Copertina
Autore Patricia Highsmith
Titolo La follia delle sirene
EdizioneBompiani, Milano, 2007, Narratori stranieri , pag. 278, cop.fle.sov., dim. 15x21x2,2 cm , Isbn 978-88-452-5987-6
OriginaleMermaids on the Golf Course
EdizioneHeinemann, London, 1985
TraduttoreLorenzo Matteoli
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe narrativa statunitense
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Indice


Le sirene sul campo di golf                   5

Il bottone                                   23

Nel mezzo dell'azione                        48

L'ultima festa di Chris                      71

L'orologio di Natale                        105

Uno sparo dal nulla                         128

Roba da pazzi                               159

Non in questa vita, forse nella prossima    181

Non sono bravo come gli altri               205

Il mese più crudele                         226

Romantica                                   252


 

 

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Pagina 27

Qualcosa era andato storto. Secondo le statistiche, si trattava di una possibilità su settecento, quando la madre ha meno di quarant'anni – e questo non era il caso di Jane. Jane aveva ventisette anni al momento della nascita di Bertie. Be', avevano beccato proprio quella probabilità su settecento. Roland ricorda, come se fosse ieri o la settimana prima, la faccia dell'ostetrico appena uscito dalla sala parto. Quell'uomo – ne ha dimenticato il nome – aveva il viso contratto e le labbra semiaperte, come se cercasse le parole adatte: di certo, doveva averle cercate. Sapeva che l'infermiera aveva già dato a Roland – che aspettava ansioso – una risposta vaga e allarmante.

"Ah, sì... È il signor Markow? Suo figlio... è un maschio. Non è normale: mi dispiace doverglielo dire. Ma tanto vale che lo sappia subito."

Sindrome di Down. Roland non aveva immediatamente collegato il termine con il mongolismo – una parola che conosceva meglio -, ma dopo pochi secondi aveva capito. Ricorda il suo sbigottimento a quella notizia: una sensazione assai più brutale della delusione. La moglie stava bene? Sì, ma non aveva ancora visto il neonato.

Roland aveva veduto il bimbo un'ora dopo: stava in una piccola culla metallica, fra una trentina di altre che si vedevano al di là della vetrata della camera sterile e riscaldata che ospitava i neonati. Non era stato necessario che glielo indicassero: la piccola testa appiattita, gli occhi a mandorla, anche se allora erano chiusi. Gli altri piccini si agitavano, serravano le manine, spalancavano la bocca per respirare, sbadigliavano. Bertie non si muoveva, ma... era vivo. Oh, sì, era proprio vivo.

Poi aveva letto tutto sui mongoloidi, sapendo che erano particolarmente tranquilli durante la gestazione, "No, non tira ancora calci!" Roland ricorda che Jane lo aveva ripetuto una mezza dozzina di volte agli amici premurosi che si informavano durante la gravidanza. "Forse sta già leggendo qualche libro," aveva aggiunto in alcune occasioni. (Jane era un'avida lettrice, e aveva studiato con una borsa di studio alla Vassar, dove si era laureata in scienze politiche.) Com'era diversa allora, Jane! Roland si rende conto che difficilmente avrebbe potuto riconoscere la Jane di oggi nella donna di cinque anni prima. Graziosa, slanciata, con le caviglie sottili, i capelli castani e lisci, tagliati corti; un viso carino e intelligente, con gli occhi luminosi e cordiali. Ha ancora le caviglie sottili, tuttavia il viso risulta appesantito e non si muove più con la giovanile leggerezza di quel tempo. A Roland, sembra che si sia "ripiegata" su Bertie. È diventata una specie di monumento: una creatura statica e pesante, ossessivamente concentrata sul figlio e nella sua cura. No, non voleva altri bambini: non voleva correre un'altra volta il rischio, affermava con un atteggiamento positivo, anche se il pericolo sarebbe stato pressoché nullo. Roland e Jane si erano sottoposti a svariate analisi per verificare l'eventualità di una deficienza cromosomica. Di solito, era la donna la portatrice della malattia, ma tutti i cromosomi di Jane erano perfetti – nessuna anomalia –, al pari di quelli di Roland. Nessuna alterazione cromosomica che originava la "mutazione D/G", e la conseguente nascita di un soggetto mongoloide su tre, nessun cromosoma "bacato" fra i quarantacinque che caratterizzano la specie umana. Di conseguenza, se Jane e lui avessero avuto un altro figlio, le probabilità sarebbero state di nuovo una su settecento.

Roland aveva considerato più volte la possibilità di sopprimere Bertie, come si fa con i cani e i gatti affetti da malattie incurabili. Naturalmente non aveva mai fatto il minimo accenno all'idea a Jane né a nessun altro – e ora era troppo tardi. Avrebbe potuto chiedere al medico, dopo la nascita di Bertie – ovviamente con il consenso della moglie. Adesso Jane gli ricordava spesso che Bertie era un essere umano. Lo era veramente? Secondo Roland, Bertie aveva un QI di 50: è il valore medio per i mongoloidi – in qualsiasi caso, quello di Bertie non era mai stato valutato.

"Rollie!" Adesso Jane è seduta sul pavimento, appoggiata all'indietro sui gomiti. "Hai l'aria sfinita, caro! Vuoi una cioccolata calda? O un caffè, se proprio devi stare alzato. Forse la cioccolata è meglio, per te."

Roland borbotta qualcosa. Avrebbe dovuto lavorare ancora un'ora almeno: avrebbe dovuto compilare altre due dichiarazioni, dopo quella di Schultz. Adesso guarda il corpo del figlio – sì, di suo figlio che, simile a un rospo è rotolato sulla schiena: gambette come moncherini, braccia corte, alle cui estremità spuntano mani quadrate e goffe, totalmente incapaci, i pollici simili a piccoli tappi, sbagli di natura che non possono afferrare niente. Cos'aveva fatto lui – Roland – per meritarsi questo? Bertie, infagottato in un enorme pannolone, era un bambino grosso per la sua età: cinque anni. Non aveva collo. Roland sente un leggero tocco sul braccio, mentre la moglie gli passa accanto per andare in cucina.

Pochi minuti dopo, Jane posa una tazza fumante di cioccolata calda sul tavolo dove Roland è tornato al lavoro. Ha finalmente trovato i pagamenti degli interessi sul conto vincolato di Schultz: il pubblicitario li aveva debitamente riportati nei mesi di aprile e di ottobre. Finito il lavoro di Schultz, prende un altro incartamento: quello di James P. Overland, che gestisce un ristorante a Long Island. Beve un sorso di cioccolata calda, buona, rilassante e gradevole, ma non è esattamente quello di cui abbisogna, come pensa Jane. Lui ha bisogno di una bella moglie a letto, calda e affettuosa, magari anche sexy, com'era una volta lei. Comunque, ciò di cui entrambi sentono la necessità è un bambino sano nella stanza accanto, che legge libri, e magari scopre Robert Louis Stevenson, proprio com'era accaduto a Jane e a lui all'età di Bertie – un bambino che tiene accesa la luce di nascosto per leggere ancora qualche pagina di avventure. Bertie non avrebbe mai letto nemmeno le scritte di una scatola di corn-flakes.

Jane gli ha detto che stanotte avrebbe dormito sul sofà, affinché lui potesse lavorare al tavolo della camera da letto. Non riusciva a dormire con la luce accesa nella stanza. Spesso capitava che si coricasse sul divano - utilizzava un piumino per coprirsi. Anche Roland ci aveva dormito, qualche volta, per dare il cambio a Jane quando Bertie era molto agitato: in alcune occasioni, il bambino si svegliava nella notte, si alzava e girava per la stanza, battendo la testa contro la porta o il muro, e allora uno di loro doveva raggiungerlo, parlargli per un po' e, di solito, cambiargli il pannolone. Il tappeto dev'essere una schifezza, pensa Roland: però il colore blu scuro impedisce che le macchie si vedano. Il dottore aveva prescritto dei sedativi a Bertie, ma né Jane né Roland volevano che il figlio diventasse dipendente dai medicinali.

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Pagina 128

Uno sparo dal nulla



La camera d'albergo nella quale Andrew Spatz stava sdraiato era di un colore giallo sporco, vagamente polverosa, come la piccola plaza che si apriva davanti all'unica finestra, e a tutto il resto del paese. Il posto si chiamava Quetzalàn. Tre giorni prima, Andrew aveva preso un autobus dalla città di Jalapa, senza preoccuparsi della destinazione, ed era sceso lì con la sua valigia, la cassetta dei colori a olio, i pennelli e i blocchi di carta da schizzo – e questo, solo perché la località gli era piaciuta al primo sguardo dal finestrino della corriera. Gli era parso un luogo sconosciuto, del quale non importava niente a nessuno. Sì, gli era sembrato autentico. Sulla plaza, aveva trovato l'Hotel Corona, probabilmente l'unico albergo di Quetzalàn.

In questo momento, purtroppo, era in preda ai suoi soliti crampi intestinali; dal giorno prima, era convinto di avere la febbre, anche se, con quel gran caldo, era difficile da stabilire.

Ogni mattina, molto presto, aveva girovagato sulle colline nei pressi del paese, facendo schizzi che avrebbe utilizzato successivamente nei dipinti. Aveva disegnato tantissime cose: la panchina in ferro della piazza, il cordolo del marciapiede in pietra, il tavolo di un bar. Ma quando arrivava mezzogiorno, dopo un pranzo di tacos, fagioli e birra, arrivava il momento di ripararsi dal sole per qualche ora, come facevano tutti. Dalle dodici e mezzo fino a circa le quattro del pomeriggio, Quetzalán diventava silenziosa come un paese fantasma. Il sole giallo picchiava forte e prepotente, come se intendesse scolpire nella coscienza di ogni uomo, animale o pianta il fatto che era lui a comandare e che la pioggia e il fresco erano solo un miraggio lontano, forse perduto per sempre. Quando dormiva, nelle prime ore pomeridiane, Andrew faceva strani sogni.

Un pomeriggio, si svegliò mentre stava sognando serpenti rossi in una caverna nel deserto. Anche se nel sogno, i serpenti non avevano notato la sua presenza, e lui non si era sentito in pericolo, aveva provato una certa inquietudine. Andrew scostò il lenzuolo con il quale si era coperto per proteggersi dall'inevitabile mosca – forse erano due – e andò al lavandino nell'angolo della stanza. Si tolse la camicia lava-e-asciuga, la tuffò nell'acqua fresca e se la rimise indosso. La sua finestra a ghigliottina era aperta una spanna sopra e una sotto, ma l'aria non circolava.

Andrew guardò la finestra, e un movimento all'esterno attirò la sua attenzione.

Ecco nuovamente il ragazzo con la ciotola di latte per i gatti. Doveva avere circa tredici anni, era scalzo e indossava pantaloni bianchi sporchi e una camicia dello stesso colore con le maniche rimboccate. Si trovava a circa sei metri di distanza da Andrew, il quale riusciva a scorgere perfettamente il contenitore di alluminio con il latte. Arrivò un gattino scheletrico, tigrato: camminò incerto, uscendo dai cespugli intorno alla piazza. Andrew sapeva che il ragazzo avrebbe ritirato la ciotola, come aveva già fatto altre volte prima di quella.

Apparve un secondo gattino. E mentre le due bestiole lappavano il latte con i musi protesi, l'adolescente si voltò con un sorriso cattivo, come per accertarsi se qualcuno stesse guardando. La plaza era deserta, al pari delle stradine adiacenti. Provenendo dalla parte dell'albergo, un gatto più vecchio arrivò nella piazza: era magro a tal punto che le ossa disegnavano delle ombre sul pelo. Si diresse rapidamente verso la ciotola del latte. Andrew sentì il ragazzo sogghignare piano, lo vide alzarsi in piedi e rovesciare un po' di latte mentre portava via il contenitore di alluminio. Perché?

Andrew si infilò i jeans, ficcò i piedi nelle scarpe da ginnastica e si precipitò fuori dalla stanza. In pochi secondi, fu oltre la porta dell'albergo, sul marciapiede. Il ragazzo camminava verso di lui, arrivando diagonalmente dalla sua destra.

"Porque..." Andrew si interruppe, sentendo qualcuno che rideva piano da qualche parte alla sua sinistra.

Il ragazzo se ne andò di corsa, rovesciando il resto del latte sulla strada.

Alla sua sinistra, Andrew vide un gruppo di tre o quattro uomini: uno aveva una cinepresa in mano. Stavano girando un film? Era per questo che il ragazzo doveva ripetere la scena dei gatti? Erano tutti individui di mezz'età e sembravano messicani comuni – non contadini. Si accorse che uno di loro rideva e faceva un gesto con la mano che poteva significare: "All'inferno", oppure: "Anche questa volta è andata male." A ogni modo, si voltarono e se ne andarono, scomparendo dalla sua vista.

Quando fu di nuovo nella sua stanza, Andrew si tolse le scarpe e i jeans, e si distese sul letto. Cosa voleva dire tutto questo? Perché tre o quattro uomini si aggiravano fuori, nella calura delle due del pomeriggio, e uno aveva una cinepresa? Quel ragazzino era un attore, o solo un piccolo sadico? Davvero strano.

Andrew aveva la sensazione che tutto il mese appena trascorso fosse stato strano. La ragazza che amava a New York – una relazione che, a parer suo, sarebbe durata in eterno – se n'era andata con un altro, quattro settimane prima. L'abbandono lo aveva letteralmente distrutto, al punto che, per qualche giorno, gli era risultato impossibile frequentare i corsi alla Art Students League – era piombato in un umore suicida o, comunque, autodistruttivo. Aveva telefonato a Esther la sorella sposata, che viveva a Houston, la quale l'aveva invitato a casa sua per alcuni giorni. Non le aveva parlato a lungo, tuttavia lei lo aveva tirato su di morale. Il Messico era davvero vicino a Houston, e Andrew non l'aveva mai visitato. Aveva preso un treno, lento ed economico, diretto a sud. Tutto ciò che aveva veduto era diverso e affascinante. In qualsiasi caso, non sapeva cosa fare della propria vita e non aveva ancora ritrovato il senso delle cose.

Venne svegliato dal juke-box del Bar Felipe, che aveva ricominciato a suonare da un angolo della piazza. Ciò significava che erano più o meno le quattro. La musica sarebbe continuata ininterrottamente fino a mezzanotte. Andrew si sciacquò la faccia nel lavandino, si rivestì e prese l'attrezzatura per gli schizzi. Quando uscì, l'atrio dell'albergo era deserto, come al solito, sebbene nell'hotel ci fossero un paio di altri ospiti – entrambi messicani, molto tranquilli.

Al Bar Felipe, Andrew prese un tè freddo e si guardò intorno: voleva scoprire se c'erano ancora gli uomini che aveva visto osservare il ragazzo con i gatti. Oppure vedere se scorgeva ancora quel tipo. Nessuno varcò la soglia del bar o passò sul marciapiede davanti – né gli uomini né il ragazzo. Arrivarono altri clienti – operai con sombreros malconci e con i sandali dalle suole di copertone d'auto – e bevvero una birra o una di quelle aranciate coloratissime che sembravano di gran moda; tutti rivolsero un rapido sguardo ad Andrew, eppure nessuno lo osservò con l'attenzione del suo primo giorno in paese. Un cane, magro come un levriero ma appartenente a una razza indefinibile, si avvicinò speranzoso al suo tavolo: lui, però, non aveva ordinato né patatine fritte né noccioline.

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Pagina 205

Non sono bravo come gli altri



La storia delle persiane fu l'inizio della crisi. Certo, la depressione di Ralph e la sua sensazione di essere un fallito erano iniziate molto prima di quella vicenda: forse fin da quando aveva comperato la casa, a pensarci bene, tuttavia le persiane dimostravano la sua incompetenza in modo smaccato.

Ralph Marsh lavorava a Chicago, dove aveva un appartamento, ma possedeva anche una casa in campagna, a trenta chilometri dalla città, quella che lui talvolta chiamava "cottage" e talaltra "baracca". Era uno scapolo ventinovenne che vendeva impianti hi-fi. Durante i quattro anni di attività presso la Basic-Hi, aveva ricevuto aumenti e promozioni: conosceva il suo mestiere e, in effetti, era il migliore venditore dell'azienda – perlomeno, questo era ciò che gli diceva il suo capo. Ralph conosceva la complessità di un impianto stereo e si riteneva anche ragionevolmente dotato di abilità manuale: non un genio del fai-da-te, ma forse un individuo con doti superiori alla media.

Tuttavia, al di là dei dieci metri del suo prato, abitavano i Ralston, Ed e Grace, che tutti i fine-settimana si affaccendavano non solo in lavori utili e necessari come tagliare l'erba, dipingere le recinzioni, cimare la siepe – la loro siepe era giovane e bassa, e Ed la teneva perfettamente squadrata –, ma anche in operazioni più impegnative come preparare la malta per costruire muretti che, nel loro caso, non significava solo piazzare un mattone sopra l'altro: Ed aveva scalpellato in forme rettangolari delle pietre beige per realizzare un muricciolo sul lato della strada della sua proprietà. Una parte del garage dei Ralston era adibita a laboratorio e, da lì, per molte ore ogni week-end, arrivava il rumore di un Black&Decker. Ralph immaginava che il suo vicino stesse costruendo mobili, riparando tubi rotti, saldando e facendo cose che lui non si sarebbe mai azzardato a tentare. Eppure Ed Ralston – lui lo sapeva – era solo un venditore di automobili e, molto probabilmente, non aveva nemmeno terminato l'università. Ralph non era in confidenza con i Ralston: si limitavano a scambiarsi un cenno di saluto quando si vedevano.

Fin dal suo primo week-end al cottage, Ralph aveva capito che sarebbe stato invidioso di Ed. Innanzitutto perché aveva una moglie – e una moglie costituisce sempre un grande aiuto in casa. I Ralston possedevano un appartamento a Chicago – glielo avevano raccontato quando si erano conosciuti –, e avevano acquistato la casa di campagna per pochissimi soldi, visto che era soltanto un fienile vuoto. Ed e Grace avevano scalpellato le pietre della facciata e riportato alla luce una bella muratura di antica fattura, avevano messo le finestre, tracciato l'impianto elettrico e installato il riscaldamento con l'aiuto di due amici. Avevano comperato il fienile sei mesi prima che Ralph acquistasse il cottage e, ancora adesso, lavoravano ogni fine-settimana, aggiungendo elementi e apportando migliorie.

Grace Ralston era attiva quanto il marito: sbatteva lo stuoino, metteva ad asciugare la biancheria sullo stenditoio quadrato, lavava i vetri delle finestre...

Solo verso le sette di sera, quando Ralph era stanco e desiderava avere qualcuno che lo chiamasse per una cena già pronta, provava pena per se stesso. Per la maggior parte del tempo, si riteneva un uomo fortunato: aveva almeno sei anni di meno di Ed, guadagnava di più e, nonostante l'indubbia abilità di muratore, l'altro era "incastrato" da una moglie sicuramente noiosa e da una figlia di quattro anni che, a parer suo, non sembrava molto intelligente – lui, invece, era libero come il vento, aveva un'amica di ventiquattro anni, disponibile e divertente, che non lo opprimeva con mille pretese. Una tipa castana di nome Jane Eberhart, sposata con un pilota di linea. La maggior parte dei fine-settimana passava la notte al cottage – all'incirca, tre domeniche su quattro. Qualche volta, riuscivano a vedersi anche a Chicago.

Ma le persiane... Ralph aveva dipinto le persiane di tre finestre – in tutto, sei ante – di un colore nero opaco. A causa di altri impegni, aveva effettuato il lavoro in tre riprese, nel corso dei week-end: quando era riuscito a terminare, aveva pensato di dire con nonchalance a Jane: "Ti piacciono le mie persiane? Niente male, vero?"

Glielo chiese un sabato mattina, verso le undici, quando lei arrivò. Ma allorché aprì la terza persiana si accorse di non aver dipinto la parte superiore all'interno. Sembrava una presa in giro. Il contrasto tra il vecchio colore marrone sbiadito e il nero ricordava una barzelletta – e Jane, ovviamente, scoppiò a ridere.

"Ha-ha! Ralphie mio, sei proprio un pasticcione! Molto buffo! Spero che ti sia rimasta un po' di vernice. Ma, a parte questo, sono davvero splendide!" E si avviò verso la porta di casa, elegante nei suoi pantaloni giallo senape e con gli zoccoli alla moda.

Pieno di vergogna e imbarazzato, come se fosse stato su un palcoscenico e qualcosa fosse andato proprio male, Ralph chiuse le imposte in modo che Ed Ralston non potesse vedere il suo pasticcio – in quel momento, naturalmente, Ed era impegnato in qualche lavoro che avrebbe portato a termine in modo ineccepibile. Il suo era un atteggiamento assurdo, si disse Ralph, e sorrise convinto, sebbene nessuno potesse cogliere quel sorriso. Di certo, Ed Ralston non si sarebbe mai dimenticato di dipingere una parte di imposta e, comunque, la moglie l'avrebbe notato e si sarebbe premurata di indicarglielo durante il lavoro.

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