurearsi o poco dopo, le sue compagne di università avevano quasi tutte trovato marito. Studenti di Amherst e del Williams sbarcati in quattro o cinque da una macchina per le feste da ballo del college femminile, lunghi discorsi sui minimi sistemi; giovani gentiluomini che scopiazzavano i padri, piccoli lord del feudo finanziario tutti villeggiature e banche. Ragazze che in aula dissertavano di Shakespeare o dell'antica Roma, ora accoglievano pazienti una moina dopo l'altra, annuendo e sorridendo, mentre i maschietti occhieggiavano qua e là altre offerte disponibili: Charlotte si vergognava per le sue compagne e per se stessa. Forse i ragazzi non l'avvicinavano perché non attirava gli sguardi, era un po' troppo alta, né bionda né carina in modo classico, ma di certo la sua aria di sfida era un buon deterrente. Se qualcuno attaccava discorso, lei ostentava cultura invece di nasconderla, e sciorinava un'analisi critica delle sue ultime letture. Il suo orgoglio era un'alta merlatura, remota e inespugnabile.E tanto piú le era parso necessario in seguito, ritrovandosi sola nel vasto mondo. Seduta alla sua scrivania nella sala consultazione della biblioteca di New York, spesso incontrava gli sguardi ammiccanti degli uomini di mezz'età. In metropolitana facevano anche di peggio. - Ti senti un po' sola, eh? - le aveva chiesto sua madre al pranzo del Ringraziamento, l'autunno in cui aveva iniziato il master alla Columbia. - Tutto quel tempo chiusa in casa a studiare? - E tu invece, quanto ci stai chiusa in questa casa? - aveva ribattuto, provocando silenzio e uno sguardo raggelante. Invece suo padre capiva; l'aveva sempre incoraggiata. - Cerco solo di essere pragmatica, - azzardava la madre, giustificando le proprie ansie sul futuro di Charlotte. Henry, cinque anni piú giovane, si era era già laureato e faceva pratica in uno studio legale, e per finire in bellezza si era sposato con Betsy, conosciuta un'estate durante una gita a Cape Cod. Il matrimonio era stato celebrato a casa dei genitori di lei a Hyannis, tutto tendoni bianchi e bon ton episcopale: dai bloody mary ai colletti inamidati fino alla gioia contenuta e quasi umile nel brindisi del padre e nello sguardo della madre, mentre Henry prendeva a braccetto la sposa e la guidava al parquet per il primo ballo. O l'ultimo, si era detta Charlotte. Dopo le quadriglie e le feste di fine anno e i debutti in società, quello era il ballo che ti inchiodava per sempre. Henry era stato felice di recitare il suo ruolo nella farsa in costume, nel sogno femminile tradotto in realtà: e poi in fondo che gli costava, e sua madre era cosí contenta (a decenni di distanza, Ralph Lauren e soci avrebbero riprodotto su cataloghi patinati le fogge dei loro abiti, resuscitando in fantasia commerciale il nitore di quell'epoca lontana). Al ricevimento Charlotte era seduta accanto al fratello della sposa, proprietario di una concessionaria Cadillac, uno che ovviamente non aveva mai letto Appuntamento a Samarra. Henry, va detto a suo merito, non si era unito allo stucchevole coro degli «Ora tocca a te». E dopo per Charlotte c'erano stati tre anni di studio: seminari, lezioni extra, il lavoro alla biblioteca, un po' di letture alla sera. I suoi amici erano gli altri specializzandi del Dipartimento di Storia, piú due o tre compagne di università che vivevano ancora a New York. In facoltà, la sua condizione di single non faceva lo stesso effetto che in famiglia. Il tempo aveva uno scopo anche senza un compagno. Eppure la solitudine le pesava, di tanto in tanto. Malgrado gli sforzi, non riusciva a liberarsi dalla schiavitú del sabato sera e dal bisogno di avere qualche impegno nel weekend. Se non riusciva a organizzarsi in tempo e si trovava sola, i dubbi che la mente concentrata rintuzzava si insinuavano in lei, e udiva la voce di sua madre. Libri e riviste sparsi sul tavolo della cucina erano zeppi di parole senza vita, morte quanto le epoche che descrivevano. Però durava poco: c'era sempre una relazione che imponeva altre letture, altre ricerche, e le prospettive si riaprivano, restituendo al mondo un senso di interezza; nell'ordine sociale e politico dell'Europa del Seicento vedeva sempre piú chiara la struttura del presente, coglieva l'ordine segreto delle cose. Ma vai a spiegare una cosa del genere al figlio dell'amica di tua madre, seduti in un bar sulla spiaggia davanti a un gin-tonic. Eh, no, Chuck, non gioco spessissimo a squash. Vedi, sono una mistica laica, che cade in estasi di fronte alla grandezza dell'umana conoscenza. Ah, non ci credi? Be', fidati. In città frequentava uomini quasi sempre sposati, o scoraggiati dalla sua scarsa deferenza. Era stato d'inverno, a una festa a casa di un docente della Columbia, che aveva incontrato Eric. Conosceva quasi tutti: altri specializzandi, assistenti dai quali era stata a lezione o che aveva sentito parlare. Quando lo aveva notato lui dava le spalle alla stanza, osservava la libreria allungando il collo a leggere i dorsi. Voltandosi aveva incontrato per caso lo sguardo di Charlotte e le aveva sorriso, timidamente, prima di mettersi a studiare il fondo del bicchiere. C'era qualcosa in quei riccioli castani che ricadevano sopra la fronte, nella carnagione lattea e nell'ampia mascella con appena un accenno di barba, qualcosa che attirava lo sguardo. Quel pomeriggio, seduta alla sua scrivania nella stanza che dava sul retro, alla fioca luce del cortile, aveva finito quello che all'epoca giudicava il suo miglior lavoro: un saggio sul ruolo di Milton nel consiglio di Stato di Cromwell, frutto di un anno intero di ricerche. Era soddisfatta di aver finalmente terminato, dopo tanti scrupolosi rinvii. Eric sembrava un po' piú giovane di lei: poteva avere venticinque anni. Seguendolo con gli occhi, l'aveva individuato qualche minuto dopo dalla parte opposta della stanza e si era avvicinata per presentarsi. Credeva in quel genere di gesti egualitari, e stavolta aveva bevuto abbastanza per farlo davvero. Quella sera avevano parlato per due ore filate, seduti sulla panca del bovindo, con l'Hudson che scorreva in lontananza tra i rami spogli degli alberi. Dopo un breve momento di imbarazzo, lui era partito di slancio saltando a piè pari i convenevoli, evitando di chiederle chi fosse e come mai fosse lí, pretendendo con urgenza di sapere cosa avesse letto di recente, «le cose migliori», aveva detto, «quelle che ti cambiano dentro», e non soltanto saggi di Storia ma anche romanzi, articoli di giornale, poesie. E poi, tramite e oltre le letture, aveva voluto conoscerne i pensieri, certo senza ombra di dubbio che le sue idee avessero integrità e importanza pari ai libri che avevano contribuito a plasmarle. Il suo bisogno di ottenere tutte quelle informazioni sembrava quasi animalesco, come se lei lo nutrisse elaborando i propri pensieri. All'inizio Charlotte era parsa esitante. Era abituata a discutere sugli argomenti dei seminari, ma nessuno le aveva mai chiesto opinioni di tale ampiezza. Rispondendo alle sue domande, certe idee a lungo abbozzate si mettevano finalmente a fuoco. La semplice fede degli antichi protestanti era ciò che l'estate precedente, ad Amsterdam, l'aveva fatta restare di sasso davanti al quadro di Vermeer che mostrava un esterno di vita quotidiana - la facciata di mattoni della casa del mercante, la nuvola grigia, le donne intente alle loro faccende. E questo si ricollegava chissà come all'idealismo politico, all'importanza che lei dava all'uguaglianza, alla semplicità del principio stesso, e anche, in qualche modo, alla poderosa immagine dei soldati che a Little Rock avevano scortato una ragazzina di colore all'ordinaria incombenza della scuola. Aveva compreso allora, e ancor meglio in seguito, che gli altri (i belli, forse) sarebbero scoppiati a ridere nel sentirla confessare che mai come quella sera, seduta nel bovindo e vestita di tutto punto, senza sfiorare Eric neppure con un dito, si era sentita sessualmente viva. Capace di entrare nella prima stanza aperta, chiudere fuori la festa e fare l'amore con lui subito, se gliel'avesse chiesto. | << | < | > | >> |Pagina 16510.Nell'ultimo mattino di congedo dalla Atlantic Securities, Evelyn Jones era seduta alla finestra in casa di sua madre e contemplava il marciapiede sull'altro lato della Lincoln Avenue, e le auto che cominciavano a riempire gli spazi liberi di fronte alla Seconda chiesa battista. Una Cadillac grigia, presa a nolo per l'occasione, si fermò accanto al marciapiede per far scendere la zia di Evelyn, Verna, mano guantata protesa in alto a controllare cappellino e veletta. Zia Verna aveva appena compiuto sessant'anni ma era ancora ben snella, elegante, anzi quasi spavalda, quanto mai consapevole di un corpo che brandiva contro il mondo come un perpetuo monito a non lasciarsi andare. Torace piatto, stomaco quasi concavo, spalle arrotondate: un tronco da vespa, curvo e rigido. - È arrivata tua sorella, - disse Evelyn, voltandosi verso la penombra dell'appartamento. Sua madre, seduta sul divano, indossava il vecchio abito di taffetà nero che a memoria di Evelyn aveva sempre usato nelle occasioni importanti; dalla lieve scollatura si intravedeva la pelle raggrinzita sopra il seno. Le borse sotto gli occhi erano ben nascoste dal trucco. - Hai intenzione di arrivare tardi al funerale di tuo figlio? - domandò Evelyn. Sua madre corrugò lo sguardo, volse la testa al soffitto. - Non hai proprio pietà, - disse. Evelyn si avvicinò all'armadio e prese i loro cappotti. - Andiamo o no? In strada, la madre di Evelyn prese a braccetto sua figlia e sorreggendosi a lei varcò le porte della chiesa, incamminandosi lungo la navata fino al banco in prima fila dove zia Verna le stava aspettando. Il pastore girò intorno al feretro e scortò le due donne al loro posto. Quando tutti si furono seduti, tornò all'altare e diede il benvenuto. Mentre con ritmo lento e greve calava su di loro la preghiera introduttiva, Evelyn fissava la grande fotografia del fratello posta sul cavalletto accanto alla bara bianca e lucida, attorniata da ghirlande di iris e mughetti: Carson in toga rossa e tocco davanti al trito sfondo azzurro delle foto di diploma, il viso scarno quasi perso nell'assoluta banalità, generica promessa di un brillante futuro per la giovane preda. Era tutto quel che Evelyn era riuscita a trovare nel parapiglia della casa di sua madre. Vecchia di dieci anni, forse piú. Ora le dispiaceva di essersi data tanta pena. Sembrava disonesta, quella foto. Carson non era morto in uno di quegli incidenti che piacciono tanto ai mass media - in un autobus di ragazzi diretti a una gara sportiva, o ucciso da un'alluvione mentre stava salvando un vicino. Gli avevano sparato a metà pomeriggio nell'ingresso di una casa, e lo avevano lasciato lí a morire. Il pastore lo conosceva appena, e rappezzò un breve elogio dai pochi dati biografici forniti da Evelyn. Poi, come previsto, la zia Verna si alzò per parlare. - Mio nipote Carson Jones è morto, - esordí, le mani intrecciate al petto come se stesse parlando a un gruppo di allievi della scuola domenicale. - Un immondo peccatore lo ha ucciso. Dicono che quando se ne va una persona amata muore anche una parte di te. Ma non è vero. Niente di te muore. Sarebbe facile: amputi l'arto e vai avanti. Ma non è cosí che funziona l'amore. Quando una persona che ami muore, quella persona ti tormenta - sia chiaro, non voglio offendere i rituali della sepoltura, e so bene che l'anima di Carson è in compagnia degli angeli - ma è proprio cosí, la sua morte ti tormenta: lo spreco, l'idiozia di quella morte, il suo animo mite di ragazzo, l'amore che aveva per la sua famiglia... ecco, quell'amore ti tormenta. Ed è meglio che sia cosí se intendete percorrere le strade del mondo con gli occhi ben aperti. So che vi aspettate da me qualche parola di incoraggiamento, però non prendiamoci in giro. Il mondo è una belva affamata che si è ingoiata mio nipote senza pensarci un attimo. Diciamocelo: è stato ucciso per soldi. Per dei pezzetti di carta. È per questo che è morto. Certo, non era il denaro a presidiare le parti piú nobili della sua anima, tuttavia è il denaro che lo ha ucciso. Mi spiace dirvi tutto questo, mi spiace davvero, perché Carson era uno splendido giovane e il suo cuore era quasi sempre nel giusto, ma per quelli di noi che intendono continuare a vivere, e vi dirò che io sono tra questi, sappiate che è meglio non illudersi e del resto il Signore non vorrebbe che lo facessimo. - L'altra cosa che si dice sempre in queste circostanze è che morendo si va in Paradiso e quindi in un luogo di certo migliore, e credo di essere sostanzialmente d'accordo. Carson è volato in cielo, e sicuramente sta meglio di noi. Dio benedica sua madre e sua sorella, e possa mio nipote riposare in pace -. Ciò detto, sciolse la stretta delle mani e scese dalla pedana, mentre Evelyn sollevava la figura incurvata di sua madre quanto bastava perché la zia ritornasse al suo posto. Il pastore, colto alla sprovvista dal tono e dalla brevità dell'orazione, riprese posto davanti alla bara, e sfoggiando la sua miglior espressione contrita guidò i fedeli in una sommessa esecuzione dell'inno intitolato A Gesú tutto mi arrendo. | << | < | > | >> |Pagina 21013.Glenda Holland aveva deciso che la soluzione ideale era non muoversi da Finden fino al quattro di luglio e organizzare una festa grandiosa per tutti i loro amici e per i conoscenti verso i quali erano in debito. Jeffrey aveva rinunciato al viaggio a Capri che avevano progettato, la casa di Cape Cod era ancora in ristrutturazione, e la Florida era fuori discussione con un tempo cosí orribile. Senza contare che anche gli Harris erano in città, e cosí pure i Finch e i Muegler, e quei noiosoni dell'Associazione per la tutela del patrimonio storico che alla fine l'avevano costretta a staccare qualche assegno, e naturalmente quel disgraziato di suo figlio e quei mattacchioni dei suoi amici, e se era per questo anche i loro genitori, ammesso che volessero venire - dopo tutto, chi era lei per lasciarsi mettere in imbarazzo da un figlio che non riusciva a stare a galla nemmeno in una scuola pubblica? - e in aggiunta a tutto questo c'era il vantaggio che se Jeffrey avesse invitato dei clienti e qualche insipido dirigente della Union Atlantic, l'intero baccanale si poteva addebitare al conto spese di rappresentanza della banca. Essendo troppo tardi per inviare i memorandum, Glenda era passata direttamente agli inviti veri e propri, facendoli recapitare tramite FedEx in quantità doppia. Poi le era toccato sborsare dei soldi extra per convincere la società di catering a dir di no a un matrimonio, mollare una bustarella ai dipendenti dell'impresa che noleggiava i tendoni, e minacciare di boicottaggio il fiorista. Ma nel weekend precedente al quattro luglio, quando ormai cominciava a fare caldo sul serio, i fornitori si erano piú o meno messi in riga e il telefono squillava all'impazzata. Avendo cominciato cosí tardi si aspettava che metà degli invitati avesse già preso altri impegni, ma venne fuori che quell'anno la gente tendeva a evitare gli assembramenti nelle grandi città per paura di qualche attacco terroristico, e che pertanto l'invito era gradito. Lo chef stava pensando di arrostire un quarto cinghiale, e l'agenzia di lavoro interinale che era stata incaricata di gestire il parcheggio chiese di sgomberare il campo dalle pecore che Jeffrey aveva acquistato anni addietro per ottenere gli sgravi fiscali previsti per le aziende agricole a gestione familiare. Sembrava che tutto quadrasse. Tutto, meno i fuochi d'artificio. Non si trovava nessuno per i fuochi d'artificio. Gli enti locali rinnovavano i contratti di anno in anno, e le grandi aziende si erano prese tutto il resto. Lauren, l'assistente di Glenda, aveva perlustrato l'intero New England alla ricerca di qualcuno che avesse un fiammifero e un po' di esplosivo, ma era tornata con le pive nel sacco. Finalmente, quando ormai mancavano pochi giorni, Glenda si era praticamente buttata in ginocchio nel retro di un ristorante e per una cifra del tutto insensata era riuscita ad accaparrarsi un nipote della famiglia che ogni quattro di luglio sparava i fuochi dopo il concerto della Boston Pops Orchestra, promettendogli che avrebbe potuto dare sfogo al suo estro creativo. Il tre di luglio la casa era invasa dal personale delle varie ditte; Glenda si ritirò nella propria camera da letto, e mentre Lauren rispondeva a tutte le chiamate si rannicchiò sulla chaise-longue a meditare sulla lista definitiva degli invitati e sull'assegnazione dei posti a tavola. Sul tavolino accanto c'erano una mappa del grande tendone che avrebbe ospitato i tavoli e un piccolo cesto di bandierine bianche, sulle quali Lauren scriveva i nomi degli invitati man mano che Glenda li leggeva dalla lista. Dopo essersi inizialmente opposto a un'idea che giudicava intempestiva, Jeffrey aveva come al solito cambiato rotta non appena si era reso conto che il progetto stava decollando, e quindi aveva cominciato a diramare inviti in tutto il sistema solare e a dire a Glenda dove far sedere gli ospiti, presentandole infine una lista di industriali coreani e banchieri tedeschi spessa come una guida telefonica, proprio a lei che sulle consuetudini sociali di quella gente sapeva il nulla assoluto. - Che accidenti dovrei fare? - si domandò Glenda, sollevando la scheda del tavolo numero dodici e cercando nel contempo di muovere le labbra il meno possibile per non incrinare la maschera di guano d'anatra selvatica incrostata sulla faccia. - Mettere Sarah Finch accanto a un magnate brasiliano della canna da zucchero? Assurdo! Organizzo una festicciola tra amici, e guarda lui in che pasticcio mi mette! Martha, la segretaria di Jeffrey, appoggiava in vivavoce le istanze del suo capo, e grazie al suo apporto interi eserciti di finanzieri conquistarono ampie porzioni di terreno avanzando dalle neglette postazioni adiacenti alla cucina fino a lambire i confini del nucleo mondano dell'evento, solo per esserne nuovamente estromessi dalle ex compagne di liceo di Glenda e da una fascia-cuscinetto di notabili del paese, inopinatamente paracadutati in una specie di zona smilitarizzata e omaggiati di un posto di riguardo nei tavoli da uno a dieci. Seguí una fase di scontri ravvicinati, con Martha fermamente decisa a escludere che il direttore del Credit Suisse e consorte potessero intrattenersi in amabile conversazione con l'allenatore della squadra di badminton del liceo («Signora Holland, si rende conto che è la banca a pagare tutto?»), ma grazie a una serie di ripiegamenti tattici Glenda riuscí a tenere in scacco le piú fetide armate della noia, sistemando Jeffrey a un tavolo tutto suo con gli ospiti di assoluto riguardo e ricacciando gli altri verso la periferia. Verso le sette, quando lei e Lauren ebbero finalmente riordinato le schede dei tavoli inoltrandole al calligrafo incaricato di preparare i segnaposto, Glenda era definitivamente stremata. Un Martini, una Caesar salad con pollo, uno Stilnox, un paio di Tavor piú tardi, ed eccola pronta per una notte di sonno ristoratore in attesa del grande giorno. Il mattino successivo, poco dopo l'alba, l'autista del furgone che aveva consegnato i condizionatori mobili si scontrò durante una manovra in retromarcia con l'ultimo dei sei suv neri contenenti l'intera squadra di sicurezza della EverSafe International: meno di un secondo dopo il poveretto si vide circondato da una ventina di tizi in abito scuro della taglia sbagliata e occhiali neri a mascherina, che puntandogli addosso ogni sorta di arma, dalle pistole elettriche alle nove millimetri, gli gridavano di scendere dal furgone, mettersi le mani sulla testa e sdraiarsi a faccia in giú sull'erba innaffiata di fresco. Un annetto piú tardi gli Holland avrebbero scoperto con minimo cruccio e altrettanto minima spesa, prima che i loro avvocati componessero la vertenza in via extragiudiziale, che l'autista del furgone, tale Mark Bayle, era in effetti un veterano della prima guerra del Golfo la cui depressione da stress post-traumatico, già quasi guarita, aveva subito un'improvvisa riacutizzazione a seguito dell'incidente di quella mattina, cagionandogli sofferenza morale e fisica, ansia, e infine disoccupazione. All'epoca, tuttavia, l'effetto piú immediato dell'infortunio era stato il provocare in Glenda, risvegliata dagli schiamazzi, una crisi d'ansia da imminente evento mondano con circa sei ore di anticipo rispetto al previsto. Se a Jeffrey Holland non fosse stato chiesto di spiegare altro eccetto cosa lo aveva indotto ad accogliere i suggerimenti del capo della sicurezza interna, commissionando una valutazione globale della vulnerabilità agli attacchi, un rafforzamento delle difese perimetrali e il dispiegamento di una squadra tattica all'interno della sua proprietà senza neppure accorgersi di averlo fatto né tanto meno informarne la moglie, la sua forte fibra non ne avrebbe certo risentito. Sfortunatamente, tuttavia, il lunedí precedente il Nasdaq aveva chiuso al livello piú basso degli ultimi cinque anni e la WorldCom aveva annunciato un altro profitto esagerato, trascinando in camera di rianimazione il principale mutuatario della banca; e il pomeriggio del tre, per finire in bellezza, i procuratori generali del Massachusetts e di New York avevano dichiarato di voler condurre un'indagine congiunta sulla Atlantic Securities, in relazione a certi favoritismi nella distribuzione delle azioni dell'offerta iniziale. In breve, la vacanza si preannunciava tutt'altro che rilassante. Quando una Glenda inviperita e ancora in vestaglia varcò la porta del suo studio imprecando contro gli energumeni che invadevano il giardino era già un'ora che Jeffrey, riunito in teleconferenza con il capo dell'ufficio legale e una buona metà del consiglio di amministrazione, si arrabattava a delineare strategie di politica interna di cui era completamente all'oscuro. All'una la temperatura dell'aria aveva raggiunto i trentasei gradi, e molti membri del piccolo esercito convocato per nutrire e intrattenere gli ospiti degli Holland avevano cominciato ad afflosciarsi sotto il sole spietato. Un impiegato della ditta alla quale lo chef aveva subappaltato la gestione dei forni a legna era svenuto alla postazione di lavoro battendo la testa contro una ghiacciaia, dopodiché era stato rimosso e trasportato in una camera sul retro dotata di aria condizionata. Cercando di barcamenarsi tra le esigenze della festa e quelle della sua padrona, Lauren aveva fatto accomodare Glenda su un divano della biblioteca, dal quale ella riceveva gli emissari dei vari fornitori in lotta senza bisogno di alzarsi o di respirare l'aria rovente del giardino prima che l'una e l'altra cosa fossero assolutamente necessarie. L'orchestra sosteneva che la ditta di catering le avesse tolto la corrente, e la fiorista comunicava che se il tecnico dei condizionatori mandato a sostituire l'autista traumatizzato non fosse riuscito a mettere in funzione i macchinari, le sue creazioni sarebbero avvizzite di li a poco. E queste, se non altro, erano persone alle dipendenze di Glenda. Ma il comandante dei vigili del fuoco era tutta un'altra faccenda. Dopo aver autorizzato con cortese sollecitudine lo spettacolo pirotecnico, egli aveva effettuato un sopralluogo durante il quale, dopo uno scambio di vedute con il nipote responsabile, aveva stabilito che la piattaforma dalla quale sarebbero stati lanciati i fuochi galleggiava troppo vicino alle rive del laghetto, il quale necessitava pertanto di essere contornato da teloni ignifughi. - Mio Dio! - esclamò Glenda, rannicchiandosi in un angolo del sofà. - Non ha un po' di pietà? Non vede cosa sta succedendo li fuori? Teloni ignifughi? E dove diavolo pensa che potrei trovarli? Senza contare che già dal nome sembrano orrendamente ripugnanti. Non potremmo semplicemente farne a meno? Il barbuto comandante in camicia bianca e mostrine rivolse uno sguardo fiacco a Lauren, che cominciò a cercare sulla rubrica del cellulare il numero del capo consigliere comunale. - Se solo immaginasse cosa mi è costato assumere quel tizio. Se penso a quanto l'ho pagato! Abbastanza per mandare il primogenito all'università. La supplico, - implorò Glenda, trangugiando un breve sorso dal bicchiere. - Lei è stato invitato, vero? E anche sua moglie, no?
Quando Lauren usci dalla stanza per accompagnare il
comandante dei pompieri, Glenda decise che tutto sommato la cosa migliore era
schiacciare un pisolino.
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