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| << | < | > | >> |IndiceRingraziamenti VII Storia di un enigma PARTE PRIMA L'astratto 1. Esprit de corps 5 2. Lo spirito della verità 66 3. Gli uomini nuovi 75 4. La guerra dei relè 212 Interludio 317 PARTE SECONDA Il Concreto 5. La rincorsa 337 6. L'attesa 409 7. L'albero del verde bosco 507 8. L'ultima spiaggia 593 Poscritto 687 Nota dell'autore 689 Note bibliografiche 705 Bibliografia di Alan M.Turing 737 Indice analitico 741 |
| << | < | > | >> |Pagina 128Gödel aveva dunque dimostrato che, nel senso tecnico dato al termine da Hilbert, l'aritmetica è incompleta.Ma c'era dell'altro. Un aspetto notevole dello speciale enunciato di Gödel è questo: poiché non è dimostrabile, in un certo senso esso è vero. Ma per poter affermare che l'enunciato è «vero» occorrerebbe un osservatore che guardasse il sistema dall'esterno. Lavorando all'interno del sistema di assiomi, il fatto non può essere dimostrato. Un punto ulteriore è il seguente. La prova di Gödel presume che l'aritmetica sia coerente. Infatti, se non lo fosse, ogni proposizione sarebbe dimostrabile. Più precisamente, dunque, Gödel aveva dimostrato che un'aritmetica formalizzata è necessariamente una delle due cose: o incoerente, o incompleta. Ma era stato anche in grado di mostrare che la coerenza dell'aritmetica non è dimostrabile dall'interno del suo stesso sistema di assiomi. Se lo fosse, basterebbe semplicemente una dimostrazione che esiste almeno una proposizione (per esempio, 2 + 2 = 5) la cui verità non è dimostrabile. Ma GöDel potè mostrare che un enunciato di esistenza di questo genere possiede lo stesso carattere della proposizione che afferma la sua stessa indimostrabilità. E in questo modo aveva fatto piazza pulita delle prime due domande di Hilbert. Non si può dimostrare che l'aritmetica è coerente; ed è certo che essa non è coerente e completa allo stesso tempo. Hilbert aveva concepito il suo programma allo scopo di mettere definitivamente ordine nelle ultime frange di incertezza della matematica: tanto più stupefacente risultò quindi la nuova svolta. E addirittura sconvolgente risultò per tutti coloro che si aspettavano dalla matematica qualcosa di assolutamente perfetto e inattaccabile. La svolta significava nuovi problemi che ora venivano alla luce. Il corso di lezioni di Newman terminava con la prova del teorema di Gödel. Alan era stato così accompagnato davanti alle ultime frontiere della conoscenza. Ma la terza domanda di Hilbert restava aperta: anche se adesso doveva porsi in termini di «dimostrabilità» e non di «verità». I risultati ottenuti da Gödel non escludevano la possibilità che esistesse un modo per distinguere gli enunciati dimostrabili da quelli non dimostrabili. Forse c'era un modo con cui le conclusioni di Gödel, così peculiari, potessero esser messe da parte, esser tenute distinte. Forse c'era un metodo definito - un processo meccanico, aveva detto Newman - che, applicato a una proposizione matematica, potesse produrre una risposta e dire se quella proposizione era dimostrabile? Da un certo punto di vista quest'idea era un progetto quasi assurdo, che colpiva dritto al cuore tutto quanto si sapeva in matematica creativa. Godfrey Hardy, per esempio, nel 1928 aveva scritto con indignazione: Naturalmente un teorema simile non esiste, ed è una fortuna, perché se esistesse ci troveremmo a disporre di un insieme meccanico di regole per la soluzione di tutti i problemi matematici, il che porrebbe fine alla nostra attività come matematici. I libri erano pieni di enunciati sui numeri che secoli di sforzi non erano riusciti né a dimostrare né a refutare. C'era per esempio il cosiddetto «ultimo teorema» di Fermat, una congettura secondo la quale non esiste nessun cubo che possa essere espresso come somma di due cubi, nessuna quarta potenza che possa esprimersi come somma di due quarte potenze, eccetera. Un altro caso del genere era la congettura di Goldbach secondo la quale ogni numero pari è la somma di due numeri primi. Era difficile credere che asserzioni come queste, che avevano resistito tanto a lungo a ogni assalto, potessero venir «decise» automaticamente con un semplice insieme di regole. E inoltre, se alcuni difficili problemi erano stati risolti, come per esempio il teorema dei quattro quadrati di Gauss, raramente era accaduto che la dimostrazione fosse stata raggiunta con mezzi paragonabili a regole meccaniche; al contrario, era entrato in gioco l'esercizio dell'immaginazione creativa, che aveva saputo costruire nuovi concetti algebrici astratti. Come scriveva Hardy: «Soltanto il profano più sprovveduto può immaginare che i matematici pervengano alle loro scoperte girando la manovella di qualche macchina miracolosa». E tuttavia i progressi della matematica avevano certamente fatto sì che un numero sempre più grande di problemi fossero stati portati entro il raggio d'azione di un approccio di tipo meccanico. Hardy aveva un bel dire che «naturalmente» questo progresso non avrebbe mai abbracciato tutta la matematica: dopo il teorema di Gödel non restava più nulla di «naturale». La questione meritava dunque un'analisi più approfondita. La frase così suggestiva usata da Newman, «un processo meccanico», prese ad agitarsi nella mente di Alan. Ma nel frattempo la primavera del 1935 aveva portato altri due fatti nuovi. Il 16 marzo si tennero le elezioni dei nuovi fellow. Era da poco diventato elettore Philip Hall, uno dei supervisori di Alan, che avanzò la sua candidatura affermando che la sua riscoperta del teorema centrale del limite era solo un piccolissimo segno della sua vera forza. Ma non c'era bisogno di questa difesa: gli altri elettori - Maynard Keynes, Pigou e il preside del college John Sheppard - si erano già fatti un'opinione per loro conto. Alan venne eletto, primo del suo anno a ricevere il titolo, e diventò uno dei 46 fellow dell'università. A Sherborne, quando arrivò la notizia, vi furono festeggiamenti; gli allievi ebbero mezza giornata di vacanza, e subito prese a circolare una quartina scherzosa: Alan aveva solo ventidue anni. | << | < | > | >> |Pagina 136Scrivendo per esteso tutte queste informazioni atte a definire una macchina automatica, si ha una "tavola di comportamento" di dimensioni finite. La tavola definirebbe completamente la macchina, nel senso che indipendentemente dall'esistenza fisica della macchina conterrebbe tutte le informazioni rilevanti su di essa. Da un simile punto di vista astratto, la tavola è la macchina.Ciascuna delle possibili diverse tavole di comportamento definisce una macchina con un comportamento diverso. Esiste un numero infinito di tavole possibili, e dunque un numero infinito di macchine possibili. A questo punto Alan aveva trasformato il vago concetto di «metodo definito», o di «processo meccanico», in qualcosa di molto preciso, che era appunto la «tavola di comportamento». E adesso poteva porre una domanda altrettanto precisa: c'era o non c'era una di queste macchine - una di queste tavole - che fosse capace di produrre la decisione richiesta da Hilbert? Come si vede, anche una macchina semplice del tipo illustrato nella scheda 1 non fa soltanto addizioni. Essa compie atti di riconoscimento, come quello di trovare il primo simbolo sulla destra. Una macchina un po' più complicata può eseguire moltiplicazioni ripetendo un determinato numero di volte atti di copiatura di un singolo gruppo di «1», cancellando uno alla volta gli «1» di un altro gruppo, e riconoscendo di aver finito. Una macchina di questo genere potrebbe anche compiere atti di decisione, come per esempio decidere se un numero è divisibile per un altro, oppure se un numero dato è primo o composto. Era chiaro a questo punto che esisteva la possibilità di sfruttare il principio per meccanizzare una vasta gamma di «metodi definiti». Ma una macchina capace di decidere in merito all'interrogativo di Hilbert sulla dimostrabilità, poteva esistere una macchina siffatta? Era un problema troppo difficile per poter pensare di affrontarlo e risolverlo con la semplice compilazione di una tavola di istruzioni. Ma c'era un modo per aggirare la difficoltà e trovare la risposta. E l'idea che ebbe Alan Turing a questo punto fu quella dei «numeri computabili». Il concetto essenziale era questo: un qualsiasi «numero reale» che sia definito da una qualche regola definita deve poter essere calcolato da una macchina di questo genere. Ci sarà, per esempio, una macchina per calcolare lo sviluppo decimale di "p greco" (così come Alan aveva fatto a Sherborne): per questo sarà soltanto necessario un gruppo di regole per addizionare, moltiplicare, copiare eccetera. Poiché "p greco" è un numero decimale infinito, il lavoro della macchina non termina mai; e sul suo «nastro» dev'esserci una quantità illimitata di spazio di lavoro. Ma la macchina può arrivare in un certo periodo di tempo finito a ognuna delle cifre decimali, e usare per far questo una quantità finita di nastro; e tutto ciò che riguarda questo processo può essere definito da una tavola delle istruzioni finita, che può essere lasciata da sola a fare il suo lavoro su un nastro vuoto. | << | < | > | >> |Pagina 203Fu nella primavera del 1939 che tenne il suo primo corso di lezioni a Cambridge. Iniziò con quattordici studenti della Parte Terza, ma, come scrisse a casa, «senza dubbio il numero dei partecipanti è destinato a calare andando avanti col trimestre». Almeno uno studente dev'essergli rimasto, perché per gli esami di giugno dovette preparare una serie di domande scritte. Una di queste chiedeva proprio una dimostrazione dei risultati di Computable Numbers. Dev'essere stato singolarmente piacevole per lui poter presentare come problema d'esame, nel 1939, la questione che Newman aveva proposto, lasciandola senza risposta, solo quattro anni prima.
Ma nello stesso tempo Alan partecipava anche al corso di Wittgenstem sui
fondamenti della matematica. Il corso aveva lo stesso titolo del suo, e però era
completamente diverso. Il corso di Turing riguardava la logica matematica intesa
come partita a scacchi: cominciare con l'estrarre l'insieme di assiomi più
semplice e compatto possibile, continuare sviluppandolo seguendo un sistema
esatto di regole fino a farlo diventare le strutture della matematica, e infine
scoprire i limiti tecnici di tale procedura. Al contrario, il corso di
Wittgenstein riguardava la filosofia della matematica, chiedeva cioè che cosa
fosse realmente la matematica. [...] In particolare si ebbe un giorno fra i due
uomini un'ampia discussione su tutta la struttura della logica matematica.
Wittgenstein sosteneva che la creazione di un sistema logico perfettamente
stagno e automatico non ha niente a che vedere con ciò che comunemente si
intende con la parola «verità». La sua argomentazione attaccava principalmente
quella caratteristica di ogni sistema completamente logico, per la quale basta
una singola contraddizione, e in particolare un'autocontraddizione, per
consentire la prova di una proposizione qualsiasi.
WITTGENSTEIN Prendiamo il caso del mentitore. In un certo senso è davvero molto strano che una questione come questa abbia potuto indurre qualcuno a riflettere seriamente: anzi è una cosa molto più straordinaria di quanto non possa apparire a prima vista (...) Perché la faccenda è questa: se un uomo dice «Io sto mentendo», noi diciamo che ne consegue che non mente, dalla qual cosa consegue che mente, e cosi di seguito. Bene, e con questo? Si può andare avanti in questo modo fino a diventare cianotici, perché no? Ma non serve a niente (...) Non è altro che un futile gioco di linguaggio, e perché mai ci si dovrebbe eccitare tanto? TURING Ciò che rende perplessi è che di solito una contraddizione si usa come criterio per dimostrare che si è fatto qualcosa di sbagliato. Ma in questo caso non si può trovare nessuno sbaglio in quel che si è fatto. WITTGENSTEIN Già; ma c'è di più: non è stato fatto alcuno sbaglio (...) e allora che male può derivarne? TURING Nessun male, in realtà, a meno che non vi sia una qualche applicazione, per cui si potrebbe avere il crollo di un ponte o qualcosa del genere. WITTTGENSTEIN (...) La questione sta in questi termini: perché si ha paura delle contraddizioni? È facile capire perché si debba aver paura delle contraddizioni che sono negli ordini, nelle descrizioni eccetera, ossia in cose esterne alla matematica. Ma la questione è: perché si deve aver paura delle contraddizioni interne alla matematica? Turing dice: «Perché può andare storto qualcosa con l'applicazione». Ma non necessariamente deve andare storto qualcosa. E se qualcosa va storto - se il ponte crolla - allora l'errore commesso è di un altro tipo, sta nell'uso di una legge naturale sbagliata (...) TURING Nell'applicare i propri calcoli non si può stare tranquilli se non si sa che in essi non vi sono contraddizioni nascoste. WITTGENSTEIN A me sembra che qui ci sia un errore enorme (...) Supponiamo che io riesca a convincere Rhees del paradosso del mentitore, e allora lui dice: «Io mento, quindi non mento, quindi io mento e non mento, quindi abbiamo una contraddizione, quindi 2X2=369». Ebbene, il fatto è che questa non dovremmo chiamarla una «moltiplicazione», tutto qui (...) TURING Sebbene non si possa sapere che il ponte crollerà se non vi sono contraddizioni, tuttavia è quasi certo che se contraddizioni vi sono, qualcosa andrà storto.
WITTGENSTEIN Ma nulla è mai andato storto in quel modo finora (...)
Tuttavia, Alan non si lasciava convincere. Per un matematico puro, la bellezza dell'argomento restava pur sempre il fatto che, per quanto si potesse discutere sul suo significato, il sistema rimaneva lì in piedi, completo, auto-sufficiente, sereno. Cara e amata matematica! Mondo certo e sicuro, in cui niente può andare storto, in cui nessun guaio può accadere, nessun ponte crollare! Tanto diverso dal mondo di quel 1939. | << | < | > | >> |Pagina 231Le « posizioni fondamentali» relative di questi sei Enigmi venivano stabilite sulla base delle posizioni relative conosciute delle femmine, così come avveniva quando si stemavano uno sull'altro, sfalsandoli, i fogli perforati. A questo punto le sei macchine, mantenendo costanti queste posizioni relative, venivano fatte girare fino a esaurimento di tutte le posizioni possibili. Una ricerca completa poteva essere terminata in due ore, il che significava esplorare parecchie posizioni al secondo. Si trattava di un lavoro puramente meccanico: pura forza di calcolo bruta, totalmente priva di intelligenza matematica o di sottigliezze algebriche, che non faceva altro che passare tutte le possibilità una dopo l'altra. Eppure, si deve a questa trovata l'ingresso della criptanalisi nel secolo XX.I tedeschi però, sfortunatamente per gli analisti polacchi, erano (sia pur di poco) ancor più evoluti di loro. A malapena il loro geniale congegno elettromeccanico cominciava ad affrontare l'Enigma, e già una nuova complicazione stava per renderlo nuovamente impotente. Nel dicembre 1938 tutti i sistemi di comunicazione tedeschi ebbero in dotazione altri due rotori, portando a cinque il totale. Ora, invece di sei, i modi possibili di ordinare i rotori erano sessanta. Gli analisti polacchi non si persero d'animo per questo, e riuscirono - grazie anche a errori di natura crittografica commessi dal servizio segreto tedesco - a scoprire tutte le nuove connessioni elettriche. Ma non riuscirono a cambiare la realtà aritmetica della situazione. Il metodo che avevano escogitato esigeva ora sessanta Bombe in luogo delle sei esistenti; invece di sei pacchi di fogli perforati, ora ne occorrevano sessanta. Si sentirono perduti. E questa era la situazione al momento del viaggio a Varsavia delle due delegazioni, francese e britannica, nel luglio del 1939. I polacchi non avevano le risorse tecniche per continuare il loro lavoro. Questa era la storia che Alan si senti raccontare al suo arrivo a Bletchley. Era la storia di un'impresa fallita: ma i polacchi erano pur sempre avanti di anni rispetto agli inglesi, che erano ancora fermi al 1932, e non solo non erano riusciti a scoprire le connessioni elettriche, ma non avevano neppure capito che la tastiera dell'Enigma era connessa al primo rotore nel modo più semplice possibile. A differenza dei criptanalisti polacchi, gli inglesi partivano dall'ipotesi che in quel punto la macchina introducesse un'altra operazione di disordine, e restarono stupefatti nell'apprendere che non era così. | << | < | > | >> |Pagina 363Grosso modo, la grande avventura del 6 giugno sulla Manica coincideva col momento in cui, a Hanslope, Alan e Donald Bayley si mettevano finalmente al lavoro per costruire la loro Dalila: cominciando col fare piazza pulita dei pasticci preliminari che il «Prof» aveva combinato per conto suo. Il problema principale era quello di fabbricare un circuito capace di generare una precisissima risposta «ortogonale». Era il disegno di questo circuito che aveva assorbito finora gran parte dei pensieri di Alan. Alla fine era arrivato alla conclusione che fosse possibile metterlo insieme usando componenti standard, già pronti sul mercato. Per Don Bayley questa era un'idea sorprendente, e ugualmente nuova era per lui la matematica di Fourier cui era ricorso Alan per attaccare il problema. Non era stato facile: Alan raccontò che gli ci era voluto un mese intero di lavoro sulle radici di un'equazione del settimo grado. Come ingegnere elettronico Alan era un dilettante e un autodidatta, e tuttavia era in grado di insegnare molte cose al suo nuovo assistente sulla matematica dei circuiti. Del resto poteva insegnare a tutti gli altri, in quel capannone-laboratorio, anche un paio di cose sull'elettronica. Ma per mettere in pratica tutte quelle idee, per mettere ordine in quel nido d'uccelli e farlo funzionare, era necessaria l'esperienza di Bayley. Che si dimostrò prezioso anche per la precisa documentazione che teneva sull'andamento degli esperimenti, e in generale per l'organizzazione del lavoro di Alan.| << | < | > | >> |Pagina 381Quando parlava di "costruire un cervello», non intendeva dire che i componenti della sua macchina dovessero assomigliare ai componenti di un cervello, né che le loro connessioni dovessero imitare quelle che si trovano nelle varie aree del cervello. Tutto quel che gli serviva era il fatto che il cervello può immagazzinare parole, immagini, facoltà in un certo modo definito, e che questo ha delle connessioni con un ingresso (i segnali provenienti dai sensi) e un'uscita (i segnali diretti ai muscoli). Ma quando - dieci anni prima - aveva ideato le macchine di Turing, aveva dovuto risolvere da solo un altro problema cruciale, perché Brewster non vi si era soffermato abbastanza: era arrivato per conto suo a rifiutare l'idea che dietro il cervello ci sia un «Io» che in qualche maniera «agisce» per trasmettere questi segnali e per organizzare questi ricordi. Non doveva esserci nient'altro all'infuori dei segnali e della loro organizzazione.Tuttavia nel descrivere le sue macchine aveva dovuto giustificare la sua formalizzazione del concetto di «meccanico», e l'aveva fatto ricorrendo a un argomento complementare: la «tavola delle istruzioni». Questo spostava l'accento, che veniva ora a trovarsi non più sul lavorio interno del cervello, ma su istruzioni esplicite, istruzioni che un operatore umano potrebbe eseguire ciecamente alla lettera. Nel 1936 questa idea faceva parte delle sue esperienze vissute: le regole della scuola di Sherborne, tutte le altre convenzioni sociali, e naturalmente le formule matematiche, che si potevano applicare «senza riflettere». Ma nel 1945 molta acqua era passata sotto i ponti, e quel «libro di istruzioni» che dieci anni prima era stato comunque qualcosa di fantastico, come del resto lo erano le macchine logiche teoriche, era divenuto una cosa estremamente concreta e pratica. La «quantità da cornucopia» di Bletchley era costituita da messaggi crittati su una macchina e decrittati su un'altra macchina; e queste macchine erano tutte macchine di Turing, in cui ciò che contava non era la forza fisica, ma la trasformazione logica di certi simboli. Nel progettarle, e nell'elaborare procedure tali da poter essere affidate a «schiavi» che operavano come macchine, a Bletchley non si era fatto altro, in effetti, che redigere una serie di complicate «tavole di istruzioni». Era un altro approccio all'idea di «cervello», diverso ma non incompatibile. E forse ciò che affascinava Alan era proprio l'interazione fra i due approcci: così come a Bletchley c'era stato un gioco costante fra l'intelligenza umana e l'impiego delle macchine, o delle procedure da affidare a «schiavi». Analogamente, le sue teorie sul «peso d'evidenza» gli avevano mostrato come trasferire certe facoltà umane, la capacità di giudizio, di riconoscimento di decisione, in un'altra forma, quella appunto del "libro di istruzioni". [...] Restava cioè da vedere quali risultati si potessero veramente raggiungere redigendo le tavole di istruzioni; restava da vedere se una macchina fosse capace di comportarsi come un cervello, e sviluppare da sola i suoi «centri del pensiero». Nelle discussioni con Donald Michie, Alan aveva insistito molto sulla necessità di dimostrare che una macchina è in grado di imparare. Per esplorare questo tipo di problema occorrevano macchine su cui condurre gli esperimenti. Ma in realtà, fatto quasi incredibile, per tutti gli esperimenti di questo genere una sola macchina sarebbe bastata: una macchina di Turing universale poteva imitare il comportamento di qualsiasi macchina di Turing. Nel 1936 il ruolo della macchina di Turing universale era stato puramente teorico: si trattava allora di affrontare l'hilbertiano «Entscheidungsproblem". Ma nel 1945 si presentavano possibilità infinitamente più pratiche. Le Bombe, i Colossi, tutte le altre macchine e procedimenti meccanici erano essenzialmente dei parassiti, che dipendevano dal capriccio dei crittografi tedeschi e soprattutto dalla loro cecità. Bastava che dall'altra parte della Manica qualcuno cambiasse idea, ed ecco farsi di colpo inutili tutti i miracoli d'ingegneria che c'erano voluti per costruirle. Era proprio questo che era accaduto all'inizio, con la primitiva Bomba dei polacchi, i loro archivi di «impronte digitali» e i loro fogli perforati; ed era accaduto di nuovo, provocando quasi una catastrofe, nel 1942. La costruzione di macchine specializzate aveva creato per i criptanalisti un problema dopo l'altro, costringendoli ogni volta ad acquisire e applicare nuove tecnologie. Ma una macchina universale, se solo si fosse riusciti a realizzarla praticamente, non avrebbe avuto bisogno di nessun nuovo intervento, solo di nuove tavole, codificate sotto forma di «numeri di descrizione» e messe sul «nastro» della macchina. Una simile macchina non avrebbe soltanto preso il posto delle Bombe, dei Colossi, degli alberi decisionali e di tutti gli altri compiti meccanici, ma si sarebbe sostituita ai matematici in tutti i laboriosissimi calcoli ai quali la guerra li aveva condannati. | << | < | > | >> |Pagina 417Secondo questa filosofia, predisporre nell'hardware meccanismi capaci di eseguire addizioni e moltiplicazioni è quasi uno spreco: giacché in linea di principio quei meccanismi possono essere sostituiti da istruzioni che applichino soltanto le operazioni logiche elementari, ossia «E», «O», e «NON». Questo era, in effetti, ciò che faceva il Colossus quando era «quasi» programmato per eseguire la moltiplicazione. Tali operazioni logiche fondamentali (assenti nel progetto originale dell'EDVAC) erano invece incorporate nel piano di Alan per l'ACE, e quindi egli avrebbe davvero potuto omettere i meccanismi di addizione e moltiplicazione, e avere ugualmente una macchina universale. Nella realtà non lo fece: parti speciali di hardware vennero incluse col compito di eseguire operazioni aritmetiche. E tuttavia queste operazioni erano state scomposte in piccoli pezzi, così da consentire un'economia di hardware e un corrispondente aumento delle istruzioni immagazzinate. Nell'insieme era una concezione che lasciò molto perplessi i contemporanei di Alan, per i quali un calcolatore era una macchina che serviva a fare le somme, e una moltiplicatrice era la massima espressione di questa funzione. Ma per Alan Turing una moltiplicatrice era solo un'inutile complicazione tecnica: il cuore di tutto doveva essere ciò che lui chiamava il «controllo logico», ossia l'unità di governo della macchina, che preleva le istruzioni dalla memoria e le rende operative.Per motivi analoghi, il rapporto sull'ACE non si dilunga molto sul fatto che la macchina avrebbe usato un'aritmetica binaria. Alan si limita a ricordare il grande vantaggio della rappresentazione binaria, e cioè il fatto che gli interruttori elettronici esprimono naturalmente «1» e «0», attraverso le posizioni di «acceso» e «spento». Questo è tutto, a parte poche parole sul fatto che nella macchina l'ingresso e l'uscita erano stati progettati in comune notazione decimale, e che il procedimento di conversione non avrebbe avuto «virtualmente nessuna forma esterna visibile». Su questa stringatissima dichiarazione Alan per fortuna tornerà nella conferenza del 1947, dicendo qualcosa di più. È il carattere universale della macchina a rendere possibile la codificazione dei numeri al suo interno in qualsiasi forma si desideri, anche in forma binaria se questo si accorda con la tecnologia della situazione. Per esempio l'impiego dei numeri binari non sarebbe appropriato nel caso di un registratore di cassa, perché qui non varrebbe la pena di procedere alla conversione dell'ingresso e dell'uscita. Sull'ACE universale, invece, la conversione non è neppure richiesta. | << | < | > | >> |Pagina 465Ciò che sosteneva Alan è diverso: egli diceva che in linea di principio non c'è motivo di ritenere che la macchina non possa assumersi gli stessi compiti del «padrone» che l'ha programmata, e ciò fino a un punto al quale - secondo il principio dell'imitazione - potrebbe essere definita intelligente e originale.C'era dunque in Alan l'idea di elaborare dei linguaggi, capaci di intraprendere in tutti i dettagli il lavoro del «padrone» per la compilazione delle tavole di istruzioni. E a questa futura possibilità, che del resto aveva già esplorato nel rapporto sull'ACE, accenna molto brevemente anche nel suo discorso: Dovrebbe essere possibile comunicare con queste macchine in un qualunque linguaggio, sempre che si tratti di un linguaggio esatto: vale a dire che in teoria si dovrebbe poter comunicare con la macchina mediante una qualsiasi logica simbolica, a condizione di darle istruzioni che la mettano in grado di interpretare il sistema logico scelto. Ciò significa che in futuro ai sistemi logici verrà dato, per usi pratici, più spazio che in passato. Probabilmente verranno fatti dei tentativi per far sì che le macchine compiano effettive manipolazioni di formule matematiche. A questo scopo sarà necessario elaborare un sistema logico speciale: esso dovrà essere molto simile a un normale procedimento matematico, ma al tempo stesso dovrà essere il più possibile esente da ambiguità. Ma ciò che aveva in mente andava molto più in là di questa semplice idea. Quando parlava di simulazione delle attività umane, Alan aveva in mente la simulazione dell'apprendimento. Vi sarebbe stato un punto oltre il quale la macchina non si sarebbe più limitata a fare «qualsiasi cosa che si sappia ordinarle di fare», come aveva scritto Lady Lovelace, e allora nessuno avrebbe potuto sapere in che modo stesse lavorando. | << | < | > | >> |Pagina 561Alan conosceva bene la conferenza del 1943 di Schrödinger Che cos'è la vita? in cui si giungeva a questo concetto fondamentale: che l'informazione genetica dev'essere memorizzata a livello molecolare, e che la teoria quantistica dei legami molecolari è in grado di spiegare in che modo tale informazione possa conservarsi per migliaia di milioni di anni. A Cambridge, Watson e Crick erano in corsa contro i loro rivali nel tentativo di stabilire se questo era possibile, e come. Ma il problema di Alan Turing non era quello di seguitare sulla strada della proposta di Schrödinger; bensì era quello di trovare una teoria parallela, che spiegasse come sia possibile - ammettendo la produzione di molecole da parte dei geni - che un composto chimico dia origine a una struttura biologica regolare. In altre parole Alan si chiedeva come sia possibile che l'informazione contenuta nei geni possa tradursi in azione. Come quello di Schrödinger, anche il lavoro di Alan non era di natura sperimentale, ma si fondava su principi fisici e matematici: era insomma un puro prodotto dell'immaginazione scientifica.| << | < | > | >> |Pagina 633Quel filo nascosto era il desiderio di sfidare la riprovazione della società, e discutere il sesso nello stesso identico modo di un qualsiasi altro argomento. Al tempo stesso il romanzo rendeva piena giustizia alla realtà del «tabù sociale», e la sua trama seguiva un complicato intreccio di rivelazioni pubbliche e private, che conducevano inesorabilmente verso una conclusione disperata e fatale: «Una striscia di sabbia, e su di essa orme chiare e distinte tracciavano una linea diritta fin dentro l'acqua nera».Con la sua tragica fine - il suicidio su quella sabbiosa e simbolica «fine della terra» - e anche con la sua trama (in cui il desiderio di amicizia maschile del ragazzo era messo in rapporto col fallimento del matrimonio dei genitori) Finistère si collocava in una corrente ormai vecchia di letteratura sull'omosessualità. Il linguaggio era esplicito e moderno, ma la forma era datata. Nel 1953 si era già arrivati a descrivere il quotidiano barcamenarsi dell'omosessuale in tutta la sua ordinaria banalità: per esempio un romanzo inglese di quell'anno, The Heart in Exile, faceva spaziare il racconto attraverso una serie di piccoli drammi (drammucci? saghette?) causati dai tabù del ceto medio, e attraverso la moderna ossessione verso le spiegazioni psicologiche; ma finiva per ripudiare entrambe queste forme di rappresentazione, concludendo invece la storia in modo del tutto ordinario, appena temperato dall'osservazione finale che «la battaglia deve continuare». E un anno prima Angus Wilson, con quella tetra commedia di costume che è Hemlock and Afier, era giunto anch'egli molto vicino a trattare il sesso nello stile moderno e terra-terra che era poi il medesimo col quale Alan preferiva mostrarsi al mondo. Anche sul romanzo di Wilson, Alan e Robin discussero molto: il libro appariva a entrambi come un'altra prova che l'ufficialità della legge e il trattamento clinico non erano gli unici frutti della Seconda guerra mondiale nei riguardi del problema. Ma Alan Turing non sarebbe riuscito a fare come gli altri: non avrebbe partecipato, come pure avrebbe voluto, a quello spirito di quotidiana anarchia. Molto meno libero di quanto appariva agli altri, in realtà stava camminando anche lui sull'ultima spiaggia della vita. Un anno dopo, la sera del 7 giugno 1954, Alan si uccise. La morte di Alan Turing fu un brutto colpo per quelli che lo conoscevano, perché non rientrava in nessuna chiara e plausibile concatenazione di eventi. In essa nulla era esplicito: non c'erano stati segni premonitori, non fu lasciata spiegazione alcuna. Una morte che appariva come un gesto isolato e gratuito di autodistruzione. Che Alan fosse una persona infelice e in stato di continua tensione; che fosse in cura da uno psichiatra; che avesse sofferto un colpo capace di abbattere molti uomini, tutto questo era noto e chiaro a tutti. Ma dal processo erano passati due anni; il trattamento a base di ormoni era finito un anno prima; Alan sembrava esserne ormai uscito del tutto. Nella mente di coloro che l'avevano visto sopravvivere nei due anni precedenti non poteva formarsi alcun collegamento che spiegasse in modo semplice quanto era accaduto. Al contrario: il suo atto era in tale contrasto con l'immagine dell'uomo avvizzito, stanco e spaventato cui la letteratura e il teatro avevano abituato, che era difficile credere che fosse morto. Si dava il caso che non fosse il tipo di uomo che si suicida. Ma chi non riusciva a collegare in maniera stereotipata il processo del 1952 con la morte del 1954 dimenticava forse che il suicidio non va necessariamente intepretato in termini di debolezza o di vergogna. Era stato lo stesso Alan, parlando con Joan nel 1941, a citare i versi di Oscar Wilde «Sono i coraggiosi quelli che lo fanno con una spada».
Il 10 giugno l'inchiesta stabilì che si trattava di suicidio. Fu
un'inchiesta piuttosto sbrigativa, non per irregolarità procedurali, ma perché
il caso apparve subito estremamente chiaro. Era stata la signora C., la
governante di Alan, che entrando in casa il martedì 8 giugno alle cinque del
pomeriggio aveva trovato il corpo disteso compostamente nel letto. (Normalmente
sarebbe dovuta andare il lunedì, ma quello era il lunedì di Pentecoste! aveva
fatto festa). C'era un po' di schiuma attorno alla bocca, e l'esame del cadavere
eseguito quella sera stessa stabilì facilmente la causa e l'ora della morte:
avvelenamento da cianuro, risalente alla notte del lunedì. In casa fu trovato un
recipiente contenente cianuro di potassio, e anche un barattolo di marmellata
pieno di una soluzione di sali di cianuro. Accanto al letto c'era una mela più
volte morsicata. La mela non venne analizzata; e quindi non fu possibile
stabilire con chiarezza che (come parrebbe evidente) la mela era stata intinta
nel cianuro.
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