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| << | < | > | >> |IndicePrefazione dell'autore all'edizione italiana 9 Prefazione alla terza edizione I danni di un'ortodossia ottusa: dal 1984 a oggi 13 "Un silenzio profondo e sconcertante" 13 America e Israele: una questione di cuore 15 Il rafforzamento del mito sionista: l'affare Joan Peters 17 Il mito è sepolto una volta per tutte: i "nuovi storici" d'Israele 20 La storica offerta di pace di Arafat. I palestinesi rinunciano al 78% della Palestina 23 Il trattato di Oslo 25 L'Intifada 29 Si sta profilando un'altra Nakba? 34 Israele e gli "amici di Israele" in America. Chi è che comanda - George Bush o Ariel Sharon? 36 La lobby 39 Il Congresso 41 L'Amministrazione 43 I media 46 Il risveglio del dissenso ebraico 51 La faziosità americana non ha fine. Il processo di pace fallisce: la colpa è di Arafat 53 "I palestinesi attaccano, gli israeliani si difendono" 59 Parole ignobili, ignobili ideologie... da ambo le parti 63 Il fondamentalismo islamico... e quello israeliano-ebraico? 66 Sì, Israele è uno stato razzista 74 11 settembre - non chiedete perché 80 Ma Israele è una risorsa strategica americana 85 ...o il più dispendioso degli svantaggi? 86 L'asse del Male: l'America adotta come propri i nemici di Israele 90 Prima che sia troppo tardi: salvate Israele dalla sua follia nucleare 93 Prefazione alla seconda edizione: 1977 - 1984 97 Capitolo 1 I semi del conflitto 99 Herzl rassicura gli arabi 99 I contadini resistono 104 La conquista del lavoro 107 Inizia la militarizzazione 108 I venditori di terre 110 L'antisionismo si diffonde 110 Tentativi fallimentari di un'intesa tra arabi e sionisti 112 I guerrieri ebraici 114 La dichiarazione di Balfour 116 Capitolo 2 Non c'è pace a Sion: 1921-1935 121 Il massacro del 1921 121 Haycraft giustifica gli arabi 124 I sionisti accusano i "politici" arabi 127 I politici arabi scelgono la non violenza 129 Il popolo sceglie la violenza 134 La Gran Bretagna cede ai sionisti 142 Capitolo 3 La ribellione araba: 1935 - 1939 144 Lo sceicco Izzeddin Qassam - Il primo Fedayi 144 Ha inizio la ribellione 148 La Gran Bretagna raccomanda lo smembramento 153 La ribellione raggiunge l'apice 154 La Gran Bretagna "riconquista la Palestina" 156 La Gran Bretagna si ammorbidisce: il "Libro Bianco" del 1939 159 La Gran Bretagna "tradisce" i sionisti 161 I revisionisti abbandonano l'autocontrollo 161 Capitolo 4 Il sionismo armato 169 La cacciata degli inglesi 169 La cacciata degli arabi 181 Capitolo 5 Impieghi particolari della violenza 197 L'assassinio del conte Bernadotte 197 Il "sionismo crudele" - o la "raccolta" degli ebrei iracheni 204 L'affare Lavon 211 Capitolo 6 I combattenti anti-arabi 216 Una società coloniale in un'era post-coloniale 216 Raid alle frontiere e rappresaglie 220 Gli arabi rimasti 225 Le guerre di espansione 232 Suez, 1956 235 Capitolo 7 Un Israele più grande 240 La guerra dei sei giorni, 1967 240 Davide contro Golia 243 Il mito delle alture del Golan 244 Nasser cade nella trappola 247 Israele acquisisce un impero 250 Due volte nella vita: un altro esodo arabo 254 La nuova Gerusalemme 258 L'apartheid in stile israeliano 268 Sotto il tallone del conquistatore 271 Capitolo 8 I sionisti arabi 278 II terremoto, ottobre 1973 278 "I palestinesi non esistono" 281 La visione del ritorno 284 L'ascesa di Fatah 287 Iniziano le operazioni dei fedayin 292 La battaglia di Karameh 297 Capitolo 9 Il fucile e il ramoscello d'ulivo 301 Lo stato democratico della Palestina 301 Nessuna rivolta nei territori occupati 305 Fatah fa progressi politici 306 Il fallimento militare e il "malessere interno" 310 I dirottamenti e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina 312 Il nemico alle spalle 313 La guerra civile in Giordania 315 Settembre nero 316 Monaco, 1972 318 Terrorismo senza limiti 323 Accettazione e rifiuto 326 Le missioni suicide: Qiryat Shmona e Ma'Alot 331 Arafat parla alle Nazioni Unite 333 Capitolo 10 La pace con l'Egitto 339 Il Primo Ministro Menachem Begin 339 La guerra civile araba per procura 343 Sadat a Gerusalemme 346 Camp David 348 Capitolo 11 Il ratto della Cisgiordania 358 "Follia demografica" in Giudea e Samaria 358 La vendetta dei dissidenti 367 Menachem Milson, l'Amministrazione civile e le Leghe del villaggio 372 Capitolo 12 L'invasione del Libano 380 Begin offre la pace e trama la guerra 380 Il Piano Sharon 383 La battaglia di Beirut 387 Sabra e Chatila 398 La vergogna... e la redenzione d'Israele 403 Il rapporto Kahan 407 L'Assassinio di Emil Grunzweig 411 Epilogo 416 Note 423 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Prefazione alla terza edizione
I danni di un'ortodossia ottusa: dal 1984 a oggi
"Un silenzio profondo e sconcertante" Questa è la terza edizione di un libro pubblicato per la prima volta, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, nel 1977 alla vigilia dello storico balzo in avanti nel processo di pacificazione del Medio Oriente che fu il pellegrinaggio a Gerusalemme compiuto dal Presidente egiziano Anwar Sadat e la conseguente firma del primo trattato di pace mai stipulato tra Israele e uno stato arabo. Alcuni, soprattutto negli Stati Uniti, pensarono che si cominciasse finalmente a scorgere una soluzione del conflitto più lungo e pericoloso del mondo. Questa, però, può essere al massimo una parte, e una piccola parte, del motivo per cui - negli Stati Uniti a differenza che in Gran Bretagna - il libro fu salutato con quello che il suo editore, Harcourt Brace Jovanovich, definì "un silenzio profondo e sconcertante". [...] L'America, senza dubbio abbracciando la storiografia sionista, vedeva Israele più o meno come Israele vedeva se stesso. La sua nascita era la riparazione per il grande disastro cosmico dell'Olocausto, un trionfo dello spirito umano su di una terribile avversità; e la sua "Guerra d'Indipendenza", una lotta epica contro ostacoli enormi, ispirava al punto che, cinquant'anni dopo, il vicepresidente Al Gore poteva dire, in un accesso retorico non inconsueto: "Gli americani sentono che i nostri legami con Israele sono eterni. I nostri fondatori, come i vostri, hanno vagato nel deserto in cerca di una nuova Sion. La nostra lotta, come la vostra, è stata contro forze divine, oltre che umane. I nostri profeti, e i vostri, ci hanno detto che avevano un sogno e ci hanno incitato con il loro sogno a intraprendere questa lotta per la giustizia e la pace". Eppure, ciò che agli ammiratori americani poteva apparire nobile ed edificante, per i palestinesi fu una catastrofe. E proprio così, in effetti, al-Nakba, la Catastrofe, chiamarono da allora quegli eventi. Perché il fatto è che "lo stato ebraico", per quanto potesse essere un'aspirazione rispettabile in sé, fu anche, nelle sue origini, nascita e successiva crescita, un'impresa coloniale; fu diverso, forse, nell'impulso iniziale, da quel vasto movimento colonialista europeo dell'Ottocento da cui scaturì, ma, nel metodo e nei risultati, ne fece inevitabilmente parte, né fu meno ingiusto o duro nel suo impatto sugli abitanti dei territori colonizzati. Questa è la realtà storica su cui "Senza Pace" fonda il suo assunto centrale. La persistente violenza in Medio Oriente assume un aspetto molto diverso da quello attribuitole dall'ortodossia dominante, se scoprirne le radici equivale anche a dimostrare che il più grande atto di violenza nella storia della lotta arabo-israeliana - la "Guerra d'Indipendenza" d'Israele - fu in realtà un massiccio atto di pulizia etnica al quale i sionisti erano determinati e pronti sin dal momento in cui misero piede in Palestina; che la narrazione ufficiale sionista riguardante l'evento è un mito di proporzioni gigantesche: il mito, cioè, che in senso lato vuole la Palestina - come afferma un celebre detto - "una terra senza un popolo, che attende un popolo senza terra"; che nella guerra scoppiata nel 1948 i palestinesi abbandonarono il paese su ordine dei loro capi; che i soldati ebrei, fedeli alla "purezza delle armi", non perpetrarono alcuna deliberata atrocità, sconfiggendo una coalizione enormemente più forte di eserciti arabi determinati a distruggere Israele; e che, dopo la sua fondazione, il neonato stato cercò scrupolosamente la pace con i suoi vicini, ricorrendo alla forza militare soltanto per difendersi dai continui atti terroristici palestinesi, non provocati, e dalle aggressioni degli arabi. Come ogni impresa coloniale, Israele dipendeva per la sua stessa esistenza dal sostegno di un protettore imperialista. Grazie alla Diaspora ebraica e alla sua diversità geografica, fu in grado, caso unico, di confidare su più di uno. Nei giorni precedenti la fondazione dello stato, il protettore fu la Gran Bretagna, la principale potenza imperialista dell'epoca, che con la dichiarazione Balfour del 1917 aprì le porte della Palestina all'immigrazione ebraica e poi protesse la crescente comunità di coloni nel loro inevitabile conflitto con la popolazione indigena finché non furono abbastanza forti da cavarsela da soli. Dopo il 1948, il ruolo di protettore passò essenzialmente alla nuova superpotenza emergente: gli Stati Uniti. Per promuovere e mantenere tale sostegno, Israele-stato-ebraico e i sionisti di ogni parte del mondo dovevano conservare a tutti i costi il favore dell'opinione pubblica internazionale così da compensare le ripercussioni negative di tutte le malefatte morali e materiali che Israele-impresa-coloniale poteva aver commesso contro i palestinesi. | << | < | > | >> |Pagina 20Il mito è sepolto una volta per tutte: i "nuovi storici" d'IsraeleFu proprio da Israele che, qualche anno dopo, giunse la replica definitiva a Joan Peters e a quel tipo di falsificazione storica che era il suo armamentario. È tipico: i critici più severi e convincenti di Israele sono spesso gli israeliani stessi. L'apertura, nel 1978, degli archivi israeliani aveva offerto opportunità del tutto nuove di studiare la creazione dello stato ebraico. Un gruppo di "nuovi storici", come furono chiamati, ne approfittò per realizzare un resoconto completo e revisionistico del 1948 e dei suoi precedenti. Studiò le origini tipicamente colonialiste di Israele che la storiografia tradizionale e convenzionale aveva così a lungo oscurato. Nel farlo, suffragò con autorevoli particolari ciò che "Senza Pace" aveva già detto, nonché, ovviamente, gli studi originali di studiosi come Khalidi, dai quali aveva abbondantemente attinto. Opere come "Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947-1949" di Benny Morris, "Collusion across the Jordan" di Avi Shlaim e "The Making of the Arab-Israeli Conflict, 1947-1951" di Hall Pappé misero in discussione "le verità più sacre" del sionismo, le "certezze ideologiche e mitiche" derivanti dalla conoscenza apparentemente certa che la causa d'Israele era ed era sempre stata interamente giusta e il suo comportamento irreprensibile. Per dirla con le parole di Benny Morris, la "nuova storia" dimostrava che Israele era "nato nel peccato originale", non "innocente e puro". Dichiarava che la comunità ebraica non aveva mai corso il rischio dell'annientamento alla vigilia della guerra del 1948 e che gli eserciti arabi, mal addestrati ed equipaggiati, strategicamente incompetenti e persino inferiori di numero, non avevano avuto praticamente alcuna possibilità di sconfiggere lo stato neonato. I palestinesi non fuggirono su ordine dei loro capi, ma a causa del terrorismo spesso deliberato, della violenza e delle atrocità perpetrati contro di loro dalle milizie ebree. Inoltre, nei primi anni della sua esistenza, Israele non fu mai interessato a fare la pace con i suoi vicini, e le sue cosiddette politiche di "rappresaglia" erano in realtà forme brutali e aggressive di espansionismo che portarono, deliberatamente, a un'altra guerra. Tra i "nuovi storici" c'erano opinioni opposte, con il loro decano, Morris, che sosteneva - spesso, pareva, a dispetto di tutte le prove da lui stesso addotte - che non c'era stato uno schema premeditato per scacciare i palestinesi: il problema dei profughi era "nato dalla guerra, non da un disegno intenzionale". Ma altri, come Pappé, contestavano questa tesi; sostanzialmente accettavano che la versione palestinese dei fatti — quella della pulizia etnica deliberata e lungamente pianificata — esposta per la prima volta da Khalidi nel 1961 fosse fin dall'inizio quella giusta. Ma questa revisione radicale delle origini del conflitto — da parte di israeliani in favore dei palestinesi — ebbe poche o nessuna conseguenza pratica significativa per il suo andamento successivo. Non portò a cambiamenti percepibili nelle politiche d'Israele, né a una riduzione del sostegno che queste ricevevano dal suo protettore. | << | < | > | >> |Pagina 29L'IntifadaNel giro di due mesi, il 29 settembre 2000, scoppiò la seconda Intifada. Lascerò agli storici discutere se fu Arafat a incoraggiarla come mezzo per rafforzare la propria efficacia diplomatica, altrimenti disperatamente debole, o se fu piuttosto Barak a scatenarla per i propri fini schierando 2000 soldati, ed elicotteri Apache, a disposizione del suo rivale di destra, il generale Sharon, e di una falange di deputati del Likud, per un bagno di folla deliberatamente provocatorio, volto a ribadire il "diritto di proprietà", sul Monte del Tempio, che è però anche sede delle moschee di Al-Aqsa e della Cupola della Roccia, il terzo luogo sacro dell'Islam per importanza. La rivolta era nell'aria e, sostanzialmente, fu popolare, spontanea e diretta, innanzitutto contro la perdurante occupazione israeliana e la consapevolezza che il trattato di Oslo non vi avrebbe mai posto fine, ma anche, implicitamente, contro Arafat e la sua Autorità Palestinese, che con tanta ostinazione si era prestata alla finzione. Era, in effetti, la "guerra d'indipendenza" dei palestinesi, sebbene si trattasse di un'indipendenza limitata al 22% della terra natia originale. Alcuni dei partecipanti, in particolare i fondamentalisti del rifiuto di Israele, Hamas e la Jihad islamica, sposavano ancora, in linea di principio, la vecchia idea di Arafat della "liberazione completa" e la speranza che, sfruttando la logica della violenza, la rivolta si potesse trasformare, secondo il modello algerino, in una lotta esistenziale del tutto o niente. I capi tradizionali della "nuova guardia", però, e in particolare Marwan Barghouti, poi messo in prigione, e le organizzazioni che guidavano, le brigate Tanzim o al-Aqsa, entrambe propaggini dell'originale movimento Fatah di Arafat, proclamarono ripetutamente ed enfaticamente di non pretendere altro che quel 22%. Volevano che il loro stato indipendente coesistesse con Israele, non la distruzione di quest'ultimo. Se l'obiettivo era ancora il trattato di Oslo, la ripresa della violenza per ottenerlo era, ovviamente, una chiara violazione del trattato stesso. Era anche atroce, o lo sarebbe diventata ben presto, atroce come tutta la violenza che è stato compito di questa storia documentare. Il terrorismo, che spesso aveva compromesso la lotta palestinese, raggiunse nuovi apici di barbarie con quelle che chiamarono le "operazioni di martirio". C'erano già stati attacchi suicidi o quasi suicidi, ma fu solo con la seconda Intifada che questi, spesso ma non esclusivamente opera di militanti islamici, divennero un'arma principale, sistematica e strategica dell'arsenale palestinese. La disponibilità di giovani uomini - e donne - a sacrificare la propria vita in questo modo orribile era certamente un metro non solo della loro disperazione individuale, e del fanatismo che aveva nutrito, bensì della disperazione dell'intera società, che li produceva in così terribile abbondanza. Il terrorismo era anche percepito, da quanti lo giustificavano, come l'unico modo in cui i palestinesi, così inferiori sul piano tecnico, organizzativo e diplomatico, potevano spostare almeno un po' in proprio favore l'equilibrio strategico e militare. In tutto ciò c'era indubbiamente una certa logica. Gli attentati scossero Israele dalle fondamenta; i danni, soprattutto psicologici, che provocavano furono ingenti. Ma, alla fine, fallirono. Non erano soltanto moralmente ripugnanti, infatti, ma operativamente controproducenti. Se la violenza era necessaria, pensavano alcuni palestinesi, i suoi obiettivi avrebbero dovuto essere strettamente limitati a quei confini territoriali che quella "guerra d'indipendenza" si era prefissa, ai soldati e ai coloni che erano tanto simboli quanto strumenti dell'occupazione di cui ci si voleva liberare. Secondo una fredda logica forse non avrebbe dovuto, ma, in pratica, il ricorso alla violenza pregiudicò la legittimità anticoloniale dell'intera lotta. E quanta più repulsione generava, sia in Israele che nel resto del mondo, tanto più era facile per Israele impiegare appieno, senza alcuna remora, l'arsenale di violenza di gran lunga superiore, hightech, fornita dagli americani, di cui disponeva per soffocare la ribellione. L'errore fu tanto più madornale — seppure più comprensibile — in quanto in realtà erano stati gli israeliani stessi a ricorrere per primi alla violenza, e in modo assolutamente sproporzionato. Subito dopo il bagno di folla di Sharon, l'esercito aprì il fuoco sulle schiere di manifestanti non-violenti; i civili palestinesi, molti dei quali bambini, morirono in numero di gran lunga più elevato degli israeliani. Fu un atto deliberato, opera più dell'esercito che del governo. Perché "quando l'Intifada scoppiò", scrisse il commentatore di Maariv Ben Kaspit, "fu finalmente chiaro a tutti: Israele non è uno stato con un esercito, ma un esercito con uno stato... Per molti anni le Forze di Difesa Israeliane (FDI) hanno atteso questa Intifada, e quand'è scoppiata hanno sfogato tutte le proprie frustrazioni sui palestinesi, che non sapevano neppure che cosa li avesse colpiti... 'Mi dica', chiese il generale Amos Malka [capo dei servizi segreti militari] a Yosi Kopperwasser [un ufficiale dei servizi segreti distrettuali], 'quanti proiettili hanno sparato le FDI dall'inizio dell'Intifada?' Kopperwasser restò di stucco. Non ne aveva idea. Malka gli chiese di appurarlo. Quando la risposta arrivò a mezzogiorno, la maggior parte degli ufficiali presenti... impallidì. Nei primi giorni la FDI aveva sparato circa 700.000 pallottole e altri proiettili in Giudea e Samaria [la Cisgiordania] e circa 300.000 a Gaza. In seguito, qualcuno al Comando Centrale celiò che quell'operazione la si sarebbe dovuta chiamare 'un proiettile per ogni bambino'". "Che cosa vi prende?", protestarono gli alti ufficiali palestinesi rivolti ai loro omologhi israeliani. "State violando tutte le regole del gioco!". Ma l'esercito continuò a sparare, affidandosi soprattutto all'opera dei cecchini. Lo shock per i palestinesi fu profondo, e il desiderio di vendetta intenso. Si giunse così a forme più efficaci e micidiali di violenza palestinese che toccarono il loro terribile culmine con gli attentatori suicidi. Ma dinanzi a questi sviluppi, l'opinione pubblica israeliana non fece altro che serrare le fila chiedendo a gran voce punizione e vendetta. Quell'opinione pubblica era, comunque, profondamente pervasa di quell'atteggiamento sdegnoso nei confronti di un popolo sottomesso tipico delle società coloniali di ogni parte del mondo, e pronta a far proprio lo slogan coloniale "l'unico linguaggio che capiscono è quello della forza". Per quanti, a sinistra, pensavano ipocritamente di aver fatto tanto per promuovere il processo di pace, l'Intifada, anche senza gli attentatori suicidi, era una sorta di tradimento; quell'Arafat in cui avevano riposto la propria fiducia li aveva profondamente delusi. Accettarono la tesi di Barak, secondo la quale Arafat, rifiutando la sua "generosa offerta" aveva "mostrato il suo vero volto". Il nocciolo duro e genuino del "partito della pace" si ridusse fin quasi a scomparire. Per quelli di destra, fu il compimento di tutte le loro profezie: i palestinesi non avevano mai voluto davvero la pace, e Arafat rimaneva il "killer e assassino" votato alla "distruzione" di Israele come avevano sempre detto. In breve, sia la destra che la sinistra furono pronte ad accogliere il "salvatore" che prometteva loro una semplice soluzione militare. Nelle elezioni generali del febbraio 2001, con un margine schiacciante, scelsero Sharon, perché sostituisse Barak, come leader del governo più estremista e bellicoso della storia d'Israele. Sharon occupa un posto unico in "Senza Pace", non soltanto perché, in una tale storia di violenza, figura inevitabilmente tra quanti in Israele l'hanno praticata nel modo più eccelso, devoto ed esemplare, ma anche perché è il solo a figurare in quasi tutte le fasi rappresentative, dai cosiddetti raid "di rappresaglia" dei primi anni dello stato - di cui era l'audace e micidiale leader - attraverso il massacro di civili nei campi profughi libanesi di Sabra e Chatila - per i quali ancora rischia un processo come "criminale di guerra" dinanzi a un tribunale internazionale - fino a questa sua ultima grande battaglia, in qualità di primo ministro che pochi, persino in Israele, avevano previsto potesse diventare così avventato, fanatico e sanguinario. Già la sua nomina fu un segno premonitore della ferocia ventura. E, in effetti, solo dopo la salita in carica di Sharon, Hamas ricorse a quella che un analista militare israeliano definì "la bomba H dei palestinesi: gli esseri umani che si facevano esplodere". | << | < | > | >> |Pagina 32E lo fece con l'implacabile brutalità che gli aveva valso il soprannome di "bulldozer". Apparentemente tutto era fatto in nome della "autodifesa" e della "rappresaglia" contro il terrorismo che i palestinesi avevano iniziato. In realtà, però, fu sempre più chiaro che, una volta ottenuta la guerra di cui aveva bisogno, era lui stesso a fare tutto ciò che era in suo potere per alimentarla e perpetuarla.È vero, Sharon continuava a ripetere di volere un cessate il fuoco e la ripresa del processo di pace che una tregua avrebbe comportato. È vero anche che disponeva di una specie di "piano di pace". Ma le sue azioni smentivano le sue parole. Ogni volta che c'era un periodo di calma, ogni volta che i palestinesi osservavano l'ultimo appello a cessare il fuoco, ogni volta che sembrava che Arafat riuscisse a convincere Hamas a tenere a freno i suoi kamikaze, Sharon aveva paura. E nella sua paura, era lui stesso a violare la tregua, proprio con quel tipo di azioni, per lo più tramite le cosiddette "uccisioni mirate" di attivisti palestinesi, che sapeva avrebbero provocato precisamente quel tipo di terrorismo palestinese che gli serviva. E così fece più e più volte. Questo modo di procedere divenne talmente evidente da rendere l'intero sistema di causa ed effetto l'esatto contrario di quello che lui e il suo governo hanno sempre cercato di dare a intendere al loro pubblico e al mondo che stava a guardare: Israele divenne chiaramente l'aggressore, i palestinesi compivano "azioni di rappresaglia" per "autodifesa". Sharon non voleva un cessate il fuoco perché non voleva un processo di pace, e non voleva il processo di pace perché altrimenti il "piano di pace" che aveva in mente sarebbe stato smascherato per quella totale antitesi tanto della "pace" quanto del "processo" che realmente era. Per quel poco che lo aveva spiegato, si era capito che il suo piano avrebbe rinnegato tutti i progressi fatti, tramite la conferenza di Madrid del 1991, il trattato di Oslo e i successivi accordi e negoziati, fin dall'inizio della pacificazione; avrebbe consacrato tutte le "realtà sul terreno" sioniste con un ennesimo accordo "provvisorio" di durata indefinita nel protrarsi del quale Israele sarebbe stato libero di creare ancora nuovi insediamenti. E non si prendeva neppure il disturbo di fingere di crederci lui stesso; "l'idea di fare la pace con i palestinesi è assurda", aveva detto all'inizio dell'Intifada." L'unica cosa che Sharon voleva davvero era completare il programma reale — la distruzione del trattato di Oslo — che ispirava la sua campagna militare. Con la parvenza di una guerra contro un terrorismo palestinese a bassa tecnologia, scatenò un suo proprio terrorismo di stato ad alta tecnologia. Furono gli attacchi palestinesi casuali, colpisci e fuggi, nello stile della guerriglia, contro soldati e coloni, contro civili all'interno dello stato d'Israele vero e proprio, sparatorie da auto in corsa, bombe ai margini delle strade, lanci di molotov fatte in casa, contro la vasta potenza militare convenzionale di Israele, le sue punizioni collettive, il coprifuoco, le perquisizioni casa per casa, gli arresti in massa, i civili spogliati in pubblico o marchiati con un numero sul braccio, la rioccupazione di città importanti, le pacificazioni selvagge dei campi profughi, l'abbattimento di case e oliveti; furono attentatori suicidi contro carri armati, elicotteri da combattimento e caccia F-16 scatenati contro aree densamente popolate; il caos deliberato degli uni contro il caos inevitabile degli altri. Per Sharon rappresentò due cose interconnesse. Da una parte fu una lotta personale, tra gladiatori, con un avversario storico che, come lui, aveva raggiunto l'apice della propria carriera; più volte si rammaricò in pubblico di aver lasciato in vita, in passato, "quell'assassino" di Arafat perché potesse combattere ancora. Dall'altra parte, stava sconfiggendo quella che considerava la minaccia più grande per Israele da quando era nato nel 1948. Riteneva Arafat e l'Autorità Palestinese direttamente responsabili di ogni singolo attacco terroristico, e li esortava continuamente a porvi fine. Era però evidente che non ne fossero responsabili e se qualcosa garantiva che non lo erano, né potevano esserlo, erano proprio le azioni di Sharon, il quale sottopose Arafat a lunghi, umilianti e totalmente paralizzanti, assedi nel suo quartier generale di Ramallah; durante l'ultimo, il suo esercito minò e rase al suolo con i bulldozer l'intero compound, lasciando in piedi soltanto l'ufficio di Arafat, un'isola in mezzo a cumuli di macerie. Poi distrusse le istituzioni stesse, i servizi di sicurezza e la polizia, senza i quali Arafat non era in grado di far valere la propria volontà. Il terrorismo continuò, come Sharon ben sapeva, perché semplicemente non era Arafat a volerlo; anzi era proprio contro di lui, eroe un giorno, quando sopportava gli assedi di Sharon, traditore di fatto il giorno dopo, quando cercava invano di imporre il suo ruolo di collaboratore. Eppure, pur definendo "irrilevante" il suo nemico storico, Sharon lo disegnava ancora come la mente del terrorismo. Era, ovviamente, un'assurdità che non faceva che tradire i suoi veri scopi, così come gli altri compiti, ben lungi da ogni guerra al terrorismo, svolti dai suoi soldati, i quali si scatenavano nei ministeri palestinesi - della sanità, dell'istruzione o dell'agricoltura - distruggendo computer, archivi e registri ufficiali della società palestinese, sfasciando mobili e decorazioni, saccheggiando uffici e banche, razziando edifici pubblici e residenze private. E, proprio come avevano fatto su più larga scala durante l'invasione del Libano di Sharon vent'anni prima, defecarono e urinarono deliberatamente in ogni luogo a eccezione dei gabinetti a loro disposizione: su pavimenti, tappeti o disegni di bambini, in bottiglie, cassetti o vasi di fiori, e perfino in una fotocopiatrice. Suddivisero la Cisgiordania in un'infinità di enclave separate e sconnesse, rendendo impraticabile, pericoloso o enormemente laborioso ogni traffico e comunicazione tra di esse. I viaggi di routine, per recarsi al lavoro o a casa, che avrebbero potuto richiedere cinque minuti, adesso richiedevano cinque ore. Sconvolsero l'economia palestinese; la disoccupazione raggiunse il 60%; il 70% della popolazione sprofondò al di sotto della soglia di povertà; quasi un terzo dei bambini soffriva di malnutrizione. L'istruzione, per la comunità più colta del Medio Oriente, fu gravemente ostacolata. In breve, resero la vita così impossibile sotto ogni aspetto da indurre una persona normale ad andarsene, a meno che non avesse qualche motivo davvero importante per restare o nessun altro posto dove andare. | << | < | > | >> |Pagina 66Il fondamentalismo islamico... e quello israeliano-ebraico?La propensione a inserire la resistenza palestinese in un più ampio contesto di civiltà trova conforto in quel fenomeno che, nei venticinque anni da quando è stato scritto "Senza Pace", ha avuto un tremendo impatto sulla regione e sul mondo. Nelle menti di molti occidentali, il fondamentalismo musulmano, o l'Islam "politico", ha sostituito il comunismo come l'unica grande "minaccia" all'ordine mondiale esistente, una sfida culturale, ideologica e strategica alla quale, ovunque si manifesti, sia nello stesso mondo musulmano che nelle comunità di emigranti musulmani dell'Occidente, politici, accademici e commentatori hanno dedicato un'enorme attenzione. Per quanti la osservano da questa prospettiva, l'Intifada diventa semplicemente un altro episodio del cosiddetto "scontro tra civiltà". Per loro esiste un legame intrinseco tra il "terrorismo" palestinese e, per esempio, l'attentato di al Qaeda a una nave da guerra americana al largo dello Yemen; "al di là di tutto", ha detto un commentatore neoconservatore del New York Times, entrambi sono "espressioni violente del secolare scontro tra Islam e Occidente". Sorprendentemente, da tali argomentazioni è totalmente assente la disponibilità a esaminare il fondamentalismo ebraico, o quanto meno a chiedersi se anch'esso possa avere un ruolo nel conflitto in Palestina, se non sia uno dei motivi per cui appare così insolubile. C'è, in effetti, una grande ignoranza o indifferenza su questo argomento nel mondo esterno, e non meno negli Stati Uniti. Ciò è dovuto, almeno in parte, alla generale riluttanza dei principali media americani a sottoporre Israele allo stesso attento scrutinio a cui sottoporrebbero altri stati e società, in particolare in presenza di una problematica così delicata ed emotivamente pregnante. Ma, secondo il defunto Israel Shahak, si riflette in modo particolarmente negativo su di una comunità ebraica americana che, con la sua inveterata e istituzionalizzata avversione a trovare colpe in Israele, chiude un occhio su ciò che gli israeliani come lui osservavano con disgusto e allarme, senza stancarsi di ripeterlo. In effetti, Shahak, internato da bambino nel campo di concentramento di Belsen, studioso, attivista per i diritti umani, moralista e amante del giudaismo nella sua alta forma profetica, ne era così colpito da dedicare una parte dei suoi ultimi anni a studiare il fenomeno. Nel 1994 e 1999 ciò portò a due libri illuminanti, "Jewish History"; "Jewish Religion" e "Jewish Fundamentalism in Israel", il secondo dei quali scritto insieme allo studioso americano Norton Mezvinsky. Quando si tratta di bigottismo e fanatismo, non ci possono essere molte differenze tra i rami americano e israeliano dello stesso fenomeno. Ma mentre il ramo americano è insignificante nella totalità della politica e della società democratiche statunitensi, esercita da lontano un'influenza molto significativa su quell'altro luogo, Israele, dove - palesemente - i fondamentalisti ebrei potrebbero persino sperare di conseguire il loro scopo ultimo, che non è soltanto quello di forgiare le politiche di uno stato ebraico, ma di governarlo, allo stesso modo degli ayatollah in Iran e dei talebani in Afghanistan. La comunità ebraica americana, soprattutto quella di fede ortodossa, finanzia generosamente le truppe d'assalto del fondamentalismo, i coloni religiosi; in realtà un buon 10% di questi, e tra i più estremisti, violenti e talvolta chiaramente folli, sono immigrati dall'America. Essi sono, dice Shahak, uno dei "fenomeni assolutamente più deleteri" della società israeliana, e "non è un caso che affondino le proprie radici nella comunità americano-ebraica". Era dal suo quartier generale di New York che il "Lubavitcher Rebbe", il defunto Menachem Schneerson, profeta di una delle più fanatiche sette cassidiche, la Chabad, guidava i suoi molti seguaci tanto in Israele quanto negli Stati Uniti. Il New York Times, i cui lettori sono ebrei forse per un terzo, ha pubblicato studi approfonditi sul fondamentalismo musulmano o cristiano, ma non ha fatto lo stesso con il fondamentalismo ebraico; mentre il Jewish Press di destra, con sede a Brooklyn, il settimanale ebraico a maggior diffusione, lo sostiene e difende apertamente. | << | < | > | >> |Pagina 74Sì, Israele è uno stato razzista"Comunque lo si guardi", dice Israel Shahak, "lo Stato d'Israele deve essere considerato uno stato razzista". Per lui, ciò affonda le radici in quell'interpretazione ristretta, etnocentrica del destino ebraico, debitamente trasposta nel moderno credo politico del sionismo, di cui il fondamentalismo ebraico appena descritto è soltanto l'espressione più estremistica e perversa. Rivolgere questa accusa equivale di solito a suscitare scandalo negli Stati Uniti, non soltanto nella comunità ebraica organizzata, ma in ogni Amministrazione, repubblicana o democratica, e in gran parte dei principali mezzi di comunicazione. È generalmente liquidata come propaganda araba o attribuita al pregiudizio estremista, all'antisemitismo, ritenuto dilagante nel mondo arabo e musulmano. Era perciò normale e parte del suo lavoro, che Abraham Foxrnan, capo della Anti-Defamation League, definisse "orribile" l'idea stessa di un parallelo tra Israele e il Sud Africa dell'era dell'apartheid. Ed era altrettanto normale che gli Stati Uniti si dessero tanto da fare per ottenere l'annullamento della risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1975 che postulava l'equazione "sionismo uguale razzismo", un retaggio dei tempi in cui, con il potere economico arabo al culmine e la solidarietà verso il Terzo Mondo che rappresentava ancora una forza da tenere presente, gli arabi potevano far corrispondere alla loro propaganda tangibili risultati diplomatici. Alla Conferenza mondiale contro il razzismo che si tenne a Durban, in Sud Africa, nel 2001, il segretario di stato Colin Powell abbandonò i lavori insieme alla delegazione americana in segno di protesta per il fatto che, per dirla con le sue parole, "alcuni delegati hanno detto che in Israele esiste l'apartheid". Ma è così che la pensano, oltre a Shahak, molti israeliani, e non da ultimi, ovviamente, quelli che, come alcuni bianchi contrari all'apartheid in Sud Africa, hanno scelto l'esilio piuttosto che continuare a vivere sotto un regime così ripugnante. Che gli arabi ne abbiano fatto un argomento di propaganda o che i regimi arabi siano, in un modo o nell'altro, repressivi quanto Israele non li impressiona. Sì, Israele è una democrazia, almeno per i suoi cittadini ebrei. Un motivo in più, affermano, perché persone come loro possano esprimere la propria opinione e dimostrare contro quelle pratiche che lo rendono tutto fuorché una democrazia per i suoi cittadini non ebrei. Come Shahak, anche altri, quali Michael Ben Yair, Ilan Pappé e Neve Gordon, sostengono che il sionismo, come ideologia, aveva sin dall'inizio inclinazioni razziste. Altri, come l'ex ministro della giustizia, il generale Ze'ev Sternhell, pensano che non ci sia nulla di intrinsecamente razzista in un movimento che cercava soltanto l'autodeterminazione per il popolo ebraico in un suo stato indipendente. Entrambi concordano, però, che in seguito all'inevitabile conflitto con i palestinesi, sulla cui terra volevano conseguire quell'obiettivo, è diventato razzista in pratica. Ciò si riscontra nel modo più evidente nei territori occupati, nella maniera in cui fanatici coloni ebrei trattano i palestinesi, che diventano fanatici a loro volta. Ma, in modo forse più istruttivo, si riscontra nella difficile situazione di quelli che vengono chiamati i palestinesi "dimenticati". Nel 1948, anziché cercare di sfruttare i nativi in loco, il neonato stato d'Israele ne ha scacciati la maggior parte; quell'atto è storicamente il più estremistico e nefasto del colonialismo sionista. Ironicamente, sarebbe più difficile accusare gli israeliani di razzismo oggi, se allora fossero stati ancora più estremisti e li avessero espulsi tutti. Perché, in effetti, il razzismo classico più facilmente compreso dal mondo esterno è quello che Israele ha praticato nei confronti dei 160.000 palestinesi "lasciati indietro" per un motivo o per l'altro nel 1948 e della comunità di oltre un milione che ne è in seguito derivata. Questi palestinesi, che rappresentano circa il 20% della popolazione totale, sono a pieno titolo cittadini dello stato ebraico e dovrebbero, quindi, essere uguali dinanzi alla legge. Ciò, almeno, è quanto risulta dagli scritti della Anti-Defamation League, la quale proclama che "il moderno Israele è una società aperta, democratica, multirazziale, ai cui cittadini arabi sono riconosciuti tutti i diritti e i privilegi della cittadinanza israeliana". Tuttavia, affermazioni come queste non fanno che dimostrare che la propaganda a cui simili organizzazioni sioniste sono dedite in favore d'Israele è pregna delle stesse menzogne che attribuiscono alla propaganda dei loro nemici. Non è soltanto che, a livello popolare, il pregiudizio anti-arabo è quasi tanto intenso, nella società israeliana nel suo insieme, quanto tra i coloni e i fondamentalisti. A quel livello, scrive Israel Shamir, immigrato dall'Unione Sovietica, si potrebbe dire che "Israele, dopo tutto, ha rispettato almeno una delle risoluzioni delle Nazioni Unite, quella che definiva il sionismo una forma di razzismo... La cosa sconvolgente è che il tipo di educazione internazionalista che noi ebrei russi abbiamo ricevuto in Unione Sovietica non poteva reggere alla velenosa propaganda sionista sulla superiorità ebraica"; e cita le "tipiche risposte" di centinaia di ebrei russi interrogati sui loro sentimenti verso i palestinesi. "Ucciderei tutti gli arabi", diceva uno; "un arabo è un arabo", diceva un altro, "vanno eliminati tutti". Il fatto è che, come rivelerebbe una lettura sistematica, la stampa israeliana è piena di sentimenti del genere. Ma sebbene, secondo la sua stessa pubblicità, il fine dell'organizzazione di ricerca israelo-americana MEMRI sia quello di diffondere una maggiore comprensione tramite traduzioni dai media ebraici quanto arabi, simili argomenti non sono mai toccati; perciò non sorprende che raramente siano menzionati nei media occidentali e meno che mai americani. Il pregiudizio è anche ufficiale, legale e istituzionalizzato. Nel 1987 Uri Davis, un esule israeliano, pubblicò un libro il cui titolo - "Israel: An Apartheid State" - diceva tutto. In questa analisi dell'intera struttura della giurisprudenza e della prassi israeliane, Davis metteva in evidenza che, a differenza del Sud Africa, dove la discriminazione razziale era la politica ufficiale, in Israele era generalmente mascherata. Era l'unico modo di affrontare una contraddizione fondamentale. Da una parte, l'intera ragione d'essere di Israele era quella di essere "lo stato ebraico", "ebraico" quanto l'Inghilterra era "inglese". Dall'altra, era moralmente e materialmente imperativo, sin dall'inizio, che si presentasse come un difensore dei valori occidentali, uno stato moderno, progressista e democratico; era anche formalmente impegnato, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, a darsi una costituzione "che garantisse a tutte le persone, senza discriminazioni, pari diritti civili, politici, economici e religiosi e il godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali". Ciò che Davis definiva "un apartheid radicale e legale degli ebrei nei confronti dei non ebrei" ebbe origine sotto la "copertura" di "termini legali apparentemente non discriminatori". L'unica legge che menzionava esplicitamente la parola "ebreo", infatti, era la Legge del Ritorno del 1951, secondo la quale ogni ebreo, ovunque nel mondo, aveva quel diritto automatico di cittadinanza israeliana che era automaticamente negato a tutti i palestinesi scacciati dalla loro terra natia. Israele non è mai arrivato a promulgare una costituzione. Ma apparentemente, tutte le leggi, "fondamentali" o di altro genere, approvate dalla Knesset, valevano, universalmente e imparzialmente, per tutti i cittadini israeliani. La distinzione pratica cruciale tra ebrei e non ebrei nasceva altrove: dallo stato di quasi sovranità che la Knesset concedeva a organismi, un tempo privati, precedenti alla nascita dello stato, come l'Organizzazione Sionista Mondiale, l'Agenzia Ebraica e il Fondo Nazionale Ebraico. Questi, per statuto, dovevano limitarsi a un programma rigidamente ebraico. L'Organizzazione Sionista Mondiale / Agenzia Ebraica promuoveva la "colonizzazione agricola basata sul lavoro ebraico", mentre il Fondo Nazionale Ebraico acquistava beni immobili "allo scopo di insediare gli ebrei su tali terreni e proprietà". La discriminazione fondamentale, costituzionale, che questo sotterfugio incarnava dietro un'irreprensibile facciata, alimentava ogni sorta di discriminazioni legali, amministrative, finanziarie, sociali e culturali nei confronti dei palestinesi. Questo era il sistema, diffusamente trattato in "Senza Pace", che rapidamente produsse categorie orwelliane come i "presenti-assenti", termine escogitato per definire i palestinesi le cui terre e i cui villaggi erano soggetti a confisca perché, sebbene loro stessi potessero essere cittadini a tutti gli effetti dello stato neonato e presenti fisicamente, legalmente parlando erano assenti. Si andò così avanti a costruire un intero edificio di ipocrisie interdipendenti assolutamente bizantine nella loro complessità. Così, in apparenza, non era perché erano palestinesi che le loro città e i loro villaggi non beneficiavano degli stanziamenti molto più cospicui destinati a quelli ebraici; era perché le loro città non rientravano tra "le località il cui nome compare nel piano di sviluppo urbano redatto dal Ministero delle Entrate". E non erano tra quelle località perché un altro regolamento simile, esteriormente ineccepibile, garantiva che non potessero mai esserci città arabe. Non era perché erano palestinesi che non avevano diritto, come gli ebrei, a ogni sorta di facilitazione, come ad esempio assegni familiari più generosi o mutui agevolati, era perché non erano "soldati in congedo". Ma non avrebbero mai potuto essere "soldati in congedo" perché nessun palestinese poteva prestare servizio nell'esercito. E questo, a sua volta, non perché era un palestinese, certo che no; era semplicemente perché, in base alla legge sulla leva militare, spettava a un "rilevatore autorizzare coscritti e candidati alla leva a presentarsi in servizio"... e così capitava che nessun palestinese ricevesse mai l'autorizzazione del rilevatore.
Il risultato di tutto questo, a livello più basilare, era che i palestinesi
non avevano alcun diritto di vivere nelle aree riservate per legge agli ebrei -
che rappresentano ora oltre il 90% di un paese che un tempo era per oltre il 90%
palestinese - così come i neri non potevano vivere nelle zone "bianche",
altrettanto sproporzionate, del Sud Africa, o gli ebrei nelle aree dei "gentili"
di alcuni paesi europei prima dell'era moderna. "Qual è", si chiede Israel
Shahak, la differenza tra proibire a un ebreo in quanto ebreo di vivere in
Arabia Saudita e proibire a un non ebreo in quanto non ebreo di vivere a Carmiel
[una città israeliana dove i palestinesi hanno tentato invano di andare ad
abitare]? Confrontiamo questa situazione con il modo in cui reagiscono le
organizzazioni ebraiche negli Stati Uniti quando scoprono un club che rifiuta, o
semplicemente evita di accettare, membri ebrei. Diviene immediatamente
l'obiettivo di una furiosa campagna pubblica di protesta. Eppure un club è
soltanto un affare privato. Viceversa, la politica israeliana di impedire ai non
ebrei di vivere o lavorare in specifiche città israeliane è una questione
pubblica. Non è molto peggio? In realtà, sionisti qua e antisemiti là sono dalla
stessa parte. Riescono a fare qua ciò che gli antisemiti cercano di fare là, di
solito senza riuscirvi.
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