Copertina
Autore Patricia Highsmith
Titolo Gli occhi di Mrs. Blynn
EdizioneBompiani, Milano, 2003, Narratori stranieri , pag. 256, dim. 150x210x16 mm , Isbn 978-88-452-5437-6
OriginalePostumous Short Stories
EdizioneDiogenes Verlag, Zurich, 2002
TraduttoreHilia Brinis
LettoreAngela Razzini, 2003
Classe gialli , narrativa statunitense
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

Gli occhi di Mrs Blynn            5

Niente di insolito               16

Il ritorno                       37

Destinato al fallimento          60

Il migliore amico dell'uomo      78

Parrocchetti smarriti            94

Un passatempo pericoloso        111

La seconda sigaretta            126

Un assassino                    148

Due antipatici piccioni         168

Un ottimo affare                178

Matto chi?                      192

Variazioni sul tema             207

Una ragazza come Phyl           225
 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

Gli occhi di Mrs Blynn



Mrs Palmer stava per morire: non c'era alcun dubbio su questo, per lei o per chiunque altro nella casa. Negli ultimi dieci giorni il numero delle persone era cresciuto da due - Mrs Palmer ed Elsie, la cameriera - a quattro. Liza, la figlia quattordicenne di Elsie, era venuta per aiutare sua madre, e aveva portato Princy - il loro cane da pastore dal pelo lungo - che per Mrs Palmer rappresentava la quarta presenza nella casa. Liza, che passava la maggior parte del tempo a sfaccendare in cucina, dormiva nella stanzetta dal soffitto basso e con un letto a castello, qualche scalino sotto rispetto alla camera di Mrs Palmer. Il cottage era piccolo: da basso c'erano un salotto, la cucina e una nicchia per il pranzo; e di sopra, la stanza di Mrs Palmer, quella con il letto a castello e, sul retro, una minuscola cameretta dove dormiva Elsie. Tutti i soffitti erano bassi, ma in particolar modo quelli al piano superiore, al pari delle porte, per cui bisognava di continuo chinare la testa.

Mrs Palmer rifletteva sul fatto che lei avrebbe dovuto chinarla ancora pochissime volte, dato che si alzava soltanto in un paio di occasioni al giorno, per andare in bagno, con la vestaglia color lavanda ben stretta intorno al corpo per proteggersi dal freddo. Aveva la leucemia. Dolori non ne aveva, ma si sentiva terribilmente debole. Aveva sessantun anni. Suo figlio Gregory, ufficiale della RAF, era di stanza in Medio Oriente; forse sarebbe arrivato in tempo, forse no. Di proposito, Mrs Palmer non aveva fatto un telegramma urgente: non voleva sconvolgerlo o creargli problemi; nella sua risposta telegrafica il figlio diceva semplicemente che avrebbe fatto il possibile per ottenere un permesso di volare da lei, e che le avrebbe comunicato. Ora Mrs Palmer pensava che quel telegramma fosse stato codardo. Perché non aveva avuto il coraggio di dire apertamente: mi rimane meno di una settimana di vita. Puoi venire a trovarmi?"

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 60

Destinato al fallimento



Alcuni nascono destinati al successo, volano verso l'alto come le scintille. Già a cinque anni cominciano a guadagnare qualche soldino, vendendo limonata a un penny; a quindici, accumulano un gruzzolo, trafficando in vecchie auto; e sulla cinquantina si vedono piovere dollari da petrolio, cotone, servizi di lavanderia per neonati, panzerotti al formaggio surgelati, o da qualsiasi altra cosa verso cui, per puro caso, abbiano rivolto il loro tocco da Re Mida.

Winthrop Hazlewood non era così. Winnie era un perdente nato. Aveva l'aria del perdente persino a cinque anni, seduto accanto al fratello maggiore (che a dieci si presentava già come un individuo di successo) in una fotografia che si trova ancora sul pianoforte nella sua casa di Bingley, nel Vermont. Accanto, sul piano, c'è un'altra fotografia, che mostra Winnie a ventun anni, con i compagni di college il giorno del diploma: è il quinto da sinistra nella fila dietro e ha l'aria da cane bastonato di chi non vuole dare nell'occhio, quasi si vergognasse dell'occasione che lo obbligava a venire fotografato.

Ma, perfino a ventun anni, Winnie aveva un'aspirazione: aprire un emporio. Era tipicamente suo non parlarne mai come di un "grande magazzino", ma come di un "negozio di generi vari". Winnie voleva vivere in una piccola città. La sua idea era quella di imparare il mestiere facendo il commesso in un grande emporio di Bennington, la sua città natale, e poi di aprire un negozio per conto proprio. Durante il settimo anno di apprendistato, la sua fidanzata, Rose Adams, stanca di aspettare che imparasse il mestiere, lo trascinò via dall'impiego e da Bennington per portarlo a Bingley-on-the-Dardle, dove lui aveva sempre detto di voler vivere. Winnie aveva una somma di danaro da parte, e Rose ebbe dal padre mille dollari di dote, più una cifra identica esclusivamente per il nuovo negozio. Winnie impiegò cinque anni per restituire quei soldi al signor Adams con gli interessi. Nel frattempo Mary, la prima e unica figlia di Winnie, era venuta al mondo ed era morta nel secondo mese di vita. Il medico aveva detto che Rose non avrebbe dovuto cercare di avere altri figli. Winnie fu profondamente deluso dall'affermazione, perché amava i bambini, ma non mostrò mai il suo disappunto a Rose. Era un uomo portato alla rassegnazione.

Winnie avrebbe voluto aprire un negozio specializzato in abiti da uomo, in particolar modo in indumenti da lavoro - Bingley era una comunità agricola -, e in articoli come redini, borchie, chiodi e martelli: il genere di cose di cui la gente aveva bisogno ogni giorno, diceva. A Rose bastarono pochi minuti per accorgersi che nella cittadina, altri due negozi già provvedevano a quel tipo di necessità; mancava, invece, un buon negozio di mercerie. Così Winnie ascoltò il suo consiglio e si concentrò su prodotti di cotone e di lana. Vendeva anche qualche articolo di abbigliamento maschile - camicie e cravatte - e saponi, cancelleria, giocattoli, soprascarpe, macchinette per il caffè e cera per pavimenti. Queste merci variavano, perché Winnie non perdeva mai l'occasione di fare un buon affare, quando un venditore glielo proponeva, quale che fosse la linea dei prodotti. Comunque le giacenze si esaurivano molto lentamente per la ragione - come Rose gli faceva sempre notare - che la gente non sapeva mai che cosa avesse in vendita in un dato momento. Se, per esempio, tornava per comperare una seconda confezione di saponette, ecco che non ce n'erano più, magari non c'era sapone di nessun genere, la qual cosa non favoriva una clientela regolare. Tutte le donne di Bingley cucivano, tuttavia non erano sufficientemente numerose per arricchire il merciaio. Winnie aveva cinquantadue anni ed era già uno stanco vecchio pelle e ossa prima di riuscire a pagare l'ultima rata della casa a due piani in Independence Street.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 126

La seconda sigaretta



Un sabato mattina George Leister, avvocato cinquantunenne di New York esperto in diritto tributario, entrò in cucina e rimase vagamente sorpreso nel vedere una lunga sigaretta, accesa da poco, che ardeva nel portacenere. Guardò la sigaretta che aveva in mano, accesa altrettanto di recente, e si rimproverò per la sua distrazione. Aveva perfino giurato di limitarsi a dieci al giorno. Invece non riusciva a scendere sotto le quindici. Spense la sigaretta lasciata nel portacenere, da conservare per la prossima fumata - le stava contando -, prese la caffettiera e fece per riempirsi la tazza; a quel punto, si rese conto che una figura era apparsa nel vano della porta, sulla soglia che lui aveva appena varcato. George sobbalzò per lo shock, e un po' di caffè cadde dal bricco sul pavimento.

La figura sulla soglia era lui, come se là ci fosse uno specchio: la differenza stava nel fatto che la sua effigie aveva un vago sorriso, mentre lui non sorrideva affatto.

"Fumo anch'io," disse la figura, sottovoce e in tono divertito.

Adesso George, tremante, si voltò da un lato e si versò il caffè nel modo più fermo possibile. Pensò che si trattasse di un'allucinazione uditiva, oltre che visiva. Stava diventando matto? Perché? Il giorno prima aveva trascorso una serata tranquilla, a casa: niente cibi strani, niente bevute extra. Accigliato per la paura, le mascelle serrate, affrontò di nuovo l'apparizione.

La figura ricambiò amabilmente il suo sguardo. Indossava un'identica vestaglia rosso scuro, aveva capelli brizzolati grigi e castani, osservò George (come i suoi, doveva ammetterlo), e guance grinzose frutto della mezza età. Lui non aveva fratelli, né aveva mai visto un cugino che gli assomigliasse a quel punto. Avrebbe potuto fare un paio di passi e toccare quell'individuo, ma non voleva. Con ripugnanza, notò il lieve giallore di un canino, mentre la figura continuava a sorridergli. Disgustoso! Dunque quella era l'immagine che lui presentava al mondo! Nemmeno pulita e dall'aspetto sano!

"Non sei particolarmente orgoglioso di te, eh?" La figura riprese la sigaretta spenta, la riaccese servendosi della scatola di fiammiferi sul tavolo della cucina. "Dev'essere già la quarta, stamattina. Le stai contando onestamente?"

George pensava di sì. Ma ora aveva un indizio. "Se sei la mia coscienza," borbottò, con un'alzata di spalle, mentre i suoi occhi scivolavano via dalla figura, "io non ci casco. L'ho già sentita. Visioni." In quel momento, il suo morale era crollato: se ne rese conto, però, per il solo fatto d'avere parlato a voce alta. Non era lo stesso che parlare da soli? "L'altro io," aggiunse. "Un cumulo di fesserie."

"Non l'altro tuo io. Ma quello vero," replicò l'apparizione, imperturbabile.

Anche se la figura sulla soglia - carnosa, perfino leggermente sovrappeso - gli faceva una paura infernale, George era determinato ad avanzare come se non esistesse e a ritornare al suo giornale, in soggiorno. E procedette, con la tazza in mano, come se si trattasse di una lancia con cui avrebbe potuto trafiggere l'apparizione nel caso non si fosse levata dai piedi.

La figura indietreggiò piuttosto abilmente nel corridoio, senza intralciare il passo a George.

L'uomo si sarebbe sentito più a suo agio se fosse stato in grado di passarle attraverso, perché avrebbe avuto la prova che era soltanto frutto della sua immaginazione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 192

Matto chi?



Aaron Wechsler rientrò a casa dal lavoro alle sei e dieci. Si era trattenuto qualche minuto più del solito per aiutare a smistare la corrispondenza dopo la chiusura dell'ufficio postale, alle cinque, tanto per dare l'impressione che quello era un giorno come un altro, che lui non era affatto a disagio o ansioso di uscire da lì, anche se il cadavere insanguinato di Roger Hoolihan giaceva in uno sgabuzzino dove tenevano i sacchi di scorta per la corrispondenza. Aaron si domandava chi lo avrebbe trovato. Mac, il direttore dell'ufficio postale? O Bobbie, suo figlio? O uno dei portalettere? A lui poco importava chi l'avrebbe scoperto.

Aaron era un uomo di media statura e con la pancetta, aveva cinquantacinque anni, capelli neri e lisci che stavano ingrigendo alle tempie. Portava spesse lenti cerchiate di scuro, che conferivano al suo sguardo un'espressione vaga ed evasiva. In effetti, gli occhi di Aaron erano evasivi. Sempre più mal sopportava di guardare in faccia la gente. Era inquieto e nervoso, e odiava il suo impiego alla posta, tuttavia era fermamente deciso a resistere - a tenere duro in qualche ufficio postale, se non in quello -, finché fosse arrivato alla pensione, la giusta ricompensa per una vita di lavoro. Aaron andò in cucina e si lavò scrupolosamente le mani con il sapone giallo che usava per i piatti. Poi sedette al tavolo che utilizzava tanto per pranzare quanto come scrivania, e aprì il libro mastro grigio in cui teneva il diario. Scrisse:


28 settembre 19...

Oggi ho ucciso Roger Hoolihan. L'ho fatto poco dopo mezzogiorno, come avevo progettato. Gli altri erano andati fuori a pranzo; e anch'io dovevo andarci alle dodici mentre Roger avrebbe tenuto aperto l'ufficio postale. Lui ci sarebbe andato all'una. Verso le dodici e venti, Roger ha voltato la testa e mi ha domandato, con il suo solito sogghigno: "E tu non vai a fare colazione?" Era in piedi presso il banco e sfogliava il registro dei vaglia postali. Ho afferrato la cucitrice e l'ho colpito proprio sulla nuca. Probabilmente gli avevo fratturato il cranio con la prima botta, tuttavia l'ho colpito altre volte. Poi l'ho trascinato fino allo stanzino sul retro, e l'ho scaraventato sui sacchi per la corrispondenza. Non sono venuto a casa per colazione; sono uscito prima dell'una, per tornare intorno a quell'ora, mentre rientravano gli altri. Quando Mac ha domandato dov'era Roger (verso le due), ho detto: "Non l'ho più visto da quando sono uscito, poco dopo le dodici." Mac è parso sorpreso, ma non ha detto niente. Immagino che, domani mattina, quando non lo vedrà arrivare, gli telefonerà a casa, oppure cominceranno a cercarlo fin da stasera, quando non rientrerà. Comunque potrebbero volerci un paio di giorni prima che trovino il cadavere, dato che quello stanzino non viene aperto molto spesso.

Roger Hoolihan. Numero Uno.


Aaron posò la penna nella scanalatura del libro mastro, sfregò leggermente una mano contro l'altra, e guardò quello che aveva scritto. La grafia era minuta e ordinatissima; l'inchiostro, nero. Mac sarebbe stato il prossimo. Sì, doveva cancellare quell'espressione di autocompiacimento, fermare quel modo sprezzante di scuotere la testa, quegli occhi che scivolavano via, come se chiunque o qualsiasi cosa guardassero fosse quanto di più infimo esisteva, neppure degno di una parola di disprezzo del grande Edward MacAllister, ufficiale postale. Però, qualsiasi pasticcio combinasse Bobbie, a Mac andava bene, perché si trattava di suo figlio. "Papà, dove sono i francobolli per posta aerea da sette centesimi?... Papà, ti spiace se me la svigno? Ho appuntamento con Helen." Bobbie poteva essere il Numero Tre. Attento, Bobbie.

| << |  <  |