Copertina
Autore John Horgan
Titolo La fine della scienza
EdizioneAdelphi, Milano, 1998, Biblioteca Scientifica 26 , Isbn 978-88-459-1410-2
OriginaleThe End of Science. Facing the Limits of Knowledge in the Twilight of the Scientific Age [1996]
TraduttoreTullio Cannillo
LettoreRenato di Stefano, 1998
Classe filosofia , epistemologia , scienze naturali , fisica , inizio-fine
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Indice


INTRODUZIONE.
ALLA RICERCA DELLA «RISPOSTA»           13


L'angoscia dell'influenza scientifica   21

1. LA FINE DEL PROGRESSO                25

Una gita a Berkeley                     29
Dove è arrivata la scienza              35
L'anticlimax dell'immortalità           36
Che cosa pensavano cent'anni fa?        39
La storiella apocrifa del responsabile
    dell'Ufficio brevetti               41
Ascesa e caduta del progresso           43
Niente più orizzonti sconfinati         47
Tempi duri per la fisica                50
Fischiettare per farsi coraggio         53
Il significato del plus ultra baconiano 55

2. LA FINE DELLA FILOSOFIA              59

La struttura di Thornas Kuhn            72
Alla scoperta di Feyerabend             82
Perché la filosofia è così difficile    95
La paura dello Zahir                    98

3. LA FINE DELLA FISICA                101

La tristezza di Glashow                104
Il fisico più bravo di tutti           108
Estetica delle particelle              115
Incubi di una teoria finale            118
Niente più sorprese                    126
John Wheeler e l'it from bit           129
L'ordine sotteso di David Bohm         137
La cupa profezia di Feynman            145

4. LA FINE DELLA COSMOLOGIA            149

Le grandi sorprese della cosmologia    154
Il mago russo                          158
La deflazione dell'inflazione          164
Il dissidente dei dissidenti           168
Il principio del Sole                  175
La fine della scoperta                 178

5. LA FINE DELLA BIOLOGIA
   EVOLUZIONISTICA                     181

Il piano della contingenza casuale
    di Gould                           189
L'eresia di Gaia                       202
La passione di Kauffman per l'ordine   207
Il volto conservatore della scienza    215
Il mistero dell'origine della vita     216

6. LA FINE DELLE SCIENZE SOCIALI       223

Qualche parola da Noam Chomsky         233
L'antiprogresso di Clifford Geertz     239

7. LA FINE DELLE NEUROSCIENZE          247

Le pose di Gerald Edelman
    intorno all'enigma                 255
Dualismo quantistico                   267
Ciò che realmente vuole Roger Penrose  269
L'attacco dei « misteriani »           274
Come faccio a sapere che
    sei cosciente?                     279
Le molte menti di Marvin Minsky        282
Francis Bacon ha risolto il problema
    della coscienza?                   290

8. LA FINE DELLA COMPLESSITA'          293

I trentuno sapori della complessità    298
La poesia della vita artificiale       303
I limiti della simulazione             308
La criticità autorganizzata di Per Bak 311
Cibernetica e altre catastrofi         316
More Is Different                      319
Il signore dei quark esclude
    « qualcos'altro »                  321
Ilya Prigogine e la fine
    delle certezze                     329
Mitchell Feigenbaum e il collasso
    del caos                           337
Creare metafore                        343

9. LA FINE DELLA LIMITOLOGIA           345

Un incontro sul fiume Hudson           361
La fine della storia                   366
Il fattore Star Trek                   370

10.LA TEOLOGIA SCIENTIFICA,
   OVVERO LA FINE
   DELLA SCIENZA DELLE MACCHINE        373

Le litigiose creature della mente
    di Hans Moravec                    374
La diversità di Freeman Dyson          380
Frank Tipler e il Punto Omega          386

EPILOGO.
IL TERRORE DI DIO                      393

Il Dio immortale di Charles Hartshorne 396
Le unghie di Dio                       399

Ringraziamenti                         403

Note                                   405

Bibliografia scelta                    439

Indice analitico                       445


 

 

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Pagina 25 [ Gunther Stent ]

1
LA FINE DEL PROGRESSO


Nel 1989, soltanto un mese dopo il mio colloquio a Syracuse con Penrose, il Gustavus Adolphus College del Minnesota organizzò un convegno dal titolo stimolante ma ingannevole: «La fine della scienza?». Il concetto-base dell'incontro era che ad avvicinarsi alla fine fosse, più che la scienza in sé, la fiducia nella scienza. Come disse uno degli organizzatori, «si ha la sensazione, sempre più diffusa, che la scienza come impresa unitaria, universale e oggettiva sia finita ». Molti dei convenuti erano filosofi che, in un modo o nell'altro, avevano messo in discussione l'autorità della scienza. Il grande paradosso di tale incontro fu che uno dei relatori, Gunther Stent, un biologo dell'Università della California a Berkeley, preconizzava da anni uno scenario assai più drammatico di quello postulato dal convegno. Egli aveva infatti sostenuto che la scienza stessa avrebbe potuto estinguersi, e non a causa dello scetticismo di qualche solista accademico ma proprio perché funzionava così bene.

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Pagina 43 [ J.B. Bury ]

ASCESA E CADUTA DEL PROGRESSO


Nel suo libro del 1932, Storia dell'idea di progresso, lo storico J.B. Bury affermava: «Negli ultimi tre o quattrocento anni la scienza ha fatto continui progressi: ogni nuova scoperta ha portato nuovi problemi e nuovi metodi di soluzione, e ha aperto all'indagine nuovi campi. Finora gli scienzati non sono stati costretti a fermarsi, e hanno trovato nuovi mezzi per avanzare. Ma chi ci assicura che un giorno non vengano a trovarsi di fronte a barriere insuperabili?» [in corsivo nell'originale].

Bury aveva dimostrato con tutta la sua erudizione che il concetto di progresso non aveva più di qualche secolo. Dai tempi dell'Impero romano e per tutto il Medioevo, la maggior parte dei cercatori di verità aveva concepito la storia come un processo degenerativo: gli antichi greci avevano raggiunto il culmine della conoscenza matematica e scientifica, e da allora la civiltà aveva subito un costante declino; quanti erano venuti dopo potevano soltanto tentare di riconquistare qualche vestigio del sapere compendiato nelle opere di Platone e di Aristotele. Furono i fondatori della scienza empirica moderna, Isaac Newton, Francis Bacon, René Descartes e Gottfried Leibniz, ad avanzare per primi l'idea che gli uomini potessero acquisire e accumulare sistematicamente la conoscenza mediante l'indagine della natura. Questi scienziati delle origini credevano che tale processo avrebbe avuto un termine, che avremmo potuto raggiungere una conoscenza completa del mondo e quindi costruire una società perfetta, un'utopia, basata su tale conoscenza e sugli insegnamenti del cristianesimo. (La nuova Polinesia!).

Soltanto con l'avvento di Darwin alcuni intellettuali si innamorarono del progresso al punto da affermare che avrebbe potuto essere, o sarebbe stato senz'altro, eterno. «In seguito alla pubblicazione dell' Origine delle specie di Darwin,» scrisse Gunther Stent nel suo The Paradoxes of Progress del 1978 «l'idea di progresso assurse al rango di religione scientifica... Questa concezione ottimistica finì per affermarsi così diffusamente nelle nazioni industrializzate... che oggi l'ipotesi che il progresso potrebbe aver termine fra breve viene considerata da molti un'idea stravagante come lo fu in passato l'affermazione che la Terra gira intorno al Sole».

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Pagina 46 [ Václav Havel ]

Perfino i dirigenti politici, da sempre i più decisi sostenitori dell'importanza del progresso scientifico, hanno cominciato a manifestare sentimenti antiscientifici. Il poeta e presidente ceco Václav Havel affermò nel 1992 che l'Unione Sovietica aveva riassunto in sé e perciò screditato in eterno il «culto dell'oggettività» generato dalla scienza. Havel esprimeva la speranza che la dissoluzione dello Stato comunista avrebbe causato «la fine dell'èra moderna», la quale era stata «dominata dalla suprema convinzione, espressa in varie forme, che il mondo - e l'Essere in quanto tale - sia un sistema interamente conoscibile, governato da un numero finito di leggi universali che l'uomo è in grado di comprendere e di volgere razionalmente a proprio vantaggio».

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Pagina 47 [ Bentley Glass ]

NIENTE PIU' ORIZZONTI SCONFINATI


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Pagina 50

In biologia, pensava Glass, le grandi rivoluzioni potrebbero appartenere al passato. «Mi è difficile credere, ad ogni modo, che possiamo facilmente tornare a imbatterci in qualcosa di generale e sconvolgente come la concezione darwiniana dell'evoluzione della vita o l'interpretazione data da Mendel della natura dell'ereditarietà. Dopotutto, queste cose sono già state scoperte!». I biologi hanno certo ancora molto da imparare, sottolineava Glass, su malattie come il cancro e l'aids; sul processo mediante il quale una singola cellula fecondata diventa un organismo pluricellulare complesso; sulla relazione tra mente e cervello. «Nuovi elementi arricchiranno la struttura della conoscenza, ma abbiamo compiuto alcuni dei massimi progressi possibili. Si tratta semplicemente di vedere se vi siano altri mutamenti davvero decisivi da apportare al nostro universo concettuale».

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Pagina 56

Anche nella nuova Polinesia, ipotizzava Gunther Stent, qualche anima ostinata continuerà a ingegnarsi di trascendere la conoscenza acquisita. Stent definiva questi cercatori di verità, con un termine preso a prestito da Oswald Spengler, «faustiani». Io li chiamo «scienziati forti» (nel senso che a questo aggettivo ha dato Harold Bloom nel suo libro L'angoscia dell'influenza). Sollevando interrogativi cui la scienza non può dare risposta, gli scienziati forti possono continuare la ricerca della conoscenza nel modo speculativo che ho chiamato «scienza ironica» anche dopo che la scienza empirica - quella che risponde alle domande - abbia avuto fine.

John Keats ha coniato l'espressione capacità negativa per indicare l'attitudine di certi grandi poeti ad abbandonarsi a «incertezze, misteri, dubbi, senza alcuna sensibile aspirazione alla realtà e alla ragione». Come esempio, Keats sceglieva Samuel Taylor Coleridge, il quale «si lasciava sfuggire una vivida verosimiglianza isolata tratta dai penetrali del mistero, a causa della propria incapacità di appagarsi di una conoscenza parziale». Il compito più importante della scienza ironica è di fungere da capacità negativa dell'umanità. Sollevando interrogativi che non possono avere risposta, essa ci rammenta che tutta la nostra conoscenza è parziale; ci rammenta quanto poco sappiamo. Ma la scienza ironica non dà alcun contributo significativo alla conoscenza stessa: è quindi più affine alla critica letteraria, o alla filosofia, che non alla scienza nel senso tradizionale del termine.

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Pagina 59

2
LA FINE DELLA FILOSOFIA


La scienza del ventesimo secolo ha generato un incredibile paradosso. Proprio quello straordinario progresso in virtù del quale siamo indotti a credere che tra breve potremmo conoscere tutto il conoscibile ha anche fatto sorgere il dubbio se sia possibile conoscere alcunché con certezza. Quando le teorie si succedono l'una all'altra così rapidamente, come si può essere sicuri che una qualsiasi di esse sia vera? Nel 1987 due fisici britannici, T. Theocharis e M. Psimopoulos, criticarono aspramente questa posizione filosofica carica di scetticismo in un articolo intitolato Where Science Has Gone Wrong pubblicato sulla rivista britannica «Nature», il quale attribuiva la colpa del «profondo e diffuso malessere» nel campo della scienza ai filosofi che avevano duramente contestato l'idea che la scienza potesse pervenire alla conoscenza oggettiva. L'articolo era corredato delle fotografie di quattro autorevoli «traditori della verità»: Karl Popper, Imre Lakatos, Thomas Kuhn e Paul Feyerabend.

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Pagina 60

In seguito ebbi proprio l'opportunità di farlo con tutti i «traditori della verità» eccetto Lakatos, che era morto nel 1974. Nel corso delle mie interviste, cercai anche di scoprire se davvero questi filosofi fossero così scettici circa la capacità della scienza di raggiungere la verità, come alcune delle loro affermazioni lasciavano pensare. Me ne tornai convinto che Popper, Kuhn e Feyerabend credessero tutti profondamente nella scienza: in realtà il loro scetticismo era causato dalla loro fede. Il maggior torto che avevano era forse quello di attribuire alla scienza più potere di quanto essa realmente ne abbia. Temevano che la scienza potesse spegnere il nostro senso di meraviglia e porre quindi fine a se stessa e a tutte le forme di ricerca della conoscenza. Cercavano di proteggere l'umanità, scienziati compresi, dalla fede ingenua nella scienza personificata da figure come Theocharis e Psimopoulos.

Via via che la scienza, nel corso dell'ultimo secolo, è cresciuta in potere e in prestigio, fin troppi filosofi si sono comportati da addetti alle pubbliche relazioni in suo nome. Si può far risalire questa tendenza a pensatori come Charles Sanders Peirce, un americano che fondò la dottrina del pragmatismo ma non riuscì a conservare né un lavoro né una moglie, e che mori infelice e senza un soldo nel 1914. Peirce propose la seguente definizione di verità assoluta: essa è qualunque cosa gli scienziati affermino quando giungono al termine delle loro fatiche.

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Pagina 71

Popper è sempre stato molto bene accetto tra gli scienziati; e a ragione, dal momento che ha descritto la scienza come un'avventura romantica senza fine. In un editoriale di «Nature» una volta venne chiamato, abbastanza correttamente, «il filosofo per la scienza» [il corsivo è mio]. Ma i filosofi colleghi di Popper sono meno benevoli: essi fanno notare che la sua opera è piena di contraddizioni. Popper sosteneva che la scienza non poteva essere ridotta a un metodo, ma il suo procedimento di falsificazione era un metodo vero e proprio. Inoltre, gli argomenti che aveva usato per escludere la possibilità della verificazione assoluta potevano essere utilizzati anche per escludere la falsificazione. Se è sempre possibile che le osservazioni future contraddicano una teoria, è anche possibile che le osservazioni future risuscitino una teoria falsificata in precedenza. E più ragionevole ammettere, hanno sostenuto i critici di Popper, che, come alcune teorie scientifiche possono essere falsificate, altre possano invece essere confermate; non c'è motivo, dopotutto, di continuare a dubitare del fatto che la Terra sia rotonda e non piatta.

Quando nel 1994, due anni dopo la mia intervista, Popper morì, l'« Economist » lo salutò come «il più noto e il più letto dei filosofi contemporanei». In particolare, il giornale lodava la sua insistenza sull'antidogmatismo in campo politico. Il necrologio però rilevava che l'analisi effettuata da Popper dell'induzione (la base del suo metodo di falsificazione) era stata respinta dai filosofi successivi. «Per essere coerente con le sue stesse teorie, Popper avrebbe dovuto accogliere con favore un simile fatto,» osservava in tono asciutto L'« Economist» «ma egli non poté rassegnarvici. Ironia della sorte, in questo caso egli non riuscì ad ammettere di avere torto». Il suo antidogmatismo, applicato alla scienza, era diventato una sorta di dogmatismo.

Quantunque Popper detestasse la psicoanalisi, la sua stessa opera, in definitiva, può essere interpretata in termini psicoanalitici. Il suo rapporto con le figure autorevoli - dai giganti della scienza, come Bohr, alla sua assistente, la signora Mew - era ovviamente complesso, oscillante fra sfida e deferenza. In quello che è forse il passo più rivelatore della sua autobiografia, Popper ricordava che i suoi genitori erano entrambi ebrei austriaci convertiti al luteranesimo. Egli sosteneva poi che l'incapacità degli altri ebrei di integrarsi nella cultura tedesca e il loro ruolo di primo piano nelle formazioni politiche di sinistra avevano contribuito al sorgere del fascismo e dell'antisemitismo patrocinato dallo Stato negli anni Trenta: «... l'antisemitismo era un male di cui dovevano aver paura tanto gli ebrei quanto i non ebrei, e ... era compito di tutte le persone di origine ebraica fare del loro meglio per non provocarlo». Poco mancava che attribuisse agli ebrei la colpa dell'Olocausto.

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Pagina 72

LA STRUTTURA DI THOMAS KUHN


Kuhn aveva abbandonato la fisica per passare alla filosofia, lavorando per quindici anni a fare della sua rivelazione la teoria enunciata nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche. La chiave di volta del suo modello era il concetto di paradigma. Il termine «paradigma», prima di Kuhn, indicava esclusivamente un modello che serve a scopo didattico: «amo, amas, amat», ad esempio, è un paradigma che serve a insegnare le coniugazioni latine. Kuhn lo usava invece per riferirsi a un insieme di procedimenti o di idee che indicano agli scienziati, in modo implicito, che cosa credere e come lavorare. La maggior parte di essi non mette mai in discussione il paradigma, ma si limita a risolvere rompicapi, cioè problemi la cui soluzione, più che verificare la validità del paradigma, lo consolida e ne estende la portata. Kuhn chiamava questa attività «ripulitura» o «scienza normale». Vi sono sempre anomalie, fenomeni che il paradigma non è in grado di spiegare o che addirittura lo contraddicono. Le anomalie vengono spesso ignorate, ma se si accumulano possono innescare una rivoluzione (chiamata anche «spostamento di paradigma», espressione però non coniata da Kuhn), per cui gli scienziati abbandonano il vecchio paradigma e ne adottano uno nuovo.

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Pagina 76

La concezione di Kuhn si discostava da quella di Popper sotto diversi aspetti importanti. Kuhn (come altri critici di Popper) sosteneva che la falsificazione è impossibile quanto la verificazione; entrambi i procedimenti implicano l'esistenza di canoni di prova assoluti che trascendano qualunque particolare paradigma. Un nuovo paradigma può risolvere determinati enigmi meglio di quanto facesse quello vecchio, e può prestarsi ad applicazioni pratiche più numerose. «Ma non è possibile descrivere semplicemente l'altra scienza come falsa» diceva Kuhn. Il fatto che la fisica moderna abbia generato i calcolatori, l'energia nucleare e i lettori di compact disc non significa di per sé che essa sia più vera, in senso assoluto, della fisica aristotelica. Per ragioni analoghe Kuhn negava che la scienza si approssimi costantemente alla verità. Alla fine della Struttura egli affermò che la scienza, come la vita sulla Terra, non si evolve verso qualcosa, ma soltanto a partire da qualcosa.

Parlando con me, Kuhn si descrisse come un «kantiano postdarwiniano». Anche Kant aveva affermato che senza un qualche paradigma a priori la mente non è in grado di imporre un ordine all'esperienza sensoriale. Ma, mentre Kant e Darwin avevano entrambi creduto che tutti nasciamo più o meno con lo stesso paradigma innato, Kuhn sosteneva che i nostri paradigmi continuano a cambiare di pari passo con il cambiamento della nostra cultura. «Gruppi differenti, e lo stesso gruppo in momenti diversi,» mi disse «possono avere esperienze differenti, e quindi in un certo senso vivere in mondi diversi». Ovviamente tutti gli esseri umani condividono alcuni modi di reagire all'esperienza, non foss'altro per il fatto di avere un patrimonio biologico in comune, aggiunse Kuhn. Ma tutto ciò che nell'esperienza umana è universale, tutto ciò che trascende la cultura e la storia, è anche «ineffabile», al di fuori della portata del linguaggio. Il linguaggio, continuò, «non è uno strumento universale. Non è scontato che si possa dire in una data lingua qualunque cosa si possa dire in un'altra».

Ma la matematica non è una specie di linguaggio universale? chiesi. Senza dubbio no, rispose Kuhn, perché non ha significato: essa è costituita da regole sintattiche prive di qualsiasi contenuto semantico. «Vi sono ragioni ineccepibili per considerare la matematica un linguaggio, ma ce n'è una eccellente per cui non lo è».

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Pagina 80

Una delle ragioni che spiegano la persistente influenza della Struttura è la sua profonda ambiguità: piace ai relativisti non meno che agli adoratori della scienza. Kuhn riconosceva che «gran parte del successo del libro e alcune delle critiche [erano] dovute alla sua vaghezza». (Ci si domanda se lo stile in cui scrive Kuhn sia intenzionale o innato: il suo modo di parlare è altrettanto profondamente involuto, altrettanto ricco di congiuntivi e di aggettivi qualificativi quanto la sua prosa scritta). La Struttura è chiaramente un'opera letteraria, e come tale è suscettibile di molte interpretazioni.

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Pagina 82

ALLA SCOPERTA DI FEYERABEND


Dire che le idee di Popper e di Kuhn hanno dei punti deboli non significa che esse non possano servire quali strumenti utili per analizzare la scienza. Il modello della scienza normale di Kuhn descrive con precisione ciò che la maggior parte degli scienziati fa ora: aggiungere particolari, risolvere rompicapi relativamente banali che convalidano il paradigma prevalente più che metterlo in discussione. Il criterio di falsificazione di Popper può aiutare a distinguere tra scienza empirica e scienza ironica. Ognuno di questi filosofi, però, portando all'estremo le proprie idee e prendendole troppo sul serio, finisce per trovarsi in una posizione assurda e autocontraddittoria.

Ma come può fare uno scettico a non diventare Karl Popper, che dà colpi sul tavolo e grida di non essere dogmatico? O Thomas Kuhn, che cerca di comunicare che cosa intende esattamente quando parla dell'impossibilità di una vera comunicazione? C'è un solo modo. Deve accettare il paradosso, la contraddizione, l'eccesso retorico, e anzi sguazzarci. Deve ammettere che lo scetticismo è un esercizio necessario ma impossibile. Deve diventare Paul Feyerabend.

Il primo libro di Feyerabend, quello che tuttora esercita l'influenza più vasta, Contro il metodo, fu pubblicato nel 1975 ed è stato tradotto in sedici lingue. In esso si sostiene che la filosofia non può fornire una metodologia o una giustificazione logica alla scienza, perché non c'è alcuna giustificazione logica da addurre. Analizzando alcune pietre miliari della storia della scienza, come il processo a Galileo da parte dell'Inquisizione e lo sviluppo della meccanica quantistica, Feyerabend cercava di dimostrare che non c'è logica nella scienza: gli scienziati creano e sposano le teorie scientifiche per ragioni che sono in ultima analisi soggettive e perfino irrazionali. Secondo lui, gli scienziati possono e devono fare qualunque cosa sia necessaria per progredire. Il suo credo paradossale si riassumeva nel motto «qualsiasi cosa può andar bene».

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Pagina 88

Feyerabend era stato allievo di Popper alla London School of Economics nel 1952 e nel 1953. Poi aveva conosciuto Lakatos, un altro brillante allievo di Popper. Era stato Lakatos, anni dopo, a spingerlo a scrivere Contro il metodo. «Era il mio miglior amico» mi disse di lui. Feyerabend aveva insegnato all'Università di Bristol fino al 1959 e si era poi trasferito a Berkeley, dove aveva fatto amicizia con Kuhn.

Come quest'ultimo, anche Feyerabend negava di essere contrario alla scienza. Ciò che in realtà sosteneva era, in primo luogo, che non esiste alcun metodo scientifico. «E' proprio così che vanno le cose nel campo della scienza» mi disse. «Si hanno certe idee che funzionano e poi salta fuori una nuova situazione e si prova qualcos'altro. E opportunismo. C'è bisogno di una cassetta degli attrezzi completa degli strumenti più disparati: non soltanto di martello e chiodini». Questo era quanto intendeva con il motto, spesso denigrato, «qualsiasi cosa può andar bene» (e non, come comunemente si pensa, che una teoria scientifica sia buona quanto qualunque altra). Secondo Feyerabend, ridurre la scienza a una particolare metodologia, seppur definita in modo vago come il procedimento di falsificazione di Popper o la scienza normale di Kuhn, significherebbe distruggerla.

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Pagina 95 [ Colin McGinn ]

PERCHE' LA FILOSOFIA E' COSI' DIFFICILE


McGinn sottolineava come molti filosofi di questo secolo - in particolare Ludwig Wittgenstein e i positivisti logici - avessero semplicemente proclamato che i problemi filosofici sono pseudoproblemi, illusioni che traggono origine dal linguaggio o da malattie del pensiero». Alcuni di questi «eliminativisti», per risolvere il problema del rapporto mente-corpo, sono arrivati a negare che esista la coscienza. Questa concezione, secondo McGinn, «può avere conseguenze politiche che potrebbero essere considerate inaccettabili; finisce per ridurre gli esseri umani a nulla e spinge in direzione del materialismo più estremo, del comportamentismo».

McGinn proponeva una spiegazione differente e, a suo parere, più accettabile: i grandi problemi filosofici sono reali, ma sono fuori dalla portata della nostra capacità cognitiva. Possiamo porli, ma non siamo in grado di risolverli... non più di quanto un ratto possa risolvere un'equazione differenziale.

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Pagina 102

3
LA FINE DELLA FISICA


Non esistono cercatori della Risposta più ostinati, per non dire ossessivi, dei fisici delle particelle elementari. Il loro scopo è quello di dimostrare che tutti gli aspetti complicati del mondo non sono in realtà che manifestazioni di un'unica cosa. Un'essenza. Una forza. Un cappio di energia che si contorce in un iperspazio a dieci dimensioni. Un sociobiologo potrebbe sospettare che questo impulso riduzionistico nasconda un condizionamento genetico, dal momento che sembra aver animato i pensatori fin dagli albori della civiltà. Dopotutto, Dio è stato concepito dal medesimo impulso.

Nel nostro secolo, Einstein è stato il primo grande cercatore della Risposta. Egli dedicò gli ultimi anni della sua vita al tentativo di trovare una teoria che unificasse la meccanica quantistica con la sua teoria della gravitazione, la relatività generale. Nelle sue intenzioni, la formulazione di una simile teoria aveva lo scopo di determinare se l'universo fosse inevitabile o se invece, per dirla con le sue parole, «Dio avesse avuto una possibilità di scelta nel creare il mondo». Lo stesso Einstein però, convinto com'era che fosse la scienza a dare significato alla vita, suggerì pure che nessuna teoria avrebbe potuto essere veramente definitiva. Una volta disse, a proposito della sua teoria della relatività: «Dovrà cedere il passo a un'altra, per ragioni che attualmente non possiamo ancora immaginare. Credo che questo processo di approfondimento della teoria non abbia limiti».

La maggior parte dei contemporanei di Einstein considerava i suoi tentativi di unificazione della fisica frutto di demenza e di tendenze semireligiose. Ma negli anni Settanta, dopo numerosi progressi, il sogno dell'unificazione tornò a vivere. In primo luogo i fisici dimostrarono che, come l'elettricità e il magnetismo sono aspetti di un'unica forza, così l'elettromagnetismo e la forza nucleare debole (che governa alcuni tipi di decadimento nucleare) sono manifestazioni di una forza fondamentale «elettrodebole». Venne sviluppata anche una teoria circa la forza nucleare forte, che tiene legati i protoni e i neutroni nei nuclei atomici. Secondo tale teoria, chiamata cromodinamica quantistica, protoni e neutroni sarebbero composti di particelle ancora più elementari, chiamate quark. Nel loro insieme, la teoria elettrodebole e la cromodinamica quantistica costituiscono il modello standard della fisica delle particelle.

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Pagina 116

La teoria delle supercorde poggia su un terreno davvero malfermo se deve fare affidamento su giudizi di carattere estetico. Il più importante principio estetico della scienza fu formulato dal filosofo inglese del quattordicesimo secolo Guglielmo di Ockham, il quale sosteneva che la spiegazione migliore di un dato fenomeno è in generale quella più semplice, quella che comporta un minor numero di ipotesi. Tale principio, noto come rasoio di Ockham, segnò alla fine del Medioevo la rovina del modello tolemaico del sistema solare. Per dimostrare che la Terra stava al centro del sistema solare, l'astronomo alessandrino Tolomeo era stato costretto a sostenere che i pianeti descrivevano complessi epicicli a spirale intorno alla Terra. Ammettendo invece che fosse il Sole e non la Terra a occupare il centro del sistema solare, astronomi successivi riuscirono alla fine a fare a meno degli epicicli sostituendoli con orbite ellittiche molto più semplici.

Gli epicicli di Tolomeo sembrano assolutamente ragionevoli in confronto alle dimensioni aggiuntive mai osservate - e inosservabili - che sono postulate dalla teoria delle supercorde. Per quanto i teorici delle supercorde ci assicurino dell'eleganza matematica della teoria, il bagaglio metafisico che questa porta con sé le impedirà di guadagnarsi il consenso di cui godono, sia tra i fisici che tra i profani, la relatività generale o il modello standard delle particelle.

Concediamo agli adepti delle supercorde il beneficio del dubbio, almeno per un istante. Ammettiamo che un qualche futuro Witten, o anche Witten stesso, scopra una geometria infinitamente flessibile in grado di descrivere in maniera accurata il comportamento di tutte le forze e particelle note. Come potrà una simile teoria spiegare il mondo? Ho parlato delle supercorde con molti fisici, e nessuno di loro è riuscito a farmi capire che cosa sia di preciso una supercorda. Per quanto posso dire, non è né materia né energia; è una specie di sostanza matematica primordiale che genera la materia e l'energia, lo spazio e il tempo, ma che di per sé non corrisponde a nulla di esistente nel nostro mondo.

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Pagina 118 [ Steven Weinberg ]

INCUBI DI UNA TEORIA FINALE
(...)

Weinberg, come Witten e quasi tutti i fisici delle particelle, crede fermamente che la fisica possa raggiungere la verità assoluta. Ma egli è un portavoce così interessante della sua tribù perché, a differenza di Witten, è perfettamente consapevole del fatto che la sua fede è per l'appunto una fede; Weinberg sa di parlare con accenti filosofici. Se Edward Witten è uno scienziato filosoficamente ingenuo, Weinberg è estremamente raffinato... forse troppo, per il bene della sua stessa disciplina.

(...) Weinberg ammetteva dunque - ed era la cosa più singolare - che una teoria finale avrebbe potuto anche non metterci di fronte a un universo dotato di significato in termini umani. Che era anzi probabile il contrario. Egli riprendeva una famigerata osservazione contenuta in un precedente libro: «Quanto più l'universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo». Benché «da allora quella frase [lo avesse] sempre perseguitato», Weinberg non intendeva rinnegarla. Anzi, sviluppava ulteriormente l'osservazione: «I principi fondamentali, man mano che ne scopriamo di nuovi, sembrano avere sempre meno a che fare con noi». Weinberg sembrava comunque riconoscere che tutti i nostri perché avrebbero alla fine trovato una risposta. Ma la sua concezione della teoria finale faceva pensare alla Guida gatattica per gli autostoppisti di Douglas Adams. In questo romanzo fantascientifico, pubblicato nel 1980, gli scienziati scoprono alla fine la risposta all'enigma dell'universo, e la risposta è... 42.

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E' troppo chiedere a una teoria finale di rendere intelligibile il mondo? Prima che potessi finire la domanda, Weinberg già annuiva con il capo. «Sì, è chiedere troppo» rispose. Il linguaggio proprio della scienza è la matematica, mi ricordò. Una teoria finale «deve far apparire l'universo plausibile e in qualche modo logico in maniera accessibile a quanti hanno familiarità con questo linguaggio matematico, ma può darsi che occorra molto tempo prima che ciò sia comprensibile agli altri». E neppure una teoria finale fornirà agli uomini una guida per la gestione dei loro affari. «Abbiamo imparato a separare radicalmente i giudizi di valore dai giudizi di verità» affermò Weinberg. «E non credo che torneremo a ricollegarli». La scienza «può sicuramente aiutarci a scoprire quali siano le conseguenze delle nostre azioni, ma non può dirci quali conseguenze dovremmo desiderare. E questa mi sembra una distinzione assoluta».

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Pagina 132 [ John Wheeler ]

Wheeler era stato uno dei primi fisici affermati a ipotizzare che la realtà possa non essere esclusivamente fisica; il cosmo in cui viviamo potrebbe essere una sorta di fenomeno di partecipazione, che necessita dell'atto dell'osservazione, e quindi della coscienza stessa. Negli anni Sessanta Wheeler aveva contribuito a divulgare il famoso principio antropico secondo cui, in sostanza, l'universo dev'essere com'è perché, se fosse differente, non potremmo essere qui a osservarlo. Wheeler aveva cominciato anche ad attirare l'attenzione dei colleghi su alcune interessanti connessioni tra la fisica e la teoria dell'informazione, fondata nel 1948 dal matematico Claude Shannon. Come l'edificio della fisica è basato su un'entità elementare, indivisibile - il quanto -, che è definita dall'atto dell'osservazione, così accade anche per la teoria dell'informazione, il cui quanto è l'unità binaria, o bit. Il bit è un messaggio che rappresenta la scelta fra due alternative: testa o croce, sì o no, zero o uno.

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Pagina 134

Wheeler ha sintetizzato queste idee in un motto che sembra un kóan zen: the it from bit, «esso, la realtà, dal bit». In uno dei suoi scritti non accademici, ha così esplicitato il motto: «... ogni "esso" - ogni particella, ogni campo di forza, lo stesso continuo spazio-temporale - deriva completamente la sua funzione, il suo significato, la sua stessa esistenza - anche se, in alcuni contesti, in maniera indiretta - dalle risposte ricavate dall'apparato sperimentale a domande del tipo sì o no, cioè da scelte binarie, da bit».

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L'ORDINE SOTTESO DI DAVID BOHM


Com'è facile immaginare, alcuni altri fisici-filosofi si sono ribellati sia alle concezioni di Wheeler che, più in generale, all'interpretazione di Copenaghen proposta da Bohr. Un dissidente di primo piano è stato David Bohm. Nato e cresciuto in Pennsylvania, Bohm aveva lasciato gli Stati Uniti nel 1951, al culmine del periodo maccartista, dopo essersi rifiutato di rispondere alle domande della Commissione per la repressione delle attività antiamericane volte ad accertare se egli o qualche suo collega scienziato (in particolare Robert Oppenheimer) fossero comunisti. Dopo aver trascorso alcuni anni in Brasile e in Israele, verso la fine degli anni Cinquanta si era stabilito in Inghilterra.

A quell'epoca Bohm aveva gia cominciato a elaborare un'interpretazione alternativa a quella di Copenaghen. Nota anche come interpretazione dell'onda pilota, questa conserva tutta la capacità predittiva della meccanica quantistica ma elimina molti degli aspetti più bizzarri dell'interpretazione ortodossa, come il carattere schizofrenico dei quanti e il fatto che la loro esistenza dipenda dagli osservatori. Dalla fine degli anni Ottanta, la teoria dell'onda pilota è stata oggetto di crescente attenzione da parte di fisici e filosofi poco disposti ad accettare il soggettivismo e l'antideterminismo dell'interpretazione di Copenaghen.

Paradossalmente, Bohm sembrava anche deciso a rendere la fisica ancor più filosofica, speculativa e olistica. Egli si spinse molto più avanti di Wheeler nel delineare analogie tra la meccanica quantistica e le religioni orientali. Elaborò una filosofia, chiamata ordine sotteso, che cercava di abbracciare sia la conoscenza mistica che quella scientifica. Gli scritti di Bohm sull'argomento suscitarono ampi consensi e si trasformarono in oggetti di culto; egli divenne un eroe per coloro che speravano di arrivare all'intuizione mistica mediante la fisica. Pochi scienziati combinano questi due impulsi contraddittori - l'esigenza di far luce sulla realtà e quella di avvolgerla nel mistero - in modo così estremo.

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Pagina 139

L'interpretazione di Bohm, d'altro canto, ammetteva, e anzi poneva in risalto, un paradosso quantistico: la non località, ossia la possibilità che una particella interagisca istantaneamente con un'altra posta a grande distanza. Einstein aveva richiamato l'attenzione sulla non località nel 1935, in uno scritto che tentava di dimostrare come nella meccanica quantistica ci fosse qualche pecca. Insieme a Boris Podolsky e a Nathan Rosen, Einstein aveva proposto un esperimento mentale - noto oggi come esperimento EPR - relativo a due particelle che provengono da una sorgente comune e si muovono in direzioni opposte.

Secondo l'interpretazione canonica della meccanica quantistica, nessuna delle due particelle ha una posizione o una quantità di moto definite prima che queste grandezze vengano misurate; ma, misurando la quantità di moto di una particella, il fisico costringe istantaneamente l'altra particella ad assumere un valore definito della sua quantità di moto, anche se ora si trova dalla parte opposta della galassia. Irridendo questo effetto come un'«azione a distanza ad opera degli spiriti», Einstein aveva sostenuto che violasse tanto il senso comune quanto la teoria della relatività ristretta, la quale vieta che le interazioni si propaghino con velocità superiore a quella della luce. La meccanica quantistica doveva pertanto essere una teoria incompleta. Nel 1980, però, un gruppo di fisici francesi aveva effettuato una particolare versione dell'esperimento EPR e dimostrato che esso dava quei risultati che Einstein aveva considerato «opera degli spiriti». (La ragione per cui l'esperimento non viola la teoria della relatività ristretta è che non è possibile sfruttare la non località per trasmettere informazione). Bohm non aveva mai avuto il minimo dubbio sull'esito dell'esperimento. «Un risultato diverso sarebbe stato davvero sorprendente» mi disse.

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Pagina 147

Questo è il destino della fisica. Nella loro grande maggioranza, i fisici, quelli che lavorano nell'industria e anche quelli impegnati nel mondo accademico, continueranno ad applicare la conoscenza di cui già dispongono inventando laser, superconduttori e dispositivi di calcolo più versatili, senza preoccuparsi di alcuna questione filosofica ad essa sottesa. Qualche ostinato, dedito alla verità più che agli aspetti pratici, farà fisica in maniera non empirica ma ironica, studiando il regno fantastico delle supercorde e di altre entità esotiche e arrovellandosi sul significato della meccanica quantistica. I convegni di questi fisici ironici, le cui dispute non possono essere risolte a livello sperimentale, assomiglieranno sempre di più alle riunioni di quel bastione della critica letteraria che è la Modern Language Association.

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4
LA FINE DELLA COSMOLOGIA


Nel 1990 raggiunsi una remota località montana del Nord della Svezia per partecipare a un convegno sul tema «Nascita ed evoluzione iniziale del nostro universo». Una volta arrivato, scoprii che erano là convenuti circa trenta fra fisici delle particelle e astro- nomi di tutto il mondo: Stati Uniti, Europa, Unione Sovietica e Giappone. Ero andato al convegno, fra l'altro, per incontrare Stephen Hawking. L'aspetto fortemente simbolico della sua condizione - un cerVello potente in un corpo paralizzato - aveva contribuito a fare di lui uno dei più famosi scienziati del mondo.

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Pagina 153

Sospetto che Hawking - il quale forse, più che un cercatore di verità, è un artista, un illusionista, un burlone cosmico - sapesse fin dall'inizio che trovare e confermare empiricamente una teoria unitaria sarebbe stato estremamente difficile, se non impossibile. Dichiarando che la fisica era sul punto di trovare la Risposta egli potrebbe benissimo aver scelto un'affermazione ironica per esprimere una provocazione più che un'asserzione. Nel 1994 lo ammise quando riconobbe in un'intervista che la fisica, malgrado tutto, potrebbe non raggiungere mai una teoria finale. Hawking è un maestro nella pratica della fisica e della cosmologia ironiche.

LE GRANDI SORPRESE DELLA COSMOLOGIA

L'aspetto più straordinario della cosmologia moderna è il fatto che essa non è tutta ironica. La cosmologia ci ha procurato parecchie autentiche e indiscutibili sorprese. All'inizio del secolo si riteneva che la Via Lattea, l'isola di stelle in cui si trova anche il Sole, costituisse l'intero universo. Poi gli astronomi compresero che certe minuscole chiazze di luce chiamate nebulose, ritenute allora semplici nubi di gas interne alla Via Lattea, erano in realtà isole di stelle. La Via Lattea era soltanto una galassia fra innumerevoli altre che popolavano un universo molto, molto più grande di quanto si fosse mai immaginato. Tale scoperta rappresentò un'enorme, inconfutabile sorpresa di carattere empirico, che anche il più incallito relativista avrebbe difficoltà a negare. Per parafrasare Sheldon Glashow, per quanto riguarda le galassie non è questione di immaginarle o non immaginarle: esistono.

Era però all'orizzonte un'altra grande sorpresa. Gli astronomi scoprirono che la luce delle galassie era invariabilmente spostata verso l'estremo rosso dello spettro visibile. A quanto pareva, le galassie si allontanavano vertiginosamente dalla Terra e fra di loro, e questo moto recessivo faceva sì che la loro luce subisse uno spostamento doppler (analogo allo spostamento che rende più grave il tono della sirena di un ambulanza quando questa si allontana da noi a tutta velocità). Lo spostamento verso il rosso era la conferma di una teoria - a sua volta basata sulla teoria della relatività di Einstein - secondo la quale l'universo avrebbe avuto origine da un'esplosione tuttora in corso.

Negli anni Cinquanta i teorici avevano ipotizzato che l'esplosione da cui era nato l'universo dovesse aver lasciato un bagliore residuo sotto forma di deboli microonde. Nel 1964 due ingegneri radiotecnici dei Bell Laboratories scoprirono casualmente la cosiddetta radiazione cosmica di fondo. I fisici avevano inoltre avanzato l'ipotesi che la palla di fuoco della creazione fosse servita da fornace nucleare per la fusione dell'idrogeno in elio e altri elementi leggeri. Nel corso degli ultimi decenni si è rilevato, attraverso accurate osservazioni, che le abbondanze (relative) degli elementi leggeri nella Via Lattea e in altre galassie concordano pienamente con le previsioni teoriche.

David Schramm, del Fermilab e dell'Università di Chicago, ama riferirsi a queste tre direttrici di prova - lo spostamento verso il rosso delle galassie, la radiazione cosmica di fondo e l'abbondanza degli elementi - come ai pilastri su cui poggia la teoria del big bang. Schramm è un omone esuberante con un enorme torace, pilota, alpinista ed ex campione universitario di lotta greco-romana. E un instancabile propagandista del big bang... e del proprio ruolo nel perfezionamento dei calcoli relativi alle abbondanze degli elementi leggeri. Quando ci incontrammo al convegno in Svezia, Schramm mi fece sedere e si addentrò in un'analisi assai particolareggiata delle prove a favore del big bang. «Il big bang gode di un'ottima salute» mi disse. «Abbiamo la struttura essenziale. Si tratta soltanto di colmare le lacune».

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Pagina 158 [ Andrej Linde ]

IL MAGO RUSSO

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L'inflazione è un processo che si esaurisce spontaneamente: la dilatazione dello spazio fa sì che in breve tempo l'energia che alimenta l'inflazione si dissipi. Ma Linde affermava che, una volta iniziata, l'inflazione continuerà da qualche parte all'infinito, sempre a causa dell'indeterminazione quantistica. (Comoda, quest'indeterminazione quantistica!). Nuovi universi stanno germogliando e cominciano a esistere in questo stesso istante. Alcuni collassano immediatamente. Altri subiscono un'inflazione così rapida che la materia non ha mai la possibilità di addensarsi. Altri, infine, come il nostro, si stabilizzano su un ritmo di espansione sufficientemente sedato perché la gravità possa plasmare la materia in galassie, stelle e pianeti.

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Ad ascoltare Linde, sembrava che il suo obiettivo come fisico non fosse quello di ottenere una soluzione, di arrivare alla Risposta, o anche solo a una risposta, ma di continuare a muoversi, di continuare a pattinare. Aveva paura dell'idea di definitivo. La sua teoria dell'universo che si autoriproduce acquista un senso considerata sotto questa luce: se l'universo è infinito ed eterno, lo è pure la scienza, la ricerca della conoscenza. Ma anche una fisica che si limiti a questo universo, suggeriva Linde, non può essere prossima alla soluzione. «Ad esempio, non si tiene conto della coscienza. La fisica studia la materia, e la coscienza non è materia». Egli concordava con John Wheeler sul fatto che la realtà deve essere in certo qual modo un fenomeno di partecipazione. «Prima di effettuare una misura, non c'è universo, non c'è nulla che si possa chiamare realtà oggettiva» aggiunse.

Linde, come Wheeler e David Bohm, sembrava tormentato da aneliti mistici che la fisica da sola non avrebbe mai potuto soddisfare. «C'è un limite alla conoscenza razionale» diceva. «Un modo per studiare l'irrazionale consiste nel tuffarcisi dentro e limitarsi a meditare. L'altro, nello studiare i confini dell'irrazionale con gli strumenti della razionalità». Linde aveva scelto quest'ultima via, perché la fisica dava modo «di non dire cose del tutto assurde» sui meccanismi del mondo. «Ma talvolta» confessava «mi deprimo quando penso che morirò fisico».

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Pagina 168 [ Fred Hoyle ]

IL DISSIDENTE DEI DISSIDENTI


Ci sarà sempre chi rifiuta non soltanto l'inflazione, gli universi-baby e altre ipotesi altamente speculative, ma la stessa teoria del big bang. Il decano dei sabotari del big bang è Fred Hoyle, un astronomo e fisico britannico. Da una lettura selettiva del suo curriculum, Hoyle potrebbe apparire come la quintessenza dell'iniziato. Studiò all'Università di Cambridge con il premio Nobel Paul Dirac, che aveva previsto con esattezza l'esistenza dell'antimateria. Nel 1945 Hoyle divenne professore incaricato a Cambridge, e negli anni Cinquanta contribuì a spiegare come le stelle sintetizzino gli elementi pesanti di cui sono fatti i pianeti, come pure noi stessi. All'inizio degli anni Sessanta Hoyle fondò il prestigioso Istituto di Astronomia di Cambridge, diventandone il primo direttore. Per questi e altri meriti, nel 1972 è stato nominato baronetto: sì, perché Hoyle ha diritto al titolo di Sir! Nondimeno, il suo ostinato rifiuto di accettare la teoria del big bang - nonché la sua adesione a idee poco conformiste in altri campi - ha fatto di Hoyle un fuorilegge proprio nel campo che egli ha contribuito a creare.

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Pagina 170

La scoperta del fatto che tutte le galassie del cosmo si stanno allontanando le une dalle altre aveva già convinto molti astronomi che l'universo era nato da un'esplosione in un momento ben definito del passato ed era ancora in espansione. L'obiezione fondamentale di Hoyle a questo modello era di natura filosofica. Non aveva senso parlare della creazione dell'universo se non esistevano ancora lo spazio e il tempo nei quali l'universo potesse essere creato. «Così viene meno l'universalità delle leggi della fisica» mi spiegò. «La fisica non c'è più». L'unica alternativa a questa assurdità, aveva deciso Hoyle, era che lo spazio e il tempo fossero sempre esistiti. Con Gold e Bondi aveva così inventato la teoria dello stato stazionario, secondo la quale l'universo è infinito sia nello spazio sia nel tempo e genera costantemente nuova materia in virtù di un meccanismo che rimane ancora ignoto.

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Pagina 171

Hoyle aveva quindi riesumato la teoria dello stato stazionario in una forma riveduta e corretta. Invece di un solo big bang, affermava, si erano verificati molti piccoli «bang» nello spazio-tempo preesistente. Queste piccole esplosioni avevano dato luogo alla formazione degli elementi leggeri e allo spostamento verso il rosso degli spettri delle galassie. Quanto alla radiazione cosmica di fondo, la congettura più valida di Hoyle era che si trattasse di radiazione emessa da una sorta di polvere metallica interstellare. Hoyle riconosceva che la sua «teoria dello stato quasistazionario», la quale in effetti sostituiva un miracolo grande con molti piccoli, era tutt'altro che perfetta. Ma sottolineava che le versioni recenti della teoria del big bang, le quali postulano l'esistenza dell'inflazione, della materia oscura e di altri fenomeni esotici, sono insoddisfacenti per ragioni assai più profonde. «E' come la teologia medioevale! » esclamò in un raro scatto d'ira.

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Pagina 176

La teoria del big bang svolge nei confronti dell'astronomia lo stesso ruolo che la teoria della selezione naturale ha avuto nei confronti della biologia: le conferisce coesione, significato e un filo conduttore unitario. Ciò non vuol dire che la teoria possa spiegare tutti i fenomeni, o che lo farà mai. La cosmologia, nonostante la sua stretta connessione con la fisica delle particelle, la più minuziosa e precisa delle scienze, è ben lontana dall'essere altrettanto precisa. Questo è dimostrato dalla persistente incapacità degli astronomi di trovare un accordo sul valore della costante di Hubble, che rappresenta una misura delle dimensioni, dell'età e del ritmo di espansione dell'universo. Per ricavare la costante di Hubble occorre conoscere l'ampiezza dello spostamento verso il rosso delle galassie e la loro distanza dalla Terra. La prima misurazione è semplice, ma la seconda è terribilmente complicata. Gli astronomi non possono partire dal presupposto che la luminosità apparente di una galassia sia correlata in modo semplice alla sua distanza; la galassia potrebbe essere vicina, o potrebbe essere solo intrinsecamente luminosa. Secondo alcuni astronomi l'universo ha 10 miliardi di anni o anche meno; altri sono parimenti certi che non possa avere meno di 20 miliardi di anni.

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Pagina 178

LA FINE DELLA SCOPERTA


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La cosmologia ironica, ovviamente, continuerà finché ci saranno poeti ricchi di immaginazione e ambiziosi come Hawking, Linde, Wheeler, e, sì... Hoyle. Le loro visioni sono a un tempo mortificanti, in quanto mettono in evidenza il limitato raggio d'azione della nostra conoscenza empirica, ed esaltanti, poiché testimoniano anche la portata illimitata dell'immaginazione umana. Nel migliore dei casi, la cosmologia ironica può alimentare il nostro timore reverenziale. Ma non è scienza.

Forse John Donne parlava per Hawking, e per tutti noi, quando scrisse: «I miei pensieri raggiungono tutto, comprendono tutto. Inesplicabile mistero; io, loro creatore, sono in una prigione angusta, in un letto di malattia, da qualche parte, e qualcuna delle mie creature, qualcuno dei miei pensieri è con il Sole e oltre il Sole, raggiunge il Sole e supera il Sole con un sol passo, è dovunque». Che questo serva da epitaffio per la cosmologia.

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LA FINE DELLA BIOLOGIA EVOLUZIONISTICA


Nessun'altra area della scienza è condizionata dal proprio passato come la biologia evoluzionistica. Essa è pervasa da quella che il critico letterario Harold Bloom ha chiamato «angoscia dell'influenza». La disciplina della biologia evoluzionistica può essere identificata in larga misura con lo sforzo costante da parte degli eredi intellettuali di Darwin di rassegnarsi alla sua immensa influenza. Darwin aveva basato la teoria della selezione naturale, componente essenziale della sua concezione, su due osservazioni. In primo luogo, le piante e gli animali generano di solito più discendenti di quanti ne possa sostentare l'ambiente. (Darwin aveva mutuato quest'idea dall'economista britannico Thomas Malthus). In secondo luogo, questi discendenti differiscono leggermente dai genitori e fra di loro. Darwin aveva concluso che ogni organismo, nella sua lotta per sopravvivere abbastanza a lungo da riprodursi, entra in competizione diretta o indiretta con gli altri organismi della stessa specie.

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Pagina 189 [ Stephen Jay Gould ]

IL PIANO DELLA CONTINGENZA CASUALE DI GOULD


Naturalmente, alcuni biologi contemporanei si ribellano all'idea che la loro attività consista soltanto nell'aggiungere note in calce al magnum opus di Darwin. Uno dei più forti (nel senso inteso da Bloom) eredi di Darwin è Stephen Jay Gould della Harvard, il quale ha cercato di opporsi all'influenza del maestro ridimensionando l'importanza della sua teoria e sostenendo che essa non è poi in grado di spiegare granché. Gould cominciò a delineare la propria posizione filosofica negli anni Sessanta attaccando la veneranda dottrina dell'uniformismo (o attualismo), secondo la quale le forze geofisiche che hanno modellato la Terra e la vita sono state più o meno costanti nel tempo.

Nel 1972 Gould e Niles Eldredge dell'American Museum of Natural History di New York estesero questa critica all'evoluzione biologica introducendo la teoria degli equilibri punteggiati (chiamata anche, dai critici di Gould ed Eldredge, evoluzione a scatti). Soltanto di rado, sostenevano Gould ed Eldredge, vengono create nuove specie mediante quel tipo di evoluzione graduale e lineare descritto da Darwin. Al contrario, la speciazione è un evento relativamente rapido che si verifica quando un gruppo di organismi si discosta dalla propria popolazione parentale stabile e intraprende un particolare percorso genetico. La speciazione deve dipendere non da processi adattativi come quelli descritti da Darwin (e da Dawkins), ma da fattori molto più particolari, complessi e contingenti.

Nei suoi scritti successivi, Gould ha sottoposto a un incessante fuoco incrociato certe idee che, a suo dire, sono implicite in molte interpretazioni della teoria darwiniana: il progresso e l'inevitabilità. L'evoluzione, secondo Gould, non manifesta alcuna direzione coerente, e nessuno dei suoi prodotti - tantomeno Homo sapiens - è in alcun senso inevitabile; anche facendo scorrere dall'inizio il «film della vita» per un milione di volte, questa peculiare scimmia dal cervello maggiorato potrebbe non nascere mai. Gould ha inoltre attaccato il determiniamo genetico in tutte le occasioni in cui si è imbattuto in esso, sia nelle chiacchiere pseudoscientifiche sulla razza e l'intelligenza come nelle assai più rispettabili teorie connesse alla sociobiologia.

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Pagina 197

Gould conveniva inoltre con Gunther Stent sul fatto che il cervello umano, conformato per la sopravvivenza nella società preindustriale, non è semplicemente in grado di risolvere certe questioni. La ricerca ha dimostrato che gli uomini sono incapaci di affrontare problemi che coinvolgono le probabilità e le interazioni di variabili complesse, come, per esempio, il problema della determinazione genetica dell'individuo rispetto a quella culturale. «La gente non capisce che, se i geni e la cultura interagiscono - e naturalmente è così -, non si può poi dire che il prodotto è per il venti per cento geni e per l'ottanta per cento ambiente. Non lo si può dire. Non ha senso. La proprietà emergente è la proprietà emergente, e questo è tutto quanto se ne potrà ma i dire». Ma Gould non era di quelli che attribuiscono alla vita o alla mente proprietà mistiche. «Sono un materialista di vecchio stampo» mi disse. «Credo che la mente sia un prodotto delle complessità dell'organizzazione neurale, che senza dubbio non comprendiamo molto bene».

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Pagina 200

(...)

E' un vero maestro della scienza ironica nel senso della capacità negativa. La sua concezione della vita può nondimeno essere riassunta nel vecchio detto: «Quel che capita capita».

Gould naturalmente si esprime in termini più raffinati. Durante il nostro colloquio osservò che molti scienziati non considerano parte della scienza la storia, che si occupa di particolari e di ciò che è contingente. «Penso che sia una tassonomia erronea. La storia è un diverso tipo di scienza». Gould ammetteva di trovare eccitante la vaghezza della storia, la sua resistenza all'analisi diretta. «Ne sono innamorato! Per questo, nel mio intimo, sono uno storico». Trasformando la biologia evoluzionistica in storia - una disciplina intrinsecamente interpretativa e ironica, come la critica letteraria - Gould la rende più trattabile per uno dotato delle sue considerevoli capacità retoriche. Se la storia della vita è una miniera senza fondo di eventi in larga misura casuali, egli può continuare a sfruttarla, accarezzando verbalmente un fatto strano dopo l'altro, senza mai temere che il suo lavoro sia divenuto insignificante o superfluo. Mentre la maggior parte degli scienziati cerca di distinguere il segnale sottostante alla natura, Gould continua a richiamare l'attenzione sul rumore. Gli equilibri punteggiati in realtà non rappresentano affatto una teoria, ma una descrizione del rumore.

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Pagina 202 [ Lynn Margulis, James Lovelock ]

L'ERESIA DI GAIA


Come ha inglobato le proposte di Gould senza praticamente batter ciglio, così Darwin ha metabolizzato le idee di un'altra aspirante scienziata forte, Lynn Margulis dell'Università del Massachusetts ad Amherst. La Margulis ha sfidato quella che definisce l'ortodossia ultradarwiniana con diverse proposte. La prima e più fortunata è stata l'introduzione del concetto di simbiosi. Darwin e i suoi eredi avevano messo in evidenza il ruolo della competizione tra individui e specie in evoluzione. Negli anni Sessanta la Margulis cominciò a sostenere che la simbiosi era stata un fattore di pari - se non maggiore - importanza nell'evoluzione della vita. Uno dei massimi misteri della biologia evoluzionistica riguarda l'evoluzione dei procarioti - cellule prive di nucleo che rappresentano i più semplici fra tutti gli organismi - in eucarioti, cellule dotate di nucleo. Tutti gli organismi pluricellulari, compreso il corpo umano, sono costituiti di cellule eucariotiche.

La Margulis ipotizzò che gli eucarioti possano essere comparsi allorché un procariote ne assorbì un altro più piccolo, che divenne il suo nucleo. La biologa ipotizzò che simili cellule andassero considerate non come organismi individuali ma come strutture composite. Dopo che la Margulis riuscì a fornire esempi di relazioni simbiotiche tra microrganismi viventi, le sue idee sul ruolo della simbiosi nelle prime fasi dell'evoluzione acquistarono gradualmente credito. Ma lei non si fermò. Come Gould ed Eldredge, sostenne che i consueti meccanismi darwiniani non erano in grado di render conto delle discontinuità e dei periodi di stasi osservati nella documentazione fossile. La simbiosi, suggerì, poteva spiegare perché le specie compaiano così all'improvviso e perché si perpetuino tanto a lungo senza cambiare.

Il grande rilievo dato dalla Margulis alla simbiosi favorì l'insorgere di un'idea molto più radicale: Gaia. Il concetto e il nome (Gaia, o Gea, era la dea greca della Terra) furono proposti originariamente nel 1972 da James Lovelock, un chimico e inventore britannico indipendente che è forse ancor più iconoclasta della Margulis. Gaia si presenta sotto molti aspetti, ma l'idea di fondo è che il biota, l'insieme di tutta la vita terrestre, sia indissolubilmente legato in una relazione simbiotica con l'ambiente, che comprende l'atmosfera, i mari, e altri aspetti della superficie terrestre. Il biota regola chimicamente l'ambiente in modo tale da favorire la propria sopravvivenza. La Margulis fu subito attratta dall'idea, e da allora ha collaborato con Lovelock per divulgarla e sostenerla.

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La Margulis respingeva l'idea - spesso associata a Gaia - che la Terra sia in qualche senso un organismo vivente. «La Terra ovviamente non è un organismo vivo,» disse «perché nessun singolo organismo vivente ricicla i propri scarti. E un'idea così antropomorfica, così fuorviante». A suo dire, James Lovelock diffondeva questa metafora perché pensava che avrebbe giovato alla causa dell'ambientalismo, e perché era in sintonia con le sue inclinazioni di tipo spiritualistico.

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LA PASSIONE DI KAUFFMAN PER L'ORDINE

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Kauffman diventa eloquente e persuasivo al massimo quando è in atteggiamento critico. Egli ha affermato che la teoria dell'evoluzione propugnata da biologi come Dawkins è fredda e meccanica: non rende giustizia alla grandiosità e al mistero della vita. E' ha ragione; c'è qualcosa di insoddisfacente, di tautologico, nella teoria darwiniana, anche quando viene presentata da un retore abile come Dawkins. Ma Dawkins, almeno, distingue tra entità viventi e non viventi. Kauffman sembra concepire tutti i fenomeni, dai batteri alle galassie, come manifestazioni di forme matematiche astratte che subiscono permutazioni senza fine. E' un esteta della matematica. La sua visione è vicina a quella dei fisici delle particelle che concepiscono Dio come un geometra. Kauffman ha sostenuto che la sua concezione della vita è più ricca di significato e, più confortante rispetto a quella di Dawkins. Ma la maggior parte di noi, credo, riesce a identificarsi più facilmente con i piccoli e intraprendenti replicanti di Dawkins che con le funzioni booleane nello spazio a N dimensioni di Kauffman. Che senso hanno, e che conforto possono fornire queste astrazioni?

IL VOLTO CONSERVATORE DELLA SCIENZA


Il desiderio delle nuove generazioni di lasciare la propria impronta nel mondo costituisce una costante minaccia per lo statu quo, nella scienza come in tutte le attività umane. Anche la società è insaziabilmente avida di novità. Questi due fenomeni speculari sono in larga misura responsabili del rapido avvicendamento degli stili nelle arti, ove si persegue il cambiamento fine a se stesso. Neppure la scienza è immune da tali influenze. Gli equilibri punteggiati di Gould, l'ipotesi Gaia della Margulis e l'anticaos di Kauffman hanno avuto tutti il loro momento di celebrità. Ma, per ovvie ragioni, è molto più difficile conseguire mutamenti duraturi nella scienza che nelle arti. Il successo della scienza deriva in gran parte dal suo atteggiamento conservatore, dalla sua insistenza sulla necessità di livelli elevati di efficacia. La meccanica quantistica e la relatività generale erano quanto di più nuovo e sorprendente si potesse desiderare. Ma furono accettate, in ultima analisi, non perché comunicassero un fremito intellettuale ma perché erano efficaci: sapevano prevedere con esattezza l'esito degli esperimenti. Le vecchie teorie sono vecchie per una buona ragione. Sono robuste e flessibili. Presentano una magica corrispondenza con la realtà. Possono perfino essere Vere.

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Pagina 223 [ Edward 0. Wilson ]

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LA FINE DELLE SCIENZE SOCIALI


Tutto sarebbe andato liscio per Edward 0. Wilson se soltanto fosse rimasto fedele alle formiche. Le formiche lo avevano indotto ad accostarsi alla biologia durante l'adolescenza trascorsa in Alabama, ed erano poi rimaste la sua massima fonte di ispirazione. Wilson ha scritto innumerevoli articoli e diversi libri su queste minuscole creature. Colonie di formiche sono schierate lungo le pareti del suo studio presso il Museo di Zoologia Comparata della Harvard University.

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Pagina 225

Ci sono due - almeno due - Edward Wilson. Uno è il poeta degli insetti sociali e l'appassionato difensore di tutta la biodiversità della Terra. L'altro è un uomo estremamente ambizioso e competitivo, in lotta con la consapevolezza di essere un ritardatario e con la percezione che la sua disciplina è più o meno completa. La reazione di Wilson all'angoscia dell'influenza è stata del tutto diversa da quella di Gould, della Margulis, di Kauffman e di altri che sono venuti ai ferri corti con Darwin. Pur con tutte le loro differenze, questi hanno reagito all'autorità di Darwin sostenendo che la teoria della selezione naturale ha un potere esplicativo limitato, che l'evoluzione è assai più complicata di quanto Darwin e i suoi attuali eredi abbiano supposto. Wilson ha intrapreso la direzione opposta: ha cercato cioè di estendere il darwinismo, in modo da dimostrare che esso era in grado di spiegare più di quanto chiunque - perfino Richard Dawkins - avesse immaginato.

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(...) «Non stiamo per detronizzare l'evoluzione per selezione naturale, né la nostra interpretazione fondamentale della speciazione» disse. «Quindi anch'io sono scettico sul fatto che stiamo andando incontro a mutamenti rivoluzionari per quanto riguarda il modo in cui funziona l'evoluzione, o il modo in cui avviene la diversificazione o quello in cui si crea la biodiversità, al livello delle specie». C'è molto da imparare sullo sviluppo embrionale, sull'interazione tra biologia umana e cultura umana, sulle ecologie e sugli altri sistemi complessi. Ma le leggi fondamentali della biologia, affermò, stanno «cominciando, a mio giudizio, a trovare una sistemazione pressoché definitiva. Come funziona l'evoluzione, l'algoritmo, la macchina, che cosa la fa andare».

Ciò che Wilson avrebbe potuto aggiungere è che le agghiaccianti implicazioni morali e filosofiche della teoria darwiniana erano state esposte in maniera esplicita molto tempo prima. Nel suo libro del 1871, L'origine dell'uomo, Darwin aveva osservato che, se gli uomini si fossero evoluti come le api, «non v'è quasi alcun dubbio che le nostre femmine non maritate crederebbero, come le api operaie, loro sacro dovere uccidere i fratelli, e le madri tenterebbero di uccidere le loro figlie feconde; e nessuno penserebbe a opporsi». In altre parole, noi esseri umani siamo degli animali, e la selezione naturale ha modellato non soltanto i nostri corpi ma anche le nostre convinzioni, il nostro senso fondamentale del bene e del male. Uno sgomento recensore vittoriano dell' Origine dell'uomo deplorava sulla «Edinburgh Review»: «Se queste idee fossero vere, vorrebbe dire che è imminente una rivoluzione nel pensiero destinata a scuotere la società dalle fondamenta, annientando l'inviolabilità della coscienza e del sentimento religioso». Tale rivoluzione si è in effetti verificata molto tempo fa. Prima della fine del diciannovesimo secolo Nietzsche aveva proclamato che non vi sono presupposti divini per la moralità umana: Dio è morto. Non c'era dunque bisogno che venisse a dircelo la sociobiologia.

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QUALCHE PAROLA DA NOAM CHOMSKY


Uno dei più stimolanti critici della sociobiologia e di altre impostazioni darwiniane delle scienze sociali è Noam Chomsky, che è noto non soltanto come linguista ma anche come uno dei più intransigenti critici sociali d'America.

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(...) La posizione di Chomsky nella storia delle idee è stata paragonata a quelle di Descartes e di Darwin. Negli anni Cinquanta, quando seguiva i corsi per il dottorato, la linguistica - come tutte le scienze sociali - era dominata dal comportamentismo, che si rifaceva all'idea di John Locke secondo cui la mente è all'inizio una tabula rasa, una sorta di lavagna pulita che viene scritta dall'esperienza. Chomsky aveva rifiutato questa impostazione, sostenendo che non era possibile che i bambini imparassero a parlare soltanto per induzione, ovvero per tentativi ed errori, come credevano i comportamentisti. Alcuni principi fondamentali del linguaggio - una specie di grammatica universale - dovevano essere già impressi nel nostro cervello. Le teorie di Chomsky, che egli espose per la prima volta in un'opera pubblicata nel 1957, Le strutture della sintassi, contribuirono a sbaragliare definitivamente il comportamentismo e spianarono la strada a una concezione più kantiana, orientata geneticamente, del linguaggio e dei processi cognitivi dell'uomo."

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La prospettiva evoluzionistica ha convinto Chomsky, semmai, del fatto che forse abbiamo soltanto una capacità limitata di comprendere la natura, umana o meno. Egli respinge l'idea, assai diffusa fra gli scienziati, che l'evoluzione abbia modellato il cervello facendone una macchina universale per apprendere e risolvere problemi. Chomsky crede, come Gunther Stent e Colin McGinn, che la struttura innata della nostra mente imponga dei limiti alla nostra possibilità di comprendere. (Stent e McGinn sono pervenuti a questa conclusione in parte grazie alle sue ricerche).

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Nel suo libro del 1988, Linguaggio e problemi della conoscenza, egli suggeriva che la nostra creatività verbale potrebbe dimostrarsi più utile delle nostre tecniche scientifiche per affrontare molte questioni relative alla natura umana. «E' certo possibile - assolutamente probabile, si potrebbe pensare - che si apprenderà sempre di più sulla vita dell'uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica» scriveva. «La capacità di produrre scienza è solo un lato della nostra dotazione mentale. Noi la utilizziamo quando possiamo ma non siamo limitati a ciò, per fortuna».

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7
LA FINE DELLE NEUROSCIENZE


La mente, e non lo spazio, rappresenta l'ultima frontiera della scienza. Anche quanti nutrono la massima fiducia nel potere della scienza di risolvere i problemi che la riguardano considerano la mente una fonte inesauribile di interrogativi. Il problema della mente può essere affrontato in modi diversi. C'è la dimensione storica: come e perché Homo sapiens è diventato così intelligente? Darwin ha fornito una risposta di carattere generale molto tempo fa: la selezione naturale ha favorito gli ominidi capaci di servirsi degli utensili, di intuire le azioni dei potenziali concorrenti, di organizzarsi in gruppi per cacciare, di mettere in comune le informazioni mediante il linguaggio e di adattarsi alle circostanze mutevoli. Insieme alla genetica moderna, la teoria darwiniana ha molto da dire sulla struttura della nostra mente e quindi sul nostro comportamento sessuale e sociale (anche se meno di quanto piacerebbe forse a Edward Wilson e ad altri sociobiologi).

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Pagina 248

(...) La coscienza, la nostra sensazione soggettiva di consapevolezza, per contro, è sempre sembrata un enigma di tipo diverso, non fisico ma metafisico. Per gran parte di questo secolo, la coscienza non è stata considerata un argomento suscettibile di indagine scientifica. Benché il comportamentismo fosse morto, il suo retaggio rimaneva vivo nella riluttanza degli scienziati a prendere in considerazione i fenomeni soggettivi, e la coscienza in particolare.

Tale atteggiamento mutò quando Francis Crick rivolse la sua attenzione al problema. Crick è uno dei riduzionisti più radicali della storia della scienza. Dopo aver scoperto nel 1953, insieme a James Watson, la struttura a doppia elica del DNA, si era dedicato a studiare come l'informazione genetica sia codificata nel DNA. Questi risultati avevano fornito alla teoria dell'evoluzione di Darwin e alla teoria dell'ereditarietà di Mendel la base empirica di cui necessitavano.

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Pagina 255

LE POSE DI GEPALD EDELMAN INTORNO ALL'ENIGMA


L'atteggiamento di Crick riguardo al problema della coscienza si fonda sul presupposto che nessuna teoria della mente avanzata finora abbia molto valore. Tuttavia c'è almeno uno scienziato autorevole, addirittura un premio Nobel, il quale sostiene di essersi spinto molto in avanti verso la soluzione del problema della coscienza: Gerald Edelman.

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Tutto questo però era soltanto un preludio al grande progetto di Edelman di creare una teoria della mente. Egli ha esposto il suo pensiero in quattro libri: Darwinismo neurale, Topobiologia, Il presente ricordato e Sulla materia della mente. La sostanza della teoria è che, come le pressioni ambientali selezionano gli individui più adatti di una specie, così gli input del cervello selezionano gruppi di neuroni - corrispondenti, per esempio, a ricordi utili - rafforzando le connessioni tra loro.

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Pagina 266

Edelman aggiunse che, a quanto si diceva, alla domanda se la scienza fosse esaurita, Einstein avrebbe risposto: «Può darsi, ma a che cosa serve descrivere una sinfonia di Beethoven in termini di onde elastiche nell'aria?». Einstein, spiegò Edelman, si riferiva al fatto che la fisica da sola non era in grado di affrontare questioni relative al valore, al significato e ad altri fenomeni soggettivi. Si potrebbe rispondere chiedendosi: a che cosa serve descrivere una sinfonia di Beethoven in termini di anelli neurali rientranti? In che misura la sostituzione dei neuroni alle onde elastiche nell'aria, o agli atomi, o a qualsiasi fenomeno fisico, rende giustizia alla magia e al mistero della mente? Edelman non può accettare, come fa Francis Crick, che non siamo «altro che un pacchetto di neuroni». Per questo offusca la sua teoria neurale di base infarcendola di termini e concetti presi a prestito dalla biologia evoluzionistica, dall'immunologia e dalla filosofia - per conferirle maggiore grandiosità, risonanza, fascino. E' come uno scrittore che rischia l'oscurità - o addirittura la cerca - nella speranza di attingere a una verità più profonda. E' un professionista della neuroscienza ironica che però, purtroppo, manca delle necessarie doti retoriche.

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Pagina 267 [ John Eccles ]

DUALISMO QUANTISTICO

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Pagina 268

La mente esercita la sua influenza sul cervello «decidendo» quali neuroni si attiveranno e quali no. Purché la probabilità si conservi in tutto il cervello, questo esercizio del libero arbitrio non è in contrasto con la conservazione dell'energia. «Non abbiamo alcuna prova di tutto ciò» riconobbe allegramente Eccles dopo avermi spiegato la sua teoria in un'intervista telefonica. Nondimeno definì l'ipotesi «un immenso progresso» destinato a promuovere una rinascita del dualismo. Il materialismo e tutta la sua abietta progenie positivismo logico, comportamentismo, teoria dell'identità (che identifica gli stati della mente con stati fisici del cervello) - «sono finiti» proclamò Eccles.

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Pagina 269

CIO CHE REALMENTE VUOLE ROGER PENROSE
(...)

Il punto chiave dell'argomentazione di Penrose è il teorema di incompletezza di Gódel. Tale teorema stabilisce che qualunque sistema assiomatizzato coerente dotato di un grado di complessità superiore a un certo livello elementare contiene proposizioni che non possono essere né dimostrate né confutate a partire dai propri assiomi; pertanto il sistema è sempre incompleto. Secondo Penrose, il teorema implica che nessun modello «computabile» - cioè né la fisica classica, né la scienza dei calcolatori, né le neuroscienze - può riprodurre le facoltà creative, o meglio intuitive della mente. Questa deve trarre le proprie potenzialità da qualche fenomeno più sfuggente, probabilmente correlato con la meccanica quantistica.

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Pagina 270

La fisica contemporanea non ha assolutamente senso, prosegui. La meccanica quantistica, in particolare, deve avere qualcosa che non va, dal momento che è così palesemente in contraddizione con la realtà macroscopica ordinaria. Come è possibile che gli elettroni si comportino come particelle in un esperimento e come onde in un altro? Come possono trovarsi in due posti nello stesso momento? Deve esistere una teoria più profonda che elimini i paradossi della meccanica quantistica e i suoi sconcertanti elementi soggettivi. «In ultima istanza la nostra teoria deve ammettere la soggettività, ma non vorrei che la teoria stessa fosse soggettiva». In altre parole, la teoria dovrebbe tener conto dell'esistenza delle menti, ma non dovrebbe richiederla.

Né la teoria delle supercorde - che dopotutto è una teoria quantistica - né nessun'altra delle attuali candidate al ruolo di teoria unitaria hanno, secondo Penrose, le caratteristiche necessarie. «Se si dovesse arrivare a una teoria totale della fisica di questo genere, per qualche aspetto essa non potrebbe ragionevolmente essere analoga ad alcuna delle teorie di cui sono a conoscenza» disse. Una simile teoria dovrebbe essere caratterizzata da «una specie di naturalismo irresistibile». In altre parole, la teoria dovrebbe avere senso.

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Pagina 272

Nel 1994, due anni dopo il mio incontro con Penrose a Oxford, uscì il suo libro Ombre della mente. Nella Mente nuova dell'imperatore egli era stato abbastanza vago circa il luogo in cui gli effetti quasiquantistici potevano operare la loro magia. In questo secondo volume azzardava una congettura sui microtubuli, minuscole gallerie di proteina che si comportano come una specie di scheletro per la maggior parte delle cellule, compresi i neuroni. L'ipotesi di Penrose si basava sulla pretesa scoperta di Stuart Hameroff, un anestesiologista dell'Università dell'Arizona, secondo il quale l'anestesia inibisce il movimento degli elettroni nei microtubuli. Erigendo un poderoso edificio teorico sulla base di questo fragile indizio, Penrose congetturò che i microtubuli effettuassero calcoli quasiquantistici non deterministici che in qualche modo avrebbero dato origine alla coscienza. Ciascun neurone sarebbe quindi non un semplice elemento a due stati, ma già di per sé un complesso calcolatore.

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Pagina 289 [ Marvin Minsky ]

Minsky, a dispetto della sua reputazione di fanatico riduzionista, è in realtà un antiriduzionista. A suo modo, è perfino un romantico, più di quanto non lo sia Roger Penrose. Quest'ultimo conserva la speranza che la mente possa essere ridotta a un unico meccanismo quasiquantistico. Minsky invece insiste nel dire che nessuna riduzione del genere è possibile, perché la molteplicità è l'essenza della mente, di tutte le menti, degli uomini come delle macchine. La sua violenta reazione contro la coerenza e la semplicità riflette, credo, non soltanto un giudizio di carattere scientifico, ma qualcosa di più profondo. Minsky, come Paul Feyerabend, David Bohm e altri grandi romantici, sembra temere la Risposta, la rivelazione destinata a porre fine a tutte le rivelazioni. Per sua fortuna, è improbabile che una rivelazione del genere possa venire dalle neuroscienze, poiché qualsiasi teoria utile della mente sarà con ogni probabilità terribilmente complessa, come egli stesso riconosce. Per sua sfortuna, però, sembra altresì improbabile, data questa complessità, che lui o anche i suoi nipoti possano assistere alla nascita di macchine con caratteristiche umane.

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Pagina 293

8
LA FINE DELLA COMPLESSITA'


Rimpiango l'era reaganiana. Ronald Reagan mi rendeva così facili le scelte morali e politiche: quello che piaceva a lui non piaceva a me. Le Guerre Stellari, per esempio.

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Pagina 294 [ James Gleick, Edward Lorenz, Henri Poincaré ]

La disciplina della complessità divenne a tutti gli effetti un fenomeno culturale di massa nel 1987, con la pubblicazione di Caos. La nascita di una nuova scienza, scritto dall'ex corrispondente del «New York Times» James Gleick. Dopo che questo libro straordinario ebbe raggiunto la vetta delle classifiche di vendita, dozzine di giornalisti e scienziati cercarono di ripeterne il successo scrivendo libri simili su argomenti analoghi. Nel «messaggio» della complessità coesistono due aspetti per certi versi contraddittori. Il primo consiste nel fatto che molti fenomeni sono non lineari e quindi intrinsecamente imprevedibili, in quanto azioni arbitrariamente piccole possono avere conseguenze di vasta portata e, appunto, impossibili da prevedere. Edward Lorenz, un meteorologo del MIT che è stato fra i pionieri della complessità, denominò questo fenomeno «effetto farfalla», volendo indicare come il battito d'ali di una farfalla nell'Iowa potrebbe, in linea di principio, innescare una valanga di effetti che avrebbe come risultato finale un monsone in Indonesia. Dal momento che non possiamo mai conoscere se non in modo approssimativo un sistema meteorologico, la nostra possibilità di prevederne il comportamento è drasticamente limitata.

Questa intuizione non era del tutto nuova. Henri Poincaré, verso la fine del secolo scorso, aveva ammonito che «piccole differenze nelle condizioni iniziali possono produrre differenze grandissime nei fenomeni finali. Un piccolo errore nelle prime produrrà un errore enorme in questi ultimi. La previsione diventa impossibile» Gli studiosi della complessità - che chiamerò «complessologi» - amano anche sottolineare come molti fenomeni naturali siano «emergenti», in quanto presentano proprietà che non possono essere previste o comprese esaminando semplicemente le singole parti del sistema. Anche l'emergenza è una vecchia idea, connessa con l'olismo, il vitalismo e altre dottrine antiriduzionistiche che risalgono quantomeno al secolo scorso. Di certo Darwin non pensava che la selezione naturale potesse essere dedotta dalla meccanica newtoniana.

Questo è dunque l'aspetto negativo del «messaggio» insito nella complessità. L'aspetto positivo è il seguente: l'avvento dei calcolatori e di raffinate tecniche matematiche non lineari aiuterà gli scienziati a comprendere i fenomeni caotici, complessi ed emergenti che hanno resistito all'analisi condotta con i metodi riduzionistici del passato.

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Pagina 310

I modelli numerici funzionano meglio in certi casi che in altri. Funzionano particolarmente bene in astronomia e in fisica delle particelle, perché le forze e gli oggetti coinvolti corrispondono con molta precisione alle loro definizioni matematiche. Inoltre, la matematica aiuta i fisici a definire ciò che è altrimenti indefinibile. Un quark è una costruzione puramente matematica; non ha alcun significato al di fuori della sua definizione matematica. Gli attributi dei quark - il charm, il colore, la stranezza - sono proprietà matematiche che non danno luogo ad alcuna interpretazione analogica nel mondo macroscopico in cui viviamo. Le teorie matematiche sono meno convincenti quando vengono applicate a fenomeni più concreti e complessi, come quelli che rientrano nel campo della biologia. Come ha osservato il biologo evoluzionista Ernst Mayr, ogni organismo è unico, e per di più cambia da momento a momento. Questa è la ragione per cui i modelli matematici dei sistemi biologici hanno in generale una minore capacità predittiva rispetto alla fisica. Dovremmo considerare con altrettanto scetticismo la loro capacità di fornire verità circa la natura.

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Pagina 316 [ Norbert Wiener, Claude Shannon ]

CIBERNETICA E ALTRE CATASTROFI


Nella storia si contano numerosi tentativi, poi falliti, di elaborare una teoria matematica in grado di spiegare e prevedere una vasta gamma di fenomeni, compresi quelli sociali. Nel diciassettesimo secolo Leibniz fantasticava intorno a un sistema di logica così potente da essere in grado di risolvere non soltanto tutti i problemi matematici ma anche quelli filosofici, morali e politici. Il suo sogno è sopravvissuto anche nel secolo del dubbio. Dalla seconda guerra mondiale in poi gli scienziati hanno di volta in volta subito il fascino di almeno tre teorie del genere: la cibernetica, la teoria dell'informazione e la teoria delle catastrofi.

La cibernetica fu creata in larga misura da un'unica persona, Norbert Wiener, un matematico del Massachusetts Institute of Technology. Il suo libro del 1948, La cibernetica, tradiva nel sottotitolo - Controllo e comunicazione nell'animale e nella macchina le sue ambizioni. Wiener aveva tratto il suo neologismo dalla parola greca kybernétes, «timoniere». Egli sosteneva che era possibile creare una teoria unitaria capace di spiegare non solo il funzionamento delle macchine ma anche l'andamento di tutti i fenomeni biologici, dagli organismi unicellulari fino alle economie delle nazioni. Tutte queste entità elaborano informazione e agiscono su di essa; tutte impiegano meccanismi quali la retroazione positiva e negativa e filtri per distinguere i segnali dal rumore.

Negli anni Sessanta la cibernetica aveva perso il suo smalto. Nel 1961 l'autorevole ingegnere elettrotecnicp statunitense John R. Pierce osservava in tono asciutto che «nel nostro paese la parola cibernetica è stata usata nel modo più indiscriminato dalla stampa e dalle riviste popolari per semiletterati, se non per semianalfabeti». La cibernetica ha ancora un certo seguito in talune enclave isolate, particolarmente in Russia (dove, durante l'èra sovietica, era ben accetta la visione della società come una macchina suscettibile di essere regolata con precisione in conformità con i precetti della cibernetica). L'influenza di Wiener si avverte ancora nella cultura popolare degli Stati Uniti se non nella scienza stessa: a lui dobbiamo parole come cyberspazio, cyberpunk e cyborg.

Strettamente collegata alla cibernetica è la teoria dell'informazione, cui Claude Shannon, un matematico dei Bell Laboratories, diede vita nel 1948 con un articolo in due parti intitolato Una teoria matematica della comunicazione. Il risultato fondamentale ottenuto da Shannon fu la scoperta di una definizione matematica dell'informazione basata sul concetto termodinamico di entropia. A differenza della cibernetica, la teoria dell'informazione continua a prosperare nell'ambito della nicchia cui era destinata. La teoria di Shannon era stata infatti concepita per migliorare la trasmissione dell'informazione su una linea telefonica o telegrafica soggetta a interferenza elettrica, o rumore. Essa serve ancora come base teorica per la codifica, la compressione, la cifratura e altri aspetti dell'elaborazione dell'informazione.

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Pagina 318 [ René Thom ]

Forse la metateoria che è stata oggetto delle lodi più sperticate è quella chiamata a buon diritto teoria delle catastrofi. Creata dal matematico francese René Thom negli anni Sessanta, essa era stata sviluppata come formalismo puramente matematico, ma lo stesso Thom e altri avevano cominciato ad affermare che avrebbe potuto favorire una più profonda comprensione di un'ampia gamma di fenomeni caratterizzati da un comportamento discontinuo. L'opera fondamentale di Thom è il suo libro del 1972 Stabilità strutturale e morfogenesi, che fu accolto con stupore e reverenza dalla critica in Europa e negli Stati Uniti.

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Pagina 319 [ Philip Anderson ]

«MORE IS DIFFERENT»


Perfino alcuni ricercatori associati al Santa Fe Institute sembrano dubitare del fatto che la scienza possa raggiungere quella teoria unitaria e trascendente dei fenomeni complessi vagheggiata da John Holland, Per Bak e Stuart Kauffman. Del gruppo degli scettici fa parte Philip Anderson, un fisico notoriamente ostinato, vincitore nel 1977 del premio Nobel per le sue ricerche sulla superconduttività e su altri strani comportamenti della materia condensata, il quale è stato tra i fondatori del Santa Fe Institute. Anderson è noto come pioniere dell'antiriduzionismo. In More Is Different, un saggio pubblicato su «Science» nel 1972, egli sosteneva che la fisica delle particelle, e per la verità tutte le impostazioni riduzionistiche, hanno una capacità limitata di spiegare il mondo. La realtà ha una struttura gerarchica, argomentava Anderson, ogni livello della quale è in certo grado indipendente da quelli sovrastanti e sottostanti. «A ciascun livello sono necessarie leggi, idee e generalizzazioni completamente nuove, le quali richiedono ispirazione e creatività in misura non inferiore a quella richiesta al livello precedente» osservava Anderson. «La psicologia non è biologia applicata, e la biologia non è chimica applicata »

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Pagina 321 [ Murray Gell-Mann ]

IL SIGNORE DEI QUARK ESCLUDE «QUALCOS'ALTRO»

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Pagina 327

Gell-Mann osservò che «l'ultimo rifugio degli oscurantisti e dei mistificatori era l'autoconsapevolezza, la coscienza». Gli esseri umani sono ovviamente più intelligenti e consapevoli di sé degli altri animali, ma non sono qualitativamente diversi. «Anche questo è un fenomeno che compare a un certo livello di complessità e presumibilmente deriva dalle leggi fondamentali nonché da un'enorme quantità di circostanze storiche. Roger Penrose ha scritto due libri assurdi basati sulla tesi erronea e già da molto tempo screditata che il teorema di Gódel abbia qualcosa a che fare con l'idea che la coscienza richieda... » e qui fece una pausa «qualcos'altro».

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Pagina 328

Una delle cose che rendono Gell-Mann così indisponente è il fatto che ha quasi sempre ragione. La sua previsione che Kauffman, Bak, Penrose e gli altri non riusciranno a trovare qualcos'altro al di là dell'orizzonte della scienza attuale - qualcosa che possa spiegare meglio della scienza attuale il mistero della vita, della coscienza dell'uomo e dell'esistenza stessa - risulterà probabilmente esatta. Forse Gell-Mann sbaglia - ci si può azzardare a dirlo? - soltanto a pensare che la teoria delle supercorde, con tutte le sue dimensioni aggiuntive e i suoi cappi infinitesimali, sarà prima o poi accettata come parte dei fondamento della fisica.

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Pagina 329

ILYA PRIGOGINE E LA FINE DELLE CERTEZZE

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Pagina 332

La maggior parte dei fisici, secondo Prigogine, pensa che l'irreversibilità sia un'illusione derivante dai limiti delle proprie osservazioni. «Ebbene, questo non l'ho mai potuto accettare, perché in un certo senso sembra indicare che sono le nostre misurazioni, o le nostre approssimazioni, a introdurre l'irreversibilità in un universo temporalmente reversibile!» esclamò Prigogine. «Noi non siamo i padri del tempo. Siamo figli del tempo. Veniamo dall'evoluzione. Ciò che dobbiamo fare è introdurre gli schemi evoluzionistici nelle nostre descrizioni. Ciò di cui abbiamo bisogno è una concezione darwiniana della fisica, una concezione evoluzionistica, biologica della fisica».

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Pagina 336

In cambio delle certezze, Prigogine - come Christopher Langton, Stuart Kauffman e altri complessologi che sono stati chiaramente influenzati dalle sue idee promette il «reincantamento della natura». (Per Bak, nonostante tutta la sua hybris, evita almeno questa retorica pseudospirituale). Quello che sembra intendere con questa espressione è che le teorie vaghe, confuse, impotenti sono in certo qual modo più significative, più rassicuranti delle teorie accurate, precise, potenti di Newton, di Einstein o dei fisici delle particelle contemporanei. Ma perché, ci si domanda, un universo indeterministico e opaco dovrebbe essere meno freddo, crudele e spaventoso di uno deterministico e trasparente? In termini più concreti, perché il fatto che il mondo proceda secondo una dinamica non lineare e probabilistica dovrebbe consolare una donna bosniaca che abbia visto la sua unica figlia violentata e massacrata?

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Pagina 343

CREARE METAFORE


Lo studio del caos, della complessità e della vita artificiale continuerà. Certi studiosi si accontenteranno di giocare nel regno della matematica pura e dell'informatica teorica. Altri, la maggioranza, svilupperanno nuove tecniche matematiche e computazionali a fini ingegneristici. Costoro compiranno progressi quantitativi, quali l'estensione della portata delle previsioni meteorologiche o il miglioramento delle simulazioni ingegneristiche del funzionamento dei motori a reazione o di altre tecnologie complesse. Ma non faranno alcun passo avanti importante nella comprensione della natura; di certo nessuno che sia paragonabile alla teoria dell'evoluzione di Darwin o alla meccanica quantistica. Non ci costringeranno a nessuna revisione significativa della nostra mappa della realtà o del nostro racconto della creazione. Non troveranno ciò che Murray Gell-Mann chiama «qualcos'altro».

Finora i complessologi hanno creato alcune metafore efficaci: l'effetto farfalla, i frattali, la vita artificiale, il confine del caos, la criticità autorganizzata. Ma non ci hanno detto nulla riguardo al mondo che sia a un tempo concreto e davvero sorprendente, in senso negativo o positivo. In alcuni ambiti hanno spostato in avanti seppur in misura modesta i confini della conoscenza, in altri li hanno delineati più nettamente.

Le simulazioni al calcolatore definiscono una specie di metarealtà all'interno della quale possiamo giocare con le teorie scientifiche e anche - in misura limitata - controllarle, ma esse non sono la realtà (anche se molti appassionati hanno perso di vista questa distinzione). Inoltre i calcolatori, dal momento che mettono a disposizione una potenza maggiore per trattare simboli diversi in modi diversi allo scopo di simulare un fenomeno naturale, rischiano di minare alla base la fede degli scienziati nel fatto che le loro teorie sono non soltanto vere ma Vere, essenzialmente e assolutamente vere. I calcolatori, più di qualunque altra cosa, possono affrettare la fine della scienza empirica. Christopher Langton aveva ragione: nel futuro della scienza ci saranno più cose simili alla poesia.

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Pagina 345

9
LA FINE DELLA LIMITOLOGIA

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Pagina 351

La discussione andava progressivamente avvicinandosi - come verso un attrattore strano - a uno degli argomenti preferiti dei matematici e dei fisici con inclinazioni filosofiche: il problema del continuo. La realtà è liscia oppure granulare? Analogica o digitale? Il mondo è descritto nel modo migliore dai cosiddetti numeri reali, che possono essere suddivisi in gradazioni infinitamente sottili, oppure dai numeri interi? I fisici, da Newton fino a Einstein, si erano basati sui numeri reali. Ma la meccanica quantistica indica che la materia e l'energia, e forse anche il tempo e lo spazio (su scale estremamente piccole), si presentano in granelli discreti e indivisibili. Anche i calcolatori rappresentano ogni cosa mediante numeri interi: uno oppure zero.

Chaitin dichiarò i numeri reali «assurdità». La loro precisione è ingannatrice, data l'onnipresenza del rumore e l'assenza di contorni definiti nel mondo. «I fisici sanno che ogni equazione è una menzogna» soggiunse.

Qualcuno schivò il colpo ricorrendo a una citazione da Picasso: «L'arte è una menzogna che ci aiuta a vedere la verità».

Naturalmente i numeri reali sono astrazioni, interloquì Traub, ma sono astrazioni molto potenti, molto efficaci. Naturalmente c'è sempre del rumore, ma esistono vari modi per trattare il rumore in un sistema basato sui numeri reali. Un modello matematico coglie l'essenza di qualcosa. Nessuno pretende che colga l'intero fenomeno.

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Pagina 360

Lee Segel, un biologo israeliano, invitò a usare cautela nelle discussioni pubbliche intorno a questi problemi, per non alimentare i crescenti umori antiscientifici della società. Infatti, continuò, troppi pensavano che Einstein avesse dimostrato che tutto è relativo e che Gódel avesse dimostrato che non si può dimostrare nulla. Tutti annuirono gravemente. La scienza ha una struttura frattale, aggiunse Segel con sicurezza, e ovviamente non c'è limite a ciò che possiamo indagare. Di nuovo tutti annuirono.

Rossler propose un neologismo per indicare ciò che tutti assieme stavano facendo: limitologia. La limitologia è una disciplina postmoderna, disse Rossler, un prodotto dello sforzo continuo di decostruire la realtà che ha caratterizzato questo secolo. Ovviamente, anche Kant aveva lottato contro i limiti della conoscenza. E qualcosa di simile aveva fatto Maxwell, il grande fisico scozzese, immaginando che un omuncolo microscopico, un demone, potesse aiutarci a sconfiggere il secondo principio della termodinamica. Ma la vera lezione del demone di Maxwell, aggiunse Rossler, è che siamo in una prigione termodinamica, dalla quale non potremo mai evadere. Quando acquisiamo informazione dal mondo, contribuiamo alla sua entropia e quindi alla sua inconoscibilità. Stiamo precipitando inesorabilmente verso la morte termica. «Tutta la questione dei limiti della scienza è una questione di demoni» sibilò Rossler. «Stiamo combattendo con i demoni».

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Pagina 372

10
LA TEOLOGIA SCIENTIFICA, OVVERO
LA FINE DELLA SCIENZA DELLE MACCHINE

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Pagina 389 [ Frank Tipler ]

La differenza tra lo scienziato e l'ingegnere è che il primo cerca ciò che è Vero, il secondo ciò che è Bene. La teologia di Tipler mostra che egli è, nel suo intimo, un ingegnere. A differenza di Freeman Dyson, Tipler pensa che la ricerca della conoscenza pura, che egli identifica con la ricerca delle leggi fondamentali che governano l'universo, non sia infinita e che anzi sia quasi al termine. Ma la scienza ha ancora davanti a sé il suo maggior compito: costruire il paradiso. «Come si arriva al Punto Omega? Questo rima- ne ancora il problema» sottolineò Tipler.

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Pagina 393

EPILOGO
IL TERRORE DI DIO


Nel suo libro del 1992, La mente di Dio, il fisico Paul Davies si chiedeva se gli uomini possano raggiungere la conoscenza assoluta - la Risposta - mediante la scienza. Un simile risultato, concludeva Davies, è improbabile, dati i limiti imposti alla conoscenza razionale dall'indeterminazione quantistica, dal teorema di Gódel, dal caos e via dicendo. Forse l'esperienza mistica potrebbe fornire l'unico accesso alla verità assoluta, congetturava Davies, ma aggiungeva di non poter garantire tale possibilità, non avendo mai avuto personalmente alcuna esperienza mistica.

 

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Riferimenti


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