Copertina
Autore Anne Holt
Titolo La vendetta
EdizioneEinaudi, Torino, 2010, Stile libero Big , pag. 352, cop.fle., dim. 13,5x20,8x1,5 cm , Isbn 978-88-06-20478-5
OriginaleSalige er de som tørster... [1994]
TraduttoreMaria Teresa Cattaneo
LettoreLuca Vita, 2010
Classe narrativa norvegese , gialli
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Domenica 9 maggio


Era cosí presto che albeggiava appena. A occidente, la volta si era tinta di quel colore intenso che impreziosisce solo i cieli scandinavi in primavera, blu cobalto all'orizzonte e piú sfumato verso lo zenit, per poi stemperarsi in coltri rosa a est, dove un sole ancora assonnato aveva iniziato a stiracchiarsi.

Per il momento, l'aria sembrava inconsapevole del sorgere imminente di un nuovo giorno, e possedeva ancora quella strana trasparenza tipica delle mattine primaverili a circa sessanta gradi di latitudine nord. Anche se era presto per prevedere la temperatura, tutto lasciava presagire che, pure quel giorno, a Oslo avrebbe fatto molto caldo.

La detective Hanne Wilhelmsen, comunque, aveva ben altro per la testa. Se ne stava immobile, rimuginando sul da farsi. C'era sangue dappertutto. Sul pavimento. Sui muri. Persino sul soffitto non intonacato, dove si notavano macchie scure simili ai disegni astratti di un test psicologico. Alzò il capo e ne fissò una proprio sopra di lei: assomigliava a un bue rosso porpora, con tre corna e la parte posteriore del corpo deformata.

Si sentiva come pietrificata, sia per lo sconcerto, sia per la paura di scivolare sul pavimento liscio.

- Fermo! - ordinò bruscamente a un poliziotto piú giovane, il cui colore di capelli si intonava alla perfezione con quell'ambiente bizzarro, prima che toccasse il muro. Un raggio di luce polveroso filtrò da una piccola fessura nel tetto diroccato e illuminò la parete sul fondo, talmente imbrattata di sangue da far pensare, piú che a disegni, a un maldestro lavoro di tinteggiatura.

- Vattene! - intimò poi all'inesperto collega, colpevole di aver stampigliato le proprie orme su ampi tratti del pavimento, e si morse la lingua per non caricare la dose. - Cerca di non lasciare altre tracce, uscendo...

Qualche minuto piú tardi, anche lei fece il percorso a ritroso, con estrema cautela. Mandò il collega a procurarsi una torcia elettrica, quindi si fermò un attimo sulla soglia.

- Volevo solo pisciare, - piagnucolò l'uomo che aveva dato l'allarme.

Se n'era rimasto fuori dalla legnaia, buono buono ad aspettare, ma ora pareva cosí irrequieto che Hanne Wilhelmsen ebbe il sospetto che non fosse ancora riuscito a soddisfare i propri bisogni.

- Il cesso è lí, - le disse lui, fornendole un'indicazione del tutto superflua. Le esalazioni che provenivano da uno dei troppi gabinetti esterni ancora esistenti a Oslo avevano la meglio persino sull'odore dolciastro e nauseabondo del sangue. La porta col cuoricino intagliato si trovava proprio di fianco a loro.

- Va' pure, - gli concesse, ma lui non se la senti.

- Come ti stavo dicendo, volevo solo pisciare. Poi mi sono accorto che la porta era aperta.

Indicando esitante la legnaia, l'uomo fece un passo indietro, come se all'interno si annidasse una bestia spaventosa che potesse all'improvviso spalancare le fauci e inghiottirgli il membro in un boccone.

- Di solito la porta è chiusa, ma non a chiave, solo accostata; capisci, è cosí pesante che si blocca da sola... Però non vogliamo che cani o gatti randagi rimangano intrappolati là dentro, per cui ci facciamo attenzione.

Un sorriso sghembo si dipinse sul viso rozzo dell'uomo. Meglio far sapere a quella poliziotta che pure lí, in quel caseggiato, rispettavano regole precise e ci tenevano all'ordine, sebbene fossero sul punto di perdere definitivamente la battaglia contro il degrado.

- Ho sempre abitato qui, - precisò con un pizzico di orgoglio nella voce. - Me ne accorgo subito quando qualcosa è fuori posto.

In attesa di un cenno d'approvazione, continuò a osservare la giovane donna, molto carina e cosí diversa dai poliziotti che aveva incrociato fino a quel momento.

- Bravo, - lo incoraggiò Hanne. - Sei stato molto gentile a telefonarci per dirci che cosa avevi scoperto.

L'uomo esibí un ampio sorriso e lei notò che era quasi completamente sdentato; un fatto piuttosto strano, considerato che non era poi cosí vecchio: sulla cinquantina, piú o meno.

- Stavo per mettermi a vomitare, con tutto quel sangue... davvero.

Scosse il capo per farle comprendere come fosse rimasto inorridito nel trovarsi di fronte a uno spettacolo cosí macabro.

Hanne lo capiva, eccome. Il collega dai capelli rossi era tornato con la torcia. Lei l'afferrò con entrambe le mani e con il fascio di luce esplorò in modo sistematico le pareti del locale, da un lato all'altro, dall'alto verso il basso. Quindi esaminò minuziosamente il soffitto, almeno per quanto era possibile dalla soglia, per poi setacciare ogni centimetro del pavimento.

La stanza era completamente vuota, non c'era nemmeno un ceppo di legno, solo schegge e polvere che facevano capire a che cosa fosse stata adibita in origine. Tutto sembrava indicare che fosse inutilizzata da parecchio tempo. Quando Hanne ebbe ispezionato con la torcia ogni angolo del locale, vi entrò nuovamente, attenta a ripercorrere le orme che aveva lasciato in precedenza. Con un gesto impedí al collega di seguirla. Si accovacciò in mezzo alla stanza, grande all'incirca una cinquantina di metri quadrati, e diresse il fascio di luce contro la parete di fronte a lei, a un metro da terra. Dalla soglia aveva intravisto una scritta, forse alcune lettere poco leggibili, tracciate con del sangue poi colato lungo il muro.

Non erano lettere, bensí numeri. Otto cifre, per l'esattezza: 91043576. Il nove, tuttavia, avrebbe potuto essere anche un quattro. L'ultima cifra sembrava un sei, ma era solo un'ipotesi azzardata, magari si trattava di un otto.

Hanne si alzò e indietreggiò fino a trovarsi di nuovo all'aperto, alla luce del giorno che ormai avanzava a grandi passi. Da una finestra socchiusa al terzo piano le giunse il pianto di un neonato, e rabbrividí al pensiero che un bambino dovesse vivere in un quartiere simile. Un pakistano con indosso la divisa dell'azienda tranviaria usci dal caseggiato di cemento e li guardò incuriosito per un istante, prima di realizzare di essere in grande ritardo e allontanarsi trafelato lungo il vialetto. Dai riflessi di luce sui vetri delle finestre ai piani superiori, Hanne si rese conto che il sole era finalmente sorto. Alcuni uccellini grigi, sopravvissuti chissà come alla vita grama della zona piú interna della città vecchia, cinguettavano timidamente da una betulla scheletrica, i cui rami si tendevano invano verso i raggi di luce mattutina.

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La disperazione lo stava mangiando vivo, simile a un topo di fogna grigio e ripugnante, un topo che gli strappava brandelli di carne fino a insinuarsi dietro lo sterno. Aveva bevuto due flaconi di Maalox in tre soli giorni, e non era servito a nulla. Al ratto quel gusto era piaciuto, cosí aveva continuato a scavare con maggior foga. Qualunque cosa facesse, qualunque cosa dicesse, la situazione non cambiava; sua figlia non voleva parlargli. Sí, certo, voleva stare da lui, nella casa della sua infanzia, nella stanza dov'era stata bambina... ma che Kristine sembrasse in qualche modo rassicurata dalla sua presenza costituiva una magra consolazione. Si era chiusa in un ostinato mutismo.

Era andato a prenderla al pronto soccorso psichiatrico. Quando l'aveva vista là, seduta, prostrata, gli occhi pesti e le spalle chine, gli aveva ricordato sua moglie vent'anni prima. Se ne stava seduta allo stesso modo, quella volta, con lo sguardo perso nel vuoto, un'espressione desolata e la bocca inespressiva. Le avevano appena detto che sarebbe morta e avrebbe lasciato il marito e una figlia che non aveva ancora quattro anni. A quel tempo, lui aveva reagito come una furia. Aveva imprecato, fatto il diavolo a quattro, portato sua moglie da tutti gli specialisti del Paese. Infine, si era fatto prestare una somma considerevole dai genitori, nella vana speranza che negli Stati Uniti, la terra promessa di tutti i medici, fosse possibile modificare il crudele responso emesso in modo unanime da quattordici luminari norvegesi. L'unico risultato del viaggio era stato che la giovane moglie era morta lontano da casa, e lui aveva dovuto tornarsene in Norvegia con la donna che amava sigillata in una cella frigorifera nella stiva dell'aereo.

Vivere da solo con la piccola Kristine non era stato facile. Aveva appena conseguito la laurea in odontoiatria, in un periodo in cui la professione di dentista aveva cessato di essere redditizia dopo vent'anni di prevenzione dentale promossa dai governi socialdemocratici. Comunque se l'era cavata. La seconda metà degli anni Settanta era coincisa con l'ascesa del movimento femminista, il che, paradossalmente, l'aveva favorito. Un padre solo che insisteva a prendersi cura della figlia veniva agevolato dallo Stato con tutte le leggi possibili e immaginabili, visto con grande simpatia da amici e conoscenti e aiutato e supportato da colleghe e vicine di casa.

E ce l'aveva fatta.

Di donne, non ce n'erano state molte. Sí, aveva avuto qualche relazione, ma nessuna era durata a lungo, Kristine si era sempre messa in mezzo. Le tre volte in cui aveva osato presentarla a una potenziale moglie, lei si era dimostrata intrattabile, respingendo in malo modo ogni profferta di gentilezza. E aveva sempre vinto. Lui voleva molto bene a sua figlia. Ovviamente, era consapevole che ogni uomo ama i propri figli, e razionalmente si rendeva conto che non esistevano grandi differenze tra lui e tutti gli altri padri norvegesi; eppure, a livello emotivo, insisteva nel dire a se stesso e a coloro che lo circondavano che il rapporto con sua figlia era davvero speciale. Loro due non avevano nessun altro al mondo. Lui le aveva fatto sia da padre sia da madre. Era stato lui a vegliarla quando era stata malata, a preoccuparsi che fosse sempre in ordine, a consolarla da adolescente, allorché la sua prima storia d'amore era andata in fumo dopo tre settimane. Quando, a tredici anni, con un misto di paura e gioia, Kristine gli aveva mostrato le mutandine macchiate di sangue, era stato lui a portarla al ristorante per festeggiare, con una lauta cena e vino rosso diluito con acqua, l'ingresso nell'età adulta. Era stato lui a respingere per due anni le richieste insistenti di comprarle un reggiseno, visto che i limoncini che avrebbero dovuto riempirlo erano troppo minuscoli perché qualsiasi cosa destinata a contenerli non risultasse ridicolmente eccessiva. Lui solo si era rallegrato per gli eccellenti risultati scolastici della figlia, e lui solo era rimasto profondamente deluso quando, quattro anni prima, un giorno d'estate, lei aveva deciso di festeggiare con gli amici, anziché con il padre, l'ammissione alla facoltà di medicina di Oslo.

Voleva molto bene a sua figlia, eppure non riusciva a stabilire un contatto con lei, adesso. Quando, poco prima, era andato a prenderla, Kristine lo aveva seguito di buon grado. Era stato il medico di turno a telefonargli, su indicazione della ragazza che voleva andare a casa, da suo padre. Però lei non diceva nulla. Esitando, mentre tornavano in macchina, lui aveva provato a prenderle la mano, e sua figlia lo aveva lasciato fare. Tuttavia, non aveva avuto la minima reazione: solo una mano inerte che si lasciava afferrare. Non avevano scambiato una parola. A casa, aveva cercato di stuzzicarle l'appetito con un buon pranzetto; pane appena sfornato e alcuni dei suoi piatti preferiti, roastbeef e insalata di gamberetti, nonché il miglior vino rosso della sua cantina. Lei aveva bevuto il vino, ma non aveva toccato cibo. Dopo tre bicchieri, aveva preso con sé la bottiglia, si era scusata con grande gentilezza e si era ritirata in camera sua.

Tutto questo era successo tre ore prima. Dalla stanza di Kristine non proveniva alcun rumore. Si alzò indolenzito dal divano di fabbricazione americana, troppo soffice per i suoi gusti. Le candele, ormai consumate alla chiara luce di quella serata primaverile, stavano per spegnersi, quasi a ricordargli che la cera era finita. Si fermò davanti alla camera della figlia e rimase completamente immobile per diversi minuti, prima di trovare il coraggio di bussare. Nessuna risposta. Rimase cosí ancora per un po'; poi decise di lasciarla in pace.

Andò a coricarsi.

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L'abbronzatura se l'era procurata, cosí come il corpo da culturista. La prima dipendeva da sedute al solarium talmente prolungate da potergli causare una sfilza di melanomi inguaribili; il secondo, invece, era il risultato di preparati artificiali, diversi tipi di testosterone e steroidi anabolizzanti in dosi massicce.

Si piaceva. Era un maschio di quelli veri. Aveva sempre desiderato diventare cosí, soprattutto quando, alle soglie della pubertà, mingherlino e strabico, se ne tornava a casa piagnucolando ogni giorno per i cazzotti presi dagli altri ragazzi. Sua madre non era assolutamente in grado di cambiare la situazione. Con l'alito sempre impastato di pillole e alcol, cercava stancamente di confortarlo allorché lo vedeva con un occhio pesto, le ginocchia sbucciate e le labbra spaccate. Eppure se ne stava nascosta dietro le tende senza intervenire, quando i teppistelli del vicinato sfidavano sia lei sia il ragazzo a battersi sempre piú vicino al palazzo dove abitavano. Lui lo sapeva, perché all'inizio aveva lanciato grida d'aiuto verso la cucina al secondo piano, dove aveva intravisto l'ombra della madre tirarsi indietro. Come sempre, del resto. Sua madre non immaginava che la causa principale dei pestaggi del figlio fosse proprio lei, e non l'aspetto malaticcio del bambino. I ragazzi della via avevano madri normali. Donne allegre, in gamba, che preparavano panini imbottiti e tazze di latte per i figli; alcune di loro lavoravano, nessuna comunque a tempo pieno. Gli altri ragazzi avevano fratellini e sorelline pestiferi e adorabili, e anche un padre. A essere onesti, non sempre quest'ultimo viveva in famiglia; agli inizi degli anni Settanta il divorzio era diventato pratica comune anche nella cittadina dove lui era cresciuto. Quei papà, tuttavia, si facevano vivi, arrivavano in auto il sabato mattina, con le maniche delle camicie rimboccate, un bel sorriso e la canna da pesca nel bagagliaio. Tutti tranne il suo.

I ragazzi chiamavano sua madre Alcol-Guri. Da piccolo, quando era poco piú che un moccioso, pensava che Guri, il nome di sua madre, fosse bellissimo, ma da quando le avevano affibbiato quel nomignolo, Alcol-Guri, aveva preso a odiarlo. Adesso non sopportava le donne che si chiamavano cosí. A dire il vero, non sopportava le donne. In generale. Punto e basta.

Dopo la pubertà, i ragazzi avevano smesso di schernirlo. Aveva diciassette anni ed era cresciuto di diciotto centimetri in circa sei mesi, non aveva brufoli e gli si era sviluppato il torace. Lo strabismo era scomparso dopo un'operazione che l'aveva costretto ad andare in giro con un'antipaticissima benda per alcuni mesi, circostanza che certamente non aveva contribuito ad aumentare la sua popolarità. Aveva i capelli biondi - sua madre gli diceva che si era fatto un bel ragazzo, ormai - e non avrebbe mai capito, per tutto l'oro del mondo, com'era possibile che Aksel avesse la ragazza, quando era cosí brutto. Aksel era un suo compagno, un quattrocchi un po' sovrappeso, di almeno una spanna piú basso di lui.

A scuola non erano cattivi nei suoi confronti, solo lo evitavano, e di tanto in tanto gli lanciavano delle frecciatine, soprattutto le ragazze.

Quando lui era in quarta superiore, Alcol-Guri aveva avuto un vero e proprio tracollo ed era stata internata in un ospedale psichiatrico. Lui era andato a trovarla una volta, appena dopo il ricovero. L'aveva trovata a letto, con tubi e tubicini dappertutto e la testa completamente annebbiata. Era rimasto li, senza sapere che cosa fare o dire. Mentre sedeva in silenzio e ascoltava le sciocchezze che lei andava snocciolando, il piumone che copriva sua madre era scivolato via. La camicia da notte era slacciata, e un seno, una specie di cencio rinsecchito con un capezzolo scuro, quasi nero, l'aveva guardato in modo arcigno, con aria di rimprovero. Allora se n'era andato. Era stata l'ultima volta che aveva visto sua madre. Quello stesso giorno aveva deciso che cosa avrebbe fatto da grande. Nessuno l'avrebbe piú infastidito.

Adesso era seduto davanti a un computer, e cercava di studiare la situazione. La scelta non era affatto semplice. Doveva puntare su un cavallo sicuro, su qualcuno che fosse da solo e di cui nessuno avrebbe sentito la mancanza. Di tanto in tanto si alzava e andava a consultare uno schedario, ne estraeva uno o due cartelline e dava un'occhiata alla fototessera fissata con una graffetta sulla prima pagina, in alto. La fotografia sul passaporto mentiva sempre, lo sapeva per esperienza, ma comunque forniva qualche informazione utile.

Alla fine si senti soddisfatto. Addirittura, senti una vera e propria scarica di eccitazione, come quando si misurava i muscoli nella speranza che fossero cresciuti di un altro centimetro.

Il suo era un piano geniale. Tanto piú geniale in quanto riusciva a far ammattire la gente, a prenderla in giro, a toglierle ore di sonno. Sapeva bene come se la passavano, quegli idioti della polizia alla centrale. Si lambiccavano il cervello per scoprire che cosa fossero i massacri del sabato. Sapeva persino che li avevano ribattezzati cosí. Sorrise. Non avevano nemmeno individuato il filo rosso che lui lasciava al suo passaggio. Razza di imbecilli.

Si sentiva proprio soddisfatto.

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