Copertina
Autore Anne Holt
Titolo La dea cieca
EdizioneEinaudi, Torino, 2010, Stile libero Big , pag. 386, cop.fle., dim. 13,5x20,8x2,2 cm , Isbn 978-88-06-19897-8
OriginaleBlind gudinne [1993]
TraduttoreGiorgio Puleo
LettoreLuca Vita, 2010
Classe narrativa norvegese , gialli
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Pagina 5

Lunedí 28 settembre, flashback


Centrale di polizia, Grønlandsleiret 44, Oslo. Un indirizzo senza connotazioni storiche; non come Møllergata 19, la vecchia centrale, e ancor meno come Victoria terrasse, con i suoi maestosi edifici governativi. Grønlandsleiret 44 suonava squallido, grigio e moderno, con un retrogusto di incompetenza statale e contrasti interni. Un palazzone grande e leggermente incurvato, come se non avesse saputo resistere a una gigantesca folata di vento, era incastrato fra una chiesa e la prigione, con alle spalle Enerhaugen, l'ex quartiere proletario di povere case in legno che erano state rase al suolo; a proteggerlo dalla strada piú trafficata e inquinante della città, non restava che un enorme spiazzo erboso. L'ingresso era tetro e scoraggiante, troppo insignificante in rapporto a una facciata lunga ben duecento metri; si apriva in un angolo, quasi dimenticato, come per rendere l'accesso difficile e la fuga impossibile.

L'avvocato Karen Borg arrivò alle nove e mezza di lunedí mattina, risalendo a piedi la strada asfaltata che conduceva all'entrata. La distanza ideale per ritrovarsi coi vestiti madidi. Era sicura che perfino la collina fosse artificiale, che l'avessero deliberatamente costruita affinché chiunque arrivava alla centrale di polizia fosse almeno un po' sudato.

Spinse la pesante porta di metallo ed entrò nell'atrio. Se avesse avuto meno fretta, avrebbe notato l'invisibile linea di confine sul pavimento. Alcuni norvegesi che volevano andare all'estero facevano la coda davanti all'ufficio passaporti, dal lato soleggiato dell'enorme stanzone. Sul lato nord, ammassate sotto la galleria, svariate persone di colore aspettavano trepidanti e con le mani sudate di conoscere il proprio destino all'ufficio immigrazione.

Ma Karen Borg non aveva tempo. Gettò uno sguardo alla galleria e lungo le pareti: porte e linoleum blu da un lato, porte e linoleum gialli dall'altro, verso sud. A ovest due angusti corridoi rossi e verdi svanivano nel nulla. Quell'enorme spazio aperto continuava per tutti e sette i piani. Piú tardi si sarebbe resa conto dell'estremo spreco di spazio rappresentato da quell'edificio; gli uffici erano claustrofobici. Dopo pochi giorni trascorsi li dentro, avrebbe capito che il piú importante era il settimo piano, il quale ospitava l'ufficio del capo della polizia e la mensa. E soprattutto, invisibili dall'atrio come il Signore in cielo, vegliavano gli uomini dei servizi di sicurezza.

«Come in un asilo, - pensò Karen Borg, quando si accorse che i colori erano un codice. - Per essere certi che trovino tutti il loro ufficio».

Doveva andare al terzo piano, la zona blu. A quanto pareva gli ascensori, tre cabine dalle porte metallizzate, volevano costringerla a prendere le scale. Dopo aver trascorso quattro minuti a osservare i numeri dei piani accendersi dall'alto verso il basso e viceversa, senza che si illuminasse mai il simbolo del pianterreno, si rassegnò. Prese le scale.

Aveva scarabocchiato il numero a quattro cifre dell'ufficio su un foglietto. Non le fu difficile trovarlo. Sulla porta blu erano ben visibili le impronte appiccicaticce di alcuni adesivi rimossi. Topolino e Paperino però avevano opposto un'accanita resistenza e le sorridevano, con metà faccia e senza gambe. Sarebbe stato meglio se li avessero lasciati in pace. Karen Borg bussò. Udí una voce rispondere ed entrò.

Håkon Sand non pareva di ottimo umore, anzi. C'era un percettibile odore di dopobarba, e su una sedia, la sola a parte quella che occupava lui, c'era un asciugamano umido. Karen Borg notò che aveva i capelli bagnati.

Sand si alzò, prese l'asciugamano, lo gettò in un angolo e le fece cenno di sedersi. Il sedile era umido. Lei vi si accomodò lo stesso.

Håkon Sand e Karen Borg erano vecchi amici che non si vedevano quasi mai. Si scambiavano sempre le solite, logore frasi di circostanza: «Come stai?», «Sono secoli che non ci vediamo», «Una sera dobbiamo andare a cena». Ripetevano quel copione ogni volta che gli capitava di incontrarsi, che fosse per strada o a casa di amici comuni, piú bravi di loro a tenere i contatti.

- Grazie di essere venuta. Mi fa piacere, - disse lui d'improvviso. Ma non sembrava fargli veramente piacere. Il suo sorriso di benvenuto era appena abbozzato e stanco, dopo ventiquattr'ore di lavoro ininterrotto. - Il nostro nega tutto. Continua a ripetere che vuole te come avvocato.

Karen Borg si accese una sigaretta. Sfidando tutti gli avvertimenti, fumava le Prince originali. Quelle con il motto «Anch'io fumo Prince», con il tasso piú alto di nicotina e catrame e con uno spaventoso avviso in rosso del ministero della Sanità. Nessuno scroccava mai una sigaretta a Karen Borg.

- Non dovrebbe essere difficile fargli capire che è impossibile. Primo, dato che sono stata io a trovare il cadavere, in qualche modo sono una testimone. Secondo, non sono un'esperta di diritto penale. Mai aperto il codice, dopo la laurea. E sono passati sette anni da allora.

- Otto, - la corresse lui. - Sono passati otto anni da quando ci siamo laureati. Tu hai preso il terzo miglior voto su centoquattordici candidati. Io sono arrivato quintultimo. È chiaro che sei un'esperta di diritto penale, se vuoi.

Era irritato, e Karen ne fu contagiata. Di colpo le tornò in mente lo stato d'animo che poteva crearsi fra loro quando studiavano. I suoi risultati, sempre ottimi, erano in netto contrasto con quelli di Håkon, che era arrivato alla discussione della tesi con enorme fatica e non ce l'avrebbe mai fatta senza il suo aiuto. Per tutto il corso di studi lei lo aveva spronato, blandito e minacciato come se sopportare il successo le fosse piú facile, con quel fardello sulle spalle. Per motivi che non avevano mai compreso, forse perché non ne avevano mai parlato, entrambi pensavano che fosse lei ad avere un debito di riconoscenza e non viceversa. Quella sensazione di dovergli qualcosa l'aveva sempre infastidita. Nessuno avrebbe saputo spiegare perché fossero inseparabili, all'università. Non erano mai stati fidanzati né si erano mai scambiati una carezza, neppure quando avevano bevuto troppo; avevano continuato a essere una strana coppia di amici, indivisibili, litigiosi, uniti da una premura reciproca che li aveva resi immuni alle tante insidie della vita studentesca.

- E per quanto riguarda il tuo status di testimone, me ne frego altamente. La cosa piú importante è che il nostro inizi a parlare. È ovvio che non lo farà finché non ti avrà come avvocato difensore. Affronteremo la faccenda della testimonianza piú tardi, se necessario. Tanto ce ne vorrà di tempo.

«La faccenda della testimonianza». La terminologia giuridica di Håkon Sand non era mai stata particolarmente professionale, e Karen Borg faceva ancora fatica a sopportarla. Håkon Sand era un politiadjutant, quindi avrebbe dovuto difendere la legge e l'ordine. Karen Borg avrebbe voluto continuare a credere che la polizia prendesse la giurisprudenza sul serio.

- Ma non potresti almeno parlargli?

- A una condizione. Devi darmi una spiegazione verosimile di come fa a sapere chi sono.

- Devo confessare che è stata colpa mia.

Håkon Sand sorrise. Provava lo stesso sollievo di quando Karen gli spiegava una cosa che lui aveva letto dieci volte senza capirla. Andò a prendere due caffè in anticamera.

E poi iniziò a raccontarle la storia del giovane cittadino olandese, la cui unica attività professionale - secondo le prime ipotesi investigative - era stato il traffico di stupefacenti in Europa. La storia di come quell'olandese, che adesso era rinchiuso muto come un'ostrica in uno dei luoghi meno accoglienti della Norvegia, una cella nella centrale di polizia di Oslo, conoscesse Karen Borg. Un avvocato trentacinquenne specializzato in diritto commerciale, tanto bravo quanto sconosciuto al grande pubblico.

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Domenica, 11 ottobre


La relazione che Hanne Wilhelmsen aveva con il dipartimento di polizia era paragonabile a quella che, nei suoi momenti piú romantici, immaginava che un pescatore avesse con il mare. Era indissolubilmente legata alla polizia e non avrebbe potuto neanche pensare a una carriera diversa. Aveva scelto la polizia a vent'anni, interrompendo drasticamente la lunga e radicata tradizione accademica della sua famiglia. Era stato un gesto di ribellione verso i suoi genitori, cosí cattedratici, cosí profondamente borghesi. La sua scelta di vita era stata accolta da un silenzio assordante - solo sua madre si era nervosamente schiarita la gola a un pranzo domenicale - ma anche accettata con relativa compostezza. Adesso la trattavano come fosse una specie di mascotte: la parente che raccontava le storie piú divertenti alle riunioni familiari di Natale. Hanne era l'alibi con cui la sua famiglia avvicinava la realtà della vita, e lei adorava il suo lavoro.

Allo stesso tempo lo temeva. Aveva iniziato a notare quale effetto avessero sulla sua mente e la sua anima gli omicidi, gli stupri, la violenza e gli abusi cui assisteva ogni giorno. La avvolgevano come un lenzuolo bagnato. Anche se aveva preso l'abitudine di stare a lungo sotto la doccia quando tornava a casa dal lavoro, aveva la sensazione che il suo corpo emanasse sempre l'odore della morte, cosí come le mani dei pescatori puzzano sempre di interiora. E come immaginava che, dopo generazioni e generazioni sul mare, i pescatori avvertissero un riflesso condizionato lungo la spina dorsale quando captavano segni piú o meno percettibili di pesci - i gabbiani che volteggiavano sopra un certo punto, le balene che cacciavano in branco -, cosí Hanne Wilhelmsen lasciava che il subconscio analizzasse tutti i dati che aveva. Non c'era informazione che non portasse da qualche parte. Il pericolo era legato al costante sovraccarico di lavoro. A Oslo, la criminalità aumentava piú rapidamente dei fondi statali per la polizia.

Cercava sempre di non dedicarsi a piú di dieci casi allo stesso tempo, obiettivo che troppo spesso non riusciva a rispettare. A un angolo della scrivania erano impilate in equilibrio precario parecchie cartelle verdi di vario spessore che parevano minacciarsi l'un l'altra. Anche nel periodo di lavoro eccezionale che si era appena lasciata alle spalle aveva sempre cercato di trovare il tempo per studiare la pila di documenti e compilare il modulo d'archiviazione per la maggior parte dei casi. Sentendosi totalmente inadeguata e allo stesso tempo certa della colpevolezza del sospetto, era costretta ad arrendersi e, sentendosi colpevole lei stessa, a lasciare che l'ufficio legale apponesse il timbro del codice 58, «Caso archiviato per mancanza di prove». In quel modo un altro criminale veniva rilasciato e lei non doveva piú sprecare tempo a seguire il suo caso, sperando di avere dato le giuste priorità. Se quel fardello era tanto pesante, dipendeva anche dal fatto che non incontrava mai alcuna opposizione da parte dei procuratori. Si fidavano di lei, e davano soltanto una rapida scorsa agli incartamenti per poi accogliere immancabilmente le sue proposte. Hanne Wilhelmsen sapeva benissimo che la pila di cartelle verdi era un incubo anche per loro.

Era domenica. Davanti a sé, Hanne aveva ventun cartelle. Le aveva suddivise secondo la gravità del reato. Si sentiva una gran svogliatezza addosso, ma sapeva che doveva e poteva scrollarsela di dosso. Nessuno dei casi sembrava pronto per l'archiviazione. Undici erano chiaramente previsti dal paragrafo 228/229, aggressione e danno fisico. Forse per alcuni poteva proporre un decreto penale, così se ne sarebbe liberata in modo legittimo e pratico.

Tre ore dopo lo aveva proposto per sette casi, episodi piú o meno gravi di violenza perpetrata dal cliente ubriaco di un ristorante o da un buttafuori troppo solerte. Con un certo sforzo di volontà, si poteva stabilire che su altri due casi si fosse investigato quanto bastava, anche se sarebbero indubbiamente servite un paio di testimonianze in piú. Nella speranza che i tribunali fossero in grado di riconoscere un delinquente quando se lo trovavano davanti, Hanne scrisse le sue proposte ai procuratori.

Le domeniche erano perfette per lavorare. Nessuna telefonata, nessuna riunione e pochi colleghi con cui scambiare quattro chiacchiere compiaciute, lodandosi l'un l'altro perché si era li nel giorno festivo, senza paga e senza un grazie da parte di nessuno, soltanto con la consapevolezza che il lunedí sarebbe stato molto piú leggero.

Si udivano delle voci in cortile. Hanne Wilhelmsen andò alla finestra per vedere chi fosse. Notò un gran numero di reporter e fotografi e si ricordò che era prevista la visita del ministro della Giustizia. - Perché proprio di domenica? - aveva borbottato il capo della Omicidi quando il numero uno della polizia glielo aveva annunciato. La risposta era stata di farsi gli affari suoi. Hanne Wilhelmsen sospettava che la scelta di quel giorno fosse legata ai quotidiani: avevano piú spazio a disposizione per notizie simili il lunedí piuttosto che la domenica, quando invadevano il Paese con le loro enormi tirature. Il lunedí si assottigliavano, quindi era molto piú facile farsi pubblicare. La visita del ministro era il risultato dei tanti articoli sulle pessime condizioni delle celle in centrale; allo stesso tempo, il guardasigilli avrebbe avuto la possibilità di discutere con il capo della polizia del minaccioso aumento della violenza nelle strade, quella che i giornalisti amavano chiamare «violenza gratuita»: definizione del tutto inesatta per chi aveva accesso ai rapporti su quei casi, e normalmente i giornalisti non l'avevano. Per questo non capivano che il problema non era l'assenza di provocazione, ma che le liti finivano a coltellate o a calci e pugni, invece che a invettive come ai vecchi tempi.

Hanne era arrivata a dodici casi irrisolti. Stava avvicinandosi al suo obiettivo e iniziava a sentirsi meglio. Prese la cartella piú spessa.

Non si erano avvicinati granché a trovare una risposta al perché Ludvig Sandersen fosse stato mandato in maniera cosí brutale in quel mondo che alcuni definiscono migliore. Hanne Wilhelmsen sperava di sbagliarsi e che adesso Ludvig Sandersen fosse seduto su una nuvola con una tunica candida a godersi in grande stile quella polvere bianca che aveva reso la sua vita terrena cosí miserabile.

Il caso non era ancora stato collegato all'omicidio dell'avvocato Olsen. Lei ne aveva parlato con Håkon Sand venerdí, e la sua impressione era che ci fossero abbastanza elementi per ufficializzare il collegamento. Ma Sand si era opposto. - Aspettiamo ancora un po', - le aveva detto. Hanne però sentiva che era arrivato il momento di analizzare i due casi in parallelo. Allontanò la pila di fascicoli e tolse i piedi dal tavolo, lasciando sbattere i tacchi sul pavimento. Cercò nella borsa il passe-partout che apriva gli uffici degli altri investigatori. Il dossier era nella stanza di Heidi Rørvik, la seconda lungo il corridoio.

Appena uscita, si guardò intorno. Il corridoio era deserto, com'era normale di domenica pomeriggio. Mentre infilava la chiave nella serratura dell'ufficio di Heidi, però, intuí - piú che sentire - un rumore di passi dietro di sé. Si girò, ma era troppo tardi. Il colpo, sferrato con un oggetto che non riuscí a vedere, la prese con forza alla tempia. La testa le esplose in una miriade di luci e, prima ancora di crollare a terra, si rese conto di sanguinare copiosamente. Cercò di frenare la caduta, ma i muscoli non le ubbidivano piú. Batté sul pavimento con la tempia sinistra. Non se ne accorse. Ebbe la fugace ma intensa sensazione della vita che se ne andava e poi perse conoscenza, sprofondò in un buio che le risparmiò di provare dolore quando la pelle le si squarciò. Una ferita beffarda sui suoi occhi chiusi.

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Venerdí, 6 novembre


Andare a trovare il suo povero cliente ogni venerdí pomeriggio era diventata una consuetudine. Lui non diceva una parola, ma a modo suo - un modo un po' strano - sembrava apprezzare le sue visite. Tutto ingobbito e secco come un chiodo, il suo sguardo era ancora e sempre vago, ma le pareva di intravedere un accenno di sorriso quando si incontravano. Anche se Han Van der Kerch si era opposto al trasferimento in un vero carcere finché era stato padrone delle proprie azioni, adesso era rinchiuso nel penitenziario di Oslo, reparto B. Karen Borg aveva ottenuto il permesso di andare a trovarlo in cella: non era consigliabile portarlo avanti e indietro dal parlatorio. La cella era piú luminosa, e gli agenti di custodia sembravano gentili e solerti, nella misura in cui il carico di lavoro glielo consentiva. A ogni visita, la porta veniva sprangata alle sue spalle, ed essere rinchiusa le dava una strana sensazione di benessere, la stessa che provava quando, da bambina, si nascondeva nel sottoscala a Kalfaret, ogni volta che il mondo le pareva un luogo troppo ostile. Le visite in carcere erano diventate un'occasione per meditare. Rimaneva seduta davanti a quel ragazzo silenzioso e ascoltava i suoni tipici della prigione: un inserviente che percorreva il corridoio con un carrello sferragliante, l'eco di parolacce e risate, il pesante tintinnio delle chiavi quando un secondino passava davanti alla porta.

Quel giorno, lui sembrava meno pallido del solito. Karen si senti i suoi occhi addosso da quando entrò a quando gli sedette accanto sulla branda. Gli prese la mano; dopo un attimo, senti una stretta in risposta, una pressione quasi impercettibile, ma che lei fu sicura di avvertire. Con una sorta di ottimismo esitante, si chinò in avanti e gli tolse i capelli dalla fronte. Gli erano cresciuti troppo e ricaddero subito. Continuò ad accarezzargli la fronte, a ravviargli i capelli con le dita. Doveva dargli una sensazione di benessere, perché chiuse gli occhi e si chinò a sua volta su di lei. Rimasero cosí per diversi minuti.

- Roger, - mormorò il giovane. Era stato zitto cosí a lungo che la voce gli usci roca e stridula.

Karen Borg non reagí. Continuò ad accarezzargli i capelli senza fare domande.

- Roger, - ripeté l'olandese, stavolta a voce piú alta. - Il tipo che vende auto usate a Sagene. Roger.

E si addormentò. Aveva il respiro regolare e le pesava addosso. Karen si alzò piano piano, lo sistemò in una posizione piú comoda e non seppe trattenersi dal baciargli lievemente la fronte.

- Roger a Sagene, - mormorò. Poi batté appena sulla porta e due minuti dopo usci dalla cella.


- Niente. Assolutamente niente.

Håkon Sand afferrò la spessa cartella e la sbatté sul tavolo. Il fascicolo gli sfuggi di mano e i fogli che conteneva si sparsero sul pavimento.

- Merda, - esclamò e si chinò a raccoglierli. Hanne Wilhelmsen si mise carponi per aiutarlo. Rimasero tutti e due a quattro zampe, a guardarsi negli occhi.

- Non mi ci abituerò mai. Mai! - sbottò lui con veemenza.

- A cosa?

- A questo. Sappiamo che è stato commesso un crimine, che qualcuno ha commesso un crimine, sappiamo perfino chi è stato a commettere quel crimine e perché ha commesso quel crimine, sappiamo un sacco di cose, cazzo. Ma possiamo provarlo? Nossignore, ce ne stiamo seduti qui come eunuchi, impotenti, con tutto e tutti che ci remano contro. Sappiamo tanto, oh quante cose sappiamo, ma se osiamo andare in tribunale con ciò che sappiamo, l'avvocato difensore arriva e fa a pezzi ogni singolo indizio con delle spiegazioni apparentemente logiche. Smonta questo, smonta quello e alla fine ciò che sapevamo si trasforma in una pappetta di fatti incerti buona solo per invocare il ragionevole dubbio. Detto fatto! Cosí l'uccellino vola via dalla gabbia e la certezza del diritto è salva. Per chi? Non certo per me. La certezza del diritto è diventato uno strumento utile ai colpevoli, cazzo. Il che significa, in pratica, che dobbiamo sbattere dentro meno gente possibile. Questa non è certezza del diritto! E chi è stato ucciso, derubato o rapinato? E i bambini che subiscono abusi, e le donne stuprate? Cristo, avrei voluto fare lo sceriffo nel Far West. Quando sapevano, agivano. Legavano una corda all'albero piú vicino e gli spezzavano il collo, ai criminali. Una stella e un cappello da cowboy sarebbero un principio della legalità molto ma molto migliore per la gente che sette anni di giurisprudenza e dieci giurati stupidi. L'Inquisizione. Quella sí che funzionava. Giudice, pubblico ministero e difensore in un'unica persona. Almeno agivano, invece di fare tante ciance sulla certezza del diritto per assassini e delinquenti.

- Mica ci credi a quello che dici, Håkon, - mormorò Hanne, raccogliendo gli ultimi fogli. Dovette praticamente sdraiarsi per recuperare la trascrizione di un interrogatorio che era finita sotto la libreria. - Non ci credi davvero, - ripeté da lí sotto, con voce mezza soffocata. - Non dirmi che ci credi? - ripeté.

- Be', non completamente, ma quasi.

Si sentivano tutti e due frustrati. Era venerdí ed era quasi sera. Le ore di straordinario non si contavano piú. Hanne le sopportava meglio di lui. Si sedettero e iniziarono a riordinare i documenti.

- Ragguagliami, - le ordinò lui quando ebbero finito.

Non ci volle molto tempo. Håkon sapeva già che le prove tecniche scarseggiavano e l'indagine tattica era ferma. In tutto erano stati interrogati quarantadue testimoni. Non uno di loro aveva contribuito a fare minimamente luce sul caso o fornito una pista da seguire, per quanto vaga.

- E Lavik? Tenerlo d'occhio è servito a qualcosa?

Håkon Sand mise da parte la cartella, prese una bottiglia di birra da una sporta del supermercato e tolse il tappo facendo leva sul bordo della scrivania, da cui si staccò una piccola scheggia di legno. Tolse un pezzetto di vetro dal collo della bottiglia.

- Weekend, - si scusò. Si portò la birra alle labbra, ma era calda, la schiuma traboccava e lui dovette piegarsi in avanti e spostare le gambe per non versarsela addosso. Poi si asciugò le labbra, in attesa di una risposta.

- No. Con le risorse che abbiamo, sorvegliarlo ventiquattr'ore su ventiquattro è impossibile. È come fare un terno al lotto. Per quel che serve sorvegliarlo cosí, tanto vale lasciar perdere. È frustrante e basta.

- Cosa avete scoperto del suo giro d'affari?

- Andare a fondo richiederebbe un lavoro enorme. Ha seguito diversi progetti alberghieri in Estremo Oriente. Bangkok. Non molto lontano dal mercato dall'eroina. Ma gli investitori per cui ha lavorato sono persone serie e gli alberghi esistono. Un incarico assolutamente regolare, in sé e di per sé. Se riesci a trovare i fondi, vado volentieri in Thailandia a controllare piú da vicino.

Hanne inarcò le sopracciglia e fece una smorfia per sottolineare quanto credesse veramente alla possibilità che una simile stravaganza budgetaria venisse approvata. Fuori era ormai buio, e la stanchezza che pervadeva entrambi, insieme al vago odore della birra, conferivano a quel piccolo ufficio un'atmosfera di pace casalinga.

- Siamo ancora in servizio?

Håkon Sand capí a cosa alludeva Hanne, scosse la testa con un sorriso e le porse una birra dopo averla aperta come la precedente, facendo di nuovo gemere la scrivania ma senza scheggiare il collo della bottiglia, stavolta. Hanne la prese ma la posò subito e usci senza dire niente. Due minuti dopo era tornata e cercava di far stare dritte due candele sul piano del tavolo. Alla fine, dopo aver seminato cera ovunque, ci riuscí, anche se ciascuna pendeva da un lato diverso. Poi andò a spegnere la lampada centrale mentre Håkon girava quella da tavolo verso il muro. Nella stanza si diffuse un morbido lucore.

- Se qualcuno entrasse adesso ne partirebbero, di pettegolezzi.

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Si erano dimenticati della cintura. Non gli era permesso tenere effetti personali. Perché si erano dimenticati della cintura? Quando erano venuti a prenderlo in cella per portarlo all'interrogatorio con la poliziotta del cioccolato, i pantaloni gli erano caduti non appena si era alzato in piedi. Aveva cercato di tenerli su, ma quando gli avevano messo le manette erano caduti di nuovo. I due agenti biondi avevano mandato un secondino a prendere la sua cintura dal deposito ed erano stati costretti a fare un buco in piú con le forbici. Gentile da parte loro. Ma perché non gliel'avevano tolta dopo averlo riportato in cella? Se n'erano dimenticati, per forza. Cosí lui se l'era tolta e l'aveva nascosta sotto il materasso. Quella notte si era svegliato diverse volte e aveva controllato che fosse ancora lí. Non se l'era sognata.

Era un piccolo tesoro. Per tutto il giorno, la cintura segreta lo aveva reso felice. Era qualcosa che gli altri non sapevano, qualcosa che aveva e non avrebbe dovuto avere. Una specie di vantaggio. Per due volte, subito dopo il giro di controllo del secondino, se l'era infilata saltando per la fretta alcuni passanti, poi aveva iniziato ad aggirarsi per la cella coi calzoni belli saldi sui fianchi e un gran sorriso stampato in faccia. Pochi minuti, non di piú, e l'aveva rinascosta sotto il materasso.

Cercò di sfogliare la rivista che gli avevano dato. Si sentiva al settimo cielo, ma non riusciva a concentrarsi: pensava solo a quello che aveva intenzione di fare. Prima però doveva scrivere una lettera. Non ci mise molto. Chissà se le avrebbe fatto piacere. Era una donna gentile, e aveva mani delicate. Le ultime due volte che era venuta a trovarlo, lui aveva finto per dormire. Con un sorriso sulle labbra. Era cosí piacevole essere accarezzato sulla schiena. Sentire le sue mani.

Aveva finito di scrivere la lettera. Spostò lo sgabello della scrivania sotto la finestrina ritagliata nella parte alta del muro. Ci sali sopra e, allungandosi il piú possibile, riuscí a malapena a passare la cintura intorno a una sbarra. La annodò sperando che tenesse. Prima l'aveva infilata nella fibbia per fare un cappio. Un bel cappio robusto, in cui poteva facilmente infilare la testa.

L'ultimo pensiero fu per sua madre in Olanda. Per una frazione di secondo si penti della sua decisione, ma era troppo tardi. Lo sgabello si era già rovesciato a terra e il cappio si era stretto in un lampo. Cinque secondi gli bastarono per capire che non si era spezzato l'osso del collo.

Poi, con la cintura che impediva al sangue pompato alla testa dalle arterie carotidee di tornare al cuore, tutto divenne buio. Nel giro di pochi minuti la lingua, blu e gonfia, gli penzolava dalla bocca, e gli occhi sporgevano come quelli di un pesce spiaggiato. Han Van der Kerch era morto, a soli ventitre anni.

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Seduta a un tavolo di pino, vicino a una finestra con la grata e le tendine a quadretti rossi, Karen Borg stava mangiando con un appetito completamente diverso. La terza fetta di pane tostato stava per fare la fine delle prime due, mentre la sua boxerina, con la testa appoggiata sulle zampe, la fissava con due occhi melanconici e imploranti.

- Piantala di fare la questua, - le disse, riprendendo a leggere il romanzo che aveva davanti. Dalla radio, un vecchio modello portatile che campeggiava su una mensola della cucina, arrivavano dei toni sommessi che le facevano compagnia.

Il cottage era in cima a un colle, e offriva un panorama che da bambina credeva arrivasse fino alla Danimarca. A otto anni immaginava di vedere il pianeggiante Paese a sud della Norvegia, e lo vedeva davvero, con le sue betulle e i suoi abitanti gentili. Nonostante le battute del fratello maggiore e le spiegazioni scientifiche di suo padre, lei aveva conservato quell'immagine fino a dodici anni, quando aveva cominciato a dissolversi; e l'estate prima delle superiori, l'intera Danimarca era affondata in mare. Scoprire che le cose erano diverse da come le aveva sempre immaginate era stata una delle esperienze di crescita piú dolorose che avesse vissuto.

Non aveva avuto problemi a riscaldare la casa. Il cottage era ben isolato contro il freddo invernale, aveva un buon impianto elettrico e c'era ancora una temperatura piacevole da quando, la domenica prima, i termosifoni erano stati accesi. Karen non aveva osato mettere in moto la pompa dell'acqua, c'era il pericolo che le tubature gelassero. Ma non aveva importanza, il pozzo era a un tiro di pietra dalla porta.

Dopo due giorni si sentiva serena come non le capitava da molto tempo. Per sicurezza teneva il cellulare acceso, ma soltanto l'ufficio e Nils avevano il numero. Lui l'aveva lasciata in pace. Le ultime settimane erano state stressanti per entrambi. Rabbrividí al pensiero del suo sguardo ferito, interrogativo, dei suoi vani tentativi di venirle incontro. Il rifiuto era diventato un'abitudine. Conversavano educatamente del lavoro, delle novità, delle esigenze e dei doveri quotidiani. Ma senza intimità, senza comunicare davvero. Forse, quando gli aveva detto che sarebbe partita, Nils si era sentito addirittura sollevato, anche se aveva cercato di protestare tra lacrime e preghiere inutili. In ogni caso, dopo la telefonata di rito con cui gli aveva assicurato che era arrivata senza problemi, non si erano piú parlati. E per quanto fosse contenta che Nils rispettasse il suo desiderio di essere lasciata in pace, un po' le dispiaceva che ci riuscisse con tanta facilità.

Scrollò le spalle, rovesciando qualche goccia di tè nel piattino. Quel movimento brusco fece alzare la testa alla boxerina. Le gettò un pezzo di formaggio, e la cagna lo prese al volo.

- Non sperare che te ne dia un altro, - disse Karen. Inutile: con la bava alla bocca, la boxerina sperava in un secondo assaggio.

D'improvviso, Karen saltò in piedi e alzò il volume della radio. La manopola non funzionava a dovere, a girarla aumentavano soltanto i crepitii. Lavik era in prigione! Dio, quella sí che era una bella vittoria per Håkon. Un altro invece, un uomo di cinquantadue anni, era stato rilasciato, ma sia lui sia l'avvocato avevano fatto ricorso. Doveva trattarsi di quel Roger. Perché liberare uno e trattenere l'altro? Lei avrebbe giurato che li avrebbero incarcerati o rilasciati tutti e due.

Ma la radio non diede altri dettagli. Impossibile capire.

Piano piano, un rimorso strisciante le si insinuò nella coscienza. Aveva promesso a Håkon di telefonargli, se fosse partita. Non lo aveva fatto. Non ne aveva avuto la forza. Forse lo avrebbe chiamato in serata. Forse.

Aveva finito di fare colazione e la boxerina si era conquistata ben due pezzi di formaggio. Decise di lavare i piatti prima di andare a comprare i giornali nel negozio a due chilometri dal cottage. Sarebbe stato interessante seguire gli sviluppi del caso.

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