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| << | < | > | >> |IndiceLa svolta autoritaria 3 I fatti e la propaganda 5 La guerra dei migranti sul Canale di Sicilia. Le bugie di La Russa, Maroni e Berlusconi. La tv tace. L'Aquila, la democrazia non c'è più 41 Una città abbandonata. Quanto ci costano le new town. Intanto 400 milioni di euro spesi per tenere le persone negli alberghi Attacco alla Giustizia 53 L'allarme delle Procure antimafia. L'Italia che ne approfitta. Le leggi che bloccano i processi. Le testimonianze di Giuseppe Creazzo, Procura di Palmi; Giuseppe Pigliatone, Procura di Reggio Calabria; Salvatore De Luca, Procura di Barcellona Pozzo di Gotto; Armando Spataro e Alfredo Robledo, magistrati a Milano. Cemento selvaggio 77 Il Rapporto Barberi del 2000 sui rischi sismici ignorato da tutti i Comuni. Il disastro della Calabria. Il progetto fai da te: come si costruisce un edificio eludendo la legge. Politica, 'ndrangheta e la terra di nessuno 91 Un'azione di polizia in presa diretta. La testimonianza di Nicola Gratteri sul traffico di cocaina e gli affari internazionali della 'ndrangheta. La mattanza di Monasterace. L'omicidio di Gianluca Congiusta, uno di noi La scuola fallita 111 Le scuole di lusso a Milano e i finanziamenti pubblici che vanno ai più ricchi. I tagli e il degrado degli edifici. Le testimonianze di presidi e direttori scolastici: «Andiamo avanti grazie alle famiglie». I migliori docenti della città nel quartiere più povero di Stoccolma. La rinuncia a governare 125 La politica sulla casa a Parigi e a Milano. A Roma, occupazioni e dismissioni forzate. Affitti folli e nuova povertà. La politica che si potrebbe fare. Le testimonianze di Antonello Sotgia e Rossella Marchini, architetti. L'acqua ai privati 143 Un affare da 8 miliardi di euro all'anno. I casi di Agrigento e Arezzo. Le bollette triplicate. Una privatizzazione imposta per legge. L'aria che tira 157 Gli uomini di Berlusconi e il controllo della tv. Verso il buio dell'informazione |
| << | < | > | >> |Pagina 3«Lo so, il titolo è forte e vedo già le smorfie scettiche di quelli che non credono che in Italia ci sia un'emergenza libertà di stampa e di espressione, quelli che pensano che in fondo "è sempre stato così, anche ai tempi della Prima repubblica, solo che non si sapeva e le cose venivano fatte di nascosto", quelli che "tanto lottizzano tutti, anche la sinistra quando era al potere ha fatto come Berlusconi", insomma quelli che sostengono che la politica ha sempre controllato la Rai e c'è poco da gridare "al lupo, al lupo!". Ma io ho avuto la fortuna, in questi ultimi anni, di attraversare per lavoro l'Italia in lungo e in largo, ho avuto il tempo di mettermi a fianco degli italiani e raccontare le loro storie, ho avuto il privilegio di poter leggere in profondità quello che stava succedendo nel paese. E adesso ho le prove. Le prove che l'Italia di Berlusconi è già un paese meno libero e che il futuro che ci aspetta riserva ancora meno libertà. Posso dire di averlo visto con i miei occhi. Ho deciso di scrivere questo libro perché possiate vederlo anche voi.» Cosi scrivevo nell'estate del 2010, quando cioè è nato il libro che state per leggere. Sono passati due anni, Berlusconi non è più presidente del Consiglio, ma non è fuori dalla scena politica perché con il suo partito condiziona l'attività di governo. Per usare un termine televisivo, la scena politica è come «frizzata», un fermo fotogramma con al centro Monti e il Governo dei Tecnici e subito addosso i partiti che lasciano al governo un margine di manovra strettissimo, sempre sul filo del rasoio. Ed è chiaro l'obiettivo del Pdl e di Berlusconi: che non si tocchi la Rai, l'editoria, la comunicazione. Niente legge sul conflitto di interessi, quindi, la legge Gasparri guai a chi la tocca, bloccare in partenza l'allargamento del mercato dell'editoria e della televisione ad altri soggetti, tenere sotto schiaffo i poteri concorrenti e di controllo, come la magistratura. Tutto quel complesso legislativo costruito negli anni da Berlusconi per mantenere il suo personale primato economico e il controllo politico sull'informazione è ancora attivo e gli uomini che lo hanno usato, sono ancora ai loro posti. Tutte le storie che vi racconto sono per questo ancora terribilmente attuali. Roma, 4 aprile 2012 | << | < | > | >> |Pagina 5Il fotografo della «guerra dei migranti» Sapete qual è la mia ossessione più grande? Non riuscire a raccontare neanche una minima parte di tutto quello che c'è da raccontare. E quello che mi fa arrabbiare di più? Vedere tutti che raccontano la stessa cosa. E accorgersi, anno dopo anno, trasmissione dopo trasmissione, di quanto aumenti la sproporzione tra l'universo del raccontabile e quello che effettivamente viene raccontato, una sproporzione che sta diventando una specie di buco nero della televisione, che si mangia ogni giorno facce, storie, punti di vista, ci rende tutti più poveri e immensamente meno liberi. Il fotografo Enrico Dagnino l'ho incontrato a Parigi nell'agosto del 2009, tre mesi dopo che era stato testimone del primo respingimento in mare condotto dalla guardia di finanza. Per la prima volta, fra il 6 e 7 maggio 2009, 238 migranti tra cui quarantuno donne venivano intercettati in acque internazionali da due motonavi, una della guardia di finanza e l'altra della capitaneria di porto, e riportati nel luogo da cui scappavano, consegnati nelle mani dei poliziotti libici nel porto di Tripoli. Quando l'intervista con Dagnino è andata in onda in «Respinti», la prima puntata di Presadiretta del 2009, erano passati quattro mesi da quei fatti. In quei mesi in Italia era successo di tutto: dalle fortissime critiche espresse da tutte le associazioni che si occupano di migranti contro la politica dei respingimenti alle dure parole rivolte al nostro Governo dalle agenzie internazionali dell'Onu che parlavano esplicitamente di violazione delle convenzioni sui richiedenti asilo, al primo viaggio ufficialé di Gheddafi in Italia, accolto con i massimi onori civili e militari; per finire, il 6 e 7 giugno si erano anche svolte le elezioni europee e amministrative, elezioni stravinte dalla Lega proprio al grido dello slogan: «Avete visto? Noi l'avevamo promesso in campagna elettorale e l'abbiamo fatto, li abbiamo respinti». Enrico Dagnino non è un fotografo qualsiasi e basta entrare nella sua casa, dare un'occhiata alla sua libreria e ai volumi fotografici che contiene, per rendersene conto. Scatta foto dagli anni Ottanta, ha cominciato raccontando le periferie italiane ed europee, è stato fra i primi ad arrivare con la sua macchina fotografica la notte della caduta del muro di Berlino, ha raccontato le guerre nella ex Iugoslavia, e ancora, in Somalia, Cecenia, Ruanda, Albania, Afghanistan; quarantamila scatti che documentano quindici anni di conflitti e milioni di morti. Mi sono subito innamorato del lavoro di Dagnino: le sue immagini non sono mai fuori contesto e sono talmente ricche di segni che ti restituiscono immediatamente, al primo sguardo, la complessità dell'evento che stanno raccontando. Non è uno che si accontenta; la sua ansia per la documentazione la senti subito. È uguale alla mia, per questo la so riconoscere.
Del resto se stavo lì a Parigi, a casa sua, era proprio perché avevo visto
una sua foto di quel primo respingimento,
una di quelle che ha circolato di più in Italia quell'estate: si
vede un uomo africano, con quattro stracci addosso, in ginocchio; sta piangendo,
ha un'espressione disperata, e
stringe con entrambe le mani un'altra mano che indossa
un guanto di plastica: è quella di un finanziere italiano, lo
si capisce dalla divisa.
Sulla motonave nel Canale di Sicilia È il 7 maggio 2009, sono le due del pomeriggio su una banchina appartata del porto di Tripoli: quell'uomo, non giovanissimo, chiaramente un padre di famiglia, piange a dirotto e prega il finanziere di non farlo sbarcare, di non consegnarlo nelle mani degli aguzzini libici. Prima di scattare quella foto, Dagnino era stato due settimane insieme agli uomini della guardia di finanza sulla Bovienzo, una delle tante motonavi che affollano la piccola banchina del porto di Lampedusa e presidiano, insieme ai mezzi della Marina militare e della capitaneria di porto, i confini sud del paese. Stava realizzando un servizio fotografico sulla «guerra dei migranti» nel Canale di Sicilia per «Paris Match», un importante settimanale francese, e aveva deciso di farlo così, vivendo giorno e notte con i finanzieri della Bovienzo. Insieme a loro in quei giorni aveva già documentato diversi salvataggi di centinaia di migranti del mare. Aveva scattato mentre li trasbordavano sulla motonave, operazione sempre difficile al largo, anche con il mare buono: basta poco perché un gommone stracarico si rovesci, non ci vuole niente perché succeda una tragedia. «Sono bravissimi, professionali al cento per cento e con un'umanità incredibile» mi dice Dagnino mentre fa scorrere sul monitor le foto di quei giorni. Gommoni di ogni specie, barconi di legno, uomini che gridano e centinaia di facce, braccia tese, finanzieri piegati che abbracciano, per portarli a bordo, uomini e donne stremati dalla sete, dalla fame, e stravolti dalla paura. «Mettere a rischio la propria vita per salvare quella degli altri non è facile. Ci vuole coraggio e quelli della Bovienzo erano uomini coraggiosi.» Era diventato amico di tutti. Soprattutto del comandante: «Una brava persona. Pensa che quando è arrivato l'ordine da Roma di portare i migranti a Tripoli, in Libia, mi ha chiamato e mi ha detto: "Tu che parli bene le lingue, vai a parlare con le donne che abbiamo a bordo. Scopri se ce n'è qualcuna incinta"». Se ci fossero state donne incinte, il comandante avrebbe potuto portare tutti a Lampedusa. Ma Dagnino non le ha trovate. Si è saputo dopo che c'erano due donne incinte sull'altra motonave, quella della capitaneria di porto, ma lì nessuno si è preoccupato di segnalarlo ai comandi militari. Da quel momento in poi Dagnino scatta ottanta foto che, messe l'una di fianco all'altra, compongono un film dell'orrore: si comincia con le immagini del gommone, piccolissimo e stipato con sessanta uomini e quattordici donne. Erano in mare già da tre giorni, fradici, alcuni con il sedere e i genitali ustionati dal carburante che si era rovesciato nello scafo. «Avevo sentito il comandante lamentarsi parecchie volte alla radio perché a bordo non aveva nulla, né acqua, né medicinali, né cibo, e neanche le coperte termiche» ci racconta Dagnino. «Non avevamo nulla a bordo, solo una bottiglia di acqua minerale da dare ai sessanta uomini e altre tre alle quattordici donne.» Le foto di bagnino non lasciano dubbi e sono spietate: si vedono gli uomini sdraiati sulla motonave che si passano di mano in mano l'unica bottiglia d'acqua. Tra loro molti svenuti. Si vedono i vestiti bagnati, le ferite, le ustioni, le donne accucciate l'una contro l'altra per riscaldarsi, infondersi coraggio: «Hanno viaggiato così tutta la notte, senza aver bevuto e mangiato niente, e senza coperte, con quattro stracci bagnati addosso, tutta la notte all'addiaccio a 30 nodi in mare aperto, e faceva un freddo cane: pensa che noi eravamo coperti dalla testa ai piedi con super giacche a vento e morivamo di freddo».
A nessuno di loro viene detto che stanno per tornare in
Libia, addirittura gli dicono il contrario, che stanno andando a Lampedusa.
Infatti, appena sorge il sole, alle cinque del mattino, gli uomini cominciano a
cantare. Dalle foto si vede bene: hanno attrezzato una specie di altare sotto il
cannoncino di prua, hanno estratto decine di piccole
bibbie ancora bagnate e cantano e pregano, ringraziano
Dio che li ha salvati e li ha fatti arrivare in Italia. Poi, d'improvviso, gli
uomini si accorgono che non sono a Lampedusa ma nel porto di Tripoli. Allora
urlano, piangono, si disperano, c'è chi si spoglia e rimane così, nudo, davanti
agli scatti di Dagnino, c'è chi cerca di ribellarsi e viene fatto scendere dalla
passerella, portato di peso dai finanzieri italiani.
Un film dell'orrore Tra le foto c'è quella di un uomo svenuto che viene deposto da due finanzieri per terra, sulla banchina, le braccia aperte, un povero cristo: «Se lo sono preso due poliziotti libici, lo hanno messo ancora svenuto su uno dei tanti "carri bestiame" dove i nostri migranti venivano caricati uno dopo l'altro, uomini e donne insieme». Dagnino è riuscito a fotografarli: sono container di metallo, di quelli che si utilizzano per movimentare le merci nei porti, montati su automotrici Fiat Ducato. I libici li hanno pitturati di bianco e li hanno dotati di feritoie protette da una grata di ferro, perché all'interno di questi vagoni piombati i migranti non muoiano asfissiati dal caldo.
Andando avanti con l'inchiesta ho sentito parlare altre
volte dei «carri bestiame», e ho intervistato persone che lì
dentro ci sono state. Dagmawi Yimer è un giovane studente etiope che è riuscito
ad arrivare a Lampedusa un anno
prima dei respingimenti. Lui lì dentro ci ha viaggiato per
diciotto ore di seguito senza soste, nel deserto, con altri
trecento fra donne e bambini, senza acqua e senza cibo,
mentre fuori si registravano cinquanta gradi all'ombra: «Le
lamiere diventano di fuoco, non ti ci puoi neanche appoggiare con le spalle
perché ti bruci. Allora ce ne stavamo tutti al centro, a sbattere l'uno contro
l'altro. Dentro il container è buio e non passa un filo d'aria. La gente
strillava, piangeva disperata, le mamme avvicinavano la testa dei
bambini piccoli alle finestrelle per farli respirare un po',
c'era chi era svenuto dal gran caldo e chi se la faceva addosso dalla paura.
Quando alla fine siamo arrivati nel campo di detenzione di Kufra, in mezzo al
deserto, e hanno
aperto le porte del container, quelli di noi che giacevano
svenuti già da parecchie ore sono stati buttati nella sabbia,
come fossero cose e non uomini, mentre a noi che eravamo ancora in piedi ci
hanno riempito di colpi di bastone
per farci scendere più in fretta. E dalla paura calpestavamo
i corpi dei nostri compagni svenuti...». Ecco a cosa servono e come vengono
utilizzati i «carri bestiame» fotografati
da Dagnino. Sono la prova evidente del comportamento
disumano e violento cui le autorità di polizia libiche sottopongono i migranti
in viaggio verso l'Europa. Proprio come i remi utilizzati dai poliziotti libici
per far scendere i migranti che per protesta si rifiutavano di lasciare la
motonave della capitaneria di porto che aveva attraccato vicino alla
Bovienzo;
e tra questi, come sappiamo oggi, c'erano anche due donne incinte.
Censura Di questa scena, dei libici che salgono sulla motonave italiana, che violano l'integrità del territorio nazionale — perché tali sono considerati dal diritto internazionale gli spazi delle navi civili e militari italiane nel mondo — e che prendono a colpi di remi i migranti per trasportarli a calci e botte sui container, non ci sono foto perché, come ci ha raccontato Dagnino, l'aria si era fatta improvvisamente pesante per il fotografo italiano: «Sulla banchina c'erano tre uomini dell'ambasciata italiana a Tripoli. Quando mi hanno visto devono aver segnalato la cosa a Roma perché mi è arrivata una telefonata sul cellulare da parte di un generale che mi diceva che era meglio soprassedere, che quelle foto non dovevano uscire, ci andavano di mezzo i buoni rapporti tra la Libia e l'Italia. Il comandante della Bovienzo allora mi ha detto: "Non ti far vedere con la macchina fotografica, non scattare più ed è meglio che stai a bordo, finché sei sulla nave sei in Italia e i libici non ti possono prendere". Così ho visto la scena dal boccaporto di prua, senza poterla fotografare. Ho visto i libici prendere a colpi di remi quella povera gente. E, come me, l'hanno visto anche i finanzieri della Bovienzo; loro l'hanno visto a due passi, perché si trovavano già sulla motonave della capitaneria di porto per cercare di dare man forte ai colleghi marinai che non riuscivano a convincere tutta quella gente a lasciare la nave. E l'hanno visto anche gli uomini dell'ambasciata che stavano lì sulla banchina. Tutti l'hanno visto». | << | < | > | >> |Pagina 111Il Governo del fare Nonostante il roboante slogan del «Governo del fare», Berlusconi si sta dimostrando il campione del «non fare niente e lasciare tutto com'è», possibilmente per «fare contenti tutti». Non voglio dire che il Governo non progetti e non produca leggi, non faccia le cosiddette riforme. Abbiamo parlato prima della riforma della giustizia e dei provvedimenti sull'immigrazione, stiamo aspettando di vedere che forma prenderà il federalismo fiscale, ma ne potremmo citare molti altri. E su questi provvedimenti, oltre a chi è ferocemente contrario, c'è anche chi è d'accordo con lui. Berlusconi è riuscito a mantenere un consenso ancora solido attorno alla sua politica, al punto che è riuscito a spenderlo in tutti gli appuntamenti elettorali successivi alla sua elezione: dalle amministrative, passando per le europee fino alle ultime elezioni regionali; per la sinistra e per l'opposizione, una sorta di maledizione di Tutankamon: sembra sempre che stia per cadere e poi eccolo lì, ancora al comando.
Quello che invece Berlusconi non fa o fa troppo poco è
pensare a medio e lungo termine, la sua politica è avara di
futuro. Ci dice poco su dove stiamo andando, su che paese
vogliamo costruire, su come possiamo uscire dalla crisi
economica e morale che attanaglia l'Italia e su quali sono
gli investimenti strategici che dobbiamo fare se vogliamo
tenere aperta la strada per i nostri figli. Per questo è anche
una politica avara di valori, poiché non ci chiede mai nulla, non ci coinvolge,
non cerca il nostro contributo; è una politica che non ha bisogno di
«cittadini», ma solo di pigri «spettatori».
La riforma con il segno meno Alle nove del mattino l'aula magna dell'Istituto magistrale «Ainis» di Messina è già piena: è il 9 settembre 2009 e si assegnano gli incarichi annuali ai professori di sostegno delle scuole elementari e medie di tutta la provincia. Quattrocento candidati venuti da tutta la Sicilia affollano l'aula. È già passato un anno dalla riforma Gelmini, quella che ha deciso un taglio di 7 miliardi e 834 milioni di euro da spalmare in quattro anni, e adesso si cominciano a vedere i primi effetti. «Quante cattedre dovete assegnare quest'anno?» chiede Domenico Iannacone alla commissione del provveditorato. «140 cattedre.» «E l'anno scorso quante ne avete assegnate?» «280, esattamente il doppio.» In un anno gli insegnanti di sostegno sono stati ridotti del 50 per cento. Quelli che sono rimasti fuori sono talmente furiosi che devono intervenire i carabinieri per calmarli. «È una vita che butto il sangue, dieci anni a fare corsi di specializzazione, master a destra e a manca» grida fuori di sé una donna che ha appena saputo che la cattedra non le è stata assegnata. «Perché nessuno si lamenta, nessuno parla, nessuno dice niente? Siamo degli stronzi, siamo.» C'è chi sta in graduatoria da quindici, chi da venti e chi persino da ventitré anni. «Io sono la prima dappertutto. La prima nella graduatoria di Milano, la prima a Ferrara, la prima a Siracusa, e quest'anno non mi hanno chiamato ancora da nessuna parte. Ora, siccome i tagli saranno spalmati in quattro anni, sicuro che non mi chiamano neanche il prossimo.» La riforma Gelmini prevede di tagliare in quattro anni 87.000 posti di lavoro tra i docenti e 43.000 tra il personale tecnico-amministrativo, e i precari sono i primi a essere esclusi. Si perdono posti di lavoro perché si è innalzato il rapporto alunni-docenti, con il risultato che ci sono più studenti in aula e meno classi nelle scuole: nell'anno accademico 2009-2010 i docenti rimasti a casa per questo motivo sono stati 6866; 16.100 le cattedre perse per colpa del «maestro unico», che ha eliminato le ore di compresenza; 2000 i docenti specialisti di inglese a cui l'incarico non è stato rinnovato, 1100 quelli che insegnavano la seconda lingua comunitaria sperimentale nelle scuole medie. «Allo sbaraglio. Siamo venuti così, allo sbaraglio» commenta una giovane signora di Caltanissetta, che insieme al marito ha viaggiato tutta la notte in treno per arrivare in tempo a Milano, all'ufficio del provveditorato agli studi, nel giorno in cui si danno gli incarichi: «Non sappiamo niente, se il posto ce lo danno, non ce lo danno, per quanti mesi e dove eventualmente ce lo danno, dove andremo a dormire, niente, non sappiamo niente, siamo partiti ieri sera, così, all'avventura». Il lungo corridoio del provveditorato sembra l'atrio di una stazione, trolley e valigie dappertutto, carrozzine, bambini di tutte le età, c'è persino una signora che cambia il pannolino al piccolo appena nato, su un banco di scuola, proprio davanti alla porta dell'ufficio dove assegnano le cattedre. Sono venuti su di corsa e chi non ha trovato nessuno a cui lasciare i figli se li è portati dietro. Perché al Sud la situazione è drammatica, non ci sono posti, mentre a Milano, dove ci sono più scuole, forse qualcosa si può trovare. C'è una coppia che viene da Partanna, provincia di Palermo. Per poter venire qui hanno lasciato dai nonni i due figli di sette e dodici anni, un maschietto e una femminuccia: «Se lei dovesse prendere l'incarico annuale, vorrà dire che lei si trasferisce qui con il piccolo e io rimango giù con la più grande. E ci vedremo con Skype». La stessa scena si ripete in tutti i provveditorati del Nord, presi d'assalto dai precari del Sud in esubero che non vogliono rinunciare alla possibilità di rimanere in graduatoria. Sanno che l'anno prossimo sarà ancora più dura e che devono a ogni costo avanzare almeno di qualche punto se non vogliono finire in mezzo agli 87.000 docenti che verranno tagliati.
Michele è un insegnante di sostegno, nel settembre del
2009 ha lasciato Messina, la moglie e i due figli, e ha preso
un incarico annuale a Torino. Vive a Mirafiori, in un piccolo appartamento che
divide con un ragazzo che fa l'elettricista; paga 300 euro al mese per il posto
letto, più le bollette e quello che serve per muoversi, per mangiare e per
vivere. Dei 1200 euro che guadagna, metà li spende per
stare a Torino. Il resto è per la casa, la moglie e i figli. Da
quando vive a Torino, è andato a trovare i suoi a Messina
solo una volta, a Natale, e la prossima volta ci andrà a Pasqua; non può
permettersi di raggiungerli più spesso, altrimenti dei soldi che guadagna non
rimarrebbe nulla. È andato anche in banca a chiedere un prestito di 15.000 euro,
ma quando hanno visto che era un insegnante precario
non glielo hanno dato, così deve stare attento anche all'ultimo euro che spende:
«Almeno servisse a costruire qualcosa. E invece tutti i sacrifici che faccio
rischiano di non servire a niente, perché se continuano a tagliare, l'anno
prossimo non ci sarà posto neanche qui a Torino».
Mancano perfino le sedie La stretta voluta dalla Gelmini incomincia a farsi sentire anche al Nord. Nereo Marcon è il segretario generale della Cisl Scuola del Veneto e parla nell'aprile del 2009, a quasi un anno dall'approvazione della riforma: «Il direttore generale delle scuole del Veneto ci ha appena comunicato la riduzione dei posti di maestro elementare nelle varie province: ebbene, il numero è di 779 insegnanti elementari in meno. E tutto questo, ci ha detto, è dovuto alla riduzione drastica delle ore di scuola. Infatti, su 615 nuove classi di tempo pieno richieste dalle famiglie, con questi numeri si sono riuscite ad attivarne solo 259, meno della metà. Poi ci sono le scuole medie, e qui sono 916 i posti in meno, anche questo a causa del taglio di molte classi e alla diminuzione delle ore di educazione tecnica e delle ore di italiano». Maria Caterina Citterio è la direttrice della scuola elementare del quarto circolo didattico di Cremona. Una circolare del ministero aveva invitato tutti i genitori a scegliere fra il tempo pieno e il tempo normale e quasi tutti avevano scelto il tempo pieno. Ma la direttrice è molto chiara con le mamme e i papà che sono venuti di pomeriggio a scuola per capire che cosa succederà l'anno prossimo: «Di nove insegnanti che ho nella pianta organica me ne mancano quattro e non possiamo fare i salti mortali. Riusciamo a malapena a mantenere le classi a tempo pieno dell'anno scorso. È escluso che se ne possano aprire altre». | << | < | > | >> |Pagina 121Scuole di lusso«Mio marito è commercialista e io mi occupo di moda.» «Io sono una libera professionista e mio marito è medico.» «Mio marito è un imprenditore e io faccio l'avvocato.» Parlano le mamme che hanno accompagnato i propri figli alla Bilingual European School, una scuola privata parificata che si trova nel quartiere di Niguarda, a Milano. Pagano 7000 euro all'anno di base, ma con tutti gli altri servizi – mensa, laboratori, musica e numerose attività sportive opzionabili – si arriva fino a 8000 euro all'anno. Come promesso dal nome, nella scuola si insegna in italiano e inglese e qui i bambini diventano rapidamente bilingui. «È certamente un valore aggiunto, una cosa che apre la mente vedere tuo figlio di sei anni che parla perfettamente l'inglese» ci dice una mamma, entusiasta della scuola. Nella Bilingual European School si trova tutto quello che abbiamo visto in Svezia e tutto quello che manca alla scuola pubblica italiana: dalle lavagne interattive ai videoproiettori, dai computer agli strumenti musicali, dalla piscina olimpionica al campo di basket. Al «Leone XIII», il liceo privato parificato più esclusivo e prestigioso di Milano, hanno centottanta computer in rete, una biblioteca con centomila volumi, un teatro da 870 posti, cinque palestre, campi di calcio, di pallavolo, di basket e una piscina olimpionica. E quasi tutti i diplomati conseguono il patentino europeo, che sarebbe la certificazione europea della loro bravura nelle singole materie. Del resto il «Leone XIII» ha un budget di tutto rispetto: 7 milioni di euro all'anno, costituito quasi tutto dalle salate rette pagate dai genitori; quasi tutto, perché una parte del finanziamento arriva dalla Regione Lombardia. Sono, cioè, soldi pubblici e non sono pochi: nel 2009, in totale, sono stati 51 milioni e 460.000 euro. Servono a finanziare il «buono scuola», un contributo che le famiglie possono chiedere alla Regione per mandare i loro figli alla scuola privata. Ma siccome il buono scuola non basta a coprire tutta la retta, sono in realtà un regalo a chi ha già un reddito medio-alto. Il confronto con i contributi che la stessa Regione versa per la scuola pubblica è particolarmente scandaloso: 24 milioni e 589.000 euro, la metà di quello che dà alle scuole private. Se poi si considera che gli studenti della scuola pubblica in Lombardia sono quasi un milione, dieci volte di più dei 98.000 che si sono iscritti alle scuole private parificate, il conto che ne esce fuori grida vendetta: 3 euro e 30 centesimi per ogni studente della scuola pubblica, ben 478 euro per ogni studente della scuola privata. E questo mentre nel quarto circolo didattico di Cremona mancano persino i soldi per comprare i pennarelli.
La riforma con il segno meno è stata decisa dalla Gelmini e da Berlusconi in
poco tempo, senza coinvolgere le
associazioni e i sindacati di categoria, senza il contributo
degli studiosi e dei pedagogisti, senza aver aperto un dibattito con i cittadini
e, infine, senza che fosse discussa in
Parlamento, visto che è passata con un voto di fiducia.
Quando saranno stati realizzati tutti i 7 miliardi e 834 milioni di euro di
tagli previsti, la scuola pubblica sarà più
povera, più piccola, più semplice. La complessità, l'eccellenza, l'innovazione
resteranno sempre di più appannaggio del mondo privato e di chi si può
permettere di mandare i figli nelle migliori scuole e università del mondo.
La forbice sociale tra chi ha tutte le risorse, tra chi può accedere a tutte le
chiavi di lettura necessarie per muoversi
nel mondo della globalizzazione, uso delle lingue straniere
compreso, e chi è destinato a rimanere nella periferia culturale del sistema,
diventerà ancora più larga, e la pochissima mobilità sociale, per la quale siamo
già agli ultimi posti nelle classifiche internazionali, rischia di trasformarsi
in un tappo insormontabile.
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