|
|
| << | < | > | >> |Pagina 7Proprio come Theodore aveva pensato, c'era gente dagli Hidalgo. Levò lo sguardo alle quattro finestre illuminate del secondo piano, da cui veniva un invitante mormorio di voci e di risa, sistemò la pesante cartella per reggerla meglio in equilibrio sotto il braccio destro, e per la seconda volta si domandò se gli convenisse suonare il campanello o cercare un altro taxi e tornare subito a casa. La casa sarebbe stata gelida, i mobili coperti dalle lenzuola. Inocenza, la sua domestica, era ancora a Durango, in visita dai suoi parenti, perché lui non le aveva scritto che stava per tornare. E, in fin dei conti, era soltanto mezzanotte, la vigilia del Cinque di Febbraio, festa nazionale. Non lavorava nessuno, l'indomani. Comunque, lui aveva l'ingombro di una valigia, di una cartella di disegni e di un rotolo di tele. Inoltre, non era stato invitato, anche se con gli Hidalgo questo non aveva nessuna importanza. Oppure avrebbe preferito andare a trovare Lelia? Ci aveva pensato, in precedenza, sull'aereo da Oaxaca, e non sapeva quale impulso lo avesse portato lì dagli Hidalgo. Aveva scritto a Lelia che quella sera sarebbe stato di ritorno a città del Messico, e forse lei lo stava perfino aspettando. Non aveva telefono, ma non le sarebbe dispiaciuto vederselo capitare in casa a qualsiasi ora, a meno che non stesse dipingendo. Lelia era talmente comprensiva! Decise di fare una prima tappa dagli Hidalgo, e di vedere Lelia in seguito, se non fosse stato troppo tardi. Si avvicinò alla porta, posò la valigia e premette con forza il campanello. Non suonò una seconda volta, sebbene passassero almeno un paio di minuti prima che qualcuno venisse ad aprire. Era Isabel Hidalgo. "Theodore, sei tornato." Lo accolse parlando in inglese. Poi, in spagnolo, aggiunse: "Accomodati. Che bellezza rivederti. Entra, dai. La casa è piena di gente." "Grazie, Isabel. Sono appena arrivato in aereo da Oaxaca." "Ah, davvero?" Isabel andò direttamente nel soggiorno, agitò un braccio e annunciò: "Theodore è qui! Carlos, è tornato Theodore!" Sforzandosi di non dare nell'occhio, Theodore posò la valigia nella piccola anticamera, vi appoggiò contro la cartella dei disegni e vi sistemò accanto il rotolo di tele. Carlos arrivò nell'anticamera, reggendo un drink. Indossava una delle sue giacche di tweed dal disegno vistoso. "Don Theodore!" gridò, stringendo a sé l'amico con un braccio. "Ben tornato! Vieni a bere qualcosa!" La maggior parte degli ospiti erano uomini, radunati in piccoli gruppi negli angoli e sui due grandi divani-letto, come se fossero rimasti a parlare a lungo nel medesimo posto. Theodore ne conosceva forse la metà, e non voleva essere presentato a ogni singolo individuo ma, con la sua esuberante energia che aumentava sempre quando beveva, Carlos lo introdusse presso ogni uomo, donna o bambino, sebbene i due bimbi, entrambi biondi e americani, si fossero addormentati all'estremità di un divano-letto, contro la parete. "Non li svegliare, non li svegliare," si affrettò a protestare Theodore. "Dove ti eri nascosto?" domandò Carlos. "Sono stato a Oaxaca," disse Theodore, sorridendo. "Ho dipinto una mezza dozzina di quadri, in quest'ultimo mese." "Vediamoli!" La faccia di Carlos si illuminò di un gran sorriso. "Oh, comunque non ora. Non c'è spazio sufficiente. Ma ho passato un periodo splendido. Ho perfino..." S'interruppe perché Carlos era scappato da qualche parte, forse per procurargli un drink. Theodore si guardò lentamente attorno, cercando un posto dove sedersi. Lanciò un'occhiata a una donna che stava entrando dall'anticamera, con la vaga speranza che fosse Lelia, ma non era lei. Qualcuno lo urtò. L'aria era satura di fumo di sigarette americane. C'erano cinque o sei statunitensi nella stanza, probabilmente professori o assistenti del Messico City College o della Ciudad Universitaria, dove Carlos Hidalgo insegnava regia teatrale. Su un tavolino, accanto a uno dei divani, c'erano diverse bottiglie di gin e whisky e alcuni bicchieri. | << | < | > | >> |Pagina 69Al di sopra del ripiano c'era un bozzetto a inchiostro di china e acquerello di una ragazza che si cullava su un'amaca a Pie de la Cuesta, un piede nudo e una gamba dondolanti, una fila di noci di cocco in grembo — "Solo una ragazza indigena che vendeva noci di cocco. Grazie, signore, ma non ha un prezzo. L'ho promesso a un amico." E Lelia aveva riso. Theodore ricordava il suono di quella risata, che esprimeva contemporaneamente piacere, perché l'uomo aveva mostrato di apprezzare il suo lavoro, cordialità e scusa. Fissò accigliato lo schizzo, fino a che le lacrime cancellarono l'azzurro dell'acqua, il cielo e, infine, tutto il resto: lui crollò a sedere e scoppiò in singhiozzi, alla sua scrivania. Pianse senza ritegno, come un bambino per una delusione ingiustificata e immeritata.Poi Theodore si domandò come l'avrebbe presa il piccolo José. Aveva all'incirca nove anni, ormai. Lelia lo aveva dipinto quattro o cinque volte, sebbene fosse sempre pronto a rubarle qualche gioiello o una manciata di spiccioli lasciati in giro appena lei voltava le spalle. "Oh, non può farne a meno, Theo. Non ci tenevo molto a quella spilla, del resto!" gli diceva, quando lui si offriva di dare una severa lezione al bambino e obbligarlo a restituire il gioiello. Lelia amava l'innocenza – e questa era la ragione per la quale amava quasi tutti i bambini, e soltanto pochi adulti. Ripeteva che l'ideale sarebbe stato crescere più innocenti invece che più saggi, e quando Theodore commetteva qualche ingenuità, si mostrava distratto o veniva imbrogliato da un negoziante, Lelia lo prendeva in giro e gli diceva che stava indubbiamente diventando più innocente di giorno in giorno. Adesso la rivedeva mentre apriva la porta con un sorriso, mentre era in lacrime la sera tardi, inconsolabile perché una giornata di lavoro non aveva dato i frutti sperati, mentre si chinava a parlare a un bambino del vicinato, o comperava un dolcetto per un altro, o ne baciava un terzo sulla guancia come se fosse stato il proprio figlio, soltanto perché il piccolo aveva posato per lei. A Theodore sembrava che l'identico amore per Ramón e per lui – sul quale spesso aveva riflettuto, perplesso, trovando ragioni sempre nuove e complesse – fosse semplicemente in accordo con la sua natura. Appartenere a un solo uomo sarebbe equivalso a chiudere fuori gli altri. Andò verso il letto e vi si distese lentamente, affatto rilassato, come una figura di pietra dentro una tomba. Niente più conversazioni con Lelia, niente più felicità divisa con lei, allorché le capitava di vendere un quadro o un critico d'arte scriveva qualche parola di lode sul suo lavoro. Come pittrice, Lelia sarebbe stata giudicata da ciò che aveva prodotto fino al giorno innanzi, all'età di trent'anni e un mese. Theodore cominciò a sentire che il sangue gli si rimescolava con propositi di vendetta. Chiunque fosse stato, doveva pagare con la vita. Ci avrebbe pensato lui, anche se non c'era la pena di morte in Messico. Non era un normale omicidio, quello: con un proiettile o perfino con un paio di coltellate. Udì le grattate e gli strappamenti degli unghielli di Leo nell'edera; il gatto arrivò sul davanzale della finestra e si sedette con la coda arrotolata intorno alle zampe anteriori, fissando nella stanza mentre i suoi occhi si assuefacevano alla luce più fioca. Theodore abbassò la mano dal lato del letto, e il micio gli si avvicinò silenziosamente e strofinò il muso contro le sue dita; quindi balzò sul petto del padrone. Leo faceva fusa sonore e fissava Theo con l'obiettività che avrebbe riservato a un quadro sulla parete. | << | < | > | >> |Pagina 120L'interno della cattedrale era quasi altrettanto caotico. Sembrava che, nel centro, stessero celebrando una messa. Poche persone apparivano immerse nella preghiera – o nel sonno — nei banchi bui. Un gruppo di turisti, i cui abiti troppo nuovi risaltavano nel generale grigiore, scendeva lungo una delle larghe navate laterali, dietro a un uomo che indicava qualcosa in alto. Theodore guardò verso la cupola grigia, che adesso era illuminata da un cerchio di lampadine gialle. L'altezza di quella cupola e l'odore del luogo gli stavano procurando un lieve senso di malessere.Ramón si era piazzato in ginocchio davanti a una nicchia buia – forse si trattava di una nicchia che aveva qualcosa di speciale per lui, giacché alcune delle altre, con figure di santi all'interno, erano illuminate. Sauzas sedette all'estremità di un banco, a circa tre metri da lui, e Theodore prese posto sull'altro lato della navata rispetto al capitano. Theodore si domandava se Ramón avesse davvero confessato l'omicidio, o si fosse limitato a recitare qualche frase senza senso che aveva imparato a memoria. L'odore della cattedrale lo irritava: cera di candele, incenso, il tanfo rancido di una tomba senza nemmeno le virtù di frescura e di isolamento, quello di vecchie stoffe e legno antico, la sudaticcia dolcezza di pesos accartocciati – e, a rendere tutto più percepibile, a "insaporirlo" alla stregua di sale, il tanfo di corpi umani e dei loro aliti. Theodore supponeva che Ramón reagisse come i cani di Pavlov a quel particolare odore e alle sue varianti in altre chiese. Santità. Inginocchiati. Fatti il segno della croce. Cammina in punta di piedi. È un luogo sacro. Sono quattrocento anni che ristagna quest'aria... – o dal tempo lontano in cui l'edificio è stato costruito. La cattedrale aveva quasi quattrocento anni – e adesso Ramón portava lì la sua barbarie, la riversava in quel posto sacro. Con la blanda certezza, inoltre, che qualche presenza invisibile e onnipotente lo avrebbe perdonato. Theodore si dimenò sul duro sedile di legno. I peccati di Ramón erano soltanto diversi di grado, in fin dei conti. A volte, la gente entrava lì studiando il modo di alleggerire le tasche di qualcuno. Un cartello in spagnolo e in inglese affisso sul portale avvertiva i visitatori di guardarsi dai borsaioli all'interno della cattedrale. Era impossibile distogliere il pensiero dal denaro. Dappertutto cassette di legno per le elemosine chiedevano con avvisi stampati denaro per i bambini, per i poveri, per la manutenzione della chiesa – e ciascuna di esse aveva un enorme lucchetto per impedire a quegli stessi poveri di prendere ciò che apparteneva tanto a loro quanto a chiunque altro. Pensieri sconnessi sorgevano in lui come emozioni, arrossandogli le guance e affrettandogli i battiti del cuore, come se il suo corpo si preparasse a una lotta, o stesse già lottando. Al centro della cattedrale, una decina di uomini in cotta bianca pregavano in latino, mormorando risposte veloci alle invocazioni di quello che sembrava il celebrante, con l'aria di aver fretta di finire. All'improvviso, Ramón si fece il segno della croce e si alzò. Avanzò verso Theodore e Sauzas nella navata, ma sembrò che non li vedesse. Il capitano lo prese per un braccio. Nei pressi dell'uscita si voltò, accennò una genuflessione e si segnò ancora. "Si è confessato a quel santo, Ramón?" gli domandò Sauzas mentre attraversavano il cortile. | << | < | > | >> |Pagina 211Ramón uscì dalla stanza. Theodore stava per domandargli se volesse un caffè, poi lasciò perdere. Spesso rifiutava il caffè al mattino, sebbene Theodore sapesse che gli piaceva almeno quanto a lui. Era una sorta di penitenza che sembrava imporsi, specie nelle mattine in cui si recava in chiesa — e nelle mattine in cui non ci andava, invece, la rinuncia gli sembrava già una penitenza, in senso privativo. Ma c'erano anche altre cose. Aveva praticamente smesso di fumare, sebbene smettere del tutto dovesse essere forse più facile che limitarsi a due o tre sigarette al giorno. Rifiutava di imburrare il pane, e non si serviva mai una seconda volta, anche se Theodore sapeva che aveva una gran fame. E tutto questo senza ostentazione, tanto che lui aveva impiegato un certo tempo per rendersene conto. Un bel modo di espiare un omicidio, pensava Theodore. Di certo, doveva fare anche qualcos'altro. E qualche parte della sua mente doveva essere alla ricerca di cosa poter fare: di quale buona azione, di quale sacrificio sarebbe stato sufficiente. Era arduo essere un cavaliere, un eroe o un martire, quando risultava difficile trovare una causa che sembrasse degna dei propri sforzi e della propria vita. Anche Theodore lo sapeva. Era un problema che lo assillava. Qual era il valore del dipingere, per esempio? Lui contribuiva all'affermazione dell'estetica e procurava ad alcune persone un certo piacere, ma non sarebbe stato più importante per l'umanità contribuire con qualcosa di pratico, come curare i malati in Africa? Pensava che Ramón dovesse trovarsi in un dilemma analogo – e anche peggiore: un'incertezza che era in sé immaginaria e fuori controllo – quanto a giustificare la sua esistenza, o a cercare un'ammenda proporzionata al suo crimine.Theodore si scosse, spazientito con se stesso. Dove voleva mai arrivare con quei ragionamenti? Un tempo, aveva aspirato a essere un uomo d'azione, risoluto, e invece era diventato un risibile opposto. Si studiava in quel modo solo perché aveva più tempo per farlo della maggior parte della gente. L'unica cosa che poteva dire in proprio favore era che non considerava l'egoismo uno dei suoi difetti. Amava i suoi amici e pensava che l'amore, essendo nella maggior parte delle sue forme un'emozione nevrotica, poteva nutrire se stesso del solo dare, allorché era incapace di prendere, o se niente veniva offerto. Kierkegaard aveva formulato lo stesso concernimento sul piano religioso: "La fede ha preso in considerazione tutte le possibilità... Se tu sei disposto a comprendere che devi amare, allora il tuo amore è sicuramente eterno." Un altro pensiero gli attraversò la mente: Ramón aveva deciso, in modo irrevocabile. Aveva scelto dalla parte dell'inferno – e se non altro era una decisione. Metteva l'amico in una posizione forte quanto la sua. Dato che il bene e il male esistevano soltanto come entita mentali, i loro rispettivi sforzi – i suoi e quelli di Ramón – si trasformavano semplicemente in un conflitto di volontà. | << | < | > | >> |Pagina 232Theodore stava pensando a molte cose, ma gli era difficile trovare parole abbastanza diplomatiche per esprimerle. "Ripensavo a una nostra conversazione a proposito della religione come... finzione organizzata. Te ne ricordi, Ramón?""Non ricordo, no," rispose Ramón, con indifferenza. Theodore serrò i pugni nelle tasche della vestaglia e rabbrividì. "Fu una sera in cui tu e io passeggiavamo dalle parti dello Zócalo, e poi andammo sulla terrazza dell'Hotel Majestic... per una bibita e un caffè. Ma Ramon non dava segno di ricordare. "Questa indifferenza verso il tuo benessere fisico... Chi vuoi compiacere? Te stesso o Dio? Devi scegliere tra vivere e non vivere: non fare qualcosa che si configura come una via di mezzo." "Penso che questo sia affar mio." "Certo che lo è. Ma... mi è tornata in mente la nostra conversazione sulla religione e i suoi aspetti di finzione organizzata. Avevi capito ciò che intendevo, quella sera. Eri d'accordo, anche se non stavo cercando di convincerti di niente." "Ah, ricordo. Stavamo parlando di riti. C'è il problema di crederci, Theo. Tu forse non li prendi sul serio. Io sì." "Di credere in un loro valore assoluto. Be', ci credo anch'io. Non credo nel loro valore 'intrinseco', e non ci credevi neanche tu, allora." "Ma questo risale ad anni fa. Due anni, almeno." Theodore vedeva già profilarsi la propria sconfitta, ma continuò: "Parlavamo di finzioni generalmente praticate, rituali, comunque tu voglia chiamarle. Il rito di digiunare dopo Carnevale può avere un valore, certo, ma non è un valore intrinseco. È simbolico. Il tuo corpo non è simbolico, però. È tangibile, non fosse che per breve tempo. Prendi per esempio..." "Di conseguenza, anche Dio è una finzione?" Theodore esitò. "Sto parlando dei rituali che Lo circondano. I riti divengono convinzioni senza base, e possono condurre a squilibri mentali." Ramón non fece commenti. "Di recente, leggevo di una popolazione delle isole dei Mari del Sud che considera la paranoia uno stato normale della mente e la incoraggia. La paranoia non è accettata nella nostra società, e chiunque ne sia vittima si ritrova in difficoltà, per un verso o per l'altro. Non è approvata socialmente. Ma in quelle terre lontane chi non si mostra paranoico è considerato anormale e subisce perfino un certo ostracismo. Le mogli non possono scambiarsi ciotole di minestra, perché sono tenute a sospettare che siano avvelenate. Nessuno mette in dubbio la razionalità, capisci, perché ogni individuo è stato allevato in quelle convinzioni." Theodore tacque, tremando da capo a piedi per il freddo. "Bene, a che cosa vuoi arrivare, Theo?" domandò Ramón, appoggiandosi su un gomito. "Al fatto che viviamo dominati da riti ugualmente assurdi, che nessuno o ben pochi osano criticare, per timore di offendere la maggioranza delle persone." "Ma tu osi." "Certo, io oso. Quando mi sento di farlo." Theodore accese una sigaretta e, per alcuni istanti, passò le dita sopra la fiamma dell'accendino per scaldarle. Nella stanza accanto, un uomo e una donna discutevano amaramente su chi di loro avesse dimenticato un thermos pieno di caffè bollente nell'ultimo albergo in cui erano stati. "Ti meraviglierai di quello che sto per dire, Ramón. E cioè che una certa finzione – o rito – può essere meravigliosamente utile per rinforzare la personalità o il carattere..." "Sempre alla ricerca di benefici!"
"... purché non vada contro la società – esattamente come il credere nel Dio
cristiano non va contro la nostra. Comunque, non occorre nemmeno che sia un rito
o una finzione riguardante la religione. Qualsiasi finzione può dare speranza e
forza, tuttavia un individuo dovrebbe prima accettare il fatto che si tratti di
qualcosa di irreale. Uno può sempre continuare a fingere, se sceglie di farlo."
|