Copertina
Autore Patricia Highsmith
Titolo Schegge di vetro
EdizioneBompiani, Milano, 2003 [1998], Tascabili 838 , pag. 210, dim. 125x192x13 mm , Isbn 978-88-452-5375-1
OriginaleSlowly, slowly in the wind [1979]
TraduttoreEnrico Groppali
LettoreAngela Razzini, 2003
Classe gialli , narrativa statunitense
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Indice

 1 L'uomo che scriveva mentalmente i suoi libri  7
 2 La rete                                      15
 3 Lo stagno                                    34
 4 Qualcosa con cui si deve convivere           56
 5 Pian piano nel vento                         75
 6 Quelle albe maledette                        96
 7 Il farfallino di Woodrow Wilson             115
 8 Un passeggero per le isole                  133
 9 Uno strano suicidio                         140
1O Il cucchiaino d'argento                     153
11 Il vetro rotto                              165
12 Per favore, non sparate agli alberi         187
 

 

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Pagina 7 [ inizio libro ]

L'UOMO CHE SCRIVEVA MENTALMENTE I SUOI LIBRI



E. Taylor Cheever scriveva libri mentalmente, e non li metteva mai sulla carta. Quando morì, a sessantadue anni, lasciò un corpus di quattordici romanzi, che comprendevano centoventisette personaggi diversi di cui si ricordava alla perfezione.

Andò così: Cheever a ventitré anni scrisse un romanzo intitolato La sfida eterna che fu rifiutato da quattro editori londinesi. Cheever, che a quei tempi era redattore aggiunto di un quotidiano di Brighton, diede in lettura il manoscritto a tre o quattro giornalisti e ad alcuni critici amici, che gli risposero suppergiù nello stesso tono brusco delle lettere di risposta degli editori londinesi: "I personaggi non sono sviluppati a sufficienza... i dialoghi sono artificiosi... il tema è confuso... Se vuoi che ti dica sinceramente cosa ne penso, ti dirò che non hai nessuna speranza che venga pubblicato, anche se ci lavorassi su di sana pianta... È meglio che questo te lo scordi, e ne cominci un altro."

Cheever aveva impiegato il poco tempo libero che era riuscito a strappare in due anni per scrivere il romanzo, ed era quasi giunto al punto di mandare all'aria il suo fidanzamento con Louise Welldon poiché le dedicava ben scarse attenzioni. Tuttavia, dopo il diluvio di stroncature ricevute dal suo libro, si fece coraggio e qualche settimana dopo la sposò. Anche se il suo spirito era mille miglia lontano dal grido di trionfo con cui avrebbe voluto accogliere la sposa e irrompere a gonfie vele nel sacro vincolo del matrimonio. Cheever disponeva di una piccola rendita, e Louise aveva qualcosina di più. Perciò Cheever non aveva bisogno di lavorare. Aveva pensato di licenziarsi dal giornale una volta pubblicato il suo libro. Avrebbe scritto altri romanzi e recensioni letterarie e forse una rubrica di libri sul giornale di Brighton prima di spingersi, sulle ali della gloria, fino alle vette del Times e del Guardian. Tentò di farsi assumere come critico letterario sul Beacon di Brighton, ma non se ne fece nulla perché gli offrivano solo delle collaborazioni saltuarie e, perdipiù, Louise voleva stabilirsi a Londra.

Acquistarono allora una bella casetta in città, a Cheyne Walk, e la arredarono coi mobili e i tappeti ricevuti in dono dalle rispettive famiglie. Nel frattempo, Cheever pensava al suo secondo romanzo, e stavolta voleva che fosse perfetto ancor prima di mettere una sola parola nero su bianco. Ne era geloso al punto di non confidare nemmeno a Louise né il titolo né l'argomento e neppure discusse con lei uno qualsiasi dei suoi personaggi, sebbene avesse ben chiari in mente ognuno di loro, gli ambienti, le manie, i gusti e l'aspetto fisico compreso il colore degli occhi. Il suo prossimo libro sarebbe stato un capolavoro di scrupolosa esattezza, il tema avvincente, i personaggi vivi e autentici e i dialoghi stringenti ed efficaci.

Si metteva a tavolino quattro ore al giorno nel suo studio a Cheyne Walk, saliva dopo colazione e ci rimaneva fino all'ora di pranzo, poi tornava su fino all'ora del tè o della cena come fa qualsiasi scrittore quando lavora, ma a tavola non si lasciava sfuggire nemmeno un cenno delle sue reazioni, se si eccettua un 1877+53 e un 1939-83. Conti che gli servivano per rinfrescarsi la memoria sull'età o la data di nascita di alcuni personaggi. Mentre era immerso nei suoi pensieri, lo si udiva mormorare sommessamente. Il libro, che aveva intitolato Il giocatore d'azzardo (ma nessuno lo sapeva tranne lui) gli prese ben quattordici mesi per rosolarlo e rifinirlo a puntino nella sua mente. Intanto era nato suo figlio Everett junior. Cheever conosceva a tal punto ogni minimo anfratto del libro da vedere mentalmente la prima pagina come se fosse già stampata. Sapeva che era suddiviso in dodici capitoli, e ne conosceva a menadito il contenuto. Aveva imparato a memoria interi brani dei dialoghi tanto da poterli declamare tra sé ogni volta che voleva. Cheever quindi pensava che l'avrebbe battuto a macchina in un mese. Adesso aveva una macchina da scrivere nuova fiammante, dono di Louise per il suo compleanno.

"Finalmente sono pronto," annunciò un bel giorno Cheever con un insolito tono di trionfo.

"Oh, che bellezza, caro!" disse Louise. Non gli chiese nulla del suo lavoro, perché sapeva che a lui certe domande non piacevano. Mentre Cheever leggeva il Times e si faceva la prima pipa della giornata prima di rimettersi al lavoro, Louise uscì in giardino e tagliò tre rose gialle che sistemò in un vaso prima di portarle su in studio. Solo allora si ritirò senza far rumore.

Lo studio di Cheever era una bella stanza comoda con un gran tavolo, delle belle lampade, dizionari e materiale di consultazione a portata di mano, un divano di cuoio verde su cui volendo poteva schiacciare un pisolino, e un'ampia vista sul giardino. Cheever notò le rose sul carrello delle bevande accanto al suo tavolo da lavoro, e sorrise soddisfatto. Pagina Uno, Capitolo Primo, pensava. L'avrebbe dedicato a Louise. A mia moglie Louise. Una dedica chiara e semplice. In un grigio mattino di dicembre, Leonardo...

Se la prese comoda, e si fece un'altra pipa. aveva messo un foglio nel rullo della macchina da scrivere, ma questa era la pagina col titolo, e quindi era come se non avesse scritto nulla.

D'improvviso, alle dieci e un quarto del mattino, si senti sopraffatto dalla noia, una noia opprimente, paralizzante. Conosceva il suo libro da cima a fondo, era tutto lì nella sua mente, e allora perché avrebbe dovuto scriverlo?

L'idea di dover martellare sodo sui tasti nelle settimane successive, e di imprimere parole su circa duecentonovanta pagine (era questa la lunghezza approssimativa che aveva calcolato) gli fece paura. Si rannicchiò sul divano verde e dormì fino alle undici. Si svegliò rinvigorito e di tutt'altro umore: dopo tutto il libro c'era, e lui non solo l'aveva fatto ma l'aveva rifinito da cima a fondo. Perché non dedicarsi a qualcos'altro, allora?

L'idea di un romanzo il cui protagonista è un orfanello che va alla ricerca dei suoi genitori ronzava in testa a Cheever da quattro mesi e più. Decise di cominciare a costruirlo. Per tutto il giorno restò incollato alla sua scrivania, bofonchiando e osservando i fogli bianchi, mentre rigirava tra le dita la punta gommata di una matita gialla. Era in piena creatività.

Quando rifinì in ogni dettaglio e terminò il romanzo sull'orfanello, suo figlio aveva cinque anni.

"Posso scrivere i miei libri in un secondo tempo," Cheever disse a Louise. "La sola cosa che conta è metterseli accuratamente in testa."

Louise era delusa, ma si sforzò di dissimulare. "Tuo padre è uno scrittore," disse a Everett junior. "Un romanziere, e i romanzieri non vanno a lavorare come gli altri. Loro lavorano a casa." Il piccolo Everett andava all'asilo, e gli altri bambini gli avevano chiesto cosa facesse il suo papà. All'età di dodici anni, Everett aveva scoperto la verità, e la trovava ridicolissima specie quando sua madre gli disse che il papà aveva già scritto sei libri. Libri invisibili. Tutto questo avvenne quando Louise cambiò atteggiamento nei confronti di Cheever e, da una generica tolleranza, passò apertamente al rispetto e all'ammirazione. Si decise a un passo simile in piena coscienza per dare il buon esempio a Everett. Credeva che quando un figlio non ha più rispetto per suo padre, il suo carattere e tutta la famiglia vanno a catafascio.

Quando Everett compì quindici anni, non solo trovava deprimente il lavoro del padre, ma si sentiva pieno d'imbarazzo e di vergogna quando i suoi amici venivano a trovarlo.

"Romanzi?... ce n'è di belli?... Posso vederne uno?" gli chiese Ronnie Phelps, un quindicenne che era l'amico del cuore di Everett. Il fatto che Ronnie avesse accettato di passare le vacanze di Natale con lui lo riempiva d'orgoglio, ed Everett era ansioso che tutto andasse a gonfie vele.

"È molto riservato in proposito," gli rispose Everett. "Sai, li tiene nel suo studio."

"Sette romanzi. Accipicchia, com'è che non l'ho mai sentito nominare? Qual è il suo editore?"

Everett si sentì mancare, e anche Ronnie si sentì a disagio.

Due o tre giorni dopo, andò a raggiungere la sua famiglia nel Kent. Everett si rifiutò di prendere cibo o quasi, e si chiuse in camera sua, dove la madre lo sorprese ben due volte a piangere.

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Pagina 133

UN PASSEGGERO PER LE ISOLE



La traversata volgeva alla fine. La maggior parte dei passeggeri aveva per meta la terraferma, che adesso era vicina. Gli altri erano invece diretti alle isole occidentali, che erano molto lontane.

Dan era diretto a un'isola che riteneva fosse più lontana di tutte quelle che la nave avrebbe toccato. Credeva quindi di essere l'ultimo passeggero a sbarcare.

Dopo sei giorni di calma e pacifica navigazione, era di ottimo umore. Gli piaceva la compagnia degli altri compagni di viaggio, si era unito a loro qualche volta nelle partite che si giocavano sopracoperta, ma soprattutto passeggiava sul ponte con la pipa in bocca e un libro sottobraccio, la pipa spenta e il libro intonso, guardando serenamente l'orizzonte e pensando all'isola a cui era diretto. Dan credeva che fosse l'isola più bella di tutte. Da mesi e mesi, aveva trascorso gran parte del tempo a figurarsi la sua conformazione. Alla fine, aveva concluso che indubbiamente sulla sua isola ne sapeva più lui di chiunque al mondo, una cosa che lo faceva sempre sorridere ogni volta che ci pensava. No, nessuno sapeva un centesimo più di lui sulla sua isola, anche se non l'aveva mai vista. Ma forse non l'aveva mai vista nessuno.

Dan era pazzo di gioia quando passeggiava sul ponte, da solo, e lasciava vagare lo sguardo da una soffice nuvola all'intero orizzonte, e dal sole fino al mare, pensando sempre che la sua isola sarebbe stata visibile prima della terraferma. Avrebbe riconosciuto immediatamente il suo profilo, ne era certo. Stranamente, il suo aspetto sarebbe stato simile a quello di un luogo che aveva sempre conosciuto, ma in segreto, senza rivelarlo mai a nessuno. E là finalmente sarebbe stato solo.

Gli capitava di spaventarsi, e sempre in modo spiacevole, quando si scontrava all'improvviso con un passeggero che svoltava l'angolo. Si turbava quando andava a sbattere contro un cameriere frettoloso nei serpeggianti e tortuosi corridoi del ponte D, che essendo quello di terza classe, più degli altri ricordava una catacomba, e che era il ponte dove si trovava la sua cabina. E poi c'era stata quella volta, il secondo giorno di traversata, quando per un attimo il suo sguardo aveva inquadrato il pavimento ondulato del corridoio, dove aveva visto tra un angolo e l'altro un mozzicone di sigaretta, una cartina di chewing-gum e alcuni fiammiferi spaiati. Sì, era stato proprio sgradevole.

"È diretto alla terraferma?" gli chiese Mrs GibsonLeyden, una passeggera di prima classe, mentre una sera erano uno accanto all'altra davanti al parapetto.

Dan sorrise e scosse il capo. "No, vado alle isole," disse in tono allegro, piuttosto sorpreso che Mrs Gibson-Leyden non lo sapesse ancora. Anche se d'altro canto, i passeggeri avevano parlato pochissimo tra loro sulla meta cui erano diretti. "E lei è diretta alla terraferma, vero?" le aveva risposto in tono amichevole, sapendo benissimo che Mrs Gibson-Leyden andava a quella destinazione.

"Oh, certo," disse Mrs Gibson-Leyden. "Mio marito aveva pensato di andare in un'isola, ma io gli ho detto che non faceva per me!"

Rise in tono soddisfatto, e Dan annuì. Mrs Gibson-Leyden gli piaceva perché era una persona allegra. Era più di quanto si potesse dire sul conto degli altri passeggeri di prima classe. Appoggiando gli avambracci al parapetto, si mise poi a guardare il plenilunio sul mare che luccicava come il dorso di un gigantesco drago dalle scaglie d'argento. Dan non capiva come si potesse scegliere la terraferma quando c'erano un'infinità di isole, ma lui non aveva mai capito cose di quel genere, e con una persona come Mrs Gibson-Leyden non valeva certo la pena di discutere la cosa tentando di convincerla. Dan aspirò voluttuosamente dalla pipa vuota. Sentì un'acuta fragranza d'acqua di Colonia venire dalla parte di Mrs Gibson-Leyden. Gli ricordò una ragazza conosciuta un tempo, e si divertì al pensiero di sentirsi attratto da Mrs Gibson-Leyden, che era abbastanza vecchia per essergli madre, solo perché profumava di un odore familiare.

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