Autore Anderl Heckmair
Titolo Gli ultimi tre problemi delle Alpi
SottotitoloCervino, Grandes Jorasses, Eiger
EdizionePriuli & Verlucca, Scarmagno, 2016 , pag. 156, cop.fle., dim. 13,5x19,8x1,2 cm
OriginaleDie Drei Letzen Probleme der Alpen
EdizioneBruckmann, München, 1949
LettoreMargherita Cena, 2016
Classe montagna , sport












 

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Indice


PRESENTAZIONE di Sandro Filippini                         5

Cronologia biografica                                    11


CERVINO E GRANDES JORASSES

Primi successi e insuccessi. La Nord del Cervino         19
La Nord delle Grandes Jorasses                           36


EIGER

Primi tentativi                                          49
1937: altri tentativi                                    63
La soluzione                                             74
La discesa                                              123


APPENDICE

Lo sperone delle Grandes Jorasses vent'anni dopo        133


NOTE                                                    153


 

 

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Pagina 5

PRESENTAZIONE

di Sandro Filippini


Il suo fisico di alpinista di ferro lo ha sorretto fino ai 98 anni suonati: Anderl Heckmair è stato un leader dell'alpinismo tradizionale, anche se forse il suo nome dice poco alle nuove generazioni. Perché così va la storia, e chi era stato da lui oscurato nella più grande impresa, la prima salita della mitica e famigerata parete Nord dell'Eiger, lo ha poi scavalcato in fama per vicende che con l'alpinismo hanno avuto a che fare relativamente. Stiamo parlando di Heinrich Harrer, che in cima all'Eiger era arrivato soprattutto grazie a Heckmair, come fu costretto a riconoscere lui stesso. Ma anni dopo s'è ritrovato più famoso, anche ai giorni nostri, perché, partito per il Pakistan alla vigilia della Seconda guerra mondiale allo scopo di scalare il Nanga Parbat e finito prigioniero degli inglesi, aveva dato vita alla fuga dei «sette anni in Tibet» del libro e del film.

Harrer non ha mai rinnegato completamente il suo coinvolgimento con il nazismo, il che ne ha fatto un personaggio ambiguo. D'altra parte, negli anni Trenta, il periodo d'oro suo e di Heckmair, in Germania ce n'erano tanti di entusiasti di Hitler. Heckmair aveva avuto modo di conoscerlo personalmente, a causa dell'amicizia alpinistica con la già famosa regista Leni Riefenstahl. Ma non si schierò mai apertamente con il nazismo. Anche se il dittatore sapeva come conquistarsi la simpatia degli sportivi: cullandone i sogni, anzi pagandoglieli. Come fece, riguardo agli alpinisti germanici, appunto per la Nord dell'Eiger. Che, avendo mietuto otto vittime ed essendo l'ultimo problema irrisolto delle grandi pareti alpine, era divenuto un caso, una fissazione. Hitler mise un premio affinché fossero scalatori tedeschi a «vincere» la Nordwand. E festeggiò con grande sfarzo (e grande propaganda) il successo della cordata austro-tedesca che, formatasi casualmente in parete e guidata sempre da Heckmair, risolse in quattro giorni il problema, giungendo in cima il 24 luglio 1938 alle 15. Erano passati solo quattro mesi dall'annessione dell'Austria: cosa poteva volere di più Hitler?

In realtà era stato il trionfo della cosiddetta Scuola di Monaco, in quel periodo una fucina di grandi alpinisti. Anderl Heckmair era uno di loro. Era nato proprio in quella città, il 12 ottobre 1906. E vi era stato forgiato da una vita durissima e dall'infanzia passata in orfanotrofio dopo la morte del padre nella Prima guerra mondiale. Una vita, quella di Anderl, che sembrava esserglisi impressa sul viso, come scavato nella roccia: tutto spigoli dietro un grande naso. La povertà gli aveva dato tenacia, determinazione, una resistenza fisica leggendaria. Così era divenuto una delle stelle dell'alpinismo tedesco, però aveva pochi soldi per mettersi in mostra fuori casa. Già l'Eiger, che si innalza nell'Oberland bernese, era fuori zona, come le Dolomiti, ormai «perse» con la sconfitta nella Prima guerra mondiale. Montagne da raggiungere con lunghi trasferimenti in bicicletta. Heckmair non si lasciò imporre confini. Divenne un vagabondo delle montagne. E in questo libro ci racconta prima di tutto, con uno stile sobrio e avvincente, quale era il suo vero e più grande sogno: la Nord delle Grandes Jorasses. Inseguita testardamente e a lungo. Un sogno, però, che gli fu «rubato».

Già vinta in precedenza anche la Nord del Cervino, restava solo la Nord dell'Eiger come ultima grande parete delle Alpi non salita. E a livello di tecnica e anche di attrezzi a Monaco non avevano nulla da invidiare a inglesi (più ricchi), francesi e italiani. Proprio sull'Eiger, l'arma in più di Heckmair e del suo compagno Ludwig Vörg, rispetto a Harrer e Fritz Kasparek, furono i nuovi ramponi a dodici punte, con i quali avanzarono velocemente sui nevai ghiacciati della Nord, laddove i due austriaci, che avevano iniziato la scalata un giorno prima, ancora scavavano gradini, il che rendeva la progressione assai lenta. Una dffirenza decisiva, soprattutto su una parete come quella, pericolosa, oltre che per la sua verticalità e la sua imponenza (1800 metri dalla base), anche per le continue scariche di sassi e per i repentini cambi di condizioni atmosferiche, con tempeste tanto improvvise quanto tremende. È tutto ciò che, con i tanti morti, ne ha fatto la leggenda, nel pieno dell'epopea del sesto grado.

La grandezza di Heckmair dopo quell'impresa fu ribadita dall'altrettanto mitica ripetizione, in condizioni pienamente invernali, della via allo Sperone Walker. Cioè proprio la via più diretta sulla Nord delle Grandes Jorasses. Per gli scherzi del destino, Riccardo Cassin era andato a tentarla, e a salirla al primo colpo, proprio perché si era visto sottrarre sotto il naso da Heckmair la prima ascensione della Nord dell'Eiger...

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Tutto questo produsse su di me una profonda impressione; i miei pensieri si fissarono ormai definitivamente sull'Eiger e fui certo che questa tragedia era solamente un prologo. L'inverno seguente raccolsi tutte le fotografie e gli scritti sull'Eiger che riuscii a procurarmi.

Nell'inverno del 1932, in occasione d'un giro in sci nell'Oberland bernese, ero salito in cima all'Eiger, senza però mai vederne la parete nord.

Ecco le tappe della storia dell'Eiger fino a quel momento: nel 1858 viene salito per la prima volta dall'inglese Charles Barrington con le guide Christian Almer e Peter Borhen; un anno dopo si ha la prima traversata dell'Eigerjoch dall'Eigergletscher fino all'Ewigschneefäld; nel 1874 viene salita la cresta sudovest e due anni dopo, nel 1876, quella sud; nel 1885 la cresta est, chiamata Mittellegigrat, è percorsa in discesa, ma solo nel 1924 viene superata per la prima volta in salita, da un giapponese accompagnato da tre guide svizzere. Particolarmente interessante e il tentativo fatto nel luglio 1932 sulla parete nord da alcuni scalatori francesi che però non riuscirono a superare lo zoccolo. Nell'agosto dello stesso anno, due noti alpinisti svizzeri, Hans Lauper e Alfred Zürcher, con le celebri guide di Zermatt, Alexander Graven e Joseph Knubel, ebbero maggior fortuna: raggiunsero infatti la cima dell'Eiger da nord. Ma non lungo la parete nord, bensì da quella nordest. Questo fatto portò notevole confusione: spesso infatti si scrisse che i tentativi sulla Nord non costituivano una prima salita.

Per chiarire quest'errore, basta riflettere sulla conformazione della montagna. La piramide dell'Eiger ha la sua parete nord tra lo spigolo ovest che separa la faccia nord da quella ovest, e un costolone roccioso che separa dalla Nord una parete nordest di minore pendenza.

La parete nord vera e propria si erge contro questo costolone con una linea spaventosamente verticale, specie nel tratto superiore. La via Lauper invece si svolge completamente sulla parete nordest e non tocca neppure una volta la Nord.

La Nord dell'Eiger – o Eigerwand, come la si è sempre chiamata per semplificare – si può dividere in tre parti pressoché uguali. Dalla base, a 2200 metri, fino a quota 2800 abbiamo il cosiddetto zoccolo. Il secondo terzo fino ai 3400 metri è costituito dai tre grandi successivi nevai pensili, e infine l'ultimo tratto fino alla vetta comprende una parete estremamente ripida, a metà della quale si trova, come incastonato, un ultimo nevaio chiamato il Ragno. Nel 1912 fu inaugurata una linea ferroviaria che conduce al Jungfraujoch, a 3400 metri. Un gigantesco tunnel permette al treno di attraversare l'intera Eigerwand. Durante la sua costruzione furono praticate due aperture: la prima a ovest, per lo scarico dei materiali, la seconda cinquecento metri più a est, a metà parete. Quest'ultima è in corrispondenza della «stazione dell'Eiger», dove i treni s'incrociano, i viaggiatori possono scendere e, attraverso le finestre munite di solide sbarre, guardare la parete. Le finestre erano state dotate di inferriate perché un giorno si era buttato da lì un suicida che poi venne annoverato nell'elenco delle vittime dell'Eigerwand. Questa galleria era destinata ad avere un ruolo importante nella storia dell'Eiger.


Per nulla scoraggiate dall'esito tragico del tentativo del 1935, tre cordate distinte si ritrovarono l'anno seguente ai piedi della parete. Erano Herbst e Teufel di Monaco, Andreas Hinterstoisser e Toni Kurz di Berchtesgaden, Rainer e Angerer di Innsbruck. Hinterstoisser e Kurz erano annoverati tra i migliori rocciatori della loro regione, con all'attivo molte difficili prime salite. Anche Herbst e Teufel erano considerati eccellenti scalatori. Soltanto i nomi di Edi Rainer e di Willy Angerer non avevano ancora molta risonanza.

Tutti erano giovani, troppo giovani! Si può muovere loro un rimprovero? A tragedia avvenuta, lessi su un giornale una frase che mi colpì profondamente: «Sacrificare così la propria vita, significa raggiungere il limite estremo, la forma più perfetta d'espiazione.»

Già nei primi giorni la sventura si presentò tra di loro. Essendo ancora troppo presto per un tentativo all'Eigerwand, Herbst e Teufel si erano prefissi un'altra meta e avevano compiuto la prima salita della parete nord del Schneehorn, nel gruppo della Jungfrau. Durante la discesa, Teufel precipitò da uno strapiombo di ghiaccio, trascinando il compagno nella caduta. Teufel morì sul colpo e Herbst, gravemente ferito, dovette tornare in patria.

Le altre due cordate si riunirono e il 18 luglio, alle 2 del mattino, partirono per il loro tragico tentativo da cui non dovevano più tornare. La via prescelta offre una chiara prova della capacità di giudizio e dell'istinto naturale del capocordata Hinterstoisser. Al contrario di Sedlmayer, aggirarono le prime barriere di rocce e salirono più a destra, puntando direttamente alle placche insormontabili della Rote Fluh. Si innalzarono così finché fu possibile, poi traversarono a sinistra obliquando verso il basso con manovra di corda e riuscirono a raggiungere il primo nevaio. In tal modo avevano risolto in modo magistrale il passaggio-chiave della parete. Ma proprio quel capolavoro doveva poi costituire la loro condanna, perché recuperando la corda della traversata in discesa si preclusero ogni possibilità di ritorno. Certamente allora non pensavano all'eventualità di una ritirata e si affrettarono invece a salire, toccando così il limite superiore del secondo nevaio.

Anche questa volta ogni loro passo fu seguito con attenzione; si constatò così che il ritmo, rapido all'inizio, era diminuito sensibilmente verso sera. Mentre al principio le due cordate si erano mosse separatamente, sul tardo pomeriggio tutti e quattro gli alpinisti erano riuniti. Inoltre si era notato con esattezza che a un certo punto tre di loro si erano prodigati intorno al quarto e gli avevano bendato la testa. Più tardi si potà stabilire che il ferito era Angerer, colpito da una scarica di pietre. A quota 3200 venne allestito il primo bivacco.

Il secondo giorno la parete era parzialmente coperta dalla nebbia, e solo durante le brevi schiarite era possibile vedere qualcosa. Nuovamente si poterono scorgere i quattro che procedevano in un'unica cordata.

L'inviato speciale di un giornale svizzero che scrutava instancabilmente la parete con un grande cannocchiale, scrisse: «Al mattino tutto intorno al cielo è azzurro, solo le montagne davanti a noi sono avvolte in un fitto velo di nubi. La brezza mattutina alzandosi ha scacciato il temporale notturno sulle cime ghiacciate. Attraverso l'impenetrabile cortina delle nuvole, i quattro ospiti del freddo «albergo» della Rote Fluh devono essere condannati all'inazione. Non possono sapere che a valle sta spuntando una giornata radiosa. Solamente alle 6.45 la prima cordata abbandona il posto di bivacco. Giungiamo alla Kleine Scheidegg giusto in tempo per guardare con il cannocchiale quel che sta succedendo al posto di bivacco. Il capocordata — certamente, come il giorno prima, Hinterstoisser — ha già percorso una lunghezza di corda sul ripido nevaio, intagliando buoni scalini per i piedi e dirigendosi verso est. La corda bagnata, rigida e nera, striscia sulla neve umida. Circa trenta metri più sotto, proprio davanti al posto di bivacco, il secondo, il giovane e ardente Toni Kurz, sta facendo sicurezza. Alle 7.30 il capocordata si è saldamente installato su un gradino, piantando probabilmente un lungo chiodo nel corpo stesso dell'infinito nevaio; il secondo sta per muoversi... in questo momento la cortina si chiude...»

Non si scorgeva più nulla. Per tutto il giorno le nubi velarono la parete. Solamente l'indomani fu possibile individuare il punto in cui i quattro avevano passato la seconda notte.

Nella seconda giornata avevano percorso appena duecento metri. Solo duecento metri! Perché erano avanzati così lentamente lungo un tratto relativamente facile? Era chiaro che a quel ritmo non sarebbero riusciti a compiere la scalata. Solo una pronta ritirata avrebbe ormai potuto salvarli. Ma quando si sarebbero decisi, quegli alpinisti così inesperti su ghiaccio?

Si cercò di entrare in comunicazione con loro. Una cordata svizzera, malgrado la nebbia, salì fino in cima per lo spigolo ovest e cercò dalla cresta di farsi sentire con reiterati appelli. Ma la nebbia avrebbe inghiottito anche un muggito. Nessuna voce raggiunse quegli uomini perduti che proseguivano inconsapevoli il loro cammino verso la morte.

Il terzo giorno il tempo schiarì. Fu possibile scorgere un alpinista mentre si affannava sotto le rocce del bivacco. Si trattava di uno dei tedeschi; infatti ci si era ormai abituati a distinguerli dai vestiti. Passò un lungo intervallo prima di poterli rivedere tutti e quattro; stavano raggruppati e rimasero a lungo così, come se discutessero sul da farsi.

Per due ore si stette a osservarli in quell'atteggiamento, in attesa che iniziassero da un momento all'altro la ritirata. Ma che cosa stava accadendo?

Con spavento li si vide a un tratto proseguire verso il punto in cui Sedlmayer e Mehringer erano stati avvistati l'ultima volta. E, dopo un altro conciliabolo, finalmente sembrarono decidersi e iniziarono la ritirata, come se il luogo della disgrazia li avesse fatti rinsavire.

La discesa si svolse ancora più lentamente della salita. Uno di loro soprattutto, probabilmente Angerer ferito, era sempre sostenuto di peso e guidato prudentemente. La nebbia si alzò di nuovo e tolse ogni visibilità. Era come se la natura, colta da pudore o compassione per quegli uomini in parete, avesse voluto proteggerli dai cannocchiali e dal pubblico avido di emozioni che del resto nulla poteva fare per aiutarli.

Verso le cinque del pomeriggio ci fu un'altra schiarita e si videro i quattro alpinisti sul nevaio sopra la Rote Fluh. Il tratto di parete tra il primo e il secondo nevaio sembrava procurare loro grandi difficoltà. Ricorsero a complicate manovre di corda per calare il ferito e il materiale, e solo alle nove di sera finirono di scendere quei cinquanta metri. Anche il fatto che fossero riusciti a farlo in quelle condizioni era chiaro indice delle loro capacità alpinistiche.

Era ormai tempo di prepararsi al bivacco, che allestirono proprio nel medesimo posto dove Sedlmayer e Mehringer avevano passato la seconda notte. Si erano abbassati solo di trecento metri, e novecento li separavano ancora dalla base della parete, che si intravedeva nella grigia profondità del crepuscolo. Trascorsero quel terzo bivacco bagnati, irrigiditi dal freddo, esausti.

Il tempo non migliorava. Al contrario, era ancora peggiorato quando, la mattina del 21 luglio, ripresero la ritirata. Quel giorno doveva segnare definitivamente il loro destino. Il giornalista svizzero scrisse ancora: «Verso le nove scorgo di nuovo la cordata. Distinguo tre alpinisti mentre scendono, ma non riesco a individuare il quarto. Quello che ieri si trascinava giù a fatica, probabilmente non è ora in grado di muoversi. Per due ore la nebbia vela ogni cosa. Poi vedo avanzare tutti e quattro insieme verso il limite interiore del primo nevaio. A destra e a sinistra rombano cascate d'acqua e precipita la neve. Sotto li aspetta l'ultimo terribile ostacolo, la parete di duecento metri con la lunga traversata di quaranta metri, che avevano superato in due ore. Ma allora erano ancora freschi per affrontare il passaggio. Ora la situazione è mutata. Hanno sopportato il peso di tre bivacchi, sono bagnati fino alle ossa, la corda è gelata, le provviste esaurite, e la discesa della parete verticale ricoperta di neve fresca è pericolosa. Da Alpiglen scruto l'intera Eigerwand fino all'Eigergletscher, ma non si può scorgere nulla: la nebbia copre tutto.»

Sul nevaio inferiore raggiunsero il punto dove terminava la traversata in discesa. La brillante soluzione trovata per risolvere il passaggio-chiave doveva essere loro fatale, perché una traversata in cui si superano obliquando all'ingiù placche lisce a corda doppia non può più essere ripercorsa in senso inverso, una volta recuperata la corda. E loro avevano recuperato la corda.

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A valle avevano seguito ogni nostro passo e un giornalista di Monaco, Ulrich Luck, che stava alla Kleine Scheidegg, aveva scritto per il Münchener Neuesten Nachrichten un articolo intitolato «Tra speranza e timore» che offriva un quadro felice della nostra situazione e dell'impotenza di chi ci seguiva dal basso.

Sabato alle dodici e trenta un temporale si annuncia sull'Eiger. Dalla vallata di Lauterbrunnen sale una marea di nubi grigie, scure e minacciose. In quel momento i quattro scalatori, dopo cinque ore di duro lavoro hanno vinto la Fessura Obliqua, che forse costituisce la più forte difficoltà dell'intera parete, e hanno anche superato a destra la traversata delle cenge nevose, sopra la Parete Gialla. All'una sono tutti e quattro sull'orlo sinistro del nevaio, la guida Heckmair è in testa, forte del suo severo allenamento e d'una maggiore esperienza su ghiaccio. Per mezz'ora una nuvola nasconde gli scalatori ai nostri sguardi. Alle quattordici e trenta la parete è nuovamente libera.

Hanno già attraversato la cengia nevosa e il primo ha raggiunto lo strapiombo che porta al nevaio chiamato Ragno. Con arte sopraffina Heckmair attraversa fino al Ragno; egli ha fatto da capocordata tutta la giornata di sabato. Lo vediamo maneggiare poderosamente la piccozza e raggiungere la metà del nevaio.

Sale per tutta la lunghezza della corda fino all'entrata della cengia nevosa, a sinistra della parte superiore del Ragno. Vörg lo segue come secondo. Heckmair procede nuovamente, supera la cengia nevosa, o meglio il colatoio di ghiaccio, fino a una roccia da dove fa sicurezza a Vörg, che lo segue altrettanto rapidamente. Ambedue si installano sullo sperone di ghiaccio aspettando la seconda cordata. Il loro procedere, la loro arte vigorosa nel maneggiare la piccozza, la loro prudente sicurezza e la loro stupefacente rapidità ci indicano chiaramente che sono nella forma migliore e ancora pieni di energia.

Frattanto Kasparek e Harrer hanno raggiunto la fine della cengia nevosa. Dalle 15 alle 15.30 la parete si ricopre ancora una volta di un manto di nubi. Alle 15.30 è libera, e la gente si affolla intorno ai cannocchiali. Per l'appunto il primo della seconda cordata sta attraversando sopra le rocce del Ragno. Nello stesso istante Heckmair raggiunge il roccione sopra il colatoio di ghiaccio. L'altra cordata è più lenta, ma altrettanto sicura.

Heckmair e Vörg sono già a 3600 metri! La nebbia ricopre ancora una volta la parete. Siamo di nuovo soli con le nostre speranze e le nostre inquietudini. La cima dista ancora trecentocinquanta metri dagli scalatori. Adesso il tempo è di nuovo assai brutto. Di ora in ora non si sa se cambierà in bello o se si guasterà del tutto.

Sulla vallata di Lauterbrunnen ci sono nuvole d'un grigio sporco. Jungfrau e Mönch sono pure coperti da nubi. I crepacci dei ghiacciai scintillano d'una luce azzurrognola e verde-blu nel chiarore spettrale. Tra le nuvole cariche di pioggia c'è uno squarcio celeste. Sulla Grosse Scheidegg il cielo è ancora chiaro. Ma il temporale avanza irresistibilmente. La seconda cordata deve trovarsi a sua volta nell'imbuto del Ragno.

Ore 16.25: incomincia pian piano a piovere e alle 16.30 precise un violento acquazzone ci piomba addosso, come se le nuvole si fossero lacerate. Un'ondata mostruosa deve aver investito la montagna e i quattro, ed ecco che s'alza un grido unanime di terrore: «La parete, la parete!»

Un'immensa cascata precipita su tutta la larghezza del versante nord! L'acqua cade in dieci, dodici, quindici torrenti mostruosi, bianchi di schiuma. Sopra Alpiglen si delinea un meraviglioso arcobaleno, ma chi ha occhi per quello e per i suoi stupendi colori? Lassù due uomini si trovano sul nevaio colpiti in pieno dall'impeto delle acque. Potranno resistere?

Finalmente le nuvole s'allontanano; nel cannocchiale si può di nuovo scorgere il grande nevaio, e, sì... sono lì! Entrambe le cordate proseguono tranquillamente: hanno resistito all'impeto terribile delle acque! Vörg e Heckmair devono essersela vista meno brutta, avendo trovato rifugio tra le rocce a lato del colatoio.

Di nuovo il velario si chiude sulla parete. Riusciamo a vedere uno dei due più in alto che scende un tratto, probabilmente per aiutare la seconda cordata. Alle 18.15 sono tutti e quattro riuniti e proseguono verso l'estremità del colatoio di ghiaccio. Il robusto Heckmair assicura deciso, ritorna, intaglia gradini, prosegue. Ore 19: sono alla fine del colatoio di ghiaccio. Ore 20: procedono ancora; si vede che non hanno trovato un posto adatto per il bivacco, oppure vogliono continuare finché perdura lo luce per portarsi il più vicino possibile alla cima. Si trovano ora a quota 3700, già molto in alto sopra il Ragno, e hanno compiuto un'impresa straordinaria in quattordici ore di scalata. Il tempo sembra voglia nuovamente migliorare. Tra le nuvole sporche ci sono macchie d'azzurro. Nell'attimo in cui le nubi permettono di scorgere la parete, riusciamo a distinguerli: stanno proseguendo. Ore 21: sono ancora in movimento, e probabilmente stanno preparandosi per la notte. Per Kasparek e Harrer si tratterà del terzo bivacco, per Heckmair e Vörg del secondo. Dovranno sostare su un terrazzino scomodo, cogli abiti fradici; sarà una prova ben dura! Ma tutti e quattro sono ragazzi in gamba.

Ore 22: ultime osservazioni. Il cielo è sereno, pieno di stelle. A metà parete c'è una nuvola chiara e, al di sotto, la strana luce della stazione ferroviaria della Jungfrau. Per il resto la montagna è buia, nera. È notte fonda. I quattro devono sopportare e superare queste ore di tenebra. Hanno provviste per cinque o sei giorni. Certamente non potranno dormire molto, questa notte, e rimarranno accoccolati intorno alla loro cucinetta, preparandosi del tè bollente e dei cibi caldi. Non hanno più la minima possibilità di ritorno, devono salire in vetta a qualsiasi costo. Sono a quota 3750, distano ancora duecento metri dalla cima.

La domenica mattina ci risveglia la pioggia. Dalla finestra vediamo distese di nebbia e di nuvole. Il tempo è disastroso. Non si può più scorgere la parete. Alle 8 della domenica Kasparek e Harrer sono ormai sull'Eigerwand da sessantacinque ore. Heckmair e Vörg da quarantatrè. Alle 5.30 piove, alle 6 piove, alle 7 piove, alle 11 piove ancora: una pioggia fredda e tempestosa.

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Nella nebbia fitta raggiungiamo con delle serpentine l'ultimo campo di neve, spazzato dal vento e formato da ghiaccio vivo, io faccio un nuovo zigzag e dopo pochi passi mi trovo fuori sulla cornice. Così pure Wiggerl qualche metro sotto di me.

Improvvisamente urla: «Alt! Indietro! Sotto ci sono le rocce!»

I contorni delle rocce si disegnano infatti assai debolmente sotto di noi, sul versante sud della montagna. Sarebbe stata una bella sfortuna: superare la parete nord e poi precipitare dalla Sud, per non aver scorto la cima!

Alle 15.30 siamo in vetta.

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LA DISCESA


Ci eravamo immaginati la cosa in modo ben diverso: ci eravamo figurati che raggiungere la cima dell'Eiger per la parete nord sarebbe stato un evento solenne e grandioso, poiché sarebbe stato risolto il più grande problema delle Alpi.

Ci eravamo visti nell'atto di fare salti e capriole, ma ora nessuno sente la minima voglia di lasciarsi andare in dimostrazioni esuberanti.

Nella tempesta tutto avviene altrimenti. Ci stringiamo la mano, ci ripuliamo ciglia e sopracciglia dal ghiaccio, e subito iniziamo a scendere per la parete ovest, andando direttamente incontro alla bufera. È ora un gran vantaggio che Fritz e Heini conoscano la via. Infatti pochi giorni prima erano saliti dalla Mittellegigrat e discesi per il versante ovest.

Solo adesso ci accorgiamo di quanta neve fresca sia caduta nel corso di una giornata. A causa della minore inclinazione del fianco ovest, la neve accumulatasi ha una profondità da quaranta a cinquanta centimetri. Ma non è la neve fresca e piacevole che si è abituati a trovare d'inverno, bensì una massa pesante, poltigliosa, attaccata alle placche ricoperte di vetrato. Spesso scivoliamo via con l'intero strato. Però, riusciamo quasi subito a fermarci grazie ai ramponi che abbiamo ancora ai piedi.

Ora che la tensione per i terribili pericoli è scomparsa, una plumbea stanchezza ci prende alle ginocchia. Io ne risento più di tutti, e solo a gran fatica e affannosamente riesco a tenere il passo dei compagni. In fondo penso, ho fatto la mia parte, ora tocca agli altri fare la loro, affinché arriviamo sani e salvi a valle.

Heini Harrer, che per lo più era rimasto ultimo in parete e aveva speso meno energia nervosa, prende il comando della cordata. Io invece aspetto che gli altri siano scomparsi nella nebbia e che la corda si tenda. Allora mi siedo sul fondo dei pantaloni e parto con una allegra scivolata verso i compagni, che vigilano in tre per potermi arrestare. Ma questa tecnica rompe l'elastico dei sopracalzoni, che mi cadono giù continuamente, trascinandosi dietro calzoni e mutande. Ho voglia di lasciarli andare perché tutto mi è ormai indifferente. Ma dopo essermi seduto un paio di volte nella neve e aver sentito il freddo penetrarmi nelle ossa, riprendo la battaglia con i calzoni, spendendo così le mie ultime forze.

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Dobbiamo però rinunciare all'altro progetto, cioè al viaggio a Chamonix per tentare l'ancora inviolato sperone delle Jorasses. A Monaco, proprio prima della nostra partenza per la Svizzera e l'Eiger, ci eravamo preoccupati di farci vistare i passaporti dal consolato francese. Ma questo progetto ora non è più realizzabile.

Altri alpinisti l'hanno portato a termine. L'italiano Cassin con i suoi compagni si era già fatto un gran nome con le prime salite della parete nord della Cima Ovest di Lavaredo e della Nordest del Pizzo Badile. Ora ha risolto il problema dello sperone delle Jorasses – che come difficoltà non è certo secondo all'Eigerwand – proprio qualche giorno dopo la nostra vittoria sull'Eiger.

Come noi sull'Eiger, gli italiani hanno impiegato tre giorni interi per la salita. Hanno attaccato il 4 agosto, e alle 14 del giorno 6 sono usciti sulla cima della Punta Walker, il punto più alto delle Grandes Jorasses. E mentre in parete erano stati favoriti dal bel tempo, un temporale li ha colti in vetta obbligandoli a un terzo bivacco proprio all'inizio della discesa lungo la cresta.

Quest'impresa non suscitò tanto scalpore, perché in seguito al chiasso sollevato dalla vittoria sull'Eigerwand, il resto passò in seconda linea. Ma negli ambienti alpinistici ottenne una risonanza tanto maggiore. Noi pure ci rallegrammo del successo di questi nostri compagni italiani, specialmente perché dimostrava come anche in altre nazioni regnassero lo stesso entusiasmo e lo stesso spirito di sacrificio per la montagna che c'era tra gli scalatori tedeschi.


Tornammo in patria. I festeggiamenti e gli inviti non avevano fine, ma ben presto ne avemmo abbastanza. Il nuovo ambizioso progetto incominciò a prendere forma concreta: quello di poterci misurare con i più alti monti della Terra.

In occasione di un invito da parte degli ambienti alpinistici ufficiali, ci fu data in linea di massima l'approvazione per allestire in grande economia una spedizione all'Himalaya.

Ma a metà dei preparativi ci fu tolta l'autorizzazione e tutto sfumò. Il fatale 1° settembre 1939 fece rinviare la nostra grande meta a un futuro vago e remoto.

Solo dopo una sosta di nove anni, causata dalla guerra, la parete nord dell'Eiger fu salita per la seconda volta.

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