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| << | < | > | >> |Pagina 3Capitolo 1Nel 1775 Thomas Reid, uno dei più autorevoli esponenti della filosofia scozzese, scrisse all'insigne e famoso giudice lord Kames: «Sarei lieto di conoscere l'opinione di Vostro Onore sul seguente fatto: qualora il mio cervello perdesse la sua struttura originale, e qualora, alcune centinaia di anni più tardi, gli stessi materiali venissero messi insieme in maniera così curiosa da diventare un essere intelligente, questo essere sarebbe "me"? E ancora, qualora si formassero a partire dal mio cervello due o tre di tali esseri, sarebbero tutti "me", e di conseguenza un unico essere intelligente?». Nel 2003 Joe King, cantante americano di musica country e western, mi scrisse via e-mail: «Buongiorno, mi chiamo Joe King. Ho grossi problemi fisici. Ho 20 anni, sono alto 80 centimetri, peso 20 chili scarsi, ho 47 ossa rotte e ho subito 6 operazioni chirurgiche. Ultimamente mi sono preoccupato del fatto che, quando morirò, questo corpo menomato potrebbe essere tutto quello che ho. La mia domanda è: crede che la coscienza possa sopravvivere alla morte del cervello? Esistono delle prove scientifiche a supporto?». Non conosciamo la risposta che lord Kames diede a Thomas Reid, né vi dirò – almeno non ancora – quella che ho dato a Joe King. Tali domande, tuttavia, anche senza risposte, rivestono un importante significato sul ruolo della coscienza nelle vite umane. Le persone sono molto interessate alla loro sopravvivenza personale, che vedono per lo più in termini di continuità della propria coscienza. La coscienza è importante; si potrebbe addirittura affermare che è più importante di qualsiasi altra cosa. Lo scopo di questo libro è elaborare una spiegazione su cosa effettivamente essa sia. Lo psicologo britannico Stuart Sutherland, nel suo dizionario di psicologia del 1989, fornì una definizione di coscienza curiosamente sarcastica: «La coscienza è un fenomeno affascinante ma elusivo; è impossibile specificare cos'è, cosa fa o perché si è evoluta. Non è stato scritto, al riguardo, nulla che valga la pena di essere letto». Potrebbe sorprendervi — o forse no — scoprire quanto bene questa definizione sia stata accolta dagli esperti: un'occhiata su internet (per la precisione su Google, marzo 2005) mostra che 48 siti ancora la citano con approvazione. Si tratta, chiaramente, di una definizione deliberatamente inutile; ciononostante, credo che ci possano essere tre ragioni collegate per cui piace alla gente; ognuna di queste è in qualche misura in rapporto con i modi in cui la coscienza personale contribuisce all'autostima dell'essere umano. In primo luogo, la definizione incide direttamente sul senso che le persone hanno della propria importanza metafisica; la coscienza può essere un enigma ma, almeno, è un nostro enigma. Se la coscienza è qualcosa di così speciale e, addirittura, ultraterreno, allora sicuramente anche noi che la possediamo siamo "qualcosa di speciale e ultraterreno". In secondo luogo, la definizione concede alle persone la soddisfazione di avere accesso a informazioni segrete; può risultarci difficile descrivere la natura della coscienza a qualcun altro, ma non è per nulla difficile per noi osservare come funziona nel nostro caso. Anche se non possiamo dire cos'è, ognuno di noi, nel profondo della propria mente, sa di cosa si tratta. In terzo luogo, la definizione mette al suo posto la ricerca scientifica. Sebbene, in generale, le persone siano abbastanza contente che la scienza provi a spiegare il modo in cui funziona il mondo materiale, molti, a dire il vero, non vogliono che la scienza spieghi il funzionamento della mente umana, o, comunque, non di questa parte della mente. Forse temiamo che una coscienza spiegata diventi una coscienza sminuita; di conseguenza, quando un insigne psicologo annuncia che non c'è niente che valga la pena leggere in materia, noi continuiamo ad essere sicuri che, per il momento, la coscienza è salva. Potreste aver scoperto di essere vagamente d'accordo con ognuna di queste opinioni; per quanto concerne l'ultima, ammetto che, nonostante mi sia occupato di "studi sulla coscienza" per trent'anni, anch'io sento una forma di orgoglio perverso in relazione al fatto che, sino a ora, la coscienza si sia tenuta al riparo da tutti gli sforzi fatti per trattarla semplicemente come uno dei tanti fenomeni biologici. Mi conforta pensare che se e quando alla fine otterremo una spiegazione scientifica, essa dovrà, per lo meno, essere una spiegazione diversa da tutte le altre. "Un fenomeno affascinante ma elusivo": puoi dirlo forte! Ma intendiamo forse affascinante proprio in quanto elusivo? Vorremmo che fosse altrimenti? | << | < | > | >> |Pagina 16Per ora c'è una cosa immediatamente ovvia: la sensazione non è, in alcun senso, una semplice copia dell'immagine sulla retina in quanto fatto fisico, dal momento che per il soggetto è ovvio, sicuramente, che la sensazione (il rosseggiamento) ha una qualità e una valenza (proprietà psichiche soggettive) che l'immagine in quanto tale difficilmente potrebbe avere. La sensazione non rappresenta soltanto la luce rossa nei suoi occhi, ma la sua interazione con lo stimolo; ed è a causa di ciò che S percepisce che la sensazione per lui è importante, e se ne occupa.Kandinsky scrisse: «In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente l'anima. Il colore è il tasto. L'occhio è il martelletto. L'anima è un pianoforte con molte corde». Anche la sensazione di un singolo colore, come nel caso del rosseggiamento, tutta incentrata a suonare un'unica nota, può avere un impatto considerevole non soltanto sugli esseri umani, ma anche sugli animali. Nel corso delle mie ricerche con le scimmie rhesus ho mostrato che tali animali hanno forti e consistenti risposte emozionali alla luce colorata. Ad esempio, quando si mette una scimmia in una stanza inondata di luce rossa, l'animale diventa ansioso e irrequieto; quando la luce è blu, diventa invece relativamente tranquillo. Se si dà loro la possibilità di scegliere, le scimmie preferiscono di gran lunga una stanza blu a una rossa. Gli esseri umani (e, per quanto ne so, anche i piccioni), rispondono in genere alla luce colorata in modi simili: descrivono la sensazione del rosso come forte, calda, eccitante e disturbante. Si è scoperto che la luce rossa induce i sintomi fisiologici dell'eccitazione sessuale, mentre la luce blu ha effetti opposti, e questo è vero anche per i neonati di appena quindici giorni (di età). I soggetti sentono più caldo nelle stanze rosse che in quelle blu, il tempo sembra trascorrere più velocemente e i tempi di reazione rallentano. Nel loro saggio sui colori e l'architettura (Colour for Architecture) Tom Porter e Byron Mikellides raccontano un'esperienza di Michelangelo Antonioni: «Mentre stava girando il suo primo film a colori, Deserto rosso, il regista fece un'interessante constatazione. Impegnato a girare all'interno di una fabbrica scene di carattere industriale, decise di tinteggiare di rosso le pareti della mensa per creare la giusta atmosfera di sottofondo ai dialoghi. Due settimane dopo osservò che gli operai della fabbrica erano diventati aggressivi e più propensi al litigio. Concluse le riprese, la mensa venne ridecorata di verde pallido, affinché tornasse la pace e, come disse Antonioni, "gli occhi degli operai trovassero di nuovo requie"». È vero che, a differenza delle scimmie, le persone a volte, quando sono dell'umore sbagliato, ricercano la luce rossa; è possibile, d'altra parte, che ciò sia dovuto proprio al fatto che le eccita. Isaac Newton, per citare un esempio autorevole, arredò la propria casa di Londra interamente di colore cremisi: un «letto con mohair color cremisi» con «tendine color cremisi», «tendaggi color cremisi» e un «divano color cremisi», come se, vivendo in questa "atmosfera color cremisi", stesse cercando di assicurare di essere all'altezza della propria nomea di "persona irritabile". Henri Matisse, mentre dipingeva un quadro del suo studio, volendo far confluire in esso non tanto la realtà fisica quanto la carica emotiva dell'atmosfera a cui lo associava, cambiò nel quadro il colore dei muri molte volte, finché, alla fine, si stabilizzò su Lo studio rosso. È importante notare che questi atteggiamenti estetici nei confronti del colore sono, innanzitutto, atteggiamenti nei confronti della qualità della sensazione che la luce colorata induce nel soggetto, e non nei confronti del fatto che una qualche cosa ha la superficie colorata che possiede. Quando ad esempio S trova la luce rossa eccitante, in altri termini, è la sua propria esperienza fenomenica, il vedere rosso, che egli giudica "eccitante", non il fatto che lo schermo sia colorato di rosso. Discuterò, più avanti, la prova che favorisce direttamente la polemica relativa al fatto che ciò che conta è la sensazione, ma posso fin da ora menzionare una scoperta, fatta con le mie scimmie, che si attaglia bene al discorso. Le scimmie mostravano di preferire di gran lunga uno schermo blu rispetto a uno rosso quando esso era vuoto e informe. Questa preferenza, tuttavia, scompariva del tutto quando sullo schermo vi erano cose interessanti da vedere. Nel primo caso, le scimmie non avevano altro di cui curarsi se non le proprie sensazioni, cosicché avevano una preferenza nei confronti della sensazione del blu rispetto a quella del rosso; nella seconda situazione, quando la loro attenzione era attirata dal mondo esterno e non più dalle proprie risposte, sembra che non avessero più una preferenza per le cose del mondo blu rispetto alle cose del mondo rosso. Ora: cosa possiamo dire riguardo agli atteggiamenti proposizionali del soggetto nei confronti dello schermo come un fatto del mondo? Procedendo passo passo lungo la nostra analisi, lasciamo che S sposti la sua attenzione dal fatto della sensazione e la diriga su quest'altro fatto che è lo schermo rosso: quando guarda lo schermo rosso, quali idee si forma in proposito [fig 2p(a)]? In parole povere: cosa percepisce?
[...]
Facciamo il punto della situazione. Abbiamo elencato tre componenti distinte dell'esperienza di osservare lo schermo: - S ha una sensazione di rosso, b; - S sente di avere questa sensazione di rosso, p(b); - S percepisce che lo schermo è rosso, p(a). Voglio però attirare l'attenzione su una quarta componente, altrettanto fondamentale: nel fare tutto ciò, S ha esperienza di sé come soggetto che esperisce. Il logico Gottlob Frege (riprendendo quanto sostenuto da Kant molto tempo prima) affermò in modo convincente il principio generale sotteso a tutto ciò: ogni volta in cui c'è esperienza soggettiva deve esserci un soggetto. «Ci sembra assurdo che un dolore, un umore, un desiderio debbano vagare indipendenti nel mondo, senza che nessuno se ne faccia carico. Non c'è esperienza senza qualcuno che la esperisca. Il mondo interno presuppone la persona a cui il mondo interno appartiene». Di solito, si ritiene che Frege suggerisca che la persona deve essere lì per prima; ma chiaramente, può darsi – e spesso è davvero così – che la situazione sia esattamente opposta, ossia che la nostra esperienza del mondo interiore confermi l'esistenza della persona.
[...]
Va bene, basta così: l'analisi fenomenologica è andata avanti quel tanto che ci serviva, per il momento. Ecco alcune questioni e distinzioni venute alla luce sinora: - esperienza fenomenica/atteggiamenti proposizionali; - sensazione /percezione; - valori/fatti; - prima persona/terza persona; - teoria della teoria della mente/teoria della simulazione;
- essere qui/vuoto.
Ludwig Wittgenstein
| << | < | > | >> |Pagina 81Capitolo 6Possediamo ora la maggior parte delle caratteristiche della sensazione che stavamo cercando, con in più l'inaspettato bonus della sensazione come base per l'empatia. Con una teoria che procede così bene, osiamo finalmente affrontare il problema difficile, ossia il fattore X? Abbiamo dichiarato di sperare che, con un po' di fortuna, ciò che avevamo scoperto sul lato del cervello dell'equazione poteva aiutarci a capire perché e come una caratteristica aggiuntiva meravigliosamente appropriata potesse emergere nel lato della sensazione. Per come stanno le cose, ciò non è ancora successo; il fattore X non ci è ancora "caduto in grembo". Ma siamo poi così sicuri che l'avremmo riconosciuto, se l' avesse fatto? Come scrisse Robert Pirsig, «la verità bussa alla porta, e tu dici "vattene, sto cercando la verità", così la verità se ne va via». Se, da un lato, abbiamo ancora ben poche idee su ciò che stiamo cercando — con nient'altro a guidarci se non ineffabili intuizioni non del tutto complete — quante probabilità ci sono di riconoscere l'importanza potenziale di ciò che abbiamo scoperto, anche se è esattamente quello di cui abbiamo bisogno?
Per non perderci qualcosa di ovvio, ricordiamo un'ultima volta
quali sono le intuizioni della gente su che cosa sia il fattore X. Cosa hanno
cercato
di dire al proposito gli altri filosofi e psicologi su ciò che noi non riusciamo
a dire?
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