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| << | < | > | >> |IndiceIntrepidi navigatori 6 Il destino manifesto 13 Revolución somos todos! 28 Terrore buono 36 Habana Beach 93 La tempesta perfetta 125 Otro mundo es posible 159 Bibliografia essenziale 161 Approfondimenti 167 Colonialismo e capitalismo nella prospettiva imperialista 169 Appendici 179 Cuba o muerte! 180 Io, cuba, i cinque 183 Le cartoline 190 |
| << | < | > | >> |Pagina 6Questa è la storia di una piccola isola, in apparenza insignificante, che da oltre un secolo è assediata nel suo mare dalla più grande potenza economica e militare del pianeta. L'isola si chiama Cuba. C'è chi sostiene che l'inizio dei problemi per l'isola (e anche per buona parte del globo terrestre) risalga a diversi secoli fa, al giorno in cui un intrepido navigatore, dovendo decidere tra la via più breve e quella più lunga per arrivare in un certo posto, sceglie la più lunga, giungendo per di più nel posto sbagliato. Cuba è una delle prime isole che l'intrepido navigatore incontra sulla sua rotta, il 27 ottobre 1492.
In realtà è indelicato chiamarla isola, in quanto l'intrepido navigatore è
assolutamente certo di essere approdato a un continente. Gli indigeni continuano
a dirglielo che no, che sono sicuri che quella è un'isola. È la loro terra e la
conoscono: stanno lì da diecimila anni.
Uomini bestiali, i quali pensano che il mondo intero è un'isola.
[Cristoforo Colombo]
Bestiali quegli uomini che portano doni e offrono oro per un
pezzo di vetro, «paghi d'ogni piccola cosa e anche di niente»...
Sono senza lettere e senza memorie del passato, e non trovano
altro piacere che nel mangiare e nello star con le donne.
[Cristoforo Colombo]
Al di là del legittimo domandarsi in cosa trovi piacere Colombo, a una mente
acuta non può non imporsi il problema di capire quale sia la relazione tra
l'amore per le donne e per il cibo — peraltro condivisibile — e la comprensione
del fatto che Cuba sia o no un'isola. Colombo però non ne vuole proprio sapere
e un giorno, per sgomberare il campo da ogni dubbio, obbliga
tutti i suoi uomini a scendere a terra e a giurare...
Quella era senza dubbio alcuno la terraferma e non un'isola e,
continuando a navigare lungo la detta costa, si sarebbe giunti
ad un Paese abitato da gente civile e conoscitrice del mondo.
[Cristoforo Colombo]
Colombo stabilisce che chi rifiuti di prestare giuramento subisca il taglio della lingua e cento frustate.
Nonostante la loro ignoranza e ostinazione, il grande genovese intravede
comunque negli indigeni alcune potenzialità.
Sono adatti ad essere comandati e a che li si faccia lavorare, seminare e
portare a termine tutti gli altri lavori che si rendessero necessari, e a che si
insegni loro ad andar vestiti e a prendere i nostri costumi.
[Cristoforo Colombo]
Ma l'intrepido navigatore va di fretta, perché il tempo è denaro e
a Cuba secondo lui non c'è oro in quantità soddisfacente, e salpa
a vele spiegate verso la futura gloria. Gli indigeni lo salutano con
il consueto entusiasmo, colmi di gratitudine per quell'uomo che
gli ha fatto il favore di scoprirli. Prima di partire, però, Colombo
si preoccupa di scrivere due righe al re di Spagna per informarlo
che questi popoli «sono molto semplici e di buona fede e professano grande amore
verso tutti» e per raccomandargli di inviare dei
religiosi per convertirli subito al cristianesimo.
Si facciano processioni, si celebrino feste solenni, si ornino i templi di
liete fronde, esulti Cristo in terra come in cielo, perché
volle che fossero salvate le anime di tanti popoli prima perdute.
Rallegriamocene tanto per l'esaltazione della nostra fede
come per l'incremento delle cose temporali, di cui non solamente
la Spagna ma tutta la Cristianità sta per essere partecipe.
[Cristoforo Colombo, relazione al re di Spagna, 14 marzo 1493]
Suo fratello Bartolomeo, per portarsi avanti col lavoro, si impegna subito in prima persona nella conversione dei "selvaggi", ma, deluso dal fallimento dei suoi sforzi amorevoli, decide poi di porre fine alla breve esperienza pastorale bruciando vivi i malcapitati, secondo una sua personalissima interpretazione del Vangelo. Purtroppo, come spesso accade, chi arriva non è migliore di chi se n'è andato. Nel 1510 approda a Cuba il generale Diego Velázquez con un manipolo di poche centinaia di uomini ben equipaggiati. Tra loro c'è anche un gentiluomo di nome Hernán Cortés, che a breve si cimenterà nello sterminio dei Maya e degli Aztechi. Al villaggio di Caonao duemila persone accolgono Velázquez facendo festa. Gli portano cibo, fiori e altri doni. Uomini, donne, vecchi, bambini. Si sono radunati tutti per dare il benvenuto agli stranieri. E se ne stanno lì a bocca aperta a guardare gli spagnoli e come sono belli i loro cavalli. E come brillano al sole le loro spade, questo sole dolce che sa di primavera. Ma le spade sono sguainate e i cavalli ora avanzano al galoppo. Le donne gridano. I bambini hanno paura. Gli spagnoli sono tutti intorno. Il cibo per terra. Sotto gli zoccoli. I doni per terra. I fiori per terra. Fiori che si colorano di rosso. Pietre che si colorano di rosso. Terra che si colora di rosso. Rosso. E mani, braccia, gambe, teste. Rosso. Il filo della lama è la mannaia del macellaio, che affonda nella carne tenera, nella carne viva, che trancia vene, nervi, muscoli, ossa. Rosso. Passano pochi minuti. Pochi minuti soltanto. E non ce n'è uno che riesca a salvarsi, a scappare, a chiedere aiuto. Non ce n'è uno che possa difendersi. Solo un lago di sangue, un lago rosso, e corpi fatti a pezzi. E così per gli altri. Neonati trafitti dalle spade nelle culle. Le loro madri, donne su cui godere, a montarle come bestie, bestie fatte di carne, da usare e prendere a calci, carne da tagliare, seni, orecchie, mani, cosce, natiche, spalle, carne per i cani. Donne impiccate agli alberi con i figli appesi per la gola alle loro caviglie. I loro uomini, trascinati a lavorare legati in fila, per il collo. Guai a chi non tiene il passo e a chi cade, perché gli spagnoli gli mozzano la testa per non perdere tempo a slegarlo. E corpi che si contorcono in fiamme, mani amputate, mani giunte, come in preghiera, infilzate nei bastoni, l'una dietro l'altra, per farle vedere, per dare l'esempio. Dei 100.000 indigeni che abitavano l'isola, in quarant'anni ne restano meno di 5.000: la civiltà è arrivata a Cuba. E siccome si vede che gli indigeni non hanno resistenza e muoiono subito, all'inizio del Cinquecento cominciano ad arrivare i primi carichi di schiavi dall'Africa. Con la nuova disponibilità di braccia robuste per la coltivazione della canna da zucchero e del tabacco, Cuba si arricchisce. Ma ad arricchirsi, come spesso accade, sono soltanto pochi. Il resto è sudore, fame, miseria, lavoro da cani, lavoro da schiavi, capannoni dormitorio per poche ore di dormiveglia tra la fatica di oggi e la fatica di domani. Il resto è una vita da poco e una morte da nulla. Il resto è negri e criollos. Chi riesce scappa sulle montagne. Anche i bianchi non se la passano bene. La Spagna ha la mano pesante. Ed è pesante la mano dei governatori. Mano che indica, giudica, impone e dispone. Mano che chiede il conto. Mano che spreme fino all'ultima goccia. Tasse. Carcerazioni. Esecuzioni. Per tutto e per niente. I coltivatori si ribellano. Ancora e ancora. E ogni volta è un grido. Un grido spezzato, che cade sulle ginocchia. Un grido che si contorce e si ripiega sulla terra che lo ha generato. Un grido di polvere e sangue. Un grido che non ha più voce. Come se non bastasse, nel 1740 a Madrid viene fondata la Real Compañía de la Habana, una grande e molto esclusiva Società per Azioni. E chi sono i principali azionisti? Sua Maestà il re e Sua Maestà la regina. La Real Companía non si occupa di commercio equo e solidale: la sua principale attività consiste nel dirottare le produzioni cubane in Spagna, dove vengono pagate la metà del prezzo. Se prima era miseria, ora è miseria nera. Sull'isola si riesce a sopravvivere solo con il contrabbando. | << | < | > | >> |Pagina 28Poco dopo la presa del potere da parte di Batista, un giovane avvocato fresco di università presenta un ingenuo ricorso alla Corte costituzionale contro il golpe. Alla Corte costituzionale probabilmente ancora starebbero ridendo, se non fosse che quel ragazzo dimostrerà presto di fare sul serio. Il giovane avvocato si chiama Fidel Castro Ruz e il 26 luglio del '53 è insieme ad altri 150 ad assaltare la caserma Moncada di Santiago. Qualcuno cade combattendo, altri vengono catturati e giustiziati. Per fermare il massacro deve intervenire Sua Eminenza l'Arcivescovo in persona. Non che Batista sia il più fervente dei cattolici, ma prima di inimicarsi la Chiesa ci pensa due volte. Fidel è tra gli ultimi ad essere catturati: nel processo provvede da solo alla propria difesa e si trasforma da imputato in accusatore, lanciandosi in un'arringa memorabile. La storia lo assolverà, il tribunale no. Finisce condannato a 15 anni di carcere, ma nel maggio '55 Batista, alle prese con problemi d'immagine, è costretto a concedere l'amnistia. Fidel, il fratello Raúl e gli altri ribelli superstiti vengono esiliati in Messico. Da Cuba li insegue un sicario assoldato dal dittatore, ma il piano svanisce nel nulla insieme ai soldi, come talvolta accade quando si paga un lavoro in anticipo. In Messico gli esuli fondano il "Movimento 26 luglio", data dell'assalto al Moncada, e iniziano a riorganizzare la resistenza. Al gruppo si uniscono idealisti, combattenti ed esiliati di altre nazionalità. Tra loro c'è anche un giovane medico argentino, Ernesto Guevara. Guevara, che aveva già visto con i suoi occhi l'esercito degli Stati Uniti all'opera nell'invasione del Guatemala per destituire il governo democratico di Jacobo Arbenz, rimane affascinato dalla personalità e dalle idee di Castro e senza pensarci due volte sposa la causa cubana. Ernesto e Fidel iniziano la loro prima conversazione alle otto di sera e parlano per dieci ore, fino all'alba del giorno dopo. «Bisognava smettere di piangere e combattere.» Ernesto confida alla moglie Hilda che il piano di Fidel è una pazzia, ma una pazzia realizzabile. I ribelli si addestrano in una tenuta agricola alla periferia di Città del Messico, con la polizia alle calcagna per le pressioni di Batista, che finché Fidel è a piede libero non si sente tranquillo. Parte del gruppo finisce in una retata: si fanno un paio di mesi di carcere, ma tutto si risolve con una raccomandazione e più d'una mazzetta. Però il cerchio si sta stringendo e bisogna fare presto. È la notte tra il 24 e il 25 novembre del 1956. Una notte nera, una notte di pioggia incessante. C'è un piccolo yacht scalcinato, della portata teorica di 20 persone, che salpa dal porto di Tuxpan. È il Granma. Stipati a bordo, non 20 ma 82 uomini. 82 uomini che partono per fare una rivoluzione, per fare giustizia, per togliere ai ladri e restituire ai derubati. E a Santiago la rivolta è pronta: scoppia il 30 novembre, secondo gli accordi. Ma dov'è il Granma? Il Granma arranca sovraccarico, fa acqua da tutte le parti ed è sulla rotta sbagliata: arriva solo tre giorni dopo. Intanto a Santiago è ancora sangue, sangue per le strade, sangue versato. La polizia di Batista fa il suo lavoro. Il Granma si insabbia in una palude e i ribelli riescono a sbarcare solo le armi leggere. Più che uno sbarco è un naufragio. Esercito e aviazione hanno preparato il comitato di accoglienza. 35.000 uomini armati fino ai denti, con tanto di navi, aerei e blindati, e in più il supporto della marina statunitense. Si salvano in dodici con sette fucili. Tutti gli altri finiscono uccisi o catturati e poi torturati e assassinati con un colpo alla schiena. I dodici superstiti trovano riparo sulla Sierra, con la complicità dei contadini. | << | < | > | >> |Pagina 32Molti considerano Batista un figlio di puttana ... ma gli interessi americani vengono prima: per lo meno è il nostro figlio di puttana! [William Wieland, Responsabile dei Caraibi presso il Dipartimento di Stato USA]Ma la guerriglia dilaga e nel febbraio del '58 iniziano le trasmissioni di Radio Rebelde. In autunno Fidel e Raúl Castro hanno in mano la parte orientale dell'isola, mentre le divisioni guidate da Ernesto Guevara e Camilo Cienfuegos guadagnano terreno a occidente.
Il 30 dicembre, al termine di una battaglia epica, il "Che" e
Cienfuegos entrano da vincitori a Santa Clara, accolti dalla folla in festa. Il
1° gennaio del '59, poco prima dell'alba, Fulgencio Batista fugge a Santo
Domingo. Anche lui con gli effetti personali, come Machado.
Fidel Castro rimarrà al potere al massimo per un anno.
[Fulgencio Batista]
La rivoluzione ha vinto. Una rivoluzione nata per essere diversa, con le radici nel pensiero, nella vita e nel sangue di José Martí e Simón Bolívar. Una rivoluzione etica prima ancora che comunista. Etica nei fatti: fine dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, previdenza sociale garantita a tutti, lotta senza quartiere al traffico di droga, alla mafia, alla criminalità comune e alla prostituzione, chiusura dei bordelli e delle case di gioco, liberalizzazione dell'accesso a spiagge, a locali e alberghi fino allora riservati all'élite, freno all'importazione di beni di lusso, riduzione dei canoni di affitto, delle tariffe elettriche e telefoniche, del costo dei trasporti, dei libri scolastici e dei medicinali, alfabetizzazione e vaccinazioni a tappeto, uguaglianza tra i sessi, uguaglianza tra le razze, sostegno militare all'Africa nera nella lotta contro la colonizzazione e l' apartheid, invio di medici e insegnanti nei paesi del terzo mondo, esproprio dei terreni oltre i 400 ettari alle compagnie e ai grandi proprietari e ridistribuzione a cooperative e contadini poveri. Trattandosi di una rivoluzione etica, i proprietari vengono espropriati eticamente, in accordo con il diritto internazionale: ogni esproprio avviene infatti a fronte di un indennizzo. L'indennizzo è calcolato in base al valore dichiarato al fisco. E qui gli Stati Uniti si indispongono... Sì, perché se sei molto impegnato, con tutte le tue imprese da mandare avanti e i contatti da gestire, una svista sul pagamento delle imposte ci può anche stare. Niente di più facile. Si indispone il signor William Pawley, consigliere del presidente Eisenhower per gli affari cubani. Si indispone perché, per una curiosa coincidenza che sarebbe ingeneroso liquidare come conflitto di interessi, si trovava anche ad essere il proprietario della Compagnia del Gas dell'Avana. Si indispone il colonnello King, capo della Divisione dell'Emisfero Occidentale della CIA, socio del suddetto signor Pawley e tra i principali investitori nell'isola. Si indispone chi ha fatto qualche cortesia a Batista e chi da Batista qualche cortesia ha ricevuto. | << | < | > | >> |Pagina 36Così adesso la storia da raccontare non è più solo la storia di questa rivoluzione imperdonabile, sopravvissuta nonostante tutti e nonostante tutto, un po' come ha voluto e un po' come ha potuto. C'è anche un'altra storia. Una storia di terroristi che non sono nemici della civiltà ma che, anzi, favoriscono «la diffusione della democrazia». È il "terrorismo buono", da non confondersi con il "terrorismo cattivo", che gli Stati Uniti stanno combattendo a colpi di guerra preventiva in ogni angolo del pianeta.
O si sta con noi o si sta con i terroristi!
[George W. Bush, discorso al Congresso, 20 settembre 2001]
Una storia da 3.500 morti e 2.000 feriti, cominciata con un caccia
statunitense che il 21 ottobre 1959 mitraglia l'Avana uccidendo a
caso decine di persone. Non è un episodio isolato. Le incursioni si
ripetono. Piovono bombe sulle fabbriche e sulle piantagioni. Gli
aerei vengono dalla Florida, dove hanno trovato calda accoglienza
i facoltosi cubani compromessi con il regime di Batista.
Si accetta qualunque persona arrivata sul territorio statunitense il
1° gennaio 1959 o dopo quella data.
[Legge di normalizzazione cubana del 2 novembre 1966]
Il battello francese La Coubre, proveniente dal Belgio, salta in aria nel porto dell'Avana durante le operazioni di scarico. Pochi minuti dopo la prima esplosione, un secondo scoppio ancora più potente. La gente accorsa sul posto per prestare i primi soccorsi viene scaraventata via dall'onda d'urto. 101 i morti, 200 i feriti, imprecisato il numero dei dispersi. Un testimone racconta di un civile che aveva sul suo corpo una tale quantità di ferite da rendere impossibile distinguere se si trattasse di un bianco o di un nero. È il 4 marzo 1960.
E mentre Fidel Castro sfugge ai primi timidi tentativi di assassinio,
l'amministrazione Eisenhower protegge gli anticastristi
di Miami dediti al terrorismo.
Per motivi umanitari.
[Dwight D. Eisenhower]
Il governo dell'Avana chiede aiuto alle Nazioni Unite: fornisce
le prove di venti bombardamenti, i numeri di matricola degli
aerei, i nomi dei piloti, i dettagli sulle bombe inesplose.
Assicuro che il mio paese non ha alcuna intenzione di procedere a
un'aggressione contro Cuba.
[Henry Cabot Lodge Jr., ambasciatore e vicepresidente degli Stati Uniti]
Intanto gli strateghi USA danno sfogo alla loro creatività nella
costruzione di un qualsiasi pretesto che giustifichi l'invasione
dell'isola. Il capo della CIA Allen Foster Dulles chiede alla Gran
Bretagna di non fornire armamenti a Cuba, per indurre Castro
a rivolgersi all'URSS.
Una mossa gravida di conseguenze.
[Allen Foster Dulles]
Una mossa che avrebbe autorizzato a sbandierare lo spauracchio del pericolo
rosso e ad intervenire per ragioni di sicurezza nazionale.
Si potrebbe pensare a un'operazione montata ad arte, per esempio ad Haiti,
così da spingere Castro all'invio di qualche barca carica di uomini verso le
coste haitiane in quella che potrebbe essere fatta passare per un'operazione
tesa a rovesciare il regime. Un'operazione di questo tipo getterebbe un'ombra su
Cuba.
[Arthur Schlesinger, responsabile della task force latinoamericana istituita da
John F. Kennedy]
Un altro piano, meno originale, prevedeva l'affondamento di
una nave statunitense nella baia di Guantanamo. La stampa USA
avrebbe poi pubblicato le false liste delle vittime e le false interviste ai
parenti per scatenare un'ondata di indignazione.
La maggioranza dei cubani sostiene Castro. Non c'è opposizione politica
efficace ... L'unico mezzo possibile per annientare il sostegno interno al
regime è provocare la disillusione e lo scoramento attraverso l'insoddisfazione
economica e l'indigenza ... Tutti i mezzi possibili devono essere messi in atto
rapidamente per indebolire la vita economica di Cuba ... Una misura che potrebbe
avere un impatto molto forte sarebbe rifiutare ogni finanziamento e rifornimento
a Cuba, cosa che ridurrebbe gli introiti monetari e i salari reali e
provocherebbe la carestia, la disperazione e il rovesciamento del governo.
[Memoria inviata dal sottosegretario di Stato per gli Affari
interamericani Lester D. Mallory al segretario di Stato per
gli Affari interamericani Roy Rubottom, 6 aprile 1960]
Così la storia continua con il terrorismo economico, con un
blocco totale in grado di mettere in ginocchio anche una grande potenza e
sanzioni più pesanti di quelle imposte all'Iraq di Saddam Hussein.
Sopprimendo la nostra quota l'industria dello zucchero soffrirebbe
rapidamente di un declino vertiginoso a causa di una disoccupazione diffusa.
Molte persone si ritroverebbero senza lavoro e comincerebbero a soffrire la
fame.
[Rapporto interno del Dipartimento di Stato del 22 giugno 1959]
Gabriel García Marquez racconta che la prima sera del blocco
a Cuba c'erano «482.560 automobili, 343.300 frigoriferi,
549.700 apparecchi radio, 303.500 televisori, 352.900 ferri da
stiro elettrici, 286.400 ventilatori, 41.800 lavatrici automatiche, 3.510.000
orologi da polso, 63 locomotive e 12 navi mercantili. Tutto ciò, salvo gli
orologi che erano svizzeri, era stato fabbricato negli Stati Uniti. Cuba
importava dagli Stati Uniti quasi 30.000 articoli utili e inutili per la vita
quotidiana».
Non si tratta di sanzioni, ma di una questione strettamente bilaterale di
politica commerciale e non di un tema di natura tale da poter rientrare nelle
competenze dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
[Peter Burleigh, rappresentante aggiunto degli Stati Uniti:
dichiarazione all'Assemblea generale delle Nazioni Unite in
risposta al voto dell'ONU contro l'"embargo" a Cuba]
È un nodo alla gola. Un nodo che si stringe. Un nodo che soffoca.
L'embargo economico a Cuba è una legge degli Stati Uniti e come tale resterà
in vigore.
[Philip Reeker, portavoce del Dipartimento di Stato USA]
Dura lex sed lex.
Al punto che quando l'isola verrà devastata dall'uragano del '63, l'associazione
newyorkese Casa Cuba, che aveva organizzato una raccolta di indumenti a favore
delle popolazioni colpite, si vedrà negare l'autorizzazione all'invio.
Perché contrario agli interessi nazionali.
[Motivazione ufficiale con cui la richiesta di autorizzazione è stata respinta]
E non si trova l'aspirina, non si trova il detersivo, non si trovano le
batterie, non si trovano chiodi e bulloni, non si trova niente. Anche lo
zucchero cubano, gli americani non lo comprano più. E non solo gli americani,
perché chi non è con loro è contro di loro.
L'Europa si trova di fronte a un'alternativa: deve scegliere tra Castro e
gli Stati Uniti. Ma gli europei non si vogliono scontrare con gli americani e
sanno benissimo che non possono essere buoni amici di entrambi.
[Francisco José Hernandez, presidente della Fondazione nazionale cubano
americana; intervista rilasciata a Hernando Calvo Ospina e Katlijn Declercq]
Cuba è in una prigione di zucchero. E per venderlo, tutto questo zucchero, il governo cubano non può che andare a bussare alla porta del Cremlino, con cui per un anno e mezzo non aveva neppure ripristinato le normali relazioni diplomatiche. | << | < | > | >> |Pagina 43Proprio a Miami, intanto, la CIA inaugura il più grande quartier generale di cui abbia mai potuto disporre nella sua gloriosa storia. Qui si reclutano a suon di dollari controrivoluzionari cubani. Tra gli ufficiali addetti a questo compito c'è un ancora sconosciuto George Bush. A ciascuno dei mercenari viene assegnato un numero di matricola: si parte dal numero 2.500 per farli sembrare di più, altrimenti va a finire che anche il più entusiasta dei controrivoluzionari si demotiva ancor prima di cominciare.Cuba è un pericolo. Pericolo rosso. È una minaccia per la democrazia e per il mondo occidentale. Cuba è la cortina di ferro a un passo da Miami. È vicina, anzi vicinissima. Per convincere la popolazione statunitense di quanto questo pericolo sia grande, incombente e intollerabile, le carte geografiche ufficiali rappresentano l'isola con dimensioni maggiori e traslata verso la Florida.
Il 3 gennaio 1961 Washington rompe le relazioni diplomatiche con Cuba e due
settimane più tardi proibisce ai cittadini statunitensi di recarvisi.
Il problema di Cuba ha la massima priorità per il governo statunitense e
tutto il resto passa in secondo piano. Non vanno lesinati né tempo, né sforzi,
né personale.
[Robert Kennedy, comunicazione alla CiA]
A dimostrare quanto il problema sia prioritario ci pensa il pacifista e
democratico John Fitzgerald Kennedy, fresco di elezione. Forte dell'appoggio e
dei voti della lobby degli esuli cubani, il presidente decide di mettere in
pratica un piano di intervento militare che la CIA ha nel cassetto già da
diversi anni.
Ciò che ha fatto perdere la pazienza agli Stati Uniti è l'accusa offensiva
dell'Avana di un presunto piano statunitense per invadere l'isola di Cuba.
[Sunday New York Times, 3 gennaio 1961]
Per il finanziamento dell'invasione vengono stanziati 13 milioni di dollari,
in parte provenienti dal traffico di droga nel sudest asiatico. La notizia
dell'aggressione imminente si diffonde
a macchia d'olio nel Centroamerica e il piccolo settimanale indipendente
The Nation
rivela in un editoriale tutti i preparativi dell'attacco. Nei giorni successivi
un centinaio di solerti e ortodossi organi di informazione statunitensi
smentiscono scandalizzati, facendosi beffe degli allarmi lanciati da Castro.
Isterica propaganda antiamericana. [New York Times, 8 gennaio 1961]
Un noioso melodramma di pessimo gusto.
[Time, 13 gennaio 1961]
Il 15 aprile del '61 come da copione piovono bombe dal cielo.
Aerei statunitensi riverniciati con i colori cubani bombardano
tre aeroporti dell'isola distruggendo un paio di velivoli e uccidendo sette
persone. Due giorni dopo, un'armata di 1.500 mercenari, ex membri della polizia
di Batista, arricchiti di regime, pregiudicati e anticomunisti addestrati dalla
CIA in Guatemala, sbarca a Playa Girón, nella Baia dei Porci.
Portatemi i peli della barba di Castro!
[Generale Luis Somoza, presidente del Nicaragua, salutando la partenza dei
controrivoluzionari da Puerto Cabezas]
Sono armati fino ai denti e sostenuti dalle navi e dalla copertura
aerea dell'aviazione USA. Il primo a mettere piede sulla spiaggia è
l'ufficiale statunitense William Robertson. Ai cittadini americani
le nuove leggi vietano di visitare Cuba, ma non di assaltarla militarmente.
Eccoli i paladini della libertà, che marciano orgogliosi
e compatti per venirsi a riprendere le banche, le miniere, le fabbriche. Eccoli
i nuovi eroi dello stato di diritto, armati di nobili
ideali verniciati di fresco (ma anche di mitragliatrici e bazooka),
che tornano a reclamare i soldi che avevano a prezzo di tanti sacrifici rubato.
Eccoli i difensori della democrazia che fino a ieri sedevano a tavola con
Batista. Li riconoscete? Gli esuli cubani che partecipano alla spedizione sono
per la maggioranza gente più abituata ad andare in giro sulle limousine con
autista che non a combattere nelle paludi, almeno per il momento. Bastano poche
centinaia di pescatori e carbonai con i loro vecchi fucili da museo a
bloccarli in attesa dei rinforzi. E i rinforzi arrivano. Fidel li guida
personalmente. In tre giorni l'esercito cubano riesce ad avere la
meglio. I prigionieri verranno restituiti a Washington in cambio
di alimenti e medicinali. In loro onore si organizza una cerimonia a cui
prendono parte il presidente e la moglie Jacqueline.
È per me un piacere immenso essere qui tra gli uomini più
coraggiosi esistenti al mondo!
[Jacqueline Kennedy, intervento nel corso della cerimonia]
Kennedy riceve la bandiera dai capi della spedizione e nel tripudio generale promette solennemente di restituirla «in un'Avana libera». Quella bandiera tornerà ai reduci cubani quindici anni dopo, dentro un pacchetto postale, in seguito alla richiesta di restituzione inoltrata al Museo Kennedy.
Il presidente si assume la piena responsabilità per il fallimento,
ma non fa tesoro dell'esperienza, perché presto ripeterà lo stesso errore in
Vietnam.
Le attività dei patrioti cubani non rappresentano una violazione delle nostre leggi di neutralità. [Robert Kennedy, Ministro della Giustizia, 20 aprile 1961]
L'invasione non costituisce una spedizione militare.
[Robert Kennedy, The New York Times, 26 agosto 1962]
Sulla stampa USA imperversa il dibattito. Sul significato politico ed etico dell'attacco? Non esattamente: il dibattito è sugli errori tattici che hanno portato alla sconfitta.
Il segretario di stato Dean Rusk prova a giustificare di fronte a
una Commissione del Senato la tentata invasione di Cuba,
sostenendo che il ricorso alle armi sia accettabile in quanto ha
dei precedenti, e nell'imbarazzo generale consegna un elenco di
103 interventi militari compiuti dagli USA tra il 1798 e il 1895.
Il problema principale sono le idee di Castro, che hanno molta eco nel resto
dell'America Latina, dove la distribuzione delle terre e di altre risorse
nazionali favorisce in modo esagerato
solo alcune classi sociali. Ora i poveri e gli esclusi, incoraggiati
dall'esempio della rivoluzione cubana, iniziano a rivendicare il diritto a
un'esistenza decorosa.
[Arthur Schlesinger, responsabile della task force latinoamericana istituita da
John E. Kennedy]
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