Autore Sarah Helm
Titolo Il cielo sopra l'inferno
SottotitoloLa drammatica storia di Ravensbrück, il campo di concentramento nazista per sole donne
EdizioneNewton Compton, Roma, 2015, I volti della storia 338 , pag. 720, ill., cop.rig.sov., dim. 15,5x23x4,5 cm , Isbn 978-88-541-8205-9
OriginaleIf This Is A Woman
EdizioneLittle Brown, London, 2015
TraduttoreFrancesca Prencipi
LettoreGiovanna Bacci, 2017
Classe storia criminale , storia contemporanea , paesi: Germania , storia: Europa












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  8     Mappa dei campi di concentramento e dei sottocampi
        nazisti con le principali vie seguite per il trasporto
        e la liberazione delle prigioniere di Ravensbrück

 11     Il bagno penale nazista di Ravensbrück.
        Pianta sottratta alla Gestapo


 13     Prologo

        PARTE PRIMA

 23 1.  Langefeld
 43 2.  Sandgrube
 65 3.  Le blockova
 81 4.  La visita di Himmler
 89 5.  Il dono di Stalin
102 6.  Else Krug
113 7.  Il dottor Sonntag
127 8.  Il dottor Mennecke
147 9.  Bernburg

        PARTE SECONDA

169 10. Lublino
188 11. Auschwitz
201 12. Il cucito
217 13. "Conigli"
228 14. Esperimenti speciali
242 15. La guarigione

        PARTE TERZA

267 16. L'Armata Rossa
276 17. Yevgenia Klemm
291 18. Il dottor Treite
313 19. Rompere il cerchio
331 20. I trasporti neri

        PARTE QUARTA

353 21. Le vingt-sept mille
365 22. Crollare
377 23. Resistere
389 24. Comunicare

        PARTE QUINTA

407 25. Parigi e Varsavia
417 26. Kinderzimmer
426 27. La protesta
438 28. Tentativi di avvicinamento
446 29. La dottoressa Loulou

        PARTE SESTA

465 30. Le ungheresi
473 31. Una festa per bambini
486 32. La marcia della morte
493 33. Il Campo Giovanile
512 34. La copertura
523 35. Königsberg
534 36. Bernadotte
543 37. Émilie
559 38. Nelly
572 39. Masur
588 40. Gli Autobus Bianchi
604 41. La liberazione

623     Epilogo


        APPENDICI
651     Elenco delle abbreviazioni
653     Note

681     Ringraziamenti
686     Bibliografia
695     Fonti delle illustrazioni
698     Indice analitico


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

                                          Considerate se questa è una donna
                                                 senza capelli e senza nome
                                               senza più forza di ricordare
                                         vuoti gli occhi e freddo il grembo
                                                   come una rana d'inverno.
                                               Meditate che questo è stato:
                                                  vi comando queste parole.

                                            Primo Levi, Se questo è un uomo

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

Prologo



Dall'aeroporto di Tegel a Berlino, ci vuole poco più di un'ora per raggiungere Ravensbrück. La prima volta che ci andai in macchina, nel febbraio del 2006, la neve cadeva fitta e un camion aveva ribaltato il carico sul raccordo anulare di Berlino, quindi ci misi di più.

Heinrich Himmler andava spesso a Ravensbrück, anche quando c'era un tempo atroce come quello. Il capo delle SS aveva degli amici nella zona e passava sempre a ispezionare il campo di concentramento. Raramente se ne andava senza lasciare dei nuovi ordini. Una volta, ordinò che venissero aggiunti più tuberi nella minestra dei prigionieri. In un'altra occasione dichiarò che le eliminazioni non procedevano abbastanza in fretta.

Quello di Ravensbrück era l'unico campo di concentramento solo per donne. Prendeva il nome dal piccolo villaggio non lontano dalla città di Fürstenberg, a circa cinquanta miglia a nord di Berlino, lungo la strada per Rostock sulla costa baltica della Germania. Le donne che ci arrivavano di notte a volte pensavano di essere vicine alla costa, perché sentivano l'odore della salsedine nel vento, e la sabbia sotto i piedi. Quando veniva il giorno, vedevano che il campo era stato costruito sulle rive di un lago, circondato dai boschi. A Himmler piaceva che i campi di concentramento fossero costruiti in mezzo alla natura, preferibilmente in luoghi nascosti. Oggi, il campo è ancora nascosto alla vista; e gli orribili crimini che vi sono stati perpetrati, nonché il coraggio delle vittime, restano in gran parte sconosciuti.


Ravensbrück aprì a maggio del 1939, circa quattro mesi prima dell'inizio della guerra, e fu trovato dai russi sei anni dopo, tra gli ultimi campi di concentramento raggiunti dagli Alleati. Nel suo primo anno ospitò meno di 2000 prigioniere, quasi tutte tedesche. Molte di loro erano state arrestate perché si opponevano a Hitler, per esempio perché di idee comuniste, o perché Testimoni di Geova, che consideravano Hitler l'Anticristo. Altre erano state deportate lì solo perché i nazisti le consideravano esseri inferiori e le volevano estirpare dalla società: prostitute, criminali, indigenti o zingare. Più tardi, nel campo arrivarono migliaia di donne arrestate nelle nazioni occupate dai nazisti, molte delle quali avevano militato nella resistenza. Anche delle bambine furono portate lì. Una piccola parte delle prigioniere, circa il 10%, era di religione ebraica, ma il campo non fu mai ufficialmente pensato per gli ebrei.

Nel suo picco massimo di attività, il campo ospitò 45.000 donne; negli oltre sei anni della sua esistenza, circa 130.000 donne superarono i suoi cancelli, e vennero picchiate, affamate, costrette a lavorare fino alla morte, avvelenate e uccise con il gas. Si stima che le vittime siano state tra 30.000 e 90.000; probabilmente i numeri reali stanno nel mezzo, ma i documenti delle SS al riguardo sono così pochi che nessuno probabilmente lo saprà mai per certo. La distruzione sistematica delle prove di Ravensbrück è un'altra delle ragioni per cui la storia di questo campo è rimasta nell'ombra per così tanto tempo. Nel periodo finale, le schede di ogni prigioniera furono bruciate nei forni crematori o nelle pire insieme ai cadaveri. Le ceneri furono gettate nel lago.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 17

Quando raggiunsi la periferia di Berlino, la neve stava smettendo di cadere. Oltrepassai un segnale per Sachsenhausen, luogo del campo di concentramento maschile, il che significava che stavo andando nella direzione giusta. Sachsenhausen e Ravensbrück erano molto vicini. Nel campo degli uomini veniva perfino fatto il pane per le donne; i filoni venivano portati ogni giorno con i camion lungo quella stessa strada. Inizialmente, ogni donna riceveva mezzo filone di pane ogni sera. Ma alla fine della guerra ne ricevevano appena una fetta, e le "bocche inutili", come i nazisti chiamavano coloro di cui volevano liberarsi, non ne ricevevano affatto.

Gli ufficiali delle SS, le guardie e i prigionieri spesso venivano spostati tra i campi, mentre gli amministratori di Himmler cercavano di massimizzare le risorse. All'inizio della guerra, una sezione femminile era stata aperta ad Auschwitz, e più tardi accadde anche in altri campi maschili, e Ravensbrück forniva e addestrava le guardie donne. Più avanti nella guerra, diversi veterani delle SS che lavoravano ad Auschwitz furono trasferiti a Ravensbrück. Anche le prigioniere furono spostate spesso tra i due campi. Così, sebbene Ravensbrück avesse un distintivo carattere femminile, condivideva una cultura comune con i campi maschili.

L'impero delle ss di Himmler era vasto: a metà della guerra c'erano almeno 15.000 campi nazisti, che includevano campi di lavoro temporanei e migliaia di campi secondari, collegati ai principali campi di concentramento, sparsi in tutta la Germania e la Polonia. I più grandi e mostruosi furono quelli costruiti nel 1942, secondo i termini della Soluzione Finale. Alla fine della guerra, si stimò che sei milioni di ebrei fossero stati sterminati. I fatti di questo genocidio sono oggi così conosciuti e terrificanti che molta gente suppone che il programma di sterminio di Hitler consistesse unicamente nell'Olocausto degli ebrei.

Chi chiede di Ravensbrück spesso si sorprende a scoprire che la maggioranza delle donne che vi furono uccise non era di religione ebraica.

Oggi gli storici differenziano i vari campi, ma queste etichette possono confondere. Ravensbrück è spesso descritto come un "campo di lavoro", termine che diminuisce l'orrore di ciò che vi è accaduto, e potrebbe anche aver contribuito alla sua marginalizzazione. Di sicuro era un importante centro di lavori forzati — la Siemens, gigante dell'elettronica, aveva una fabbrica lì — ma i lavori forzati erano solo un passo verso la morte. Le prigioniere, al tempo, chiamavano Ravensbrück un campo di sterminio. La sopravvissuta ed etnologa francese Germaine Tillion lo definì un luogo di "lento sterminio".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 23

1
Langefeld



«L'anno è il 1957. Qualcuno suona alla porta del mio appartamento», scrive Grete Buber-Neumann, ex prigioniera di Ravensbrück. «Apro la porta. Mi ritrovo davanti un'anziana donna dal respiro affannoso e con dei denti mancanti nell'arcata inferiore. La sento balbettare: "Non mi riconosci? Sono Johanna Langefeld, la capoguardia di Ravensbrück". L'ultima volta che l'ho vista è stato quattordici anni fa, nel suo ufficio, nel campo. Lavoravo come segretaria per lei, quando ero prigioniera lì... Pregava Dio di darle la forza di fermare quell'orrore, ma se una donna ebrea entrava nel suo ufficio, il suo volto si riempiva d'odio...

Dunque si siede al tavolo con me. Mi dice che avrebbe preferito nascere uomo. Parla di Himmler, che a volte chiama ancora "Reichsführer". Parla per molte ore, perdendosi nei vari anni, e cercando di spiegare il suo comportamento».

[...]

Il valore dell'addestramento e della disciplina le era stato insegnato fin dai primi anni. Figlia di un fabbro, era nata Johanna May, nella città di Kupferdreh, nella Ruhr, nel marzo del 1900. Lei e la sorella maggiore erano cresciute nella fede luterana; i genitori avevano instillato in entrambe l'importanza della parsimonia, dell'obbedienza e delle preghiere. Come ogni brava ragazza protestante, Johanna sapeva già che il suo ruolo nella vita sarebbe stato quello di una buona moglie e madre: "Kinder, Küche, Kirche", ovvero "figli, cucina e chiesa", era un credo familiare in casa May. Tuttavia, sin dall'infanzia, Johanna aveva desiderato qualcosa di più. I suoi genitori le avevano raccontato anche del passato della Germania. Dopo la messa della domenica, spesso parlavano dell'umiliazione dell'occupazione francese della loro amata Ruhr, sotto Napoleone, e la famiglia si inginocchiava e pregava Dio perché la nazione tornasse alla sua grandezza di un tempo. Lei idolatrava la sua omonima, Johanna Prohaska, eroina delle guerre di liberazione, che si era travestita da uomo per combattere contro i francesi.

Tutto questo, Johanna Langefeld lo raccontò a Grete Buber-Neumann, la sua ex prigioniera, alla porta della cui casa di Francoforte si presentò molti anni dopo, per «cercare di spiegare i motivi del suo comportamento». Grete, prigioniera per quattro anni a Ravensbrück, fu spaventata dalla ricomparsa, nel 1957, della sua ex capoguardia; ma fu anche colpita dal racconto della Langefeld e della sua "odissea", e decise di mettere tutto per iscritto.

Nel 1914, quando scoppiò la prima guerra mondiale, Johanna, al tempo quattordicenne, gioì con gli altri mentre i giovani di Kupferdreh marciavano fuori dal paese per inseguire il sogno di una Germania nuovamente grande, solo per scoprire che lei e le altre donne tedesche avevano ben poco da fare. Due anni dopo, quando fu chiaro che la guerra sarebbe presto finita, alle donne tedesche fu detto di colpo di mettersi a lavorare nelle miniere, nelle fabbriche e negli uffici; lì, sul "fronte interno", le donne ebbero una possibilità di dimostrare che sapevano fare lavori da uomini, solo per essere scacciate da quegli stessi posti di lavoro quando i loro uomini tornarono a casa.

Due milioni di tedeschi non tornarono dalle trincee, ma parecchi milioni sì, e Johanna guardò i soldati di Kupferdreh tornare, molti di loro mutilati, tutti umiliati. Secondo i termini della resa, la Germania dovette pagare un enorme risarcimento che avrebbe bloccato l'economia della nazione, facendo toccare all'inflazione livelli sconvolgenti; nel 1924, l'amata Ruhr della Langefeld fu di nuovo occupata dai francesi, che "rubarono" il carbone tedesco come riparazione per i risarcimenti non pagati. I suoi genitori persero tutti i loro risparmi e lei si ritrovò senza un soldo e alla ricerca disperata di un lavoro. Sempre nel 1924 si sposò con un minatore di nome Wilhelm Langefeld, che morì due anni dopo per una malattia ai polmoni.

L'odissea di Johanna, a quel punto, sembrò farsi confusa; si «perse negli anni», scrisse Grete. La metà degli anni '20 fu un periodo buio che non raccontò, tranne che per la relazione con un altro uomo, che la mise incinta, costringendola a dipendere dai gruppi d'aiuto protestanti.

Mentre la Langefeld e milioni di altre persone come lei faticavano ad andare avanti, altre donne tedesche trovarono la libertà, negli anni '20. Con il supporto finanziario americano, la Repubblica di Weimar, guidata dai socialisti, stabilizzò il Paese e iniziò un nuovo cammino liberale. Le donne ebbero diritto al voto, e per la prima volta le donne tedesche entrarono nei partiti politici, soprattutto a sinistra. Ispirate da Rosa Luxemburg , leader del movimento comunista Spartacus, le ragazze della classe media, tra cui anche Grete Buber-Neumann, si tagliarono i capelli, cominciarono a seguire il teatro di Bertolt Brecht e marciarono nei boschi con i compagni del Wandervogel, e altri movimenti giovanili, parlando di rivoluzione. Nel frattempo, in tutta la nazione le donne della classe operaia mettevano da parte soldi per il cosiddetto "Aiuto Rosso", associandosi ai sindacati e distribuendo volantini che istigavano allo sciopero davanti ai cancelli delle fabbriche.

Nel 1922, a Monaco, dove Adolf Hitler stava dando la colpa dei conflitti interni della Germania ai "grassi ebrei", una precoce ragazza ebrea di nome Olga Benario fuggì di casa per unirsi a una cellula comunista, disconoscendo i suoi ricchi genitori facenti parte della classe media. Aveva quattordici anni. In pochi mesi, quella giovanissima studentessa dagli occhi neri guidava le compagne in marce attraverso le Alpi Bavaresi, tuffandosi nei torrenti montani e leggendo Marx intorno ai fuochi dei bivacchi, pianificando la rivoluzione comunista in Germania. Nel 1928, divenne famosa dopo aver assaltato un tribunale a Berlino, liberando un leader comunista tedesco che stava per essere ghigliottinato. Nel 1929, Olga aveva lasciato la Germania per andare a Mosca e addestrarsi insieme all'élite di Stalin, prima di puntare verso il Brasile per cominciare una rivoluzione.

Nella poverissima Ruhr, nel frattempo, Johanna Langefeld era ormai una ragazza madre senza un futuro. Il crollo di Wall Street nel 1929 scatenò una depressione economica globale, precipitando la Germania in una nuova crisi ancora più profonda, che tolse il lavoro a milioni di persone e creò un vasto malcontento. La paura più grande della Langefeld era che suo figlio Herbert le venisse tolto, se fosse caduta nell'indigenza. Ma invece di unirsi ai poveri, scelse di aiutarli, affidandosi a Dio. «Fu la convinzione religiosa a convincerla a lavorare con i più poveri tra i poveri». Così Greta scrisse che le aveva raccontato, anni dopo, seduta al tavolo della sua cucina a Francoforte. Trovò lavoro nei servizi sociali, insegnando economia domestica alle donne disoccupate e «rieducando le prostitute».

Nel 1933, Johanna Langefeld trovò un nuovo salvatore in Adolf Hitler. Il programma di Hitler per le donne non sarebbe potuto essere più chiaro: le donne tedesche dovevano stare a casa, crescere quanti più figli ariani potessero e obbedire ai loro mariti. Le donne non erano adatte alla vita pubblica; la maggior parte dei lavori fu loro negato, come anche l'accesso all'università.

Atteggiamenti simili si potevano ritrovare in qualsiasi Paese europeo degli anni '30, ma il linguaggio nazista riguardo alle donne era velenoso senza pari; non solo l'entourage di Hitler insultava apertamente il sesso femminile, "stupido" e "inferiore", ma richiese più volte la "separazione" tra uomini e donne, come se gli uomini non vedessero alcuna utilità nelle donne, a parte come occasionali ornamenti e, naturalmente, come generatrici di figli. Gli ebrei non erano gli unici capri espiatori dei problemi della Germania: le donne che si erano emancipate durante gli anni della Repubblica di Weimar venivano accusate di aver fatto lavori da uomo e di aver corrotto la morale della nazione.

[...]

Quattro settimane dopo, il 27 febbraio del 1933, mentre Hitler ancora stava lottando per stabilire il potere del suo partito, il parlamento tedesco, il Reichstag, fu incendiato. Del misfatto furono incolpati i comunisti, anche se molti sospettarono che fossero stati i nazisti, per terrorizzare tutti gli oppositori politici nel Paese. Hitler fece passare subito un editto denominato "di detenzione preventiva", che significava che chiunque poteva essere arrestato per "tradimento" e imprigionato a tempo indeterminato. A dieci miglia a nord di Monaco, stava per aprire un nuovo campo per incarcerare i "traditori".

Aperto il 22 marzo del 1933, Dachau fu il primo campo di concentramento nazista. Nelle settimane e nei mesi successivi, la polizia di Hitler arrestò ogni comunista o sospetto tale e lo portò lì per essere spezzato. Anche i socialisti furono arrestati, insieme ai sindacalisti e a tutti gli altri "nemici dello Stato".

Alcuni dei detenuti di Dachau, in particolare tra i comunisti, erano ebrei, ma nei primi anni della dittatura nazista, gli ebrei non furono arrestati in grandi numeri; coloro che si ritrovarono nei primissimi campi di concentramento erano lì, come gli altri, per aver resistito al regime di Hitler, non solo per la loro razza. L'unico scopo dei primi campi di concentramento di Hitler era quello di schiacciare l'opposizione interna; solo una volta che quel risultato fu raggiunto, si passò ad altri obiettivi. Quel compito fu affidato all'uomo più adatto allo scopo: Heinrich Himmler, capo delle SS, che ben presto divenne anche il capo della polizia, compresa la Gestapo.

[...]

I raid nei bordelli di Düsseldorf si ripeterono in tutta la Germania per tutto il 1938, mentre l'eliminazione da parte dei nazisti delle classi indesiderate della loro stessa società passava a un nuovo livello. Era stato lanciato un programma denominato Aktion Arbeitsscheu Reich (azione contro gli indolenti), contro tutti coloro che erano considerati paria della società. Senza che il mondo esterno ne sapesse quasi niente, e addirittura senza che molti lo sapessero neanche in Germania, più di 20.000 cosiddetti "asociali" – «vagabondi, prostitute, fannulloni, mendicanti e ladri» – furono arrestati e indirizzati ai campi di concentramento.

A metà del 1938, mancava ancora un anno allo scoppio della guerra mondiale, ma quella della Germania contro gli indesiderati nella sua stessa società era già iniziata. Il Führer fece capire che la nazione doveva essere "pura e forte", mentre si preparava alla guerra, quindi le bocche inutili dovevano essere eliminate. Da quando Hitler aveva preso il potere, era cominciata la sterilizzazione di massa dei minorati mentali e dei degenerati sociali. Nel 1936, gli zingari furono rinchiusi in riserve vicino alle grandi città. Nel 1937, migliaia di "criminali abituali" furono spediti nei campi di concentramento, senza processo. Hitler autorizzò quelle misure, ma l'istigatore di tutto fu il suo capo della polizia e delle SS, Heinrich Himmler. E fu sempre Himmler, nel 1938, a richiedere che tutti gli asociali fossero rinchiusi nei campi di concentramento.

Il tempismo non fu casuale. Ben prima del 1937, i campi, stabiliti inizialmente per eliminare gli oppositori politici, si erano iniziati a svuotare. Comunisti, socialdemocratici e altri, arrestati nei primi anni del potere di Hitler, erano stati ormai in gran parte schiacciati, e per la maggior parte erano tornati a casa, a pezzi. Himmler, che si era opposto alle liberazioni, stava vedendo traballare il suo impero, e cercò nuovi usi per i campi di concentramento.

Fino a quel momento, nessuno aveva davvero suggerito di usarli per altro scopo che non fosse l'eliminazione degli oppositori politici, ma riempiendoli di criminali e scarti della società, Himmler poteva iniziare di nuovo a espandere il suo impero. Lui si vedeva come qualcosa di più di un semplice capo della polizia; il suo interesse per la scienza, in ogni forma di sperimentazione che avrebbe potuto permettere di ottenere la perfetta razza ariana, era stato sempre il suo principale obiettivo. Portando i degenerati nei campi di concentramento, aveva iniziato ad assicurarsi un ruolo centrale nell'esperimento più ambizioso del Führer, che mirava a purificare il corredo genetico tedesco. Inoltre, i nuovi prigionieri avrebbero fornito la forza lavoro per ricostruire il Reich.

La natura e lo scopo dei campi di concentramento stavano cambiando. Man mano che i prigionieri politici tedeschi diminuivano, i reietti della società li sostituivano. Tra quelli che venivano rinchiusi per la prima volta, c'erano tante donne, tra prostitute, ladruncole e senzatetto, quanti erano gli uomini.

Una nuova generazione di campi di concentramento fu costruita appositamente per quello scopo. E poiché Moringen e altre carceri femminili erano ormai sovraffollate, Himmler propose un campo di concentramento per sole donne. Nel corso del 1938, chiamò a raccolta i suoi consiglieri per discutere di un possibile sito. Fu fatta una proposta, probabilmente da un amico di Himmler, il Gruppenführer Oswald Pohl, un amministratore anziano delle SS, per costruire il nuovo campo nel distretto del lago di Meclemburgo, vicino al villaggio chiamato Ravensbrück. Pohl conosceva la zona perché aveva una tenuta da quelle parti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 43

2
Sandgrube



«Mani lungo i fianchi. In fila per cinque. Sguardo in avanti». In gruppi, le prigioniere vengono fatte avanzare verso un edificio nuovo a destra dei cancelli, dove comincia il nuovo rituale: quello del bagno. Il primo gruppo entra e vede dei tavoli con delle guardie sedute dietro e mucchi di vestiti a righe. Devono spogliarsi completamente. Cominciano a farlo. «Schnell, schnell». Alcune restano lì, con le cinture igieniche ai fianchi, e guardano desolate le guardie, che gridano di rimando: «Togliete tutto».

E tutto viene tolto, per finire in grandi buste di carta marrone, insieme a vestiti ed effetti personali. Le prigioniere devono consegnare ogni cosa: le ultime lettere, le fotografie dei figli, i fazzoletti ricamati, i cappellini fatti a maglia, i cestini, le poesie, i pettini. «Finché non rimane nulla». Anche le fedi vengono consegnate.

Completamente nude, le donne si ritrovano di nuovo a fissare il pavimento, ma alcune alzano lo sguardo e gridano sgomente, nel vedere che degli ufficiali delle SS sono rimasti lì per tutto il tempo a guardarle. Ridono e gridano degli insulti, quando notano l'umiliazione delle donne.

Poi arrivano delle donne e alcune delle prigioniere vengono separate dalle altre. «Beeilt euch, beeilt euch!» — Muovetevi — e le donne selezionate vengono rasate a zero. Poi arriva un'altra donna, che fa loro aprire le gambe e le rasa anche all'altezza del pube.


Poche ore dopo il loro arrivo, il 15 maggio del 1939, le prime delle 867 prigioniere a essere trasferite da Lichtenburg a Ravensbrück erano state spogliate, lavate, controllate alla ricerca di pidocchi e in molti casi rasate a zero, perché la Oberaufseherin non avrebbe permesso ai parassiti di proliferare in quel campo. Le prigioniere avevano già ricevuto le uniformi: vestiti e giacche di cotone a righe blu e bianche, un foulard bianco, un paio di calzini e rozzi zoccoli di legno.

A ognuna fu assegnato un numero, stampato su un pezzo di tessuto bianco. Era lo stesso che avevano avuto all'arrivo a Lichtenburg, da 1 a 867. Fu dato loro anche un triangolo di feltro colorato, insieme ad ago e filo, e fu detto loro di cucire il triangolo sulla spalla sinistra della giacca. Il triangolo indicava la categoria delle prigioniere: il nero era per le asociali (prostitute, mendicanti, piccole criminali, lesbiche); il verde per le criminali abituali; il rosso per le prigioniere politiche; il lilla per le Testimoni di Geova; il giallo per le ebree. Le donne ebree vennero suddivise in base al motivo dell'arresto. Tutte portavano il triangolo giallo, ma quelle registrate come Pol. Jude, cioè arrestate per crimini politici, indossavano il triangolo giallo su sfondo rosso. Le ebree politiche includevano la categoria più numerosa, arrestate per Rassenschande, cioè rapporti con non-ebrei; ce n'erano novantasette. Le ebree arrestate come asociali portavano il triangolo giallo su sfondo nero.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 56

Dopo che Ilse fu partita per l'Inghilterra, il numero delle prigioniere iniziò a salire. Tra i nuovi arrivi c'era una giornalista ceca di nome Jozka Jaburkova, arrestata a Praga il giorno dopo l'invasione tedesca, il 16 marzo del 1939. Non appena la capitale ceca cadde, tutta la resistenza fu sradicata, gli intellettuali presi di mira e i giornali chiusi, tra cui «La Seminatrice», rivista femminile comunista per cui lavorava Jozka.

Quando giunse al campo, la giornalista soffriva di terribili emicranie, essendo stata brutalmente picchiata alla testa durante gli interrogatori, ma subito trovò altre compagne comuniste che la aiutarono. Il morale del blocco politico si sollevò al suo arrivo, perché il suo nome era ben noto alle altre. Da parte sua, Jozka fu felice di sapere che Olga Benario era nello stesso campo; aveva lavorato alla campagna per la sua liberazione.

Hanna invitò Jozka a leggere Tolstoj con il suo gruppo, e Jozka sollevò gli animi non solo con le sue predizioni della prossima rivoluzione comunista, ma anche con le sue storie di fantasia; aveva infatti pubblicato un'antologia di fiabe, intitolata Eva nel Paese delle Meraviglie.

Il 28 giugno arrivò il convoglio più numeroso di nuove prigioniere da quando il campo aveva aperto, due mesi prima. Nel cuore della notte, entrarono 450 zingare provenienti da Burgenland, in Austria, molte in camicia da notte, altre incatenate insieme, e altre ancora incinte o con neonati tra le braccia. La maggior parte portava lunghe trecce scure e tutte gridavano e piangevano.

Ora che la guerra era imminente, Hitler aveva aperto un nuovo fronte nella guerra razziale, ordinando l'arresto e la deportazione di 3000 Sinti e Rom austriaci, la maggior parte dei quali vivevano a Burgenland da generazioni. Donne e uomini erano stati trascinati via dai loro letti e arrestati senza preavviso, e poi erano stati separati. Una quindicenne di nome Bella era ancora in camicia da notte, quando fu portata via: «Mia madre, che era incinta, corse dietro alla macchina, urlando loro di fermarsi». Le donne furono riunite insieme, prima nel municipio di un villaggio a Pinkafeld, dove i criminali locali, fingendosi poliziotti, le aspettavano insieme alle SS tedesche. Molte furono violentate dalle "SS del villaggio", come chiamavano gli scagnozzi locali di Hitler. Dei camion portarono poi le donne a una prigione vicino Graz. Prima che andassero via, un comandante della polizia che accompagnava il convoglio offri un panino a Bella. «"Tieni", mi disse, ma io risposi: "No, non voglio mangiare". E lui ribatté: "Sì che lo farai. So quanto faccia male la fame". E così lo accettai».

Nella prigione di Feldbach, a Graz, c'erano guardie con dei cani della polizia. Le donne radunate lì erano state portate via da innumerevoli villaggi di Burgenland e tutte parlavano dello stesso orrore. Gisela Sarközi era stata catturata con la sorella: «Sono venuti nel cuore della notte, da tutte le parti, i soldati delle SS, ed è arrivato anche il sindaco del villaggio; era un sostenitore di Hitler. Hanno bussato alle porte e fatto uscire la gente. Non ci hanno permesso neanche di vestirci». Gisela fu condotta nella città di Oberwart, dove sua madre le portò dei vestiti; da lì, fu portata a Graz.

Theresia Pfeifer e sua sorella Anna furono portate via dalla loro casa, poi legate e incatenate alle caviglie, dopo che qualcuno aveva cercato di scappare. Caricate su treni merci, viaggiarono senza sosta per due giorni e due notti. Gli uomini erano stati inviati a Dachau, le donne a Ravensbrück. Quando il treno si fermò a Fürstenberg, era buio pesto e nessuno aveva idea di dove fossero. Le SS erano lì intorno con i cani.

«Ci hanno fatto mettere in fila per due e ci hanno condotto al bagno. Prima ci siamo dovute spogliare davanti agli ufficiali delle SS. Tutte piangevano e si lamentavano. E ci dicevano di stare zitte, o ci avrebbero sparato». A Theresia furono tagliate le trecce e fu rasata su tutto il corpo. Le fu dato un triangolo di feltro, e le fu detto di cucirlo sulla giacca dell'uniforme a righe della prigione. Diverse donne urlanti furono trascinate nello Strafblock, dove la Zimmer si occupò di loro. Altre furono condotte ai blocchi abitativi, e il giorno dopo furono condotte al Sandgrube con il resto delle prigioniere.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 71

Fin dal principio, le prigioniere ebree erano state deliberatamente trattate peggio delle altre. Rappresentavano solo il 10% della popolazione del campo, ed erano state isolate in un unico blocco in fondo alla Lagerstrasse, costrette a continui tormenti. Le razioni erano più magre e lavoravano più ore delle altre, senza neanche un giorno di riposo. Non fu strano, perciò, che molte di loro ben presto si ammalassero, soffrendo soprattutto di problemi circolatori alle gambe, crisi nervose e infezioni alle vie respiratorie. Molte erano anche afflitte da lividi e ferite causati dalle percosse. Era pratica comune delle guardie notturne riunirsi nella mensa per parlare di quello che avevano letto delle "troie ebree" e delle "ricche cagne giudee", prima di uscire e prendersela con ogni "troia, puttana o cagna" ebrea che vedevano.

Lo scoppio della guerra fece inasprire le violenze, come osservò Marianne Wachstein quando tornò al blocco abitativo dopo il tempo trascorso in isolamento. Vide donne malate costrette dalle blockova a uscire nel gelo dell'alba, e costrette a presenziare all'Appell nonostante le crisi epilettiche, mentre altre svenivano mentre erano costrette a stare in piedi sotto la pioggia per punizione. «Una ebrea di nome Rosenberg, che al tempo era nella zona B del blocco abitativo delle ebree, fu costretta a stare in piedi per punizione all'interno dell'edificio con la porta e le finestre aperte nel gelo, anche se aveva problemi respiratori», raccontò Marianne. «A quanto pareva, la punizione le era stata affibbiata perché non aveva rifatto il letto nel modo appropriato».

[...]

Un tale scoppio di violenza antisemita nel campo non deve sorprendere, considerando le persecuzioni contro gli ebrei che ormai avvenivano in tutto il Reich. Il Führer non era ancora arrivato a ordinare gli arresti di massa degli ebrei tedeschi, non ultimo perché non si era ancora deciso dove portarli, ma le persecuzioni si erano intensificate, e quando iniziò la guerra, a settembre del 1939, 500.000 ebrei tedeschi avevano trovato il modo di fuggire dalla Germania; 250.000 erano rimasti, due terzi dei quali erano donne, vedove, divorziate, ragazze madri, indigenti e senzatetto, che non avevano la possibilità di assicurarsi un passaporto ed erano ad alto rischio di essere arrestate dalla polizia e accusate, come Herta Cohen, del crimine di "infettare il sangue tedesco".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 83

Quando Himmler arrivò al campo, il 4 gennaio del 1940, le Testimoni di Geova erano nel bunker già da tre settimane. Una guardia aprì una delle porte, e Himmler e Koegel lanciarono uno sguardo nell'oscurità, dove un gruppetto di donne affamate e infreddolite si stringeva in una cella troppo affollata, umida e puzzolente. Le donne stavano pregando. Himmler commentò che erano "in cattive condizioni".

In quel primo gruppo c'erano Erna Ludolph e Marianne Korn, con i foulard bianchi che usavano per coprirsi il capo appena visibili, mentre pregavano in silenzio nell'oscurità ghiacciata. Entrambe avevano trascorso almeno cinque anni in prigione per essersi rifiutate di rinunciare alla loro fede; entrambe erano tra quelle che erano state inondate d'acqua come "topi affogati" nel corso della rivolta di Lichtenburg.

Era il ventunesimo giorno del loro arresto nel bunker, quando Himmler arrivò, secondo il racconto di Erna Ludolph. «Lasciò che le guardie aprissero una cella e si spaventò nel vederci». Poi parlò. «Non vedete che il vostro Dio vi ha abbandonato? Possiamo farvi quello che vogliamo». E una delle Testimoni di Geova rispose: «Dio ci salverà. E anche se non lo facesse, noi non vi serviremo». Himmler si fermò fuori da un'altra cella. Di nuovo chiese che gli fosse aperta la porta e guardò all'interno. Chiese a una giovane donna di nome Ruth Bruch se fosse pronta a rinunciare alla sua fede. E lei rispose: «Seguirò soltanto le leggi di Dio». Himmler replicò: «Peccato per te, ragazza», e si girò per andarsene.

Lui e Koegel percorsero la Lagerstrasse mentre il comandante gli riferiva altri problemi, molti dei quali erano causati dagli sviluppi della guerra. Gli arresti in Polonia, per esempio, stavano facendo arrivare al campo donne polacche ogni giorno; ben presto sarebbero stati necessari nuovi blocchi abitativi.

Il blocco delle ebree era già pieno, come anche lo Strafblock, che si stava riempiendo di nuove asociali. Il Revier non reggeva il numero di ammalate che si mettevano in coda per farsi visitare, per la maggior parte donne con il triangolo nero o verde, piene di ferite e dolori. Per il comandante, tutte quelle donne erano soltanto "megere, cagne e troie", ma Himmler non usava quasi mai un simile linguaggio; per lui, al massimo, erano bocche inutili, "vite che non valeva la pena di vivere". Sebbene Koegel non potesse saperlo – era un argomento fin troppo segreto – Himmler aveva già dei piani in merito; nel gennaio del 1940, i primi stermini delle vite non degne di essere vissute erano già cominciati, non nei campi di concentramento, ma negli ospedali tedeschi, in nome dell'"eutanasia".

L'intenzione di Hitler di eliminare i disabili fisici e mentali dalla Germania, compresi i ciechi, i sordi, i muti e gli epilettici, per ringiovanire la razza (e risparmiare soldi pubblici) si conosceva da tempo nel partito, ma come sempre, il Führer si muoveva con cautela, attento all'opinione pubblica sia in patria che all'estero. Sapeva che un programma di sterminio di massa non sarebbe mai stato autorizzato da nessuna legge, per quanto camuffata, ma la guerra avrebbe potuto oscurare i suoi crimini. Per questo, Hitler attese fino allo scoppio della guerra prima di ordinare, nell'ottobre del 1939, che si desse il via ai programmi di "eutanasia". La reazione pubblica non si poteva ancora garantire con certezza, quindi un'elaborata copertura fu pensata per ingannare sia i tedeschi che possibili osservatori stranieri.

All'inizio, un ufficio speciale all'interno della Cancelleria di Hitler fu incaricato di occuparsi del programma di "eutanasia", con il nome in codice di T4, dalla denominazione di quell'ufficio, che si trovava a Berlino, al numero 4 di Tiergartenstrasse. I centri di sterminio vennero istituiti all'interno di ospedali e case di cura, cinque in Germania e uno in Austria, e una "commissione" di medici, che avevano tutti giurato di mantenere il segreto, diagnosticava le malattie incurabili e quelle mentali.

Furono effettuati molti interventi pratici per nascondere ciò che stava succedendo. Una "Compagnia per il Trasporto degli Invalidi nell'Interesse Pubblico" fu stabilita per organizzare il trasporto in autobus, mentre gli impiegati delle case di cura venivano istruiti su come scrivere lettere piene di falsità alle famiglie dei defunti.

La decisione su come ucciderli era stata più difficile. In Polonia, Himmler aveva ordinato di sparare ai malati mentali, ma in Germania non era possibile pensare di fucilare in massa i pazienti delle case di cura: questo avrebbe fatto capire subito cosa stava succedendo. Dopo alcune discussioni tra i medici più importanti del progetto, fu accettata la proposta di usare il monossido di carbonio. Un'idea era quella di somministrare il gas nei dormitori degli ospedali mentre i pazienti dormivano. Altri suggerirono di introdurre il gas in una stanza sigillata costruita a quello scopo, attraverso i tubi delle docce. Si decise allora di testare l'idea delle camere a gas in uno dei centri di sterminio del T4. I risultati furono soddisfacenti, e quasi sicuramente furono comunicati a Himmler poco prima che arrivasse a Ravensbrück.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 89

5
Il dono di Stalin



Nel febbraio del 1940, un treno proveniente da Mosca si fermò dal lato sovietico del ponte di Brest-Litovsk, sul confine tra Russia e Polonia. Qualcuno scese da un vagone, aggrappandosi alle ringhiere ghiacciate. Una dopo l'altra, quelle figure saltarono nel vuoto, rotolando nella neve. Ventiquattro passeggeri in tutto, tra cui due donne, restarono a fissare il ponte che conduceva in Polonia, domandandosi cosa sarebbe accaduto loro.

Erano tedeschi, tutti ex comunisti, rilasciati dal Gulag di Stalin e ora restituiti da lui a Hitler. Il ponte su cui si trovavano aveva dato il suo nome a diversi trattati mai rispettati, mentre, nel corso degli anni, Germania e Russia si contendevano la Polonia. Quelle persone erano un dono per Hitler, questa volta come parte del patto tra nazisti e sovietici.

Una delle due donne era la trentanovenne Margarete Buber-Neumann, vedova di Heinz Neumann, un tempo guida del comunismo tedesco e ora morto, vittima delle purghe di Stalin. Negli anni '30, Neumann, come altri dell'élite comunista tedesca, aveva passato un periodo a Mosca. Sua moglie Grete, anche lei fervente comunista, aveva seguito il marito lì nel 1933. Dopo essere stati nel famoso Hotel Lux, dove i comunisti stranieri, tra cui la stessa Olga Benario, si radunavano per porgere omaggio alla corte di Stalin, i due erano partiti per la Spagna, dove intendevano pubblicare un giornale comunista, ma invece finirono in mezzo ai letali giochi di poteri tra il partito comunista tedesco e Mosca. Neumann diede fastidio a Stalin senza mai capire perché. Come milioni di altre persone, fu dichiarato nemico del popolo e tornando a Mosca fu arrestato e inviato in un campo di lavoro a Karaganda, nelle steppe del Kazakistan.

L'esecuzione di suo marito e due anni nel Gulag avevano spezzato Grete. Prima di partire per il confine, lei e gli altri avevano trascorso del tempo a Mosca, dove furono rimessi un minimo in salute, perché i nazisti non si facessero idee sbagliate sul loro trattamento. Ma nulla poteva restituirle la fede perduta nel comunismo. Tornò alla nativa Germania inasprita e amareggiata, disgustata da Stalin e con il terrore di quello che l'avrebbe attesa al suo ritorno. I nazisti l'avrebbero sicuramente punita per l'alto tradimento commesso nei suoi anni di attivista comunista.

I prigionieri furono portati via da una scorta tedesca e fatti salire sul retro di un camion, che li condusse alla città polacca di Lublino, centosettanta chilometri a sud-ovest, dove furono trattenuti per qualche giorno nel castello, nel cuore della città vecchia. Lì, dalle finestre, Grete poté vedere i segni dei primi sei mesi di guerra. Gran parte della città era stata ridotta in macerie, e sotto gli ordini di Odilo Globocnik, il capo della polizia di Himmler a Lublino, gli ebrei erano stati radunati oltre il castello, in un'area che sarebbe diventata il loro ghetto.

All'interno della prigione del castello, Grete sentì parlare gli altri prigionieri, tra suore, studenti, professori e medici, del terrore nazista, e conobbe altri comunisti polacchi, che speravano ancora di fuggire verso Mosca, nella convinzione che avrebbero ottenuto asilo. Cercò di metterli in guardia e di farli smettere di fidarsi di Stalin, ma appena parlò, «i loro volti si fecero di pietra».

Grete fu poi condotta a ovest, nella prigione della Gestapo di Alexanderplatz, a Berlino. Nota come "l'Alex", serviva da luogo di raduno per i prigionieri che dovevano essere inviati ai campi di concentramento. Ogni notte le donne parlavano del KZ e di dove sarebbero potute finire. Di venerdì, veniva letta una lista di chi sarebbe partito il giorno dopo. Un venerdì, una dottoressa ebrea di nome Jacoby sentì leggere il suo nome nella lista. Quella notte si impiccò a una cisterna dell'acqua, ma fu scoperta e salvata. Il giorno dopo fu inviata a Ravensbrück. Nell'Alex, Grete conobbe una giovane comunista tedesca di nome Lotte Henschel, per la quale la Russia sovietica era ancora la terra promessa. Lotte domandò a Grete delle sue esperienze lì, e quando la sentì parlare, si sedette sul materasso accanto a lei e scoppiò in lacrime. «Per cosa possiamo ancora vivere, adesso?», domandò.

Venerdì 1° agosto 1940, Grete sentì pronunciare il suo nome sulla lista KZ, e il giorno dopo partì per Ravensbrück. Cinquanta donne viaggiavano insieme a Grete, ma solo due le rimasero impresse. Una, che Grete riconobbe come una prostituta, dichiarò che stava andando lì solo per la rieducazione, e che sarebbe uscita nel giro di tre mesi. L'altra era una Testimone di Geova, che sembrava una maestra di scuola e che non faceva che pregare.

Raggiunsero la stazione di Fürstenberg a metà mattina. I cani ringhiarono contro le donne che venivano ammassate dentro ai camion e portate a Ravensbrück. Grete osservò il campo nazista al tempo stesso affascinata e spaventata, nel compararlo istantaneamente a quel che aveva visto a Karaganda. Le recinzioni elettrificate, le guardie, le urla – i russi urlavano Davai, Davai, i tedeschi Raus, Raus – le erano familiari. Ma quando si avvicinò, notò anche le differenze.

Il campo nazista era piccolo, a paragone di quello russo. Quando Grete arrivò, c'erano 4000 prigioniere, mentre Karaganda ne comprendeva 35.000. Il suo ricordo della Siberia sarebbe stato sempre quello dell'inverno, il periodo gelido dove eserciti di prigionieri, perlopiù uomini, si ammassavano nella steppa kazaka sotto un cielo d'acciaio.

Quando Grete giunse a Ravensbrück, era l'inizio di agosto, e il campo tedesco era nel pieno della sua seconda estate; fuori dai cancelli, le acque limpide dello Schwedtsee sciabordavano intorno alle canne nella tiepida brezza estiva. Una volta all'interno, notò con stupore aiuole piene di allegri fiori rossi; e poco più oltre si stendeva una sorta di strada, fiancheggiata da sedici edifici di legno, tutti dipinti, e accanto a ciascuno c'era un alberello.

I sentieri vicino ai cancelli erano coperti di sabbia, rastrellata di fresco in intricati ghirigori. A sinistra, vicino a una torretta di guardia, c'era una voliera. Dei pavoni camminavano lentamente al suo interno, e un pappagallo faceva sentire il suo aspro verso. A Karaganda non c'erano fiori o prati, ma in qualche modo quella vista era ancora più sinistra, e per un attimo, il silenzio fu assoluto.

Urla e grida ricominciarono quando una colonna di prigioniere si avvicinò, e Grete vide le donne del campo per la prima volta: non le figure maschili e femminili arruffate e mischiate che c'erano nel Gulag, ma donne in file ordinate, ciascuna con un foulard bianco pulito intorno alla testa, vestiti a righe e un grembiule blu scuro. «Destra, sinistra. Destra, sinistra. Su la testa. Braccia lungo i fianchi. Allineatevi». Avevano espressioni impassibili sul volto. Sembravano tutte uguali. Una sirena ululò. Le donne si avviarono marciando in fila per cinque da ogni direzione. Alcune avevano una pala in spalla, e il fatto che più la stupì fu che cantavano "stupide marce". Era tutto molto prussiano, e Grete conosceva quel modo di fare, perché era cresciuta a Potsdam.

Più avanti, notò sempre di più quella "precisione prussiana". I dettagli delle nuove arrivate furono registrati, furono riempiti dei moduli, furono controllate più volte le varie cartelle. Alcune delle donne che gridavano gli ordini indossavano gli stessi vestiti a righe delle prigioniere. Nel Gulag, fin troppi prigionieri erano stati scelti per fare gran parte del lavoro. Grete conosceva quel genere di ruolo: in Russia venivano chiamati "brigadieri", e di solito erano uomini. Vedere delle donne tedesche nel ruolo di "brigadieri", intente a urlare ordini alle altre prigioniere, «alcune con evidente piacere», la sconvolse.

Perfino la donna che adesso stava controllando i capelli e il pube di Grete alla ricerca di pidocchi era una prigioniera, una Testimone di Geova. La donna la controllò meticolosamente, brandendo delle forbici, ma non trovò parassiti e a Grete fu risparmiato il rasoio. Le attendenti delle docce indossavano tute bianche e anche loro erano delle prigioniere.

Nel campo sovietico si faceva un'unica distinzione, quella tra prigionieri politici e criminali. Lì, le donne erano divise in varie categorie, come Grete scoprì quando vide i piccoli triangoli colorati. Come prigioniera politica, ricevette un triangolo rosso con il numero 4208.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 465

30
Le ungheresi



Eva Fejer era a scuola a Budapest nell'ottobre 1944, quando venne dato l'annuncio che tutte le ragazze ebree della sua classe dovevano andare a scavare trincee perché i russi stavano arrivando. «Ci portarono in un campo e ci misero a scavare. Dormivamo su un campo di calcio all'aperto. Qualche giorno dopo ci trasferirono a ovest».

L'ordine di ottobre giungeva dall'ufficio di Adolf Eichmann, l'uomo mandato in Ungheria, a seguito dell'invasione tedesca di sei mesi prima, per rendere effettiva quest'ultima fase della Soluzione Finale, rastrellando i 750.000 ebrei del Paese e mandandoli ad Auschwitz. Il tempo stringeva: l'Armata Rossa era vicina.

Quando i rastrellamenti ungheresi ebbero inizio alla fine del marzo 1944, gran parte degli ebrei erano impreparati. Sapevano del massacro degli altri ebrei europei ma, fino a quel momento, l'Ungheria, alleata della Germania, era stata protetta. Il padre di Eva Fejer, avvocato di spicco, disse alla sua famiglia: «Qui non accadrà. La legge ungherese non lo consentirà». Franz Fejer era un patriota ungherese nonché tedesco. Tutta la famiglia parlava tedesco; Eva aveva una tata tedesca e parlava perfettamente la lingua sin dall'età di dieci anni. La famiglia non prese precauzioni. «Penso che i miei genitori non volessero accettarlo. E mio padre non voleva spaventare la famiglia, perciò non ci avvertì. Voleva che vivessimo tutta l'infanzia che ci restava».

Stavolta, tuttavia, il mondo esterno riconobbe i segnali. Nel momento in cui Hitler invase, le capitali occidentali capirono che anche gli ebrei ungheresi sarebbero stati sterminati. Berlino non si sforzò di nasconderlo. La Svezia mandò delegati per fornire agli ebrei passaporti e documenti di tutela e la Croce Rossa Internazionale cercò di offrire cibo e indumenti a coloro che erano costretti nei campi di detenzione ma, nel frattempo, decine di migliaia di ungheresi venivano ammassati sui treni per Auschwitz e uno dei primi ad andare fu il padre di Eva. «Aveva sessantuno anni ma era in gran forma», disse Eva, «perciò speravamo sopravvivesse. Era un bravo pattinatore e un eccellente pianista. A volte c'era la speranza di potersela cavare grazie a una sacca d'aria o cose del genere, ma nessuno del suo gruppo fece mai più ritorno».

Entro luglio 1944, 430.000 dei 750.000 ebrei ungheresi erano stati rastrellati e mandati a Auschwitz, dove tutti, a eccezione di 100.000 di loro, furono gassati. Gli unici ebrei ungheresi che evitarono la deportazione a Auschwitz furono quelli ritenuti idonei per lavorare nelle fabbriche di munizioni e spediti in altri campi di concentramento in Germania. Tra gli arrivi ungheresi ad Auschwitz furono inoltre selezionati coloro che potevano essere destinati ai lavori forzati.

Nel luglio 1944, quattro mesi dopo l'inizio dei rastrellamenti di Eichmann in Ungheria, le deportazioni furono sospese. Miklos Horthy, il leader fantoccio dei nazisti a Budapest, era passato dalla parte degli Alleati, rifiutandosi di collaborare con ulteriori espulsioni ebree. I 200.000 ebrei rimasti, per lo più a Budapest, sembravano essere stati risparmiati, comprese Eva Fejer e sua madre.

All'inizio di ottobre, tuttavia, il governo Horthy cadde e Eichmann era deciso a ricominciare. Ormai le bombe alleate avevano distrutto linee ferroviarie e materiale rotabile in Ungheria e Polonia: non era più possibile utilizzare i treni. Inoltre, il fronte sovietico avanzava così rapido che perfino Auschwitz nella Polonia meridionale si preparava a evacuare; le camere a gas stavano per essere chiuse e il campo aveva smesso di internare ebrei.

Abbandonare i rastrellamenti, tuttavia, non era un'opzione; Hitler aveva dato ordine di deportare fino all'ultimo ebreo dall'Ungheria prima dell'arrivo dell'Armata Rossa. L'unico modo in cui Eichmann poteva raggiungere tale risultato era imporre una marcia forzata ai restanti 200.000 uomini, donne e bambini da Budapest fino ai confini austriaci. Una distanza di trecentoventi chilometri.

Era il 16 ottobre e il terreno era già gelato quando donne e ragazze dai sedici ai quarant'anni ricevettero l'ordine di partire. Eva era riuscita a mettere nello zaino delle ragazze scout (che sfoggiava la scritta "Raduno del 1939") cibo e cambi di indumenti che la tata tedesca le aveva fatto avere di nascosto. Ma non poté rivedere la madre prima di partire.

Eva non patì la marcia quanto la maggior parte delle altre. Conosceva le tecniche di pronto soccorso ed era atletica e forte. «Mio padre mi aveva insegnato a fare tutto da me. Mi aggiustava la bici la prima volta ma io dovevo guardare e farlo da me quella successiva». Conosceva anche la strada su cui venivano fatte marciare poiché la famiglia la usava per andare a fare visita ai parenti oltreconfine prima della guerra. Marciava tutto il giorno e dormiva nei campi di calcio. Faceva freddo, ma Eva indossava una gonna pantalone e nello zaino aveva dei pantaloni da sci.

Gran parte dei prigionieri marciavano in famiglie o piccoli gruppi. Margit Nagy insisté per andare con le figlie, Rosza e Marianne. «Penso sapesse che potevamo morire e voleva che fossimo tutte insieme», disse Rosza. Le ragazze che erano da sole furono "adottate" da altre famiglie ma Eva preferì marciare per conto suo. Le guardie della fascista Croce Frecciata si accanivano contro chi restava indietro. I passanti restavano a guardare e a volte offrivano cibo. Sulle Alpi Sveve, un uomo si mise a camminare accanto a Eva e iniziò a farle domande su suo padre.

Mi disse che era stato attendente di mio padre durante la prima guerra mondiale e che mio padre era stato buono con lui. Disse: «Vieni con me, farò in modo che non ti accada niente». Avrei potuto farlo visto che non c'era nessuno a guardare. Ma pensavo che fossimo solo dirette a un campo di lavoro e che fossi abbastanza forte per affrontarlo. Credevo nella mia forza. Fu una decisione difficile ma ero preoccupata per mia madre: non volevo che le accadesse qualcosa per colpa mia.

Dopo che l'attendente del padre le ebbe riempito lo zaino di mele cotogne, Eva continuò la sua marcia. Diversi giorni più tardi, raggiunsero il Danubio e salirono sui traghetti per mezzo di passerelle. «Qualcuno perse l'equilibrio e cadde giù dalla passerella. Vedemmo i corpi annegati nell'acqua ma io continuai a camminare e non caddi».

In prossimità di Vienna, i marciatori furono messi nei treni, rinchiusi nei vagoni e spediti a ovest. «Una guardia chiese se qualcuno parlasse tedesco e io mi feci subito avanti, perciò fui nominata sua interprete e mi sedetti su un ripiano da cui riuscivo a vedere fuori. Sapevo orientarmi con il sole perciò dissi alle altre in che direzione stavamo andando».

Quando il treno si fermò a Jena, a sudovest di Leipzig, gli uomini furono fatti uscire e mandati a Buchenwald mentre le donne rimasero a bordo. «Superammo un castello medievale e pensai che ci avrei portato i miei genitori dopo la guerra». Circa due giorni dopo, si fermarono in una minuscola stazione chiamata Ravensbrück. «Avevo sentito parlare di Auschwitz, Dachau e Mathausen, ma non di Ravensbrück».

Dopo la partenza del convoglio di Eva da Budapest, la fase finale delle marce forzate dall'Ungheria accelerò il ritmo. Il tempo peggiorava e delle tante migliaia di donne mandate a Ravensbrück si pensa ne siano morte almeno un terzo. Un delegato della Croce Rossa Internazionale, mandato a osservare l'esodo, rimase sopraffatto. «L'idea di stare lì, inutile e impotente, è quasi intollerabile», scrisse nel suo rapporto a Ginevra.

Subirono un'accelerazione anche le deportazioni dagli altri Paesi orientali che confinavano col Reich. Hitler stava cogliendo l'ultima opportunità per svuotare campi e ghetti prima dell'avanzata russa. Gli ebrei continuavano a essere deportati in treni che attraversavano quanto restava delle terre occupate dai nazisti, spesso fermandosi per giorni sui binari di sosta, quando le linee venivano bombardate e le comunicazioni si interrompevano. A bordo di uno dei treni c'era la diciannovenne Basia Zajaczkowska, sopravvissuta al ghetto di Kielce, Polonia centrale, poiché lavorava in una fabbrica di polvere da sparo. Quando i sovietici si avvicinarono, gli operai furono mandati ad Auschwitz. Basia fuggì nei boschi ma fu catturata e spedita invece a Ravensbrück, poiché all'epoca Auschwitz stava iniziando a chiudere.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 473

31 Una festa per bambini


Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, si trasferì a Ravensbrück qualche settimana dopo che le camere a gas del campo furono chiuse. I resoconti bancari lo dimostrano: il 30 novembre 1944, "Höss, Rudolf" depositò 50 reichmark in una banca di Fürstenberg.

Höss non era l'unico pezzo grosso di Auschwitz che si fece vedere a Ravensbrück verso la fine del 1944. È possibile che l'altro uomo scorto da Julia Barry, «uno degli uomini più brutali e crudeli che abbia mai visto», sia stato l'esperto di camere a gas Otto Moll, anch'egli presente all'epoca, ma potrebbe anche trattarsi di Albert Sauer, un altro ex comandante di campo di sterminio.

Uno dei dottori delle SS visti da Julia Barry probabilmente era Franz Lucas, che in precedenza aveva lavorato sulla rampa di Auschwitz; l'altro può essere stato Carl Clauberg, che orchestrò gli esperimenti di sterilizzazione di Himmler ad Auschwitz. Entrambi vennero a Ravensbrück nell'inverno 1944-45. L'improvvisa comparsa di un branco di sterminatori professionisti era sinistra, malgrado la spiegazione fosse in un certo senso banale: erano disoccupati. I loro campi erano tutti a est ed erano stati invasi dai russi o sul punto di esserlo. Il programma di sterminio di Auschwitz si era fermato il 2 novembre; l'arrivo dell'Armata Rossa era previsto per l'inizio di gennaio.

Il dottor Franz Lucas era stato trasferito da Auschwitz al campo di Stutthof, nei pressi di Danzica (Gdansk), all'inizio del 1944, ma anche Stutthof stava per essere invasa. Il campo di Riga-Kaiserwald, dove Albert Sauer era stato comandante, fu occupato quando l'Armata Rossa prese la Lettonia in ottobre.

L'invio a Ravensbrück di così tante SS disoccupate può avere inoltre una spiegazione semplice: c'erano pochi altri campi di concentramento in cui andare. Il resto era sotto il comando di ufficiali di alto rango che non volevano essere intralciati da colleghi inoperosi. Fritz Suhren, comandante di medio rango del campo femminile, non occupava una posizione sufficientemente forte per opporsi, anche se pare fosse irritato dal loro arrivo.

Il motivo più importante alla base dell'assegnazione di questi uomini a Ravensbrück era, tuttavia, oltremodo sinistro: in quanto esperti di omicidio di massa erano necessari per lanciare un nuovo programma di sterminio. Non è affatto una coincidenza il fatto che prima del loro arrivo, Himmler avesse disposto una nuova direttiva che imponeva un immediato e massiccio incremento nel tasso di uccisioni e la costruzione di una camera a gas per attuare la cosa.

[...]

Malgrado la fucilazione delle prigioniere fosse stata prassi comune a Ravensbrück negli ultimi quattro anni, il numero delle uccisioni di rado superava le quaranta unità mensili, e fino ad allora erano state definite esecuzioni, dal momento che le vittime erano state "condannate a morte" per un "crimine". Adesso, invece, le fucilazioni presero un ritmo del tutto diverso: cinquanta a sera. Venivano definite uccisioni, non esecuzioni, e compiute in tale segreto che oggi numerosi interrogativi a riguardo restano senza risposta. È in parte tramite Percival Treite che, in quanto medico del campo doveva essere presente, che abbiamo dei dettagli affidabili.

Prima del suo processo, nel 1946, Treite parlava apertamente delle fucilazioni, ma solo per interesse personale: dopo aver assistito una volta, disse che si rifiutò di presenziare ancora e sperava che ciò contasse nell'opinione dei giudici. La testimonianza di Treite si sviluppò in tre fasi. In una dichiarazione resa alle forze britanniche il 4 maggio 1945, cinque giorni dopo essersi arreso, disse che lo sterminio a Ravesbrück ebbe inizio con la fucilazione di massa durante l'inverno 1944-45.

«Prima di tutto cinquanta prigioniere furono uccise ogni giorno davanti al crematorio con un colpo alla nuca», disse. Un medico doveva essere presente perché «non sempre un proiettile uccide all'istante». In una seconda dichiarazione, il 14 agosto 1946, spiegò che le vittime non erano solo le vecchie e le malate ma anche «le giovani donne abili al lavoro», che venivano portate in un posto nei pressi del crematorio e dove sparavano loro alla nuca con una pistola di piccolo calibro a breve distanza, il Genickschuss.

Veniva fatto sempre alle prime luci dell'alba, disse Treite. «L'alba bastava ai boia per vedere quello che facevano». Poi due prigionieri del campo maschile portavano le vittime al crematorio, dove Treite aspettava per «eseguire il mio incarico di certificare la morte». Hellinger estraeva le otturazioni e le corone d'oro, «e i corpi venivano bruciati». In un'ulteriore dichiarazione del 2 ottobre 1946, Treite parlò di una volta in cui cinquanta prigioniere furono portate dal Campo Giovanile per essere fucilate due a due.

Treite affermò di non ricordare chi desse gli ordini, ma fu quasi certamente l'uomo di Auschwitz, Otto Mall. I boia di Ravensbrück dissero che Moll era il responsabile e aveva perfino portato con sé la propria squadra di assassini, cosa che fece infuriare il personale locale. Walter Schenk, il capo del crematorio di Ravensbrück, lamentò che mentre le uccisioni erano in atto, la squadra di Auschwitz «dormiva nel mio crematorio».

Moll e i suoi compagni delle SS avrebbero senza dubbio scelto il Genickschuss come metodo preferito di uccisione. L'avevano già praticato, in particolare per eliminare centinaia di migliaia di prigionieri di guerra sovietici. Era rapido ed efficiente: si poteva sparare alla nuca di un prigioniero ogni trenta secondi e poi il corpo veniva portato al crematorio. Era un sistema più pulito della fucilazione di massa ed economico in fatto di munizioni.

Treite non lasciò dubbi circa il fatto che le uccisioni avevano luogo «vicino al crematorio». Quando si utilizzava il colpo alla nuca, probabilmente avveniva appena all'interno del cosiddetto corridoio della fucilazione. Il corridoio, lungo una ventina di metri e largo due, si trovava tra due alti muri, uno dei quali costituiva il retro del bunker del campo e l'altro confinava con i garage. Un'estremità si apriva vicino al crematorio. Il corridoio era stato usato in Precedenza per esecuzioni su piccola scala e presentava evidenti vantaggi: gli alti muri che lo delimitavano escludevano il rischio di colpire i presenti e ogni possibilità di fuga. Tenevano fuori eventuali testimoni oltre ad attutire il rumore, il che spiega in parte perché neanche una prigioniera del campo principale pare abbia sentito gli spari.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 480

Malgrado i disaccordi, tuttavia, finalmente si concordò una data intorno all'anno nuovo per la festa principale e Dorothea Binz, per lo stupore di tutte, acconsentì di permettere alle organizzatrici di occupare un intero blocco, il Blocco 22, per l'evento. A condizione che fossero ammessi solo i bambini insieme a venti organizzatrici. Nessuna madre né madre del campo poteva assistere.

Durante gli ultimi giorni, i preparativi si fecero frenetici. Un'artista ceca costruì i burattini e la squadra addetta alla selvicoltura allestì un albero decorato con della stagnola procurata da un'operaia della Siemens. Le prigioniere francesi ricavarono giocattoli dagli stracci e ciascun bambino avrebbe ricevuto un pacchetto e un grosso piatto di pane e burro, preparato dalla cucina. I pacchetti dei bambini dovevano contenere cinque zollette di zucchero donate da norvegesi e belghe (le uniche prigioniere che all'epoca ricevevano pacchi viveri) ed essere avvolti in buste di carta prese dalle botteghe. Sylvia Salvesen passò ogni sera per tre settimane a disegnare su ciascun pacchetto l'immagine di un bambino norvegese sugli sci, con un cappello rosso con le nappe, accanto a una casetta norvegese circondata da pini. In qualche modo era riuscita a procurarsi matite rosse, gialle e blu.

Non appena la festa ebbe inizio, tuttavia, le cose iniziarono ad andare male: Sylvia fu incaricata di far entrare i bambini. «Molti erano scheletrici e alcuni così deboli che si dovette portarli in braccio fino alle sedie». I bambini furono fatti sedere davanti al palco. Bräuning disse qualche parola e insieme alla Binz rimase per l'esecuzione di O Tannenbaum, durante la quale i bambini cominciarono a piangere. Con i pianti che continuavano, Bräuning e la Binz andarono via in fretta e furia.

Quando lo spettacolo di burattini cominciò, i bambini non avevano idea di cosa fare. «Non avevano la forza di ridere. Avevano dimenticato come si faceva», disse Sylvia e molti avevano paura dei burattini, in particolare dei cani. «Uno o due si misero a mugolare di terrore quando Punch, con il berretto di campanelli, apparve sul palco. Un paio scoppiarono in un pianto isterico e furono portati via. I più grandi applaudivano dopo ogni scena ma i piccoli avevano l'aria terrorizzata nel sentire quei suoni, ricordando senza dubbio i colpi ricevuti».

Poi, quando fu distribuito il cibo, i bambini si avventarono su di esso «come lupi», ma non riuscirono a mangiare poiché il loro stomaco non era in grado di tollerarlo. «Molti riuscirono a mandarne giù solo qualche boccone. Le lacrime cominciarono a cadere sulle loro guance smunte, lasciando sottili strisce bianche sulla pelle sporca».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 552

La verità sulla camera a gas di Jahn probabilmente non si saprà mai. Ma abbiamo prove schiaccianti sulle altre gassazioni del campo. In particolare durante le ultime settimane, decine e decine di prigioniere videro una camera a gas mobile (descritta come furgone a gas, camion delle gassazioni e perfino vagone ferroviario a gas) parzialmente nascosta nei boschi. Alcune dissero che c'era più di un veicolo del genere.

Karolina Lanckoronska parlò di un autobus. Arrivò alla fine di marzo e fu collocato nei boschi in prossimità del campo. «L'autobus era dipinto di verde; erano pitturate anche le finestre e le ruote molto vicine le une alle altre».

In un rapporto a Londra, basato su colloqui con i sopravvissuti subito dopo la liberazione, un diplomatico britannico disse che le donne interrogate parlarono di «due camere a gas», una delle quali un «vagone convertito, portato da Auschwitz». Innumerevoli sopravvissute polacche parlarono di «furgoni a gas» e «camion a gas». I1 racconto di Irena Dragan delle donne ricoperte di bende e gassate in un camion al Campo Giovanile fu uno dei più dettagliati. Altre prigioniere al Campo Giovanile dissero di aver sentito «il continuo ronzio dei motori di notte... e i pianti disperati». La segretaria prigioniera Erna Cassens, una comunista tedesca, disse di aver sentito che un furgone a gas veniva usato quando la camera a gas non funzionava bene. «Era risaputo che le donne venivano caricate a bordo di vagoni ferroviari su un binario nel bosco. Nei vagoni sigillati introducevano il gas. Dopo un certo lasso di tempo, i vagoni venivano aperti e i corpi delle prigioniere scaricati e portati al crematorio».

Mary O'Shaughnessy era convinta che il furgone a gas fosse «un vagone ferroviario fermo a un binario di sosta da qualche parte nei boschi». Subito dopo la liberazione, la radiologa polacca Mlada Tauforova disse di aver trovato tale vagone ferroviario nei boschi e di aver fatto rapporto alle autorità sovietiche. Maria Apfelkammer riferì di aver guardato dentro a «un vagone a gas, a forma di lungo autobus». Hanna Sturm, la donna falegname austriaca, ebbe l'ordine di smantellare uno dei camion a gas. Disse in seguito che non ne ebbe il tempo e il veicolo cadde nelle mani dei russi. Zdenka Nedvèdova vide anche lei i camion a gas dopo che le SS se ne furono andate. «Trovammo veicoli abbandonati in prossimità del Campo Giovanile, una sorta di furgoni da trasloco, dotati di un meccanismo che consentiva di pompare all'interno i gas di scarico».

Ci sono altre ragioni per credere all'utilizzo di camion a gas. Tanto per dirne una, le autorità in materia erano sul posto. Il capo dei trasporti, Josef Bertl, aveva imparato a gassare gli ebrei a bordo di camion quando era di stanza a Lublino, agli esordi della guerra. Tra i nuovi capi delle SS arrivati a Ravensbrück nell'inverno 1944-45, c'era Albert Sauer, anche lui utilizzatore di camion per le gassazioni in Polonia. Suhren era comandante di Sachsenhausen quando al campo furono attuati gli esperimenti sull'uso di camion a gas. Tutti questi uomini si conoscevano dalle assegnazioni precedenti e quasi certamente avranno concepito metodi di uccisione, soprattutto perché a marzo e aprile i numeri delle detenute morte non erano ancora abbastanza elevati. Fritz Suhren disse a un collega di aver ricevuto ordini diretti dal Führer «di liquidare l'intero campo».

Per i consigli migliori sulla gassazione mobile, Suhren poteva rivolgersi allo Sturmbannführer Herbert Lange, che aveva inaugurato la tecnica. Ricevuto l'ordine di supervisionare l'uccisione dei malati mentali polacchi all'inizio della guerra, Lange utilizzò un parco di camion da tre tonnellate, convertiti in modo che si potessero avvelenare fino a 100 persone alla volta mentre il monossido di carbonio dei gas di scarico veniva introdotto in una cabina sul retro. In seguito Lange fu assegnato a Drögen, il quartier generale dei servizi di sicurezza nei pressi di Ravensbrück. Nel marzo 1945, lui e Suhren potrebbero aver discusso di come migliorare la gassazione delle donne sui camion. Forse Lange aveva ancora alcuni dei suoi mezzi a Drögen. Si diceva che il parco camion fosse stato riportato a Berlino, che però non era così lontana.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 613

I1 primo soldato dell'Armata Rossa a varcare i cancelli di Ravensbrück fu un giovane su un cavallo bianco, con un cappello di pelo dorato, o così ricordava Zdenka Nedvédová. Marie-Claude disse che era in sella a una motocicletta: «Alle 11:30, arrivò l'avanguardia dell'Armata Rossa e nel vedere il primo motociclista varcare i cancelli del campo, i miei occhi si riempirono di lacrime di gioia e ricordai quando vidi il primo motociclista tedesco attraversare la Place de l'Opéra cinque anni prima».

Anche Antonina Nikiforova vide il motociclista. «Tutte quelle che potevano corsero ad accoglierlo». Poi i russi arrivarono a bordo di carri armati e auto. «Corremmo a baciarli e li inondammo di sigarette, fino a che ci dissero di smetterla. "Siete matte?", urlarono. "Basta baciarci!". E restammo attono a loro a fissarli e piangere. Erano lì tutti coperti di polvere, ma per noi erano la cosa più preziosa al mondo».

Maria Gorobotsova, di Tbilisi in Georgia, disse che i soldati «sembrarono terrorizzati quando videro in che stato eravamo. Poi dissero: "Ragazze, uccidiamo un maiale e mangiamo"». Maria Vlasenko vide un conducente di carro armato balzare giù dal suo mezzo e andare verso di loro. «Ci chiese se c'era qualcuna di Maykop, che era la sua città. Aveva perso sua sorella, disse. E a quel punto sua sorella si fece avanti. Lui la riconobbe a stento e pianse».

Secondo le testimonianze dell'Armata Rossa, i primi soldati arrivarono a bordo di motociclette. Alexander Mednikov, un capitano del Secondo Fronte bielorusso, riferì che una pattuglia di ricognizione si trovava nei pressi di Fürstenberg, quando si imbatté in un alto muro sormontato da diversi giri di filo spinato. «I nostri mitraglieri smontarono dalle motociclette e uno toccò accidentalmente il filo con la mano, ricevendone una forte scossa elettrica (forse l'elettricità non era stata interrotta, dopo tutto) che lo mandò a terra». Alcuni uomini armati, probabilmente anziani miliziani Volkssturm, continuavano a difendere il campo. «Procedendo lungo il muro, i nostri uomini trovarono i cancelli, anch'essi protetti da una spessa matassa di filo spinato. E, all'improvviso, dall'altro lato una mitragliatrice iniziò a sparare. I nostri uomini avevano già capito che razza di posto era quello e decisero di entrare, al che gli uomini di Hitler fuggirono e tentarono di nascondersi dietro alcune baracche».

Alcuni minuti dopo, il colonnello Mikhail Stakhanov arrivò a bordo di un carro armato.

Dopo aver combattuto in Russia e in Polonia, accadde che presi parte alla liberazione del campo femminile di Ravensbrück. Passammo sul filo spinato con i carri armati e sfondammo i cancelli. E poi ci fermammo. Era impossibile proseguire vista la massa umana che circondava i carri armati; donne si infilarono sotto i carri armati e altre vi salirono sopra, gridavano e piangevano. Erano infinite. Avevano un aspetto terribile, indossavano tute, erano magrissime. Non sembravano esseri umani. C'erano 3000 inferme, stavano così male che era impossibile portarle via, erano troppo deboli.

Fu probabilmente il giorno dopo l'arrivo dell'avanguardia che Yaacov Drabkin si presentò a Ravensbrück. Al volante di una jeep su cui erano montati megafoni, Drabkin varcò i cancelli del campo, si guardò brevemente intorno, fece dietrofront e si diresse di nuovo all'esterno. Stava cercando qualcuno.

Drabkin era un giovane funzionario politico ebreo assegnato alla 49a Armata del II Fronte bielorusso. Il suo lavoro consisteva nel raccogliere informazioni e diffondere propaganda per minare il morale del nemico. Alla fine di aprile, Drabkin era di stanza nella cittadina di Gransee, sedici chilometri a sud di Fürstenberg. «Ricordo di aver festeggiato il mio compleanno il giorno in cui attraversammo l'Oder, perciò deve essere stato qualche giorno dopo quando seppi di Ravensbrück. Non credo che fossimo a conoscenza del campo femminile, anche se eravamo passati da Auschwitz, Majdanek e tutti gli altri campi. Naturalmente, per un ebreo in particolar modo fu dura vedere quelle cose».

Una volta in Germania, Drabkin raccolse informazioni da adolescenti russi e ucraini portati come schiavi nelle fattorie e che ormai parlavano bene il tedesco. «Ci consegnarono messaggi che dicevano: questo tedesco è una brava persona, non uccidetelo. Oppure, questo ci tratta male, uccidetelo». I ragazzi raccontarono a Drabkin parecchie cose su Ravensbrück, che lui trasmise al suo quartier generale. I superiori gli ordinarono di andare al campo immediatamente per cercare di trovare Rosa Thälmann.

I sovietici ormai sapevano che Ernst Thälmann, un tempo capo del partito comunista tedesco. era stato giustiziato a Buchenwald. «Speravano di trovare sua moglie ancora viva, volevano sapere cosa sapeva», disse Drablin, seduto nel studio di Mosca circondato dai libri. Non riuscì a trovare Rosa a Ravensbrück, perciò girò per Fürstenberg, chiamando il suo nome col megafono per le strade vuote.

I tedeschi erano fuggiti tutti. Impiegai qualche ora ma alla fine la trovai. Si nascondeva in una piccola casa in una strada secondaria. Era in condizioni davvero pessime: emaciata, a malapena viva, lo stato in cui erano tutte quante. Indossava ancora gli indumenti della prigione. Sapeva già che suo marito era morto e le interessava solo sapere cosa ne era stato di sua figlia.

La ventiseienne Irma Thälmann era stata portata al sottocampo di Neubrandenburg qualche settimana prima. Rosa non aveva idea se sua figlia fosse viva o morta.

Le mie istruzioni erano di dirle che i nostri comandanti erano lieti che fosse sopravvissuta e che avrebbero fatto tutto quanto per aiutarla. Volevamo sapere cosa era in grado di dirci, riguardo al campo, al partito, a certe persone a cui eravamo interessati. Ma non fu in grado di dirmi niente, era troppo sconvolta. Aveva il terrore di dire qualcosa che potesse mettere la figlia in pericolo maggiore. Era una minuscola figura rattrappita.

Quale fu la reazione di Yaacov nel vedere Rosa?

«Difficile dirlo», rispose, toccato da quel ricordo. «Una combinazione di compassione e pietà».

Drabkin e il resto dell'avanguardia sovietica presto proseguirono in direzione ovest, promettendo alle prigioniere che le unità di coda dell'Armata Rossa avrebbero portato rifornimenti e medicinali per aiutarle. Mentre aspettavano, per altri due o tre giorni, le donne appesero il loro stendardo rosso sull'entrata «per annunciare al mondo che eravamo libere», disse Antonina. Le ceche chiesero ad Antonina il "permesso" di alzare la loro bandiera nazionale sul proprio blocco e ben presto ogni nazione inalberava la sua. Antonina descrisse come tutte raddoppiarono gli sforzi per aiutare le malate, tracciando diagrammi delle calorie, andando alla ricerca di cibo e materassi, cercando di dare inizio a un'operazione di pulizia. Non disse però che, sia dentro il campo che fuori, i soldati russi stavano ormai sistematicamente violentando prigioniere e civili tedesche.


La furia sessuale dell'Armata Rossa a Ravensbrück ebbe come testimone Ilse Heinrich, un'asociale tedesca troppo debole per lasciare il letto quando arrivò l'avanguardia sovietica. Qualche ora dopo, Ilse e altre prigioniere costrette a letto videro soldati sovietici, ubriachi e intenti a stuprare perfino le donne malate e moribonde. «E poi cominciò», disse. «Pensavo a una cosa sola in quel momento: morire, perché ero poco più che un cadavere. In seguito, quando arrivarono gli alti ufficiali e si installarono nel campo, godemmo di un po' di pace e ordine. Ma prima, dovemmo subire quello! Fu la cosa peggiore. E mezza morta com'ero».

[...]

L'insegnante francese Micheline Maurel, che alla fine della guerra pesava 35 chili ed era devastata dalla dissenteria e dalla scabbia, descrisse in dettaglio gli stupri sistematici. Il 10 maggio, Micheline vide il suo primo soldato dell'Armata Rossa. «Un tipo grosso e robusto, allegro e affabile» entrò nel cortile del fienile in cui lei e le sue amiche Michelle e Renée si stavano nascondendo dopo essere fuggite dalla marcia di evacuazione di Neubrandenburg. «Stuprò immediatamente Michelle e poi se ne andò, correndo per la campagna in mezzo a una scarica di proiettili». Più tardi, quello stesso giorno, mentre erano in cerca di cibo nella città in fiamme di Waren, Michelle e Renée furono entrambe violentate diverse volte dai russi che alloggiavano nelle case saccheggiate.

Il secondo giorno di "liberazione", le tre amiche si nascondevano ancora nello stesso fienile quando arrivò una compagnia di cosacchi. «Erano proprio come venivano raffigurati: uomini superbi con alti copricapi di astrakan, cappotti aderenti, stivali con gli speroni, in sella a magnifici cavalli che giravano impettiti nel cortile. Ci portarono un grammofono e misero musica da ballare. Ci offrirono vodka in grosse tazze e questo alleviò i nostri dolori».

Micheline dice che l'unica ragione per cui non la violentarono fu che persuase i soldati che le sue piaghe erano mortali e infettive. Ma l'amica Michelle non aveva piaghe. «Cercai di proteggerla ma non servì a niente», disse Micheline. «Né era realmente una questione di protezione, poiché i russi non avevano cattive intenzioni, nessuna ostilità nei nostri confronti. Anzi, erano pieni di estrema cordialità, traboccavano di affetto, che dovevano dimostrare immediatamente. "Francese? Tu francese, io russo, fa lo stesso! Sei mia sorella. Vieni a stenderti qui"».

La salute del terzetto francese si deteriorava ogni giorno di più; ogni giorno i russi aggredivano le donne che andavano per la loro strada. La storia era sempre la stessa. «Che fossero grossi biondi dai baffi cascanti, piccoli mongoli con le gambe arcuate, superbi cosacchi bruni, a ciascuno dovevamo spiegare: "Due anni nel campo, siamo sfinite, lasciateci in pace". Ma loro volevano fare l'amore con le sorelle francesi».

Un russo, nell'apprendere che le donne erano sopravvissute di un campo di concentramento, si alzò in piedi indignato e dichiarò: «Siete anche voi conquistatrici come noi e dormite sulla paglia, mentre una famiglia tedesca qui accanto dorme nei letti». A quel punto prese il fucile, dicendo: «Vado a ucciderli. Avrete i loro letti». I russi allora condussero le francesi alla casa in cui una famiglia di tedeschi, compresi diversi bambini, stava mangiando. Mentre il russo puntava il fucile contro i tedeschi, urlando Kaput, kaput, Micheline fece da interprete per la famiglia. Il contadino tedesco si alzò e condusse le donne in una stanza con dei letti. Il russo poi se ne andò, abbracciando le francesi e portando via con sé una delle ragazze tedesche. «Più tardi quella notte, la ragazza tornò alla fattoria in lacrime».

È indubbio che a subire la violenza maggiore furono le donne tedesche. «Ricordo che mia madre teneva stretta al petto la mia sorellina come una sorta di protezione. Diceva che i russi hanno rispetto per i bambini piccoli», ricordò Wolfgang Stegemann, all'epoca scolaro dodicenne di Fürstenberg. I soldati tedeschi avevano lasciato la cittadina appena un'ora prima. «Era tutto silenzioso, poi si sentì un gran rumore e i russi arrivarono in paese a piedi. Molti erano ubriachi ed entrarono nelle case e distrussero tutto. Ci furono un sacco di atrocità. Un sacco di stupri».

Rudolf Rehländer, cresciuto nello stesso villaggio di Dorothea Binz, a circa cinque chilometri di distanza, ricordò cosa accadde quando l'Armata Rossa raggiunse Altglobsow. «I primi imperversarono nelle nostre case. Saccheggiarono tutto — scarpe, vestiti. Lasciarono il villaggio con cinque o sei orologi ai polsi. Poi iniziarono a violentare. Le prime truppe furono le peggiori. Furono quelle responsabili della maggior parte degli stupri. Quasi ogni donna del villaggio fu violentata, a meno che non fosse riuscita a nascondersi».

Chiesi se la madre di Dorothea fosse ancora al villaggio. Rudolf pensava di sì, perché la sua famiglia gestiva il bar del villaggio che Rose Binz frequentava. «Avevo il compito di riempire i bicchieri e non riuscivo a riempire quello di Rose Binz abbastanza in fretta».

Era lo stesso dovunque, dice Rudolf, e al villaggio mancavano quasi tutti gli uomini; erano al fronte oppure erano fuggiti o si erano suicidati. Rudolf, appena diciassettenne, era uno dei più grandi rimasti al villaggio, perciò toccava a lui e agli altri ragazzi seppellire i corpi. Il maggiore e altri tre nazisti di alto rango si erano uccisi.

Ricordo che stavamo seppellendo il maggiore quando qualcuno gridò «Venite, svelti», perché avevano trovato l'Ortsbauernführer (il capo dei contadini). Corremmo sul posto e fu una scena terribile. Sia lui che sua moglie erano stati impiccati, ma i loro corpi erano stati stesi a terra. La donna era nuda dalla vita in giù e aveva un bastone infilato nella vagina. Era riversa lì nel bosco e io dovetti seppellirli.

Chiesi al funzionario dei servizi segreti dell'Armata Rossa, Yacoov Drabkin cosa pensasse delle atrocità.

Sì, è successo tutto quanto. Dopo quello che i nostri soldati avevano visto e patito, era difficile dire loro di non uccidere ogni tedesco che vedevano. Quando la guerra finì, dovetti parlare alla popolazione tedesca, spiegando che l'Armata Rossa non era così cattiva. Dovetti rispondere davanti alla nazione tedesca per tutti i nostri crimini e, in risposta, ho sempre sentito parlare degli stupri.

Gli chiesi dello stupro delle prigioniere di Ravensbrück. All'inizio si mostrò sorpreso che fosse accaduto, «dal momento che erano in uno stato tanto terribile».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 638

Nel dicembre 2013 tornai a Ravensbrück. Fürstenberg sembrava esattamente la stessa, tetra, con le spalle rivolte al campo al di là del lago. La cittadina aveva pagato a caro prezzo i suoi legami con il campo di concentramento femminile. L'Armata Rossa aveva saccheggiato abitazioni e stuprato donne durante il suo passaggio nel 1945; poi, quando era sorta la DDR, gli abitanti del luogo erano stati costretti a diventare comunisti e venerare il nuovo santuario comunista del campo. Quando i russi avevano lasciato la cittadina, gli abitanti avevano chiesto il permesso di costruire un supermercato sul sito. La richiesta era stata respinta.

Nei boschi nei pressi del lago, il sole stava sciogliendo il ghiaccio sugli alberi. C'erano stati dei cambiamenti: era stata allestita una nuova mostra e accanto al lago c'era un ufficio informazioni. Ravensbrück adesso riceve 150.000 visitatori all'anno, anche se il campo gemello di Sachsenhausen, più vicino a Berlino, ne riceve molti di più e, di conseguenza, più denaro. «Siamo sempre stati ai margini della storia», dice Insa Eschenbach, direttrice del sito commemorativo.

Ci sono state tante giustificazioni per aver tenuto ai margini questo campo: era su scala più piccola rispetto a molti altri; non si inseriva facilmente nella narrazione centrale; i documenti del campo erano stati distrutti; era nascosto dietro la Cortina di Ferro; le prigioniere erano solo donne. Eppure è proprio per quest'ultimo motivo che Ravensbrück avrebbe dovuto scuotere la coscienza del mondo. Altri campi mostrarono ciò che l'umanità era in grado di fare a un'intera razza. Ravensbrück mostrava ciò che l'umanità era in grado di fare alle donne. La natura e la portata delle atrocità commesse qui sulle donne non avevano precedenti. Ravensbrück non avrebbe mai dovuto lottare "ai margini" per avere voce: fu, ed è, una storia a pieno titolo.

I nazisti commisero atrocità sulle donne anche in molti altri posti: più della metà degli ebrei uccisi nei campi della morte furono donne e, verso la fine della guerra, le donne furono detenute in diversi altri campi. Ma proprio come Auschwitz fu la capitale del crimine contro gli ebrei, Ravensbrück fu la capitale del crimine contro le donne. Nel profondo della nostra memoria collettiva, in tutta la letteratura di ogni periodo e ogni Paese, le atrocità contro le donne sono sempre state considerate con orrore. Trattando come marginali i crimini accaduti qui, la storia commette un ulteriore crimine contro le donne di Ravensbrück e contro il sesso femminile.

[...]

Lasciai lo stabilimento Siemens e attraversai un tratto di terreno brullo per raggiungere il Campo Giovanile. Stava calando la nebbia. Ancora una volta ebbi difficoltà a trovare la strada. Un binario arrugginito spariva tra gli alberi. Poco più oltre c'era una radura con una piccola cappella fatta di conchiglie, costruita dal gruppo femminista di Berlino Gedenkort, in memoria delle adolescenti imprigionate qui prima che il Campo Giovanile diventasse un campo della morte così come delle altre che vi morirono dopo.

Mucchi di brutto cemento e lamiere di zinco si ergono sul terreno confinante. Forse era uno dei blocchi.

Poi, all'improvviso, sei figure di rete metallica apparvero dagli alberi. Simili a fantasmi, sembravano inclinarsi in avanti come per accogliermi. Tra il febbraio e l'aprile 1945, all'incirca seimila donne furono condotte in questi boschi dal campo principale di Ravensbrück. Avevano detto loro che stavano andando in un posto dove le avrebbero trattate meglio; invece furono portate qui e in gran parte assassinate, o portate alla camera a gas e gassate o fucilate.

Ciò che accadde su questo pezzo di terra dimenticato da tutti fu il più abominevole crimine di Ravensbrück. Eppure nessuno che si trovi a passare di qui ne verrà mai a conoscenza. Non c'è neanche ragione di passarvi; il posto, di proprietà dello stato di Brandeburgo (così come il sito Siemens), neanche incorporato nel sito ufficiale commemorativo di Ravensbrück, non rientra nei percorsi battuti. Nessuno sembra volerlo rivendicare, a eccezione delle femministe di Gedenkort. Scarsità di denaro viene addotta come motivo dell'oblio del Campo Giovanile. Più importante è una disputa sulla terminologia. Il direttore del campo propose di chiamarlo campo di sterminio, ma membri del consiglio ebraico tedesco si opposero, dicendo che solo i campi della morte ebraici, istituiti nei modi e nei termini stabiliti dalla Soluzione Finale, possono essere definiti tali.

Ancora una volta, nessuno riesce a trovare un modo per raccontare la storia di Ravensbrück. C'è una riluttanza a prendere quanto accaduto qui seriamente quanto gli altri crimini nazisti, perciò il luogo resta abbandonato "ai margini". Gli uomini delle SS che idearono le uccisioni finali a Ravensbrück le avrebbero senz'altro definite sterminio: erano gli stessi sterminatori che avevano ucciso gli ebrei ad Auschwitz. Sarebbero contenti di vedere quanto è stato custodito bene il loro segreto: settanta anni fa, nascosero deliberatamente nei boschi questo campo di sterminio per donne così nessuno ne sarebbe venuto a conoscenza. Gli sterminatori inventarono anche un nome per quel posto, chiamandolo "Mittwerda" e fingendo che fosse un sanatorio.

C'erano senz'altro differenze con gli altri eccidi: la scala era minore e, per risparmiare denaro, dapprima cercarono di uccidere quante più donne possibile lasciandole morire di fame o tenendole quasi nude nella neve per ore di fila «senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi, e freddo il grembo come una rana d'inverno», come scrisse Primo Levi quando ci chiese di «considerare se questa è una donna». Incalzò i suoi lettori: «Meditate che questo è stato: vi comando queste parole... Ripetetele ai vostri figli». Levi scrisse di Auschwitz ma il suo messaggio era universale.

Dovremmo senz'altro "meditare" su quanto accadde qui e anche dare a questo campo di sterminio per donne i suoi legittimi nome e posto nella storia. A Norimberga, Robert H. Jackson disse che la cospirazione nazista «stabiliva un obiettivo, poi, avendolo raggiunto, passava a uno più ambizioso». Ravensbrück, che copre gli anni della guerra, è un utile prisma attraverso cui osservare l'evoluzione di quegli obiettivi. Il campo aiutò Hitler a conseguire alcuni scopi primari: eliminazione di "asociali", criminali, zingare e altre bocche inutili, comprese quelle non in grado di lavorare; il primo gruppo del genere fu gassato a Bernburg, un'atrocità di cui oggi il mondo non sa quasi nulla. Il campo rivestì anche un piccolo ruolo nell'«obiettivo più ambizioso»: l'eliminazione degli ebrei, fornendo guardie e kapò donne per il campo femminile di Auschwitz. Poi, nelle ultime settimane della guerra, Ravensbrück salì alla ribalta, diventando la scena dell'ultimo grande sterminio con il gas eseguito nei campi nazisti prima della fine del conflitto.

A differenza delle prime fasi dello sterminio, tuttavia, queste uccisioni non avevano un "obiettivo", poiché il progetto di creazione di una razza superiore era stato abbandonato. Le prigioniere di Ravensbrück perciò (vecchie, giovani, di tante diverse nazionalità, ebree e non, senza altro a unirle che il fatto di essere donne) furono uccise solo per fare spazio. Furono uccise perché le loro gambe non erano abbastanza buone per partecipare alla marcia della morte. In realtà queste ultime gassazioni accaddero perché gli sterminatori non riuscivano a smettere. Non si trattò di atrocità marginale; accadde alla fine dell'orrore nazista, con l'assassinio in massa di donne nella maniera più bestiale, senza la pretesa dell'ideologia, per quanto oscena, senza nessun motivo.

[...]

A metà aprile 1945, gli Alleati si avvicinavano rapidamente a Berlino; gli americani avevano scoperto Buchenwald e i britannici avevano trovato Belsen. Non potevano esserci dubbi riguardo l'orrore nei campi e quell'orrore era ancora in atto in numerosi posti non ancora liberati, compreso Ravensbrück, dove le donne venivano messe in fila per la camera a gas. Realtà politiche e militari, a ogni modo, portarono a non prendere in considerazione cambi di strategia che potessero proteggere gli internati nei rimanenti campi nelle ultime settimane della guerra.

Neanche negoziare con Hitler riguardo ai campi era mai stata un'opzione. L'editto di Churchill, «niente patti con Hitler», fece sì che gli Alleati non compromettessero il loro obiettivo, ovvero vincere la guerra, schiacciare i nazisti e tutto ciò che rappresentavano. Perfino offrire un salvacondotto agli Autobus Bianchi di Bernadotte era un compromesso eccessivo per gli Alleati e come tale fu rifiutato.

Eppure è impossibile non seguire la storia del salvataggio degli Autobus Bianchi senza fare il tifo per loro, sapendo che con la missione di Bernadotte in atto finalmente qualcuno stava mettendo al primo posto la vita dei prigionieri. Di sicuro Bernadotte dovette scendere a compromessi per realizzare il salvataggio, che dovette sottostare alle condizioni di Himmler. Non solo fu obbligato da Himmler ad aspettare che a Ravensbrück il ritmo delle uccisioni calasse, ma poté salvare le ebree solo negli ultimi giorni. Se non fosse sceso a patti, tuttavia, Bernadotte non avrebbe tratto in salvo diciassettemila prigionieri. Ottenne ben pochi ringraziamenti. Dopo la guerra, lo accusavano ancora di non aver salvato abbastanza ebrei, anche se alla fine ne portò in salvo settemila. Nel 1947, Bernadotte fu scelto come mediatore per le Nazioni Unite nel conflitto arabo-israeliano. Il 17 settembre 1948, fu assassinato a Gerusalemme dal gruppo sionista militante Stern Gang.

| << |  <  |