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| << | < | > | >> |Pagina 15Il sole si era levato alto nel cielo. Usman, che, per tutta la mattina, aveva sorvegliato il campo del fattore e scacciato i corvi, era accaldato e affamato. Decise di consumare il suo pasto all'ombra di un albero. Ma dove poteva trovare un albero dalla chioma frondosa? Camminò per un po' e arrivò a un gulmohar, l'albero del fuoco, senza fiori, ma verde abbastanza da offrire riparo. Accanto all'albero c'era uno stagno, che pareva da poco riempito di acqua piovana, sebbene la pioggia non cadesse da giorni. Usman tirò fuori la sua frittella di miglio, le sue verdure in salamoia e la sua borraccia di latticello. Ancora una volta, sua zia gli aveva dato pane raffermo e latticello rancido. Mangiava e beveva, quando sentì qualcosa solleticargli il ginocchio sinistro. Abbassò lo sguardo. Una piccola rana se ne stava appollaiata proprio lì. Dividi con me un po' del tuo pane e del tuo latte. La voce era così flebile che credé di averla immaginata. Sì, sono io. Udì nuovamente la voce. Le rane si cibano di libellule. Però, oggi, gradirei un po' di pane e latte. Anche se le rane non parlano, disse fra sé e sé, né mangiano pane e latte, che male può fare dividere il mio pasto con una creatura affamata? Il mio latte è acido e le mie frittelle sono indurite, ma dividerò il mio pasto con te. Staccò un pezzo della frittella e la intinse nel latticello.
La rana mangiò e balzò via.
Il cibo e il caldo avvolsero Usman nel sonno. Chiusi gli occhi, sognò che l'albero sotto il quale sedeva fosse ricoperto di fiori d'oro che gli piovevano addosso.
Si svegliò di soprassalto. L'albero era come prima: non
si vedevano fiori, ma, al suo fianco, stava un mucchio di monete d'oro.
Il mattino seguente, Usman partì nuovamente per i campi. Era stato forse un sogno il suo incontro con la rana? Quando arrivò l'ora di mangiare, non poté far a meno di tornare all'albero. La rana era in attesa. Questa volta, mangiò più della metà della sua frittella, inzuppata in più della metà della sua ciotola di latticello, prima di balzare di nuovo nello stagno.
Poi Usman si addormentò, nuovamente i fiori caddero
su di lui e di nuovo trovò un mucchio di monete d'oro
che gli baluginava accanto al risveglio.
Il terzo giorno chiese alla rana: Sei forse vittima di un sortilegio? Uno spirito malvagio? O uno benigno? Non sono che una rana, disse la minuscola creatura verde. E paghi con l'oro gli avanzi di pane raffermo e le poche gocce di latte cagliato che ti do? No, disse la rana. Dove potrebbe una rana verde trovare dell'oro?
E tornò con un balzo nello stagno.
Il quarto giorno, Usman si recò presso il suo albero vicino allo stagno prima del solito. Aveva chiesto alla zia di preparare più pane quella mattina e di dargli una borraccia di latte fresco, ma quella si era rifiutata. Come credi che io possa acquistare più farina, con la miseria che mi dai? La zia era una donna macilenta, senza figli; il suo uomo era partito per la guerra e non aveva mai fatto ritorno. Usman, nipote orfano di suo marito, lo aveva tirato su a suon di calci, sberle e maledizioni. Aveva sempre disapprovato quel suo lavoro e i magri guadagni che portava a casa. Egli decise di tenere per sé le monete che aveva trovato, di celarle allo sguardo della donna, ma non poté trattenersi dal compiere quel gesto. Con una sonora risata, le mise in mano una moneta. Oggi, usa tutta la farina che c'è in casa. E compra tutta quella di cui hai bisogno.
Non c'è più farina. Dovrai accontentarti del pane raffermo.
Lungo il cammino verso il campo, Usman si fermò dal fornaio e dal mandriano. Comprò pane soffice e dolce e si riempì la borraccia di latte fresco appena munto. Quando arrivò all'albero, la rana non c'era.
Usman intonò un canto:
Non vi fu risposta. Intonò il suo canto ancora. Ti prego, amica rana!
Ed eccola arrivare, mentre emerge dallo stagno.
Il sesto giorno, Usman si svegliò con la testa pesante. Oggi non puoi andare a lavorare, gli disse la zia. Sei stato malato, hai delirato tutta la notte. Eccoti un po' di latte caldo. Andrò io nei campi, al tuo posto.
Si avvolse in uno scialle del colore del fango.
Il settimo giorno, quando Usman si recò presso il suo albero, lo stagno era prosciugato. Intonò il suo canto. La rana non comparve. Cantò e cantò. Ma la rana non comparve ancora. E poi cadde tanta pioggia, come non se ne era vista in tre anni. | << | < | > | >> |Pagina 20Umar, Bilal e Jani colpivano con dei bastoni una palla di legno. Rotolò nel canneto, lungo le sponde del fiume. La cercarono fra gli alti giunchi, con il fango che gli impiastricciava le dita dei piedi. Jani trovò un grosso ciocco di legno coperto di muschio e lo pungolò col suo bastone. Si mosse, d'un tratto, e fece scattare le mandibole. Avevano svegliato un coccodrillo addormentato.
Lasciarono la palla in mezzo ai giunchi e corsero via.
Umar, Bilal e Jani erano i figli di un fattore benestante. Un tempo, tutti i contadini dei sette villaggi che sorgevano lungo il fiume pagavano la decima ai coccodrilli e al loro sovrano, affinché non distruggessero i campi calpestandoli. Gettavano lungo le sponde le carcasse di bufali, capre e giovani cammelli appena abbattuti, affinché i rettili se ne potessero nutrire. Col passare del tempo, però, i coccodrilli persero i denti e il morso rapace. I contadini smisero di pagare il tributo con regolarità. Di quando in quando, chiedevano ai conciatori di lasciare in pasto ai coccodrilli i resti scorticati di vecchi asini.
La storia dei coccodrilli e del loro re non era mai stata dimenticata,
sebbene la gente avesse da lungo tempo
smesso di credervi. Ma ora che l'avena e il grano appena
piantati venivano calpestati e strappati dal suolo dall'esercito dei
coccodrilli, notte dopo notte, mentre i contadini
dormivano, la leggenda tornava in vita.
Due giorni più tardi, il padre dei bambini ricevette la visita di un uomo avvolto in un ampio manto verde. Vi è un unico modo per scongiurare il disastro, disse. Abbandona sulla riva del fiume la bambina che ha insultato il nostro comandante pungolandolo con un bastone. Là, dove un tempo lasciavate le carcasse di bufali, capre e giovani cammelli appena abbattuti. Ma dovrai legare la ragazzina a un albero. E dovrà essere viva. Il fattore pianse tutta la notte, ma giurò che non avrebbe mai dato sua figlia alle creature del fiume. All'alba, quando si destarono, Jani si gettò ai piedi del padre. Portami al fiume. Legami a un albero. Dammi ai coccodrilli, se questo è il mio destino. | << | < | > | >> |Pagina 60Quando Usman era con Lydia, tutto sembrava spontaneo e naturale, persino i lunghi momenti di silenzio che caratterizzavano le loro conversazioni. Lei abitava vicino al Regent's Canal, in una casa alta e stretta di proprietà di due prozie, garbatamente giunte al compromesso – causa le loro finanze declinanti – di affittare stanze a studentesse o a giovani lavoratrici; rifiutavano che lei corrispondesse loro un canone d'affitto, ma lasciavano che le aiutasse con le spese domestiche. Non di rado, alla sera, Usman la scortava quasi fin sotto casa, all'angolo con Blomfield Road, dopo essersi rappacificato con se stesso e con i suoi pensieri su di lei. Durante il lavoro, però, oppure mentre aspettava alla fermata dell'autobus per Oxford Circus, o ancora, camminando verso casa dalla stazione di Marylebone, da solo, nelle sere alla vaniglia che stentavano a trasformarsi in notte, con il pensiero rivolto al suo viaggio di ritorno a Karachi, si poneva domande per le quali non trovava risposte. Cosa lo aspettava in quella città costiera che aveva eletto sua dimora? Lui, che una dimora non l'aveva, poiché la terra natale l'aveva perduta molto tempo prima e non aveva mai imparato ad appartenere a un altro posto, che cosa avrebbe fatto della sua vita in quella città aperta, brulicante di stranieri come lui? Eppure quegli stranieri gli si rivolgevano nella sua stessa lingua e, forse, avevano in mente i suoi stessi pensieri. Cosa, d'altra parte, avrebbe potuto aspettarsi dalla città in cui si trovava? Vecchia signora imperiale, austera e senza più un trono, gli aveva concesso di varcare i suoi confini senza chiedergli niente in cambio, ma non gli aveva fatto alcun dono particolare, a parte un'inaspettata amicizia. E cosa vedeva in lui la donna che considerava amica e che fino a poco tempo prima era solo un'estranea? Che cosa rappresentava per lei? Forse una curiosità, una fonte inesauribile di storie, un esotico trofeo, o un mezzo per dissipare il suo senso di colpa occidentale? No, diceva a se stesso, era un'amica, una persona che gli aveva teso la mano, estranea in quella città di estranei e – per quanto potesse sembrar strano – sola come lo era lui, mossa non da un sentimento di compassione, o al limite di curiosità, ma in cerca di un compagno con cui parlare, durante le lunghe, umide giornate di primavera. «Allora è qui che i nostri cammini si dividono, signor Usman?». Tre giorni dopo sarebbe partito. «O ci è rimasto ancora un posto dove andare?». «Ho undici anni più di lei». Era rimasto in silenzio per un quarto d'ora, un tempo lungo abbastanza da farle pensare che avesse preso le sue parole alla lettera, e lei non aveva cercato di riempire il silenzio con una domanda o una battuta. «E anche se sono separato da mia moglie da un tempo più lungo di quello che abbiamo trascorso insieme, sono responsabile nei suoi confronti e in quelli dei miei figli. A lei non posso offrire nulla. Credo di non avere neppure il diritto di parlarle di affetto, ma non dimenticherò mai quello che mi ha dato. Ero solo, un estraneo in terra straniera, mi sentivo come un fantasma in mezzo alla pioggia, alle nuvole e alla neve... come se fossi stato privo di una presenza fisica o di una corporeità. Lei... mi ha tirato fuori da me stesso, ha portato un po' di... colore nella mia vita. Lei ha la mia stima, la mia amicizia e la mia gratitudine, per sempre». Lydia si domandò, come spesso aveva fatto prima di allora, se quelle parole, esitanti e misurate, le avesse tradotte dalla sua lingua: suonavano come se fossero state scritte, prima che pronunciate. Lei sorrise e pose la mano su quella di lui, per celare l'espressione sul suo volto che rivelava – ne era certa – la percezione di un rifiuto. Doveva piacergli non poco, tanto era il tempo che aveva trascorso con lei. Eppure, non una sola volta, aveva anche solo finto di voler restare in Inghilterra. Trovava la città umida e la sua architettura tetra. E più di ogni altra cosa, ne odiava i nudi inverni. Si lamentava perfino del fatto che l'umido verde dei parchi londinesi fosse monotono e, dopo la sinistra oscurità dei mesi invernali, di gran lunga troppo lunghe le giornate estive, che si concludevano troppe ore dopo i tramonti delle sei, a cui era avvezzo. Era certa di aver visto il futuro di Usman nella sua terra, fra la sua gente, che parlava la sua lingua. Quanto a lei, pur non avendo mai nutrito alcuna avversione per gli stranieri (dopo tutto anche suo nonno lo era stato), avrebbe mai potuto presentare ai membri della sua famiglia, in qualità di suo compagno, un uomo venuto da un posto tanto lontano e così diverso da chiunque essi avessero mai visto o conosciuto? C'era anche la questione della differenza di fede. Sebbene credesse ancora in un ordine divino che, a pensarci, doveva essere benigno, non avrebbe certamente considerato la religione una faccenda che la coinvolgesse. Eppure, a dispetto del fatto che non pregasse regolarmente, la religione significava evidentemente qualcosa per Usman, che parlava spesso di compassione e valori egalitari. Non beveva alcolici e nei pub preferiva non mettere neanche piede. Per quanto riguardava il cibo, non solo evitava qualsiasi parte del maiale, ma controllava attentamente che anche pane, biscotti, gelati e vari altri cibi non fossero corrotti dal suo grasso. Di conseguenza, viveva di frutta e cereali, eccetto quando avevano la possibilità di mangiare cibo indiano. Lei gradiva la cucina e l'atmosfera di Veeraswamy, il pittoresco ristorante indiano di Swallow Street, dove si potevano scorgere signore dall'aria aristocratica, avvolte in diafani sari, che accompagnavano i loro mariti azzimati e intrattenevano i dignitari inglesi. Il più delle volte quel ristorante era troppo dispendioso per lavoratori come Usman e Lydia. Usman, però, frequentava due mense che servivano cibo indiano a studenti e a espatriati affamati. Quando entravano in quei posti, seminterrati fumosi e poco illuminati, con posacenere di latta appoggiati su tavoli dalla superficie bianca, spesso appiccicosi per i resti della cena precedente, Lydia rimaneva sorpresa di quanto il suo apparentemente timido compagno fosse intimo con colleghi e compatrioti di ogni età, e di quanto fosse bene accolto. Inizialmente, quando li vedevano insieme, questi ultimi esprimevano commenti che lei non riusciva a comprendere. Silenzi imbarazzanti seguivano le sequenze di abbracci e strette di mano, e la tacita intesa che Usman e la sua amica si sarebbero accomodati a un tavolo separato. Poi, a poco a poco, nelle settimane che precedettero la partenza di Usman per Karachi, uno dopo l'altro, gli amici si avvicinarono e si unirono al loro tavolo per una tazza di tè, per offrire o per chiedere una sigaretta, visto che sia lei che Usman erano fumatori. Fu evidente che era stata accettata come una presenza consona e, almeno potenzialmente, come compagna di Usman. Le sue frequentazioni erano più disinvolte. Uno dei suoi amici paragonò Usman a un gitano, un altro sottolineò quanto – tutto considerato – sapesse usare bene coltello e forchetta, un altro ancora disse che quando parlava sembrava scozzese o russo. Queste persone, che un tempo le piacevano, per alcune delle quali aveva provato affetto, tutt'a un tratto le parvero degli estranei, che non riusciva più a comprendere e con i quali non aveva più alcuna affinità; sapeva che costoro avevano tutti classificato la sua amicizia con Usman come un gesto di ribellione, un capriccio passeggero. Alcuni, in maniera ancor più singolare, gli avevano assegnato il ruolo di un benevolo Otello con la sua Desdemona. Non proprio tutti, però. Il suo amico Jack — il giornalista di sinistra — conobbe Usman in occasione della prima di una nuova opera di Terence Rattingan, per assistere alla quale aveva procurato loro dei biglietti omaggio. «Sei la sua amante?», le chiese pochi giorni dopo. Stavano pranzando in un pub vicino a Green Street. Lei fece uno sbuffo e per poco non le andò il boccone di traverso.
«Pensavo di no», disse Jack accendendosi una sigaretta.
«Siete una coppia perfetta voi due. Angeli perplessi in vacanza sulla Terra,
smarriti fino al momento in cui vi siete incontrati».
La sera prima di partire, Usman versò qualche lacrima, allontanandosi a
piedi insieme a Lydia dal ristorante che
aveva scelto per la loro cena di addio: l'indiano lussuoso
di Swallow Street. Lei gli aveva chiesto di portarla nell'appartamento dove
viveva, in un vicolo che si affacciava su
Marylebone Road. La notte primaverile era gradevole,
benché un po' fredda; percorsero tutto il tragitto a piedi.
Restarono in piedi fino alle prime luci dell'alba, abbracciandosi e baciandosi
sulle guance e sulle labbra per un
tempo che parve durare ore. Lui, però, dormì sul divano.
Al mattino, Lydia lo salutò senza lacrime, alla fermata di
Waterloo. Andare al porto e vederlo salire sulla nave sarebbe stato troppo. Gli
indirizzi se li erano scambiati all'alba, di fronte a fette di pane tostato e a
due tazze di tè che Usman aveva fatto bollire a lungo con latte e zucchero, fino
a fargli assumere un gusto sciropposo. Si erano
detti che sarebbero rimasti in contatto. Quella fu la loro unica promessa.
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