Copertina
Autore A. M. Homes
Titolo Jack
Edizioneminimum fax, Roma, 2004, Sotterranei 76 , pag. 228, cop.fle., dim. 141x190x15 mm , Isbn 978-88-7521-031-1
OriginaleJack [1989]
TraduttoreAdelaide Cioni
LettoreAngela Razzini, 2004
Classe narrativa statunitense
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Pagina 9

"Attento", ha detto mio padre prima ancora che togliessi il piede dal freno.

"Senti, non siamo mica obbligati", ho detto io. "Posso aspettare e prendere la patente a trent'anni, non c'è problema. Posso chiedere a Vernon, l'istruttore della scuola guida, di darmi qualche lezione in più".

"Stavolta, prima di lasciare andare il pedale, gira il volante dall'altra parte".

Ho girato il volante fino a dove ho potuto. Il concetto di servosterzo evidentemente era del tutto alieno alla vecchia Volvo blu.

"Di più", ha detto mio padre.

Stavo per morire, lo sentivo. Mi sarebbe venuto un infarto. Se mai avessi dovuto guidare veramente quella macchina, sarei diventato come Arnold Schwarzenegger.

"Mi sa che mi sta venendo un infarto", ho detto.

"Come?"

"No, niente".

Lo vedevo nello specchietto retrovisore. Lo vedevo nello specchietto laterale. Ho girato la testa per guardarlo dal lunotto posteriore. Se ne stava lì, col peso su una gamba. Teneva i pollici infilati nei passanti dei jeans. Aveva i capelli lunghi e un bel taglio non avrebbe guastato. Se ne stava lì, e non sembrava affatto mio padre. Sembrava più giovane. Sembrava un tizio qualunque che se ne stava lì per caso, ad aspettare. Ho piantato il piede sull'acceleratore, forte, e ho sentito la macchina schizzare all'indietro. Ho sentito il volante che mi si srotolava tra le mani. È stato come quando fai volare l'aquilone e molli lo spago troppo in fretta e ti si bruciano i palmi.

Mio padre ha fatto un salto di lato, ha sganciato le dita dai passanti dei jeans. Le ruote sono finite sopra il marciapiede. Il parafango posteriore ha sbattuto contro un albero, poi la macchina è scivolata un po' in avanti, bloccandosi sul bordo del marciapiede.

"Tutto bene?", ho urlato dal finestrino.

"Ma che t'è saltato in mente?", mi ha chiesto mio padre.

Mi sono stretto nelle spalle. Un'auto non è un'auto, ho pensato tra me e me, è un marchingegno.

"Mica l'ho fatto apposta", ho detto. "Ci riprovo?"

Ha raccolto i coni arancioni dalla strada e li ha buttati nel portabagagli. No, eh?, ho pensato.

"Che ne dici se per oggi smettiamo qui?", ha detto lui.

Io volevo guidare. Volevo continuare ad andare, avanti. Volevo imboccare finalmente l'autostrada, pigiare sull'acceleratore, alzare il volume della radio e mettermi a cantare.

"Posso guidare io", ho detto. "Cioè, il foglio rosa ce l'ho".

"Lo so", ha detto mio padre. "Ma io non sono in grado di insegnarti. Proprio no".

Mi sono spostato dal lato del passeggero. La camicia mi è rimasta incollata al sedile del guidatore e poi si è staccata con un lieve schiocco.

"Jack, non mi fraintendere. È solo che non sono un istruttore".

Si è immesso sul viale. Non ha girato la testa come Linda Blair nell' Esorcista. Non ha guardato in quaranta direzioni contemporaneamente, come Vernon diceva di fare.

"Magari riproviamo tra un paio di giorni" ha detto. "A quanto pare è solo il parcheggio lungo il marciapiede che ti crea problemi. Ci si può lavorare".

Ho abbassato l'aletta parasole e mi sono guardato nello specchietto. Il mio viso fluttuava, privo di consistenza, di segni. Avevo la pelle pulita e bianca, con le lentiggini. Il mio viso fluttuava, non come quello di mio padre, che sembrava solido e consistente, spezzato dalle rughe attorno alla bocca e agli occhi.

"Allora, che dice la mamma?", ha chiesto.

"Tutto bene".

"E la scuola?"

"Pure".

"Max?"

Ho annuito. Era la sua lista di cose da verificare. Ogni volta che eravamo insieme la ripassavamo punto per punto. Scorreva la sua lista di persone, eventi, persino oggetti, che facevano parte della mia vita.

"Il basket?"

"Il giardino è pieno di fiori, e penso che Max stia tornando quasi normale". L'ho detto tutto in una volta per risparmiargli la fatica di dover toccare ogni punto, uno per uno.

Ha sorriso. "Bene".

Siamo rimasti in silenzio.

"Quando sarai pronto, voglio accompagnarti io all'esame per la patente".

"Non c'è bisogno. Ha detto Michael che mi ci porta lui. E poi la sua macchina è più piccola".

Ho richiuso l'aletta parasole.

"Ci tengo, Jack. Va bene?"

Si è allungato verso di me, mi ha tolto i capelli dalla faccia e mi ha accarezzato la guancia con il dorso della mano.

"Sì, certo, poi vediamo", ho detto.

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Pagina 24

Come piaceva dire a mia madre, mi sono adattato. Per quel che vale. Non era proprio che amassi vedere mio padre che posteggiava la vecchia Volvo blu e si metteva in piedi in mezzo alla strada suonando il clacson, in attesa che io gli corressi incontro. Ogni volta che mi veniva a prendere era come se volesse annunciare al mondo intero, o quanto meno a tutto il vicinato, che non aveva più niente a che spartire con casa nostra né con la nostra famiglia né in particolare con mia madre. Mi faceva venire da vomitare. Nemmeno quando pioveva a dirotto entrava nel vialetto. Eravamo ufficialmente divorziati.

Sono cresciuto. Sono riuscito a entrare nella squadra AA di basket e, per qualche strano motivo, non odiavo l'ultima conquista della mamma, tale Michael Moore. Era un falegname che lei all'inizio aveva assunto per sostituire tutti i davanzali marciti, e alla fine si è trasferito da noi. In un certo senso ha sostituito papà, quanto meno nel campo dei lavoretti di casa.

Michael non aveva niente a che spartire con gli altri tizi che si presentavano a cena in giacca e cravatta, fingendosi miei grandi amiconi. Michael somigliava di più a un palo del telefono con la barba che a un rivenditore di macchine usate intrappolato nella versione moderna di una camicia di forza. Portava sempre dei vecchissimi pantaloni di velluto a coste che gli pendevano come se dentro non ci fossero ossa. Aveva anche una parlata molto lenta, il che andava bene se non eri di fretta, altrimenti potevi farti venire un'ernia prima che si esprimesse.

E così eccomi lì - un gioiello di adattamento, quattordici anni e tre quarti, membro della squadra di basket e, finalmente, con le gambe più pelose di mia madre - seduto sul gradino davanti casa in attesa che papà mi venisse a prendere per la tradizionale avventura domenicale di padre e figlio divorziati, cosa che implicava comprimere una vita intera nell'arco di otto ore. Lui ha accostato e io sono salito in macchina.

Siamo andati a quella specie di pozza che era il lago a circa tre chilometri da casa. Per tutto il tragitto non ha fatto che chiedermi di Michael, che in pratica era diventato una presenza fissa.

"Fa il muratore, giusto?"

"Il falegname".

"Oh, be', con tua madre è gentile, sì?"

"Direi di sì".

"A te piace?"

"Non è male", ho detto io.

Mi ricordo che avrei voluto che cambiasse argomento. Mi sentivo come una spia, o un informatore, o un banalissimo stronzo, che parla dei cavoli della gente quando dovrebbe starsene zitto e basta.

Abbiamo affittato una barca a remi e papà è stato più o meno dieci minuti ad assicurarsi che ci fossero salvagenti a sufficienza per cento persone.

Era tutta la vita che mi faceva da addetto personale alla sicurezza. Sapete, roba tipo mettere dei tappini nelle prese elettriche in modo che non ci potessi piantare una forchetta. Papà aveva una fissa seria, una specie di fobia, che io facessi qualcosa di stupido, tipo cadere da una finestra o scivolare e annegare nella vasca. Mi diceva di non giocare vicino al bordo della strada con un tono che pareva fosse sicuro al cento per cento che un camion della spazzatura avrebbe cercato di investirmi o che so io.

La cosa veramente bizzarra è che io non sono per niente incline agli incidenti. Lui sì, invece. Comunque, papà era sempre lì, col dito pronto a fare il numero del pronto intervento.

Quando ha finito di contare i salvagente e di controllare che la barca non avesse falle, mi ha fatto salire e poi ha remato fino al centro del lago.

Appena siamo arrivati lì in mezzo al nulla, ha messo su quello sguardo che usano i padri quando stanno per dire qualcosa che sanno ti farà perdere l'appetito. È un classico. Uniscono le sopracciglia, poi si sporgono in avanti e dicono qualcosa tipo: Figliolo, dobbiamo parlare. Poi stanno zitti per una mezz'oretta mentre tu aspetti, prossimo all'infarto. Alla fine, dicono qualcosa tipo: Nonna sta molto male, il che di solito significa che è già morta ma che quello aspetteranno domani per dirtelo.

Stavolta era anche peggio perché non stava parlando di qualcuno che era malato o roba simile. Stava cercando di dirmi qualcosa su se stesso. Ha smesso di remare.

"Jack", ha detto. "Ti devo dire una cosa".

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Pagina 91

Ero lì seduto nella cucina del mio papà gay a guardare oggetti tipo gli strofinacci e lo scaffale delle spezie e a chiedermi che cavolo di senso avessero. Un sacco di gente ha degli scaffali per le spezie, vero? Avevo paura che stessi diventando, forse, un po' pazzo, ma non c'era modo di averne la certezza.

"Senti, Jack, è vero che sono stato io ad andarmene, ma sono ancora molto legato a tua madre. Non puoi mica passare tutti quegli anni della tua vita con una persona e poi non provare più nessun sentimento per lei".

"Che genere di sentimento?"

"Io le voglio bene", ha detto, e poi si è interrotto un attimo. "È una persona molto speciale. È per questo che l'ho sposata. È una buona amica, lo sai, una con cui puoi parlare. È una madre stupenda".

"E perché a lei non lo dici mai?"

"Come?"

"Perché non gliela dici a lei che è una bella persona e che pensi che è una buona madre? Non vi sento mai che vi dite cose carine. Sembra che la odi o che so io".

"Non la odio affatto. Non lo dire neanche. Odiare è una parola tremenda. Non è così facile. Lei non è tranquillissima nei miei confronti, sai".

"Ah, lo so, credimi, lo so".

"Non credo di starle molto simpatico".

"Lei ti amava".

"E dai, Jack".

"Sono serio", ho detto.

Siamo rimasti lì per un pezzo come bloccati, a fissarci. Non riuscivo a credere che stessi parlando di quelle cose con mio padre. Gli parlavo come fossi stato lo psicologo della scuola. Gli davo addosso come se fosse stato un fratello o un amico o che so io.

"A cosa pensi?" Faceva sempre domande del genere quando non gli veniva niente da dire ma gli dava fastidio il silenzio.

"Al respiro. Dentro dal naso, fuori dalla bocca. Me l'ha insegnato Michael. È yoga".

"È un bel tipo, Michael. Stanno bene insieme?"

"Direi di sì". Ho fatto una pausa. "Lei si arrabbia spesso. Michael dice che è perché si tiene tutto dentro. In buona parte è colpa tua".

Gli stavo facendo male e ci stavo prendendo gusto. Volevo continuare e fargli ancora più male. Sentivo questo bisogno irresistibile di dirgli tutto, tutte le cose tremende che erano successe quando non c'era lui a prendersi cura di noi.

"Le hai fatto molto male". Mi sono fermato. "E ne hai fatto anche a me".

"Jack", ha detto.

L'ho interrotto. "Non è proprio giusto. Te ne vai a fare 'sta cosa, a trovare te stesso o che so io, e poi torni e ti aspetti che tutti si facciano in quattro per capirti".

"Io non mi aspetto nulla", ha detto.

"A scuola mi chiamano finocchio", sono sbottato, senza valerlo davvero.

È rimasto muto per un pezzo, però è impallidito.

"Vuoi che vada a parlarci?", ha chiesto.

"Parlarci, parlare con chi?", ho detto. "Cosa vuoi, un'assemblea d'istituto? Ok, adesso fate tutti silenzio. Il padre di Jack vorrebbe parlarci dell'omosessualità e del perché non dovreste chiamare suo figlio finocchio. Eccome se ti aspetti qualcosa, parca vacca".

"Mi dispiace", ha detto. "Non sono stato il padre migliore del mondo e probabilmente sono stato un marito penoso".

"E invece non sei stato un padre penoso, è proprio questo il punto. Sei stato il massimo".

"No", ha detto. "Nessuno lo è. Con tutto che avrei desiderato tanto esserlo".

"Fantastico. Quindi, fai il padre per un po' e poi dici: Ops, scusate, mi sa che non sono poi tanto bravo a farlo. Ah, e a proposito, sono frocio".

Sono arrossito mentre pronunciavo la parola frocio.

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Pagina 125

Lunedì sera ho cominciato le lezioni di guida. Easy Method, il metodo facilitato, per stare tranquilli. Michael mi ha lasciato davanti ai grandi magazzini Montgomery Ward e io sono entrato zoppicando con un quaderno ficcato sotto l'ascella. Mi stavo impratichendo con le stampelle, cominciavo a sperimentare dei trucchetti, rotazioni sulla punta e roba del genere. Ho fatto gli scalini due alla volta, non perché fossi un mostro di coraggio ma perché, vista l'estensione delle stampelle e come devi dondolare il corpo in avanti, mi veniva più facile così.

L'aula era nel seminterrato, tra l'ufficio crediti e il posto in cui facevano i pacchetti regalo. Anche se ero in anticipo, c'era già parecchia gente. Ho cercato di sedermi in uno di quei minibanchi del tipo in cui la sedia e il banco sono attaccati, ma non è un banco intero, è più tipo un pezzo di banco inclinato in avanti - per cui sei costretto a tenere sempre una mano sul ripiano per evitare che ti cada la roba.

Comunque, ho cercato di mettermi sulla sedia e naturalmente mi è scivolata da sotto il sedere, e ha grattato sul pavimento con un colossale rumore di scoreggia.

"Scusa", ho detto alla faccia di gorilla che si è girato di scatto e mi ha ringhiato come un vampiro strafatto.

Ho cercato di non sorridergli perché avevo la sensazione che fosse il tipo da offendersi.

Alla fine è comparso l'istruttore, come gli piaceva essere chiamato. All'inizio pensavo che fosse l'ennesimo incredibile sfigato che veniva a seguire la lezione, ma poi è salito sul piccolo podio davanti alla classe e ha battuto le nocche sulla fiancata di legno per richiamare l'attenzione di tutti.

Aveva i pantaloni troppo corti, che di solito non sono la cosa peggiore del mondo, solo che erano di poliestere a scacchi, di quel tessuto che non c'è bisogno di stirare, ma vecchi e quindi stropicciati. L'orlo gli arrivava a una quindicina di centimetri sopra le caviglie, e rivelava un paio di spessi tubolari bianchi con le righe rosse in cima.

"Benvenuti al corso Easy Method", ha detto, tirandosi ancora più indietro i capelli che erano già leccati all'indietro con la brillantina.

Tutti si sono subito seduti e hanno tirato fuori carta e penna. Credo che il solo motivo per cui erano così diligenti era che avevano una gran fretta di mettersi al volante. Facevano paura.

"Stasera cominciamo con le norme del Codice della strada". Ha preso una pila di fogli e li ha dati a un ragazzo in prima fila. "Falli passare", ha detto. "Faremo tre quarti d'ora di lezione. Poi avrete una pausa di dieci minuti. Dopodiché, continuerò per mezz'ora circa. Stasera, alla fine della lezione, restate in classe, e vi prenotiamo per le vere e proprie lezioni di guida". Poi si è interrotto. "Tu, con la gamba", ha detto indicandomi, proprio indicandomi col dito. "Come farai a guidare?"

"Me lo tolgono mercoledì".

"Il piede o il gesso?", ha detto lui, ridendo da solo.

Ho annuito. Coglione, ho pensato. Nonostante il fatto che a quel punto lo odiavo, devo ammettere che sapeva il fatto suo e tre quarti d'ora dopo mi sentivo qualificato per fare multe su una qualunque autostrada d'America.

La classe si è smembrata e per dieci minuti ci hanno lasciati liberi di vagare per il Montgomery Ward. Io zoppicavo dietro agli altri, e intanto immaginavo che i punti in cui i corridoi fra gli scaffali si incontravano fossero degli incroci stradali e cercavo di capire chi esattamente aveva la precedenza in certe situazioni.

Gran parte dei ragazzi hanno fatto gruppo e sono saliti al piano di sopra con la scala mobile fino al reparto caramelle. Non so perché, ma alcuni dei supermercati più schifosi al mondo hanno un reparto caramelle spettacolare. L'unica differenza tra quei reparti e un vero negozio di caramelle, o magari la zona della cioccolata in qualche grande magazzino raffinato tipo Macy's a New York, è che in questi posti vendono caramelle che sono contemporaneamente le migliori e le peggiori del mondo, in un unico morso, non scherzo. Puoi scegliere quelle che vuoi, ma non fa nessuna differenza perché ha tutto lo stesso sapore. Io mi regolo in base all'aspetto: se mi piace la forma, e se ci sono o meno delle palline di zucchero appiccicate sopra.

Comunque, tu scegli, e per un dollaro ti danno un pacchetto di carta oleata riempita al punto giusto per farti venire la nausea. La cosa strana è che finché sei lì a riempirti la bocca hanno un sapore buonissimo, ma appena finisci tutto il pacchetto ti viene una gran voglia di stenderti e farti portare una gassosa col ghiaccio tritato o che so io.

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Pagina 182

Ho superato mio padre sul marciapiede, trascinando un po' la gamba, ma non troppo. Camminavo davanti a lui tenendo la palla bassa, vicino a terra. Si stava facendo freddo, e sentivo i peli delle braccia che si rizzavano. Abbiamo camminato in silenzio, ma era come se stessimo parlando. Eravamo muti, ma era la chiacchierata più lunga e più bella che ci facevamo da un bel po'. Ho passato la palla a mio padre: lui l'ha portata per strada, ballando di qua e di là tra le macchine parcheggiate.

Proprio accanto al parco siamo passati davanti a un laghetto, lo stesso laghetto dove andavamo a pattinare d'inverno. Ci siamo passati davanti e vedevo il riflesso della luna sull'acqua. C'era una brezza leggera, come prima della pioggia, e il riflesso si spostava avanti e indietro sulla superficie increspata dell'acqua. Ho pensato al lago su cui mi aveva portato mio padre quando mi aveva detto che era gay. Ho pensato al lago e ho alzato lo sguardo verso la luna. Ho guardato di là dalla strada buia verso mio padre. Mi ha passato la palla. Senza neanche vederla nell'aria, l'ho presa. Ho preso la palla e ho pensato al lago, alla libellula che stava sospesa nell'aria subito sopra lo sporco. Ho pensato a quello che mi aveva detto mio padre. Ci ho pensato e non mi importava più.

I campi erano vuoti e le luci erano accese, intense. Erano lo stesso tipo di luci che usano le troupe televisive per girare al buio. "Magic Johnson", ho urlato, e sono corso a fare un tiro da sotto. È stato lento, la gamba mi sembrava un corpo alieno. Il tiro non è andato a segno. Mio padre ha preso la palla di rimbalzo dal tabellone e l'ha tirata di nuovo, facendo canestro. L'ho afferrata e ho palleggiato. Sono andato sotto e ho fatto il mio tiro più celebre, il mio salto con giravolta, un rimbalzo sul tabellone e canestro. I canestri in quel punto sono il meglio che ci sia. Sono di metallo e quando la palla ci cade dentro fanno un fruscio come di velluto. Ma sempre, subito prima che la palla cada, resta lì sospesa per un attimo, intrappolata dal metallo.

Mi è venuto caldo per le luci, e perché tentavo di correre avanti e indietro su una gamba che non era pronta per stoppate e scatti. Avevo la camicia appiccicata alla schiena. Ogni respiro mi entrava in gola come una sorsata di acqua fredda. Papà correva veloce, zigzagando qua e là, smarcandosi da giocatori immaginari. Lo scintillio delle luci mi faceva sentire una star. Nella mia testa mi sono immaginato che il resto della squadra fosse lì con me. Nella mia testa sentivo il ruggito della folla. Ogni tiro che mandavo a canestro contava ben più di due punti.

Dopo circa tre quarti d'ora, papà ha fatto un tiro da subito dentro la metà campo. Ha lanciato la palla verso il canestro. È caduta dentro senza nemmeno toccare i bordi. Papà è crollato sul campo mezzo ridendo, mezzo piangendo. La palla è atterrata sul cemento, ha rimbalzato un paio di volte, e ha rotolato fino a fermarsi.

Mi sono steso accanto a mio padre. Mi sentivo le pulsazioni nella gamba. Vedevo il battito dei nostri cuori sotto le camicie. L'ho guardato, con il sudore che gli scendeva lungo i lati della faccia, curvandosi in piccole strisce tra le basette. Ha chiuso gli occhi e ha sorriso.

"È qui, Jackie", ha detto. Non ho risposto, perché non c'era niente da dire. "È qui che voglio stare, sempre".

Siamo rimasti stesi lì per un sacco di tempo, finché la camicia mi si è asciugata addosso, irrigidita, come se fosse rimasta appesa al filo del bucato per una settimana. Siamo rimasti stesi lì finché il sudore ci si è raffreddato addosso e siamo stati costretti a camminare anche solo per evitare di congelare.

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