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| << | < | > | >> |Pagina 51.La consapevolezza che la sua vita si sarebbe conclusa di lí a pochi secondi lo spinse finalmente a chiudere gli occhi al contatto con l'acqua salata. Quando si era gettato dal ponte aveva provato un brivido di paura, eppure all'impatto col fiordo, dopo il salto nel vuoto, non aveva avvertito dolore. Probabilmente gli si erano spezzate entrambe le braccia. Le mani avevano un'angolazione innaturale e apparivano grigiastre. Istintivamente fu tentato di dare qualche bracciata, ma non serví a nulla, tanto era forte la corrente. Eppure non soffriva. Anzi. L'acqua lo avvolgeva in un caldo abbraccio che lo stupiva. Poi si sentí risucchiare verso il fondo e provò una specie di stordimento. Il parka che aveva addosso gli si gonfiò attorno al corpo, un palloncino scuro e floscio che aveva per sfondo un mare ancora piú tetro. La testa galleggiava come una boa in balia delle onde, le forze lo avevano ormai abbandonato. L'ultima cosa che l'uomo notò prima di perdere conoscenza fu che riusciva a respirare sott'acqua. Era una sensazione nient'affatto spiacevole. | << | < | > | >> |Pagina 62.La donna riversa sul pavimento fino a poco tempo prima era stata biondo cenere, ma ora lo si poteva solo intuire. La testa era stata staccata di netto dal corpo e i capelli, lunghi fino alle spalle, si erano attorcigliati intorno ai tendini recisi del collo. Inoltre le era stato fracassato l'occipite. Gli occhi vitrei, spalancati, sembravano fissare esterrefatti l'ispettore capo di polizia Hanne Wilhelmsen come si fissa un'ospite del tutto inattesa. Il camino era ancora acceso. Fiamme basse lambivano la parete retrostante, nera di fuliggine, e la loro luce fioca illuminava solo una parte della stanza. Vista l'assenza di corrente, e visto che il buio della notte premeva contro le finestre come uno spettatore curioso, Hanne Wilhelmsen pensò fosse meglio aggiungere dei ceppi nel camino. Poi, però, cambiò idea e accese una torcia. Col fascio di luce esplorò il cadavere. La testa era staccata dal resto del corpo, ma la distanza era cosí poca che la donna doveva essere stata decapitata mentre giaceva a terra. Peccato per la pelle di orso bianco, mormorò l'agente scelto Erik Henriksen. Hanne Wilhelmsen roteò la torcia e illuminò la stanza. Era grande, piú o meno quadrata e zeppa di mobili. Era evidente che il procuratore e sua moglie amavano gli oggetti d'antiquariato, ma non si poteva certo dire che avessero anche il senso della misura. Nella semioscurità la poliziotta riuscí a distinguere alcune ciotole di legno dipinte con i motivi a rose tipici della regione del Telemark e cineserie bianche e azzurro pallido. Sopra il camino era invece appeso un moschetto. Probabilmente risaliva al XVI secolo, pensò Hanne, e a stento si trattenne dal toccare un'arma cosí bella. Sopra il moschetto, nel muro, erano infissi due ganci in ferro battuto finemente lavorati, a cui quasi certamente era stata appesa la spada da samurai che ora giaceva a terra a fianco di Doris Flo Halvorsrud. La vittima, madre di tre figli, non avrebbe mai festeggiato il suo quarantacinquesimo compleanno di lí a tre mesi. Hanne prosegui le ricerche frugando nel portafoglio che aveva trovato in una borsa in corridoio. Gli occhi che una volta avevano fissato lo schermo all'interno di una cabina per fototessere avevano lo stesso sguardo attonito della testa decapitata a fianco del camino. In una custodia di plastica c'era la fotografia dei figli. Hanne rabbrividí alla vista dei tre adolescenti che sorridevano da una barca a remi, tutti con indosso il giubbotto di salvataggio; il figlio maggiore agitava una bottiglietta di birra. I ragazzi si assomigliavano molto tra loro e avevano preso dalla madre. Quello con in mano la birra e la femmina avevano gli stessi capelli biondi di Doris Flo Halvorsrud, mentre il piú piccolo, uno skinhead coi brufoli e l'apparecchio ai denti, faceva con le dita magre il segno di vittoria sopra la testa di sua sorella. Era una foto dalle vivaci tinte estive. I giubbotti di salvataggio arancioni spiccavano sulle spalle abbronzate, i costumi bagnati, rossi e blu, risaltavano sui sedili verdi della barca. Era un'immagine che catturava un momento di rara armonia tra i fratelli, il fotogramma di un istante quasi irripetibile della vita. Nel rimettere a posto la fotografia, Hanne Wilhelmsen si rese conto che in casa non sembrava esserci nessun altro a parte Halvorsrud. Sovrappensiero, si carezzò con l'indice una vecchia cicatrice sul sopracciglio, chiuse il portafoglio e si guardò nuovamente intorno. Nella stanza c'era una cucina in ciliegio ad angolo. Le finestre sul lato sud-ovest erano ampie e, grazie alle luci provenienti dalla collina di Ekeberg, Hanne riuscí a scorgere un'ampia terrazza. Da lí si vedeva il fiordo di Oslo, in cui si specchiava la luna piena che sfiorava le colline vicino a Bζrum. Il procuratore Sigurd Halvorsrud se ne stava seduto su uno sgabello di legno e piangeva col viso nascosto tra le mani. Hanne vedeva il bagliore delle fiamme del camino riflesso sulla fede che l'uomo portava all'anulare destro. La polo azzurra era schizzata di sangue. I capelli radi erano intrisi di sangue. I pantaloni grigi di lana con il risvolto e la piega erano imbrattati di sangue. Sangue. Dappertutto sangue. Non riuscirò mai ad abituarmi agli effetti devastanti prodotti da quattro litri di sangue, mormorò Hanne girandosi verso Erik. Il ragazzo dai capelli rossi non rispose e deglutí piú volte. Prendi delle caramelle al lampone, gli suggerí Hanne. Pensa a qualcosa di acido. Limoni, ribes... Non sono stato io! Adesso Halvorsrud singhiozzava. Si tolse le mani dal viso perché gli mancava l'aria. Boccheggiò ed ebbe un violento accesso di tosse. Di fianco a lui c'era una giovane poliziotta in tuta che, non sapendo bene come comportarsi sulla scena di un delitto, si era messa sull'attenti come un soldato. Con fare esitante, e senza grande successo, diede un colpetto sulla schiena del procuratore. La cosa piú spaventosa è che sono rimasto lí senza far niente, disse l'uomo tra i singhiozzi quando fu riuscito finalmente a riprendere fiato. In realtà ha fatto piú che abbastanza, commentò a bassa voce Erik Henriksen, sputando rimasugli di tabacco mentre giocherellava con una sigaretta non accesa. L'agente scelto si era allontanato dal cadavere della donna decapitata. Adesso se ne stava davanti alle finestre panoramiche con le mani intrecciate dietro la schiena, ondeggiando leggermente. Hanne Wilhelmsen gli appoggiò una mano tra le scapole. Il collega stava tremando. Impossibile che fosse per il freddo. Anche se mancava la corrente e il riscaldamento era spento, nella stanza dovevano esserci piú di venti gradi. L'aria era impregnata dell'odore acre e nauseabondo di sangue e urina. Se non fosse stato per la presenza degli uomini della Scientifica, arrivati dopo un ritardo intollerabile, Hanne avrebbe insistito per areare il locale. Θ un errore, Henriksen, disse invece al collega. Θ un errore trarre delle conclusioni quando non si sa ancora niente di preciso. Ma che sapere e sapere, ribatté Erik piccato, gettandole un'occhiataccia. Guarda là, cazzo! Hanne Wilhelmsen si girò verso il cadavere. Poi appoggiò il mento sulla spalla del collega con un gesto confidenziale e protettivo al tempo stesso. In quella stanza faceva davvero un caldo insopportabile. Adesso c'era piú luce: gli uomini della Scientifica stavano ispezionando il locale metro per metro e non si erano ancora avvicinati al cadavere. Tutti quelli che non c'entrano escano di qua! tuonò il piú anziano dei tecnici, indirizzando diverse volte il fascio di luce della torcia verso l'ingresso come per invitarli ad andarsene. Wilhelmsen! Porta fuori tutti immediatamente. Hanne non si fece ripetere l'ordine due volte. Quello che aveva visto le bastava. Aveva lasciato il procuratore Halvorsrud seduto dove l'avevano trovato, su uno sgabello di legno troppo piccolo per la sua stazza, perché non aveva scelta. L'uomo appariva inebetito, ma c'era pur sempre il rischio che si comportasse in modo imprevedibile. Hanne non conosceva la giovane recluta, non sapeva se sarebbe stata in grado di occuparsi da sola di un uomo in stato di shock che forse aveva appena decapitato sua moglie. Non se l'era quindi sentita di abbandonare la scena del crimine prima dell'arrivo della Scientifica, mentre Erik Henriksen aveva preferito non lasciarla da sola con il grottesco cadavere di Doris Flo Halvorsrud. | << | < | > | >> |Pagina 489. Billy T. ha insistito, spiegò Hanne Wilhelmsen, che non si reggeva piú in piedi per il sonno. Vuole a tutti i costi essere lui a condurre l'interrogatorio, domani. Sostiene che abbiamo tutti bisogno di una bella dormita, anche Sigurd Halvorsrud, e che a me farà bene un giorno di riposo. Si era addormentata con i piedi sul tavolo. Si era svegliata perché Cecilie aveva rovesciato un bicchiere di vino e poi era andata a prendere uno straccio per pulire. Mi sembra ragionevole, disse Cecilie con aria piuttosto assente mentre cercava di tamponare la macchia di liquido rosso che stava per investire i due libri. Fammi però la cortesia di tirare giú i piedi. Hanne Wilhelmsen si sdraiò in modo piú composto sul divano e tirò su la coperta fino al collo. Chiamami, se vedi che sto per addormentarmi, biascicò. Cecilie Vibe si riempi di nuovo il bicchiere, spense la televisione e spostò la sedia cosí da vedere meglio la donna che si era riaddormentata sul divano. Quel vino non le piaceva. Nemmeno il pasto era stato di suo gradimento. Da tempo non aveva appetito. Aveva perso quattro chili in meno di un mese, ma Hanne non l'aveva nemmeno notato. In un modo o nell'altro doveva riuscire a dirglielo. Erano già passati due giorni. Il medico che le aveva comunicato i risultati degli esami era un suo ex compagno di studi, uno che non le era mai piaciuto. Anche adesso, come allora, era difficile riuscire a incrociare il suo sguardo. Al momento di comunicarle l'esito, lui si era stropicciato nervosamente il lobo di un orecchio e aveva biascicato qualcosa dentro una tazza di caffè. Cecilie aveva fissato l'orecchio del collega con la sensazione che il tempo si fosse fermato. Quando era uscita dall'ospedale, era stata sferzata dalla stessa bufera di neve che l'aveva inseguita fin dentro il reparto oncologico al di là delle porte automatiche. Ma lei non se n'era accorta. La sua attenzione era stata totalmente assorbita da una macchia lasciata sull'asfalto bagnato da una gomma da masticare che sembrava trasformarsi in continuazione; ora era una sfera, poi una biglia, una palla, una cisti. Dopo un po', un barelliere che trasportava dei lettini vuoti le aveva intimato bruscamente di spostarsi. Non sapeva dove andare. Aveva un tumore maligno all'intestino, grosso come una palla da tennis. Probabilmente si era formato un bel po' di tempo prima. Era troppo presto, però, per dire se si fosse diffuso al di là della parete dell'intestino e se ci fossero metastasi. Forse sí, forse no. Allontanò da sé il bicchiere di vino rosso vuoto. Si versò dell'acqua fresca e dissetante che si mischiò con il fondo di vino. Fece roteare piú volte il bicchiere con l'acqua rosata, sforzandosi di pensare a cosa avrebbero fatto in estate. Non aveva chiesto nulla all'uomo dal lobo violaceo. Non sapeva cosa domandargli, non in quel momento. In seguito aveva letto ogni informazione contenuta nelle banche dati alle quali aveva accesso dall'ufficio. E poi aveva fatto tutta la strada verso casa piangendo. In realtà aveva pensato di parlarne con Hanne in serata. Lei non sapeva ancora niente. Anche quella mattina di sei settimane prima, quando aveva scoperto del sangue nelle feci e per la prima volta si era resa conto, atterrita, che da tempo si sentiva stanca e spossata, Hanne era stata assente e distratta. Lo sgomento di fronte a ciò che aveva visto sulla carta igienica, il desiderio che fosse un errore, forse le mestruazioni arrivate all'improvviso e anzitempo, l'avevano spinta a pulire tutto il piú velocemente possibile e poi a lavarsi i denti con eccessivo vigore. Non c'era nulla di cui parlare. Non in quel momento. Si trattava certamente di una cosa di poco conto. Solo un brutto spavento di cui Hanne non si era accorta. In bagno si era però sentita come in una capsula, nuda e totalmente invisibile agli occhi della compagna, che non l'aveva nemmeno salutata al momento di uscire. E adesso sapeva che non era una cosa di poco conto. Hanne era arrivata a casa alle otto e un quarto, stravolta. Una volta tanto aveva chiacchierato incessantemente, forse per tenersi sveglia fino all'ora di cena. Aveva raccontato qualcosa a proposito di un cadavere senza testa, di un uomo che si era suicidato buttandosi in mare, di un procuratore distrettuale che doveva prepararsi a trascorrere in gattabuia qualche anno della sua vita, di ragazzi rimasti orfani e col padre in prigione, di Billy T. al quale, insopportabilmente, sembrava importare solo delle nozze imminenti, del nuovo ufficio a cui lei non riusciva ad abituarsi e del nuovo tubo di scappamento della Harley che non era ancora arrivato. Non c'era stato spazio per la storia di una palla da tennis dai tentacoli minacciosi che si trovava da qualche parte nel suo intestino. Non c'era stato proprio posto per lei in quella breve e fredda serata primaverile. Hanne russava leggermente. All'improvviso emise un lamento e si girò fin quando non si trovò col viso rivolto verso Cecilie, per metà verso l'alto, la bocca spalancata. La gamba destra era appoggiata allo schienale del divano, il braccio sinistro ciondolava sul pavimento. A vederla cosí sembrava stare piuttosto scomoda, e Cecilie le sistemò il braccio lungo il corpo. Poi si versò altra acqua. La frangia di Hanne era troppo lunga e le copriva un occhio. I capelli castani avevano ormai qualche ciocca grigia e Cecilie si stupí di non essersene accorta prima. Le ciglia dell'unico occhio visibile si muovevano impercettibilmente, e da ciò si capiva che la donna stava sognando. La saliva le riempi un angolo della bocca, per poi uscire lentamente formando una macchia scura sul cuscino. Sembri cosí piccola, mormorò Cecilie. Che bello se tu fossi ancora piú piccola. Suonarono alla porta. Lei trasalí. Hanne continuò a dormire. Per paura che suonassero di nuovo, Cecilie si precipitò alla porta d'ingresso e la spalancò. Billy T.! esclamò. Da tempo non provava una gioia cosí autentica e improvvisa nel vedere qualcuno. Entra! Si portò l'indice alle labbra e gli fece segno di far piano. Hanne sta dormendo sul divano. Noi possiamo metterci in cucina. Billy T. guardò in sala. Oh no! esclamò in tono deciso e spostò il tavolino del salotto per avere piú spazio. Poi sollevò Hanne Wilhelmsen come se fosse stata una bambina che si era addormentata dopo il primo tempo di un film giallo proibito. Era bello sentirla contro il torace. Il lieve aroma di vino che le usciva dalla bocca si mischiava al profumo ormai quasi completamente evaporato; d'impulso, la baciò sulla fronte. Cecilie apri la porta e lui depositò Hanne sul letto senza che lei accennasse a svegliarsi. Non mi è mai capitata una cosa del genere con un adulto, disse Billy T. esterrefatto, rimanendo lí in piedi mentre Cecilie copriva Hanne col piumone. Che non si svegliasse quando lo si sposta, intendo dire. Svegli, lo corresse Cecilie sorridendo, facendogli cenno di uscire dalla stanza. C'è qualcosa che turba questa donna, le disse lui. Hai idea di cosa sia? Cecilie cercò di evitare il suo sguardo. Billy T. aveva occhi troppo azzurri che vedevano troppe cose. Sarebbe voluta uscire dalla camera da letto, fuggire da Hanne che stava dormendo, dall'odore di chiuso delle lenzuola e dal sonno. Voleva rimanere in sala, aprire un'altra bottiglia di vino, parlare dei film che non aveva visto, dell'elenco degli invitati e di come si sarebbe chiamato il bambino. Ma non riusciva a muoversi. Quando finalmente alzò la testa, lui l'attirò a sé. Cosa diavolo sta succedendo tra voi due? sussurrò abbracciandola. Siete in crisi o cosa? Billy T. rimase da Cecilie quasi fino alle quattro di sabato mattina. Quando se ne andò, lei si sentiva in colpa perché Hanne non era stata la prima a sapere della sua malattia. Al tempo stesso provava un certo sollievo, e all'improvviso avverti come un'ondata di ottimismo mentre sfilava delicatamente gli indumenti alla compagna e s'infilava sotto il piumone. Credo che venderò la Harley, mormorò Hanne semiaddormentata, avvicinandosi a lei. Θ ora di crescere. | << | < | > | >> |Pagina 16633.Un barbone si trascinava per Akersgata. Aveva le ginocchia rovinate dal tanto vagabondare e ormai camminava un po' dondolando, un po' zoppicando. Evald Bromo lo riconobbe ancora prima di vederlo dalla puzza di acquaragia che l'uomo soleva sniffare. Si girò, travolto da un'ondata di nausea. Solo qualche spicciolo, mormorò il barbone tendendo una mano magra e sudicia. Solo qualche spicciolo! Evald Bromo non aveva alcuna intenzione di fermarsi. Per esperienza, sapeva che il miglior modo per sbarazzarsi di un tipo del genere era sganciargli qualche moneta. Rallentò il passo e infilò la mano destra nella tasca dei pantaloni alla ricerca di qualche spicciolo. Trovò una moneta da venti corone e la fissò un istante prima di scuotere la testa e di porgerla all'uomo, che emanava un odore nauseabondo. Probabilmente il barbone non si aspettava di ricevere l'elemosina, e la moneta gli cadde a terra. Rimase lí, dondolandosi in modo indeciso prima su un piede e poi sull'altro, come se non avesse ben capito dov'era finito il soldino. Evald Bromo si chinò irritato per aiutarlo. Forse diede l'impressione di voler riprendersi la generosa donazione, fatto sta che si curvò anche il barbone. Le teste dei due uomini si scontrarono ed Evald Bromo cadde a terra. Il tossico imprecò, si scusò e cercò in tutti i modi di aiutarlo a rimettersi in piedi. Bromo invece voleva farcela da solo. Fini che entrambi rimasero a terra in un gran parapiglia appena fuori dall'ingresso principale dell'«Aftenposten». La caporedattrice svoltò l'angolo nei pressi della farmacia Kronen e attraversò in maniera azzardata Akersgata facendo lo slalom in mezzo a tre auto che aspettavano il verde. Quando superò l'ingresso principale del «Dagbladet» notò che l'uomo a terra sul marciapiede insieme al piú insistente dei mendicanti del quartiere era Evald Bromo. In un primo momento pensò che il giornalista fosse stato assalito dal vagabondo. Furibonda picchiò la schiena dell'uomo col proprio ombrello, poi si precipitò nella reception del giornale e ordinò che venisse chiamata subito la polizia. Dopodiché corse nuovamente fuori. Evald Bromo era solo, si era appoggiato a una colonna e si stava spazzolando via lo sporco e un po' di ghiaia dai vestiti. Mormorò qualcosa d'incomprensibile quando lei insistette perché si facesse vedere da un medico. Non sono stato aggredito, riuscí a dire alla fine. Θ stato solo un incidente. Non mi sono fatto niente. Grazie lo stesso. La caporedattrice lo scrutò con aria insospettita. Per un attimo pensò allo strano messaggio anonimo che aveva ricevuto tramite posta elettronica. Tutto bene, Evald? Gli mise una mano sul braccio e lui la fissò sconvolto, come se avesse di fronte una maliarda dalle lunghe unghie smaltate di rosso che scomparivano per metà nella manica della sua giacca di tweed. Avrebbe voluto liberarsi da quel contatto, invece inghiotti e si sforzò di dirle qualcosa di rassicurante: Tutto bene, davvero. Anche in generale? Niente di storto in questo periodo? No, e si accorse di essere stato un po' troppo brusco. Va tutto benissimo. Mi fa piacere, rispose lei sorridendogli in modo incoraggiante. Abbiamo un giornale da preparare, Evald. A dopo. Sparí dentro l'edificio, tutta impettita e dritta come un fuso. Si sentiva proprio soddisfatta, e fu invasa da una piacevole sensazione di calore. Il benessere dei suoi collaboratori le stava molto a cuore. Nessuno avrebbe potuto sostenere che non si era interessata di Evald Bromo. Non controllò nemmeno se lui fosse entrato all'interno del grande palazzo. Poi, mentre si recava all'ascensore, incontrò il ministro delle Finanze. | << | < | > | >> |Pagina 281parte seconda
1.
La Norvegia era in guerra per la prima volta dalla primavera del 1945. La Nato aveva messo in pratica le sue minacce; le forze serbe di Slobodan Miloevič dovevano essere cacciate dal Kosovo con la forza. La pulizia etnica che fino ad allora era costata la vita a diverse migliaia di albanesi e aveva lasciato senza casa duecentocinquantamila persone doveva essere bloccata. E la Norvegia era coinvolta nell'attacco. Sembrava una notizia irreale. Era passata da poco la mezzanotte di domenica 28 marzo 1999 ed Evald Bromo non notava segni di particolare agitazione. Camminava per il centro di Oslo con un sacchetto contenente un pacchettino che misurava quindici centimetri per quindici. In città l'unico segno di violenza era dato da qualche scaramuccia per entrare allo Stortorgets Gjζstgiveri. Le strade erano piene di persone che sembravano fregarsene della guerra. Avevano già abbastanza problemi a cui pensare, e soprattutto speravano di riuscire a entrare in qualche locale prima che smettessero di servire da bere. Non aveva ancora aperto il pacchetto. Poteva trattarsi di qualcosa di assolutamente innocente. Tuttavia si fidava delle proprie sensazioni: il pacchetto era stato mandato da Pokerface, il terrorista delle e-mail. Non avrebbe saputo spiegare come faceva a saperlo, lo sapeva e basta. Forse per via della scrittura cosí neutra. Forse per via della carta grigio-marrone, cosí priva d'identità. Forse per via del modo in cui era stato incollato il francobollo nell'angolo, perpendicolare, esattamente alla stessa distanza dal lato destro e dall'alto; chi aveva preparato il pacchetto l'aveva fatto con cura. Però mancava il mittente. Era sicuro che fosse Pokerface. Fin quando non apriva il pacchetto, poteva sperare che contenesse qualcosa di innocente. Forse si trattava soltanto di una pubblicità. La confezione neutra doveva avere lo scopo di risultare invitante, cosí da non finire nella spazzatura insieme a tutti gli altri pacchetti colorati, non aperti e non letti. Un taxi abusivo con due giovani di pelle scura rallentò nei pressi di Grensen e si fermò quasi davanti a lui. Evald Bromo accelerò il passo per fare capire che non era interessato. Il pacchetto gli cadde a terra e si chinò rapidamente a raccoglierlo. Non contraccambiò lo sguardo di una donna che lo fissava, ma si abbottonò ancora di piú la giacca e continuò a guardare per terra mentre si allontanava. C'era troppo movimento all'«Aftenposten» quella notte per essere una domenica, ed era ovviamente a causa della crisi in Kosovo. C'era gente ovunque. Qualche ora prima aveva preparato un servizio sull'effetto della guerra sulle borse mondiali. L'articolo era poco accurato e piuttosto banale e la caporedattrice gli aveva comunicato con una certa aria di disapprovazione che era inservibile. Guerra di merda. Evald Bromo lasciò la redazione dieci minuti dopo esservi arrivato. Aveva sperato di poter aprire il pacchetto in tutta tranquillità nel suo ufficio, ma quella notte c'era troppo caos al giornale. Guerra di merda. Poteva trovare un bar, un pub, dove sedersi in un angolo appartato e starsene un po' per conto suo. Non esistevano pub silenziosi e tranquilli. Non alle due di sabato notte. Risali Akersgata vagabondando senza meta. Al sesto e ultimo piano del palazzo del governo si vedeva una luce verdina. Evidentemente il ministro della Giustizia e il primo ministro erano ancora al lavoro. Maledetta guerra di merda. Evald Bromo girò a destra prima del tunnel Ibsen. Dopo aver superato la biblioteca centrale, si sentí esausto. Il cuore gli batteva sempre piú forte anche se non aveva corso. Anzi, da quando aveva lasciato la redazione del giornale, aveva rallentato progressivamente il passo. Indeciso sul da farsi, si sedette sui gradini della scala di pietra. Il freddo gli risali lungo la schiena facendolo rabbrividire. Poi strappò la carta. Il pacchetto conteneva un cd. Che fosse musica? Evald Bromo provò un grande sollievo. Era come se avesse preso una sbronza; si senti la testa calda e leggera, lo sguardo gli si offuscò e inspirò a fondo. Qualcuno gli aveva spedito un cd. La custodia era in realtà tutta bianca, ma quando l'apri vide un cd, proprio come si era immaginato. C'era anche un foglietto di carta ripiegato. Lo tenne in mano alcuni secondi prima di aprirlo lentamente. Era vergato in una calligrafia minuta. Strizzò gli occhi per riuscire a leggere cosa c'era scritto. Quando ebbe letto due volte la lunga lettera, la piegò di nuovo. Cercò a fatica di rimetterla nella custodia e alla fine ci riuscí. Rimase seduto sulla scala della vecchia biblioteca di Oslo per oltre mezz'ora. Rimase lí tutto il tempo da solo. Persino quattro ragazzi di circa vent'anni, dopo avergli gettato una rapida occhiata, si limitarono a qualche battuta pungente e se ne andarono. Evald Bromo chiuse gli occhi. Il contenuto di quella lettera era cosí sorprendente, cosí sensazionale e cosí catastrofico che da un certo punto di vista si sentiva sollevato. Si alzò piano piano, infilò la custodia del cd nella tasca interna della giacca di pelle, inspirò profondamente ed ebbe la certezza di non avere vie d'uscita. Era pervaso da una calma strana, irreale. Sapeva cosa doveva fare. Avrebbe lasciato passare un paio di giorni in cui si sarebbe rimesso un po' in sesto, e poi avrebbe parlato con Kai. Lui lo avrebbe aiutato.
Lo aveva già aiutato in passato, e avrebbe saputo consigliarlo su come
gestire le informazioni che aveva appena ricevuto.
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