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Pagina 7
[ inizio libro ]
Erano le tre e trentacinque di un martedì pomeriggio al
Penitenziario Statale, e i detenuti stavano tornando dal
lavoro. Uomini in uniformi non stirate, color carne, col
numero sulla schiena, defluivano per i lunghi corridoi del
blocco A. Da loro si alzava un fitto borbottio, anche se in
apparenza nessuno stava parlando col vicino. Era uno strano
coro, non musicale, che il primo giorno aveva spaventato
Carter. Era ancora un pivello e aveva addirittura pensato
che bollisse in pentola una rivolta: ora invece l'accettava
come una caratteristica del Penitenziario Statale, o forse,
chissà, di tutte le prigioni. La porta delle celle era
aperta, e a mano a mano gli uomini sparivano, inghiottiti
dalle celle al pianterreno, e di sopra, in quelle che davano
sulle ringhiere (il blocco aveva quattro piani). Ben presto
i corridoi si svuotarono. Adesso c'erano venticinque minuti
per lavarsi al lavandino della cella; cambiarsi la camicia,
chi ci teneva e ne aveva una pulita; scrivere una lettera, o
mettersi la cuffia e ascoltare il disc-jockey del programma
musicale che andava in onda a quell'ora. Il campanello
della cena suonava alle quattro.
Philip Carter camminava piano, perché temeva la vista e
la compagnia di Hanky, il suo compagno di cella. Hanky era
un traccagnotto che si era beccato trent'anni per rapina a
mano armata («la dura") e omicidio, e ne sembrava piuttosto
orgoglioso. Carter non piaceva a Hanky, che lo giudicava
uno snob.
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