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| << | < | > | >> |Pagina 9Pina nel panicoL'ansimare si faceva sempre più vicino. E in fretta. All'inizio non aveva fatto caso a quel rumore, ma adesso si guardò alle spalle terrorizzata. Un cagnaccio pezzato di bianco e marrone dall'aspetto robusto correva nella sua direzione digrignando ferocemente i denti, e presto l'avrebbe raggiunta. Non aveva un'aria amichevole, con le labbra sollevate a scoprire le gengive rosso sangue e le poderose, scintillanti zanne bianche. Ancora cento metri e si sarebbe preparato a spiccare il balzo. Nel panico più totale, Pina spinse più forte sui pedali cercando di guadagnare terreno, ma la strada era curva e, nei punti in cui doveva seguire l'asfalto per non finire a gambe all'aria nel fossato, l'animale puntava dritto verso di lei. Molto più in basso, a valle, i tetti rossi di un piccolo villaggio luccicavano sotto il sole di dicembre. Difficile che riuscisse ad arrivare fin laggiù. Il cane le stava alle costole come se stesse dando la caccia a un coniglio, come se qualcuno l'avesse sguinzagliato dietro di lei per scaraventarla a terra e dilaniarla. Finalmente scorse un prato con delle balle di fieno che qualche contadino, in mancanza di spazio nel fienile, aveva sistemato all'aperto sotto teli di plastica bianca. Pina puntò dritto da quella parte, balzò giù dalla bici e si gettò sulla plastica scivolosa, tentando di arrampicarsi. Per una frazione di secondo l'ansimare del cane si spense alle sue spalle, poi di colpo sentì qualcosa bloccarle il piede sinistro, un dolore lancinante attraversarle il corpo, mentre un peso la trascinava con forza verso il basso. Con un ringhio rabbioso il cane le aveva azzannato la scarpa e, senza mollare la presa, stava sospeso a un metro da terra, le zampe che raspavano la plastica. La ragazza cercò di assestargli un calcio con l'altro piede, ma colpirlo in quella posizione era impossibile. Con le ultime forze rimaste riuscì a tirarsi su ancora un poco e ad aggrapparsi a una delle funi che fissavano il telo. Di nuovo cercò di colpire l'animale, ma invano. La situazione sembrava senza via d'uscita. Da dove saltava fuori quel cane, e per quanto tempo avrebbe resistito? Di che razza era? Un pitbull, un dogo argentino, un mastino napoletano? Pina non aveva mai sopportato i cani e si era sempre rifiutata di distinguerli l'uno dall'altro. Questo le stava avvinghiato al piede dimenandosi come un sacco di anguille, ringhiava rabbioso e serrava la mandibola come una maledetta morsa. Le zanne erano penetrate attraverso la pelle della scarpa da ginnastica e il tallone sembrava in fiamme per il dolore. Sé solo fosse riuscita a sfilarsi la scarpa e a scrollarsi di dosso quella furia, resa ancora più feroce dalle gocce di sangue che stillavano dalla scarpa... Nulla, non c'era nulla che potesse venirle in aiuto: non aveva altra scelta che mettersi a urlare con tutto il fiato che aveva in gola. Durante l'addestramento le avevano insegnato che in casi del genere i risultati migliori si ottenevano proprio usando la voce. Eppure il fiume d'odio che Pina riversò sul suo nemico a quattro zampe non sembrò impressionarlo particolarmente. Mai si sarebbe immaginata di poter finire in una situazione come quella, in cui tutte le sue conoscenze delle arti marziali più estreme – così come il fisico iperallenato e la fulminea capacità di reazione – si sarebbero rivelate del tutto inutili. Si mise a strillare con tutta la forza che aveva, sperando che qualcuno si accorgesse di lei, e in fretta. Il cane non mollava la presa un secondo. Con uno scossone, Pina riuscì finalmente a voltarsi e a ruotare sulla schiena. In quella posizione poteva muoversi con più libertà e flettere la gamba. E col piede destro riuscì finalmente ad assestare un calcio ben mirato che colpì con violenza il muso dell'animale, fracassandogli la mascella superiore. Il cane si lasciò cadere sul prato senza emettere un guaito, barcollò per un istante fuori asse e si preparò di nuovo a spiccare il balzo, come se non avvertisse il minimo dolore. Ma per il momento Pina era al sicuro. Con il cuore che le batteva a mille abbassò lo sguardo verso l'animale, che sembrava solo aspettare il momento in cui sarebbe stata costretta a scendere da quella postazione.
Dal villaggio giù a valle riecheggiò il rintocco del campanile che batteva
le nove, chiamando i fedeli a raccolta per il
servizio mattutino. Pina fece scorrere la lampo del marsupio
e vi rovistò in cerca del cellulare. Sentì un fischio in lontananza e si
distrasse un istante. Quando abbassò di nuovo lo
sguardo per tenere d'occhio il suo aguzzino, al suo posto
non c'era nulla. Era come se il cane fosse stato risucchiato
nelle viscere della terra.
Come tutte le domeniche mattina in cui non pioveva e non era in servizio, Giuseppina Cardareto era uscita di casa per un giro in bici. E come ogni domenica si era alzata prima del solito, sebbene avesse appena cominciato timidamente ad albeggiare. Se riusciva a essere già in sella per le sette, c'era qualche possibilità che per mezzogiorno riuscisse a raggiungere il traguardo dei centocinquanta chilometri, centomila volte la sua altezza. Ogni volta sceglieva un percorso diverso, che partiva dal suo appartamento al centro di Trieste, quindi dal livello del mare, e si inerpicava fin sul Carso. Poi, a seconda di quanto si sentiva in forma, cambiava il grado di difficoltà del tratto iniziale. L'affollata strada Costiera – lungo le rocce che cadevano a precipizio sul mare – non era una sfida sufficientemente ardua. Quel mattino di dicembre Pina si sentiva più forte di Braccio di Ferro. Pochi erano in grado di affrontare la ripida salita di via Commerciale come lei, ma la vera tortura iniziava prima di Conconello, poco oltre il pilone bianco e rosso dell'antenna del ripetitore. Senza mai smontare di sella, madida di sudore e col fiato corto, avanzava metro dopo metro. Di tanto in tanto se la prendeva con sé stessa, eppure ad avere la meglio era sempre la sua forza di volontà – poi, dopo aver raggiunto finalmente i quattrocentocinquanta metri d'altitudine, si lasciava scivolare in discesa verso Banne e oltre, in direzione di Basovizza, col vento che le soffiava piacevolmente sul viso. Oltrepassava il varco di frontiera che portava a Lipizza senza fermarsi. I doganieri di entrambi i lati avevano rispetto – o forse compassione – degli sportivi. Erano ormai tre anni che la minuta ispettrice di polizia di origini calabresi si trovava a Trieste, e raramente poteva avventurarsi per una gita senza passare in località che non avesse già visitato in servizio, a bordo della volante e accompagnata dal gemito della sirena. E questo nonostante il fatto che, in quella città, Trieste, il più delle volte ci fosse ben poco da fare per ambiziosi tutori dell'ordine desiderosi di far carriera. Certo, una serie ben congegnata di furti con scasso nelle ville della Trieste bene dominava da lungo tempo le prime pagine dei giornali, e il recente, preoccupante incremento dell'immigrazione clandestina garantiva un bel po' di grattacapi. Eppure, per i gusti di Pina, le indagini sui casi di omicidio lasciavano piuttosto a desiderare. Le cose grosse succedevano dietro le quinte – e alzare il sipario non era permesso. I traffici finanziari che passavano per Trieste toglievano il sonno ai colleghi della Guardia di Finanza, impegnati anche a sgominare il contrabbando nel porto o lungo le linee di frontiera. E se qualcuno doveva proprio essere mandato all'altro mondo, chi si preoccupava di tirare i fili al momento giusto evitava che il lavoro sporco venisse sbrigato in città. Non a caso i colleghi delle zone circostanti avevano il loro bel daffare. Nell'ultimo anno e mezzo Pina si era occupata di un solo caso di omicidio, che le era stato affidato senza alcuna esitazione dal commissario e che, a parere dell'ispettrice, poteva essere considerato emblematico. Un pensionato ottantaquattrenne aveva pugnalato la sua vicina di casa di novantun anni, e poi aveva avvertito personalmente le autorità competenti. Di indagini e accertamenti, nemmeno l'ombra: Pina si era accollata soltanto un mucchio di scartoffie, aveva digitato al computer il verbale dell'interrogatorio del reo confesso, nonché le varie deposizioni, e aveva inoltrato il tutto al procuratore. Punto. L'energico vegliardo non aveva neanche messo piede in gattabuia, ma era stato destinato agli arresti domiciliari e all'assistenza psichiatrica, essendo piuttosto improbabile che potesse trasformarsi in un serial killer. Ascoltando la sentenza era addirittura scoppiato a ridere, dato che finalmente nell'appartamento accanto al suo regnava l'unica cosa di cui aveva bisogno e che l'aveva spinto a impugnare il coltello: il silenzio. E quand'è così, a casa, tra le proprie quattro mura, si sta più che volentieri. Durante il suo ultimo, spettacolare, autentico caso, Pina per poco non era incorsa in un provvedimento disciplinare, e a salvarla era stato solo il fatto che si fosse messa d'accordo col suo superiore, il commissario. Nessuna contraddizione, insomma, in cui incappare di fronte alla commissione d'inchiesta. Alla fine la faccenda si era risolta con un richiamo che non era stato nemmeno inserito nel suo fascicolo personale. E sebbene il caso, che aveva tenuto occupate le forze dell'ordine triestine per diversi anni, fosse stato risolto una volta per tutte, Pina non aveva ottenuto alcun punteggio che potesse dare una spinta alla sua carriera. A dire il vero, per il suo orgoglio era stata una bella doccia fredda, e aveva deciso che per ora era meglio tenere per sé quello che aveva in mente, ovvero essere nuovamente trasferita al Sud, e il prima possibile. Per un po', meglio mantenere un basso profilo. Aveva rinunciato perfino a portare i capelli neri sparati per aria come un istrice, optando per una lunghezza media che suggerisse almeno un briciolo di femminilità. E, stranamente, aveva raggiunto perfino un certo grado di affabilità di cui nessuno l'aveva creduta capace, soprattutto nei confronti delle colleghe. Era impeccabile durante il servizio, e nel tempo libero affinava le proprie tecniche di combattimento nel centro sportivo della polizia, tre volte alla settimana kick boxing e due volte alla settimana Wing Chun con un istruttore privato – sempre che qualche delinquente non mandasse all'aria i suoi piani. L'ispettrice Giuseppina Cardareto ambiva a unire la sua intelligenza con eccellenti tecniche di combattimento: così sarebbe diventata invincibile, anche nel caso in cui, prima o poi, per chissà quale motivo fosse stata costretta a lasciare la polizia. Il che poteva accadere molto più in fretta di quanto ci si aspettasse: i mass media di una società tramortita dalla noia, avidi di sensazionalismo, mostravano ben poca comprensione nei confronti di infrazioni di sorta da parte delle forze dell'ordine. Proprio come i criminali e i loro difensori. Tutti attendevano con impazienza di poter affibbiare a qualcuno le più colossali porcate, le più grossolane trasgressioni e violazioni del regolamento – senza che al malcapitato di turno fosse mai passato per la testa alcunché del genere, neppure in casi disperati. E quanto ci voleva per mettersi sulla pista sbagliata, ficcare il naso in faccende che sfere di potere piuttosto influenti non avevano alcun interesse a divulgare? La vita – una roulette in cui ci si gioca il tutto per tutto. L'ispettrice Giuseppina Cardareto si costringeva alla calma, anche se il mondo che la circondava spumeggiava, straripava, rompeva le righe. Doveva continuare a essere la più forte. Un gradevole tepore riscaldava già quel mattino d'inverno, quando Pina, ai piedi del Monte Nanos, iniziò a discendere per la Valle del Vipacco. Era da più di due ore che pedalava come una dannata, e si era già lasciata alle spalle una settantina di chilometri, superando chine, salite, curve. Si sentiva nel proprio elemento. Eppure la strada era in condizioni pietose, e di sicuro non era il percorso ideale per i ciclisti. Le asperità facevano sussultare il manubrio per gli scossoni, e Pina aveva il suo bel daffare per riuscire a mantenere la velocità media che si era imposta senza finire a gambe all'aria. Il traffico di mezzi pesanti, che percorrevano quel tratto durante la settimana, aveva lasciato dei solchi profondi e, più che a una strada, l'asfalto somigliava a un tappeto patchwork. La domenica a farla da padrone era un massiccio flusso di gitanti: automobili con targhe di Lubiana o provenienti dall'Italia che le suonavano di continuo il clacson perché si facesse da parte. Pina decise di cambiare tragitto alla prima occasione, e nei pressi di Hrasce si ritrovò a un incrocio, in cui uno dei cartelli indicava "Vinska Cesta", la strada del vino: stretta, poco trafficata, si inoltrava attraverso il Carso sloveno ai piedi del brullo Nanos, che si ergeva imponente sulla regione e costituiva il naturale spartiacque tra il Danubio e l'Adriatico. La vetta era sormontata già da settimane da un cappuccio di neve, ma giù a valle la temperatura era mite. Pina non aveva con sé una carta stradale, sebbene fosse la prima volta che percorreva quel tratto. Prima o poi sarebbe sbucata nella piccola città di Vipacco, dove si era riproposta di andare a vedere due sarcofagi egizi vecchi di quattromilacinquecento anni, conservati nel cimitero, per poi tornare in Italia attraverso Nova Gorica. Invece, se ne stava seduta con un tallone sanguinante su un cumulo di fieno alto circa quattro metri, in una sperduta radura avvizzita, e se la stava facendo sotto al solo pensiero di un cane da combattimento improvvisamente scomparso senza lasciare traccia. Perplessa, osservò il display grigio del cellulare e fece scorrere i numeri registrati in rubrica. Chi poteva chiamare? Se fosse stata dall'altra parte della frontiera, sarebbe stato sufficiente informare i colleghi, ma qui non conosceva nemmeno il numero di emergenza della polizia slovena. | << | < | > | >> |Pagina 59Davanti all'abissoMi chiamano Argo. Non conosco dolore, e non mi lamento mai. Neppure quando mi terrorizzano con l'elettroshock, che scatena la mia aggressività fino a farmi impazzire, come le frustate che mi piovono sulla testa, stretta in un sacco nero. L'allenamento è duro. Tutti i giorni, per due ore e mezzo, corro su un tapis roulant che simula una salita. Treadmill, è così che si chiama. Per essere sicuri che non interrompa la corsa, attorno alla gola ho un largo collare, fissato ai parapetti del tapis roulant. Se non corro, mi strangola. I pesi che mi vengono posti sulla schiena richiedono una forza ancora maggiore. I muscoli della nuca e del dorso, soprattutto, devono essere in perfetta forma. Nuoto due ore al giorno. Appena sopra la superficie dell'acqua c'è una corda tesa tra i bordi della vasca, alla quale viene legato il mio collare, esattamente a metà. Se non nuoto, affogo. Dopo aver terminato questa parte del programma, mi asciugano con un telo morbido e mi massaggiano per mezz'ora. Poi il mio padrone mi porta a passeggiare, oppure corro appresso alla sua bicicletta. Intorno a noi ci sono grandi prati pianeggianti, piove spesso, ma soprattutto soffia quasi sempre un vento forte. L'aria odora di sale. Una volta, durante una di queste passeggiate, c'è stato un po' di trambusto, i passanti si stringevano impauriti l'uno contro l'altro e insultavano il mio padrone. Gli gridavano che doveva tenermi al guinzaglio. Lui si è limitato a ridere, li ha minacciati di aizzarmi contro di loro, e quelli si sono zittiti. Più tardi inizia la seconda parte del programma giornaliero, di solito senza che mi abbiano dato nulla da mangiare. Solamente acqua. L'allenamento col flirtpole appaga i miei istinti di cacciatore. Posso inseguire, azzannare; corro dietro a un giocattolo, a volte un cane di pezza, che però si lacera subito, più spesso un gomitolo di stracci o una vecchia pelle di pecora che il mio padrone ha legato a un bastone con un lungo pezzo di spago, e che trascina davanti a me. Scatto in avanti, mi volto fulmineo, salto – tutto questo serve a migliorare i miei riflessi e la mia mobilità. Agguanto la pelle per non mollarla più e la scrollo come fosse un avversario, fino alla morte. Quel che conta non è morderla con forza, ma scuoterla con violenza e a lungo. In questo modo i miei denti penetrano più a fondo, e posso inchiodare a terra qualunque avversario, sempre se non gli strappo prima la carne dalle ossa. Poi è la volta dello springpole. Quando va male è uno pneumatico, quando va bene dal ramo di un albero a due metri da terra penzola il muso di una mucca, e dondola avanti e indietro. Ci affondo i denti con forza e posso rimanere appeso così anche un'ora, senza fatica. Non è stato facile. All'inizio mi annoiavo subito, ma se mi lasciavo cadere piovevano frustate. Poco alla volta ho imparato a resistere di più. Il programma giornaliero si conclude con il catmill, che alcuni chiamano anche flying jenny. Lunghe pertiche che ruotano orizzontalmente attorno a un asse. Appeso alla pertica, dentro una rete, non c'è sempre un gatto, a volte è uno di quei cagnetti di strada. Dove li trovino, non lo so. Balzo in avanti, li inseguo, a separarci c'è solo qualche centimetro, il boccone mi oscilla davanti al naso. Sono ogni volta più veloce, sono un combattente, ma non riesco mai ad acchiapparli. Solo quando le mie forze accennano a diminuire, il mio padrone blocca la ruota liberando il gatto e mi scioglie il guinzaglio – allora li azzanno, prima che possano scappare. Il premio per una dura giornata di lavoro. A volte il mio padrone mi preleva il sangue e lo fa analizzare, e mi fanno delle iniezioni con regolarità, medicine per pompare i muscoli, per far aumentare l'ossigeno nel sangue, per migliorare la respirazione. E a volte non mi danno da mangiare per giorni e giorni. Qui non sono l'unico a essere sottoposto ad allenamento. Nei periodi di riposo mi tengono legato a una pesante catena, che mi impedisce di muovermi. Oppure mi ficcano in una cassa stretta, dalle fessure del legno vedo gli altri che vengono preparati per il combattimento. Ma il campione assoluto sono io, e quando uno degli altri non soddisfa le aspettative, arriva il mio turno – mi fanno entrare in una stanza chiusa, un faro alogeno penzola dal soffitto. Si apre una porta, e l'altro viene gettato dentro. Di solito portano via il cadavere dopo pochi minuti e lo scaraventano sul cassone di un pick-up. Solo una volta è durato tre quarti d'ora, sulla spalla mi è rimasta una profonda cicatrice che il mio padrone ha ricucito personalmente, per poi iniettarmi una dose di penicillina. Della mia cucciolata ero il più forte, e anche se non ero il più grosso mi facevo strada fino alle mammelle, riuscendo a farmi valere sugli altri. Attorno alla baracca c'era sempre gente, ci guardavano, spesso mi sollevavano in aria e mi osservavano con parole di apprezzamento. Crescevo in fretta, e giocando con i miei fratelli li atterravo senza difficoltà. Dopo sei settimane mi hanno preso e mi hanno mozzato la coda e le orecchie, quasi del tutto. Tre mesi dopo mi hanno dato via. Da quel giorno è iniziato il mio allenamento. Il mio nuovo padrone parlava un'altra lingua, e il viaggio fino alla nuova casa è durato troppo perché riuscissi a trattenere la vescica. Quando ha scoperto le pozze sul sedile mi ha picchiato. Poi il viaggio è proseguito attraverso sterminate distese verdi zuppe di pioggia, interrotte di tanto in tanto dai terrapieni, sui quali pascolavano le pecore, nei campi coltivati tutt'intorno gruppi di mucche pezzate bianche e nere che brucavano l'erba. A un certo punto abbiamo svoltato in direzione di una fattoria isolata. Quando il padrone mi ha tirato fuori dall'auto e mi ha portato sul retro in una stalla vuota, ha sostituito il mio collare con uno pieno di punte e borchie, poi mi ha legato a una catena pesantissima. Una piccola baracca, a terra un mucchio di stracci che odoravano ancora dei miei predecessori, è diventata la mia cuccia. Nel cortile ce n'erano altre sei, tutte uguali, lontane le une dalle altre. Potevamo soltanto osservarci a distanza. Io ero il più piccolo di tutti, ma le cose sono cambiate in fretta. Della strana gente veniva di continuo a trovare il mio padrone, grosse auto con ruote gigantesche. Uomini alti, con le spalle larghe, catene d'oro al collo e massicci orologi da polso, a volte in compagnia di ragazze ossigenate e truccate pesantemente, vestite con stivali di vernice al ginocchio, gonne molto corte e maglie scollate. Fumavano sigarette dall'odore strano e sniffavano una polvere bianca direttamente dal cofano della macchina, quella stessa polvere che qualche tempo dopo mi avrebbero iniettato in forma solubile, ogni volta che mi veniva presentato un nuovo avversario. Osservavano me e gli altri mentre balzavamo all'attacco; esaminavano, valutavano. Una volta uno di loro ha levato il barboncino dalle braccia della ragazza e l'ha lasciato correre. Poi mi hanno liberato. Quella palla di pelo bianca non è arrivata lontano: le ho affondato le zanne nella nuca e ho iniziato a scrollarla fino a quando non ha dato più segni di vita. La bionda, la bocca spalancata e il guinzaglio ornato di strass ancora in mano, si è girata con gli occhi lucidi e se l'è filata in macchina con aria imbronciata. Gli uomini hanno elogiato la mia velocità, dandosi grandi pacche sulle spalle. «Diventerà un campione» ha detto il mio padrone con orgoglio. «Già adesso è molto più aggressivo degli altri e rapido come un fulmine. Un pedigree eccellente: terza generazione di una stirpe di vincitori, completamente insensibile al dolore, formidabile nell'attacco. Mi è costato un fracco di soldi. Ma li recupererò presto. A nove mesi affronterà il suo primo combattimento. Mi dispiace per la tua palla di pelo» ha concluso sghignazzando, rivolto alla ragazza. «Ne avrai un altro». E un giorno mi hanno portato a combattere. Hanno comunicato al mio padrone il luogo in cui si sarebbe svolta la convention appena due ore prima dell'inizio. Venticinque minuti col traghetto sull'Elba, da Wischhafen a Glückstadt, e ancora, fino a un parco eolico nei pressi di Brunsbüttel. Siamo arrivati verso mezzanotte, c'era un largo pit profondo e illuminato. Una cinquantina di persone erano raccolte lì attorno e commentavano quello che succedeva e che io non riuscivo a vedere. Prima del combattimento mi hanno fatto muovere un po', mi hanno massaggiato, rinchiuso in una cassa, picchiato, provocato e aizzato, e alla fine mi hanno fatto la solita iniezione che mi fa bollire il sangue nelle vene. Il mio avversario era un dobermann. Me la sono sbrigata in fretta. Non era neanche da paragonare agli ultimi con cui ho combattuto, lottatori dal pelo lucido, i muscoli che sprizzavano energia. Quello là era un animale disorientato, non apparteneva al nostro mondo. Un fantoccio. Ma non è questo il punto. Sono addestrato a uccidere. O io o l'altro. È tutto nero, la notte, il sacco attorno alla mia testa, la rabbia, la morte. Anche quando il combattimento non è tra pari. E dunque anche le scommesse erano basse. Ma il mio padrone era contento di me, mi ha dato dei buffetti tutto orgoglioso, con gratitudine gli ho leccato la mano che odorava di tabacco. Dopo di me, era il turno di altri suoi combattenti. Durante il viaggio di ritorno uno di loro non c'era più. Io non avevo neanche un graffio. L'allenamento è cambiato. Da quel momento in poi mi hanno condotto di fronte ad avversari sempre più grossi. Poi è arrivato il giorno in cui il cortile è stato spazzato a lungo, e di lì a poco un uomo atletico è sceso da una limousine nera. Era vestito molto meglio dei soliti visitatori e parlava con uno strano accento. Alcuni lo chiamavano Domenico, altri Calamizzi oppure soltanto "il calabrese". E ne avevano un grande rispetto. Era in compagnia di un esperto di nome Karol. Mi hanno liberato, mi hanno fatto sfilare per il cortile, correre e saltare. Alla fine hanno portato uno staffordshire terrier in una delle stalle vuote, e l'hanno lasciato a me. Più tardi, mi hanno sostituito il collare borchiato con uno di pelle morbida. Un grosso rotolo di banconote è passato da una mano all'altra, hanno aperto il cofano della limousine e mi hanno ordinato di saltare dentro una cassa da trasporto. Il viaggio è durato a lungo, e mi hanno lasciato uscire solo due volte, entrambe in una stazione di servizio sull'autostrada, e mi sono potuto muovere un po'. Il mio nuovo padrone mi ha chiamato Argo. Un giorno, prima dell'ultima convention, mi hanno portato in un giardino con una piscina, recintato da un'alta palizzata. Due ore di nuoto, asciugamano, massaggio. Poi hanno lasciato libero un coniglio, ma prima che potessi raggiungerlo una catena mi ha scaraventato all'indietro. Ancora, e ancora. Poí, con una corda hanno legato il coniglio al ramo di un vecchio tiglio, a due metri da terra. E finalmente mi hanno levato la catena. | << | < | > | >> |Pagina 149Abbracciatevi, moltitudini!Giovedì 21 dicembre 2007, ore 00.00. Al valico di frontiera Fernetti, per cui passa la principale arteria stradale che collega in circa quaranta minuti Trieste alla città di Lubiana, l'esplosione dei fuochi d'artificio accompagnò gli applausi di gioia di quattromila persone delle regioni di confine, che avevano atteso con trepidazione quell'istante. «È un momento storico, in cui ci lasciamo definitivamente alle spalle le divisioni del passato, generate da dittature, regimi, ideologie. Allo scoccare della mezzanotte, tutto questo apparterrà al passato, e guarderemo insieme a un nuovo futuro...». L'altoparlante gracchiava metallico. Sotto una tempesta di flash, i sindaci e i politici locali smontarono la sbarra del posto di frontiera, un tempo linea di demarcazione tra le due comunità – davanti alla quale, per decenni, le persone avevano atteso in fila, spesso subendo ogni genere di umiliazione da parte dei doganieri di entrambe le parti. Nessuno si era preso la briga di contare quanti milioni di bagagliai erano stati aperti e perquisiti, quante le merci sequestrate, le multe emesse – o gli esseri umani arrestati o rimandati indietro. Nessuno, che sia vissuto nei pressi di una frontiera, può sostenere di non essere mai stato un contrabbandiere. Benzina e petrolio, sigarette, vino, carne, caffè e blue-jeans, frutti di mare, valute estere, droghe, armi e uomini. Chi abitava nelle regioni interne non aveva idea di quante e quali cose venissero introdotte illegalmente. «...e che i nostri popoli possano, a partire da questo storico giorno, costruire un'Europa migliore, un'Europa senza frontiere, senza mai scordarsi di tendere la mano al proprio vicino...». I discorsi della serata grondavano di pathos fasullo, ma se non altro non duravano a lungo. Doveva essere una festa popolare, quella notte, la più gioiosa da decenni a quella parte per Trieste e dintorni. L'area Schengen veniva allargata, abbattendo la frontiera dietro casa, come si diceva giù in città. Finalmente Trieste aveva di nuovo un hinterland diretto, e i suoi dintorni non erano più l'"appendice vermiforme" a nordest dell'Italia, racchiusi da sbarre e da una linea di frontiera che risaliva ai tempi della Guerra Fredda. Le parole di Winston Churchill sulla città al confine meridionale della Cortina di Ferro ormai appartenevano al passato. C'erano voluti più di sessant'anni perché, nel giro di una notte, gli abitanti di entrambi i lati della linea di demarcazione ricevessero il via libera. Da settimane la stampa locale dedicava ampio spazio ai cambiamenti e alle illimitate prospettive che avrebbero interessato il territorio triestino. D'un tratto i politici avevano cominciato a parlare di una "storia comune" di quel lembo d'Italia e di Slovenia – gli stessi che, fino ad allora, a qualsiasi tornata elettorale avevano fatto ricorso alla divisione tra i due paesi e alla linea di frontiera in modo velatamente populista. Non c'è niente di più vecchio al mondo di un giornale del giorno prima e delle parole di un politico. Adesso si annunciava con aria innocente l'avvento di un futuro e una cultura comune, per una crescita e una pace comuni. «...e presentiamo con orgoglio le nostre sportive campionesse del mondo e medaglie olimpiche, che tengono alto l'onore della Repubblica italiana e della Repubblica slovena... Pregherei il pubblico di lasciar passare la carrozza». Il tiro a quattro – una carrozza Esterhàzy trainata da docili castrati di Lipizzano – avanzò lentamente. Le atlete lanciarono insulsi baci alla folla accompagnandoli con la mano e sforzandosi di sorridere, come era stato loro ordinato. Nella terra di nessuno tra i due posti di frontiera era stato eretto un semplice tendone da fiera, mentre un maxischermo trasmetteva la cerimonia per gli spettatori che preferivano sgambettare in direzione degli stand, in cui il vino del Carso scorreva a fiumi. Un ufficio postale su quattro ruote vendeva francobolli per collezionisti, e una ragazza, nonostante il freddo, si scoprì i seni ridendo, uno dipinto con la bandiera slovena e l'altro col tricolore. Entrambi si godettero l'applauso. Alcuni dei partecipanti, in ricordo dei vecchi tempi, pregarono i doganieri di apporre un ultimo timbro sui passaporti. E come se stessero obbedendo a un ordine, tutti i poliziotti di frontiera in uniforme d'un tratto si dimostrarono in grado di sorridere amichevolmente. Per decenni le disposizioni dall'alto erano state di scrutare e osservare con aria sospettosa, ma adesso anche loro brindavano assieme ai colleghi sloveni.
Al centro delle corsie di marcia, tenute sgombre per consentire il flusso
del traffico, un ragazzo sventolava ad arte
una gigantesca bandiera dell'Europa davanti ai parabrezza
delle macchine di passaggio, sulle note della
Nona
di Beethoven. Probabilmente era riuscito a non finire sotto le
ruote solo grazie al tasso alcolico che aveva nel sangue. Un
autoarticolato si fece strada in mezzo alla folla, procedendo
a passo d'uomo, e premendo una trombetta si unì ai fiati dell'
Inno alla gioia
nell'arrangiamento di von Karajan. Una festa popolare allegra e sfrenata, poco
prima di Natale, che sarebbe durata tutta la notte.
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