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| << | < | > | >> |IndiceVII Prefazione di Stefano Zamagni 3 Prologo 7 Introduzione 12 Protestare è bene, proporre è meglio! 33 Camminare a fianco degli esclusi 53 Come riescono a sopravvivere i piccoli produttori 87 La speranza che resiste |
| << | < | > | >> |Pagina 3PrologoLa povertà del piccolo produttore non è un semplice dato economico che, a breve o medio termine, può essere modificato. È il sistema economico attuale, il neoliberismo, che crea e mantiene un tale stato di fatto. Mi si obietterà che questa non è affatto una novità, ma nel continente in cui vivo, in un paese così vicino agli Stati Uniti, il neoliberismo non è soltanto un termine logoro e abusato, è una realtà che fa rabbia. Qui, come in altre parti del mondo, i tentativi per trovare delle vie d'uscita vanno a cozzare contro un sistema economico intrinsecamente non solidale. Il modello di mercato con il quale ci confrontiamo, infatti, inibisce l'economia sociale e genera un numero sempre crescente di esclusi. La principale ragion d'essere dell'economia, la creazione di ricchezze, è oggi polverizzata dal mercato: più che le ricchezze, è la penuria a essere distribuita tra il maggior numero di persone. Un libero mercato, privo di regole e di protezione sociale, senza un'equa gestione dei bisogni e un'efficace tutela delle fasce più deboli della società, produce inevitabilmente povertà. Le ricchezze si accumulano nelle mani di pochi, siano essi imprese, banche o privati. Un accumulo smisurato ma legale o, in altri termini, la mancanza di volontà politica ed economica di ripartire equamente le ricchezze — un fine che comporterebbe modifiche strutturali del mercato. Cercare di dare impulso a un sistema solidale in seno a quello dominante mi sembra illusorio. Occorre invece cercare di instaurare un nuovo tipo di scambi commerciali in quei settori di attività che sono esclusi dall'economia "normale". Per tutti questi motivi, abbiamo cominciato da una ventina d'anni a praticare un altro genere di commercio, il commercio equo e solidale, che sfida il modello neoliberista e cerca di ridurne gli effetti. Esso è il frutto di una originale organizzazione democratica, e mette in atto un nuovo genere di strategie commerciali. Questo nuovo tipo di commercio, che oggi si è diffuso assumendo diverse denominazioni (Max Havelaar, Transfair, Commercio equo e solidale ecc.) in più di venti paesi, è nato nello Stato di Oaxaca e in quello del Chiapas, in seno a un'organizzazione indipendente, l'Unione delle cooperative indigene della regione dell'istmo (Uciri). I piccoli produttori di caffè ne sono stati, e continuano a esserne, i principali protagonisti, poiché il caffè è un prodotto leader sul mercato mondiale (al secondo posto dopo il petrolio!). Ma anche il tè, il cacao, le banane e lo zucchero hanno fatto il loro ingresso in questo mercato, poco dopo il suo lancio nei Paesi Bassi, nel 1989; sono seguiti frutta, fiori, riso, succhi di frutta, miele ecc. I principali paesi produttori sono il Messico, il Perú, il Congo, la Tanzania, l'Honduras, l'Uganda, il Guatemala, il Costa Rica e altri ancora (vedi p. 50); i più grossi importatori (in termini di quantità) sono la Gran Bretagna, la Svizzera, i Paesi Bassi, la Germania, la Francia, gli Stati Uniti, l'Italia, il Belgio, ma anche la Finlandia, la Danimarca, la Svezia, il Lussemburgo, la Norvegia, l'Irlanda e il Giappone. L'ultimo a diventare membro della Flo (Fairtrade Labelling Organizations) è stato il Messico, primo produttore e primo consumatore di prodotti del commercio equo e solidale, essenzialmente di caffè, mais e frutta. Scopo di questa nuova forma di commercio è la creazione di imprese sociali e solidali in associazione con consumatori consapevoli e responsabili, che scelgono prodotti di migliore qualità. Siamo convinti che coloro che oggi sono esclusi dal mercato mondiale possano diventare i protagonisti di domani. I piccoli produttori organizzati come noi sono formiche che si trovano di fronte dei giganti: le grandi imprese e le multinazionali. Noi non siamo in grado di entrare in concorrenza con la Nestlé, la Philip Morris, la Sara Lee o la Ciquita, e neppure lo vorremmo. Ci proponiamo invece di sviluppare un mercato, nazionale e internazionale, in cui il consumo di prodotti del "commercio equo e solidale" contribuisca alla protezione dell'ambiente e al miglioramento delle condizioni di vita, in particolare delle popolazioni autoctone che a poco a poco si organizzano in unità di produzione. Un mercato che cerchi di instaurare rapporti democratici tra i produttori del Sud e i consumatori del Nord e che favorisca un'economia sociale e sostenibile. Ho così dato inizio a un nuovo commercio, il commercio equo e solidale; in seguito, insieme ad altri, ho creato l'associazione e il marchio Max Havelaar (1988-1989), con lo scopo di promuoverlo nei moderni circuiti di distribuzione e presso i consumatori. Questo marchio garantisce al piccolo produttore un certo prezzo e al consumatore l'origine, la rintracciabilità e la qualità del prodotto. Oggi sono preoccupato per il futuro di questo commercio, perché le multinazionali cercano di creare confusione e propongono marchi "etici", lasciando intendere che i prodotti provengono da un'agricoltura solidale, o sostenibile, o chissà che altro ancora. Dobbiamo però renderci conto che quel che le multinazionali etichettano come "sostenibile" non lo è di fatto né per il produttore né per la terra. E in tutto questo che ne è del consumatore? Potrebbe essere disorientato, tratto in inganno e sentirsi preso in giro. Io non ho la pretesa di risolvere tutti i problemi, ma mi auguro di poter fornire a ciascuno elementi di valutazione esprimendo il punto di vista di chi vive l'avventura del commercio equo e solidale sin dai suoi esordi e lavora come piccolo produttore tra altri piccoli produttori. | << | < | > | >> |Pagina 12Protestare è bene, proporre è meglio!«Sempre più, in molti Paesi americani, domina un sistema noto come "neoliberismo"; sistema che, facendo riferimento a una concezione economicista dell'uomo, considera il profitto e le leggi del mercato come parametri assoluti a scapito della dignità e del rispetto della persona e del popolo. Tale sistema si è tramutato, talvolta, in giustificazione ideologica di alcuni atteggiamenti e modi di agire in campo sociale e politico, che causano l'emarginazione dei più deboli. Di fatto, i poveri sono sempre più numerosi, vittime di determinate politiche e strutture spesso ingiuste.» Potrebbe sembrare una cattiva tattica, o comunque poco prudente, quella di iniziare una riflessione con una citazione di Giovanni Paolo II, ma in quanto cristiano, religioso e prete operaio, intendo collocarmi nell'alveo della grande tradizione cristiana, e anche in quello delle altre religioni, per proporre una critica costruttiva di questo testo. Esso infatti si limita a denunciare i punti deboli del neoliberismo, con le sue conseguenze e le sue implicazioni nella vita economica, sociale, politica e culturale di milioni di abitanti su scala planetaria, ma ciò è insufficiente. Puntare il dito su un dato di fatto non serve a niente se alla constatazione non si accompagnano proposte realistiche e costruttive, che mirino a correggere un modello disastroso e senza futuro, e che contribuiscano a instaurare regole economiche in grado di alleviare il più possibile la sofferenza del maggior numero di persone. Si eviterebbero in questo modo tante guerre inutili, illegittime, si rimetterebbero in discussione i giochi di potere dei potenti, che sono sempre indice di una qualche forma di debolezza, per cercare nello stesso tempo di far sì che la terra recuperi salute e fecondità – la Madre Terra, come la chiamano i serranos della regione di Oaxaca. Limitarsi alla denuncia, accontentarsi di questo, sarebbe come ammettere che non c'è più fiducia, sarebbe un segno di debolezza. Se vogliamo assumerci le nostre responsabilità, dobbiamo spingerci più lontano. La consistenza e l'aumento, freddamente registrati dalle statistiche, del numero dei poveri, degli esclusi (o che tali diventeranno) da tutte le promesse e dagli immensi profitti del sistema neoliberista, rivelano la grande incongruenza di quest'ultimo, il suo carattere profondamente ingiusto e irrazionale. Sono troppo pessimista, o scandalizzato di fronte a tutta questa povertà, sfruttamento ed esclusione? No. Per natura sono ottimista; la mia testa non funziona senza il mio cuore, e viceversa. Ma non posso non vedere il rischio che incombe su di noi: che un giorno gli esclusi siano considerati persone inutili, con tutte le conseguenze immaginabili. Sino a oggi nessuno si è spinto a fare simili allusioni, ma i bombardamenti in Iraq e le guerre locali (Sudan, Burundi, Repubblica del Congo, per citarne solo qualcuna) "tollerate" dalla comunità internazionale, dimostrano che le politiche di esclusione sono già all'opera. Stiamo per perdere gli apporti fondamentali della cultura occidentale, quei valori universali che si fondano sulla cittadinanza: la giustizia, i diritti dell'uomo, l'equità, il rispetto reciproco ecc. La globalizzazione del potere, dell'economia di mercato, la perdita del senso della realtà concreta finiscono per deformare tutto. Al punto che un simulacro di progresso e di democrazia prende il sopravvento su questa realtà vera, che finiamo per perdere di vista. Così i valori universali stanno scomparendo e diventando superflui. Anziché promuovere la libertà e valorizzare le competenze dell'uomo, il sistema genera l'esclusione e l'assenza di un'equa distribuzione delle ricchezze. La constatazione di Giovanni Paolo II, pur se insufficiente, è comunque di fondamentale importanza, perché denuncia la "miseria della prosperità". Egli esprime il concetto che lo scacco del sistema neoliberista si misura con l'aumento del numero dei poveri e ci indica il percorso da seguire richiamandosi a un preciso insegnamento: sono i più deboli ad aprire strade nuove. L'incapacità del neoliberismo di realizzare quanto promette, rivela, tra le altre cose, il baratro esistente tra i suoi presupposti e quanto riesce a conseguire, e quindi le lacune propriamente scientifiche della teoria. Detto in altre parole, questa ideologia si sforza di dissimulare le proprie contraddizioni, ma la realtà con cui si confronta la maggior parte della popolazione mondiale rende manifesta la sua incoerenza. Il "progresso" si traduce in modo troppo sistematico in un impoverimento massiccio e in un massacro della biodiversità. | << | < | > | >> |Pagina 27Riassumendo, il commercio equo e solidale è una pratica commerciale fondata sull'efficienza economica e sulla sostenibilità sociale ed ecologica. Il prezzo di costo totale (che include i costi produttivi e sociali necessari alla riproduzione sociale dei piccoli produttori, affinché possano realmente provvedere ai bisogni quotidiani e avere accesso a un certo numero di beni collettivi) è lo strumento indispensabile all'attuazione di questo modello. Il commercio equo e solidale si conforma a suo modo alle leggi economiche generali, mentre il sistema dominante il più delle volte si limita al rendimento economico accontentandosi di professare a parole la sostenibilità sociale ed economica.Da tutto ciò si può capire quello che il commercio equo e solidale non è. Allora approfittiamone per dissipare qualche malinteso: — il commercio equo e solidale non è un aiuto allo sviluppo, anche nella sua forma migliore; — il commercio equo e solidale non disturba i normali meccanismi del mercato. Non auspica l'instaurarsi di condizioni commerciali artificiose, ma di condizioni giuste; — il commercio equo e solidale non ha nulla a che vedere con un'ideologia dell'etica che si sostituisce al commercio. Esso costituisce innanzitutto un insieme di pratiche commerciali; — il commercio equo e solidale non è una capitolazione di fronte all'ideologia neoliberista. Al contrario ne propone una trasformazione radicale; — il commercio equo e solidale auspica un commercio protetto favorendo al tempo stesso una produzione efficiente; — il commercio equo e solidale non si limita ai produttori svantaggiati che con la loro posizione marginale giustificherebbero una protezione dei prezzi. I primi a praticarlo sono stati i piccoli produttori perché oggi si trovano in una situazione critica, ma essi propongono l'apertura del mercato a tutti; — il commercio equo e solidale non costituisce una delle tante nicchie del mercato. Esso è destinato a instaurare cambiamenti che consentano l'attuazione di nuove pratiche commerciali in seno al mercato globale. Il commercio equo e solidale sviluppa quindi un'economia efficiente, ma anche sostenibile dal punto di vista sociale ed economico. Di questi aspetti si tiene conto, integrandoli nei costi, perché se vogliamo che l'umanità e l'ambiente naturale sopravvivano e, di conseguenza, anche l'economia, è diventato indispensabile adottare delle precauzioni. Questa inversione di tendenza deve diventare un obiettivo mondiale e non può più essere dilazionata: o l'economia diventa sostenibile o non sarà più valida a medio termine. In ogni caso la sostenibilità non creerà un paradiso in terra; si tratta di una scelta politica e morale che mira ad attuare le condizioni che dovrebbero consentire di ricostruire un ambiente e condizioni di vita decenti per gli uomini e le donne considerati nel loro insieme e nelle loro diversità, oggi e in futuro. | << | < | > | >> |Pagina 40Decisi quindi di lavorare come prete operaio, guadagnando lo stretto necessario per vivere senza dipendere dalla Chiesa. Volevo soprattutto mettermi personalmente alla prova, sperimentare quanto sia duro guadagnarsi la vita con le proprie mani. Vendere la propria forza lavoro in cambio di una magra ricompensa, questo è il destino della maggior parte delle persone, ed è una vita dura, che ci ferisce ma ci dà di che riflettere. D'altra parte nella mia scelta era implicita una posizione critica nei confronti della Chiesa, che predica la povertà praticando l'esatto contrario. La Chiesa pretende di aiutare i più poveri, ma nello stesso tempo sostiene i colpi di Stato militari. Non sono contrario alla Chiesa cattolica come istituzione, ma preferisco la Chiesa come movimento di massa: un popolo è sempre alla ricerca di nuovi orizzonti. Non credo in una Chiesa che detiene la verità con la "V" maiuscola, con dogmi che in realtà sono così poco fedeli ai testi sacri. La verità non esiste. Ricordiamo il mito della caverna di Platone. Per l'essere umano, individuo o collettività, esistono verità più vere di altre; verità di ordine scientifico, esistenziale, artistico, politico, economico, immaginario; una vasta gamma di verità di cui siamo tutti gli eredi, gli scopritori o di cui andiamo in cerca. Dire che Dio esiste non è una verità che appartiene all'ordine degli umani. Dio non esiste nel modo in cui pensiamo che esista. Egli è ineffabile e non ha bisogno di esistere. Una Chiesa che predica e promulga la verità non è di questo mondo: noi possiamo conoscere solo delle particelle di verità, sempre condizionate dal nostro modo di vedere, e quindi distorte. Le immagini che noi abbiamo di Dio sono il riflesso di una realtà fondamentale e inimmaginabile. Per questo i contadini hanno le loro immagini di Dio e dei loro santi patroni, riflessi di questa realtà inimmaginabile. Sanno bene che il divino, che infonde la vita nella natura e nell'anima, non può essere una realtà trasposta in immagini. Dio passa davanti alla caverna della vita e noi non ne vediamo che l'ombra deformata. L'ombra, questo riflesso della realtà, è un buon segno: è una rappresentazione a carattere sacro, un segno che riflette qualcosa di più grande e vi si riferisce. Io non predico né il brutale relativismo né l'agnosticismo, ma un atteggiamento circospetto nei confronti di tutti gli assolutismi, che ci fa percepire la diversità delle verità, come i pezzetti di un puzzle che prende forma a poco a poco. Fintanto che siamo capaci di conservare la nostra capacità di dubitare di fronte a un'idea che ci viene presentata come assoluta, resteremo capaci di scoprire nuovi orizzonti, di tracciare nuove strade.| << | < | > | >> |Pagina 59L'agricoltura moderna non si è sviluppata solo per nutrire i popoli, ma per accrescere al massimo il ritorno sugli investimenti. Si tratta di due cose ben distinte perché, a questo scopo, si costringono i conduttori di grandi fondi agricoli a produrre colture commerciali destinate principalmente all'esportazione verso i paesi ricchi e industrializzati. Ora, il più delle volte, queste colture di rendita non hanno nulla a che fare con l'alimentazione locale. Eppure i piccoli produttori hanno innanzitutto bisogno di lavorare per nutrire le proprie famiglie; e solo successivamente possono pensare a vendere il surplus della loro produzione sui mercati locali. È così che possono vivere.Alcuni studi recenti mostrano che i piccoli produttori, malgrado la loro penosa situazione, producono in proporzione più dei grandi conduttori, che comunque guadagnano più di loro grazie a una manodopera stagionale e mal retribuita. In Siria, ad esempio, secondo la Fao (Food and Agriculture Organization, l'organismo che si occupa di agricoltura e alimentazione per le Nazioni unite) la produttività più elevata si ottiene su coltivazioni con una superficie che si avvicina a mezzo ettaro. In Messico, l'ideale è di 3 ettari; in Perú di 6 ettari; in India, di meno di 1 ettaro e, in Nepal, di un po' meno dì 2 ettari. In ogni caso, la rendita per ettaro diminuisce sistematicamente appena le dimensioni della coltivazione aumentano al di sopra di queste cifre. Come mai? Perché la monocultura comporta un degrado del paesaggio, un'erosione del suolo dovuta alla meccanizzazione e a un'aratura che si spinge troppo in profondità, all'utilizzazione di input chimici e alla dissipazione delle terre ecc. In linea generale, l'economia agricola è sempre stata integrata in un'economia più vasta, quella del paese o della regione. Ma da quando è stata tolta ai contadini ogni possibilità di realizzare un plusvalore con mezzi diversi (lavoro comunitario senza retribuzione, imposte, diritti doganali, affitto della terra, tassi di interessi sui prestiti, decreti, regolamenti d'ogni genere...) sono intervenuti grandi cambiamenti. Un giorno, quando chiesi a un campesino perché facesse così fatica a vivere, mi ha risposto: «Perché ci prendono quello che abbiamo in mano ancor prima che possiamo mettercelo in tasca». | << | < | > | >> |Pagina 90Il mondo è molto cambiato, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino. Da allora, l'Occidente "libero" non è più costretto a moderare le sue mire nei confronti del mondo socialista. Il capitalismo ha vinto e può dare libero corso alle sue aspirazioni: imporre una "casa" unica, con un'unica "amministrazione", e accumulare tranquillamente in un mondo in cui la libera concorrenza la fa da padrona. Certo non si può dire che questo sistema sia una fatalità della storia. È il risultato di un'accanita volontà di imporre una costruzione totalmente artificiosa con due facce: da una parte, una situazione imposta con la forza dopo la caduta del muro e, dall'altra, una realtà costruita a favore degli interessi decisamente particolari del sistema, che trascina il mondo nella propria caduta. Da molto tempo gli economisti e i filosofi della "grande trasformazione" sanno per certo che queste idee hanno conseguenze concrete. All'Università di Chicago, un gruppo minoritario diretto dall'economista e filosofo Friedrich von Hayek, sostenuto da alcuni economisti come Milton Friedman, ha creato reti internazionali di istituti, centri di ricerca, fondazioni, pubblicazioni, in tutti i paesi del Nord, che riescono a promuovere le sue idee sulla società meglio di quanto accadesse prima della caduta del muro. Questo gruppo, poco noto e influente ai suoi esordi, è comunque riuscito a imporre la "religione globale" più diffusa e più potente che ci sia, con la sua dottrina dogmatica, i suoi sacerdoti, le sue istituzioni e le sue leggi (spesso senza alcun controllo democratico, come si è verificato nel caso del Gatt e dell'Omc): l'inferno promesso ai pagani e ai peccatori che osassero contraddire la "verità rivelata", o a tutti coloro che arrivassero troppo tardi nel santuario o in chiesa.
Queste persone hanno perfettamente compreso i concetti di Antonio Gramsci
sull'egemonia culturale: imporsi nel pensiero, introdursi nel cuore delle
persone equivale a prendere il potere su di loro. E in questo modo che sono
riuscite a far credere a tanta gente, leader economici, intellettuali e
soprattutto politici, che il neoliberismo fosse l'unico ordine economico e
sociale possibile, che fosse alla portata di tutti e che avrebbe salvato il
mondo. Sono addirittura riuscite a persuadere funzionari ecclesiastici e teologi
come Michael Novak, per citare soltanto il più noto. Che importanza hanno i
disastri di ogni genere, le crisi economiche, il numero dei perdenti e degli
esclusi? Questo sistema resiste, imperturbabile, come se un mondo in cui i
forti hanno più diritto di vivere dei deboli fosse fatalmente volontà di Dio o
della Natura.
Fatti eloquenti 1. Quando Margaret Thatcher, allieva di Friedrich von Hayek, era primo ministro, giustificava la propria politica neoliberista con una sola parola: Tina (There is no alternative, non c'è alternativa). L'idea guida della sua dottrina era la concorrenza: concorrenza tra nazioni, regioni, imprese e, naturalmente, individui. La concorrenza è fondamentale perché è quella che autorizza a separare il grano dal loglio, i forti dai deboli, i buoni dai cattivi, gli intelligenti dagli stupidi; in parole povere, coloro che sono esclusi da coloro che non lo sono. Che differenza dai precetti di Lao Tzu, che nel suo Tao Teh Ching raccomanda: «La virtù che non rivaleggia, l'arte di guidare gli uomini e l'unione con le leggi cosmiche»... Le multinazionali sono le sole a mettere a profitto il suo consiglio: fanno buoni affari tra loro, preferendo stringere le loro alleanze capitaliste passandosi reciprocamente il comando, e commerciando e negoziando tra loro. Dato che la concorrenza è considerata una virtù assoluta, i suoi risultati non possono essere cattivi. Il mercato è così intelligente e positivo — è la "mano invisibile" di Dio — che riesce sempre a cavare qualcosa di buono anche da una cosa cattiva. È così che la signora Thatcher, primo ministro, è arrivata a dire in un suo discorso: «Il nostro lavoro consiste nell'esaltare la diseguaglianza al fine di dare tutte le opportunità a coloro che sono dotati di talento, e questo per il bene di tutti». Non vi è quindi alcun motivo di preoccuparsi per coloro che restano ai margini della concorrenza. Che se ne occupino i filantropi! Ma sia ben chiaro che gli individui sono per natura diseguali! | << | < | > | >> |Pagina 95Noi non ci opponiamo a una liberalizzazione del mercato. Le barriere fiscali, i protezionismi, i pregiudizi commerciali internazionali ecc. non hanno favorito la coesistenza pacifica tra i popoli. Al contrario, sono stati causa di molti conflitti a tutti i livelli, mondiale, nazionale o locale, e di una ripartizione diseguale del bene comune. Un protezionismo superato si è presentato come la variante di un capitalismo favorevole alle grandi potenze economiche. È infatti dal protezionismo degli anni trenta che sono nate le prime multinazionali; queste, ponendosi a un livello internazionale, cercavano di sfuggire alle leggi che le penalizzavano, traendo vantaggio da quelle stesse leggi a livello nazionale. Gli interventi statali in campo economico hanno prodotto incompetenza, corruzione e anche disastri sociali. D'altra parte un libero scambio senza limiti e che non si faccia carico dei problemi sociali, senza misure di equità né di protezione della fasce deboli ed emarginate, senza regole né esigenze ecologiche e culturali, non genera un'economia libera, bensì il liberismo economico. La libertà degli uomini ha bisogno di un regime economico limitato e condizionato dalle esigenze dell'uomo e dell'ambiente nel senso più ampio.
Noi ci siamo opposti tanto all'interventismo statale quanto all'economia
neoliberista e proponiamo, in cambio, un'economia sociale sostenibile. Si tratta
di un protezionismo di un genere nuovo, suscettibile di garantire la protezione
dell'ambiente naturale, di ridurre le diseguaglianze economiche e di rispondere
correttamente agli imperativi sociali e umani di tutti, non soltanto dei
privilegiati. Il protezionismo è una buona cosa, a condizione che se ne
correggano le applicazioni pregiudizievoli che ne sono state fatte in passato.
Noi proponiamo un'economia di integrazione e di vita che abbracci le tre "E":
economia, ecologia ed equità.
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