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| << | < | > | >> |Pagina 19La nascita del dialetto napoletanoSui "dialetti" grava una falsa concezione, un erroneo pregiudizio da sfatare: la loro pretesa derivazione dalla cosiddetta "lingua italiana", quasi figli spuri e scugnizzi di fronte all'erede consacrata ed educata, linda e pinta; in realtà, gli uni e l'altra risalgono alla comune matrice latina... Non saranno inutili talune brevi precisazioni. In ogni tempo e luogo, è esistita-esiste-esisterà una lingua "naturale", cioè appresa e parlata nel ristretto àmbito familiare prima che in quello piú ampio della società; essa poi costituisce la piattaforma d'avvio per quei "gruppi" che si protendono verso le vette della cultura, intesa sia nel suo ampio bagaglio concettuale che nei mezzi espressivi artificialmente raffinati e rifiniti della lingua scritta o letteraria. Se applichiamo tale duplicità anche all'antica lingua di Roma, ricaviamo la contrapposizione fra "bellus, bucca, caballus, caldus, campus, casa, focus, mesis, mortus (neutro pl. > femm. sg.), pecora, sposus, subito, virdis, occidère, plàngère..." dell'eloquio parlato rispetto a "pulcher, os, equus, calidus, ager, domus, ignis, mensis, mortuus, ovis, sponsus, repente, virdis, interfícère, fiere..." della lingua scritta; eppure è la prima serie di lemmi orali che è arrivata fino a noi appunto dalle forme della lingua parlata: "bello, bocca, cavallo, caldo, campo (agricolo), casa, fuoco, mese, morto, pecora, sposo, subito, verde, uccidere, piangere..." (spesso con variazioni anche di significato); cosí ben sappiamo che a introdurre ed espandere la loro lingua a cominciare dalla penisola — furono gli eserciti romani, cioè soldati privi di cultura e solo in possesso del naturale idioma "parlato". Sorge spontanea una domanda: come mai un'unica lingua ha poi prodotto la molteplicità dei dialetti — risultanza espressiva da porre entro circoscritti limiti geografici — in Italia? È ovvio e noto che, prima della sovrapposizione politico-linguistica della "romanità", nelle varie zone della penisola preesistevano popolazioni con propri caratteri anche d'eloquio: è come se una serie di bicchierini, contenenti nel sottofondo alcune gocce differenziate di distillati (in uno residui di gin, in un altro resti di cognac, in un altro avanzi di whisky...), fosse completata da un'unica e ampia aggiunta di liquore, col risultato di sapori analoghi ma non eguali. In Campania (e in grande parte del Sud) la colata linguistica del "latino vincitore" s'incontrò coi precedenti caratteri delle lingue "greca" e "orca", assumendo fin dall'inizio una sua peculiarità costitutiva. | << | < | > | >> |Pagina 23Uso e fortuna del "napoletano"Anche nel dialetto napoletano si creò la solita contrapposizione espressiva: a) l'uso quotidiano del "parlato" locale, su solida base latina, vivace e genuino mezzo di comunicazione orale valido per tutti gli strati popolari, da quelli piú umili a quelli culturalmente piú elevati, in modo da propiziare un'immediata intesa comune nello stesso àmbito regionale; b) il passaggio di tale "parlato" nella purificata, raffinata e rifinita consacrazione dello "scritto" a opera degl'intellettuali; ma tale fase avvenne molto piú tardi. Infatti vi furono certo momenti particolari – connessi alle varie dominazioni straniere – in cui la lingua ufficiale della burocrazia fu ora il "greco bizantino", ora quella dei Normanni...; ma, come ci è noto da Paolo Diacono che nel sec. VIII non si usava piú il longobardo nella loro area di signoria, cosí sappiamo la simpatia e la propensione degli Aragonesi verso la napoletanizzazione... Infatti Alfonso il Magnanimo, abolendo l'ibrida miscela di "latino (abborracciato e straziato) col toscano", i cui primi spruzzi erano cominciati ad affiorare nella redazione burocratica degli atti amministrativi, prescrisse – come ha tramandato l'abate Galiani – che "s'innalzasse il volgar pugliese (oggi chiamato "napolitano") ad esser lingua nobile della nazione" Tale nuovo tipo espressivo – si badi: non quello raccolto direttamente e completamente dalla strada, bensí costituito da "dialetto, lingua letteraria (= misto di latino e toscano) e spruzzi spagnoli" – fu usato anche dai cólti rimatori e cronisti del tempo, mentre una sparuta e dimessa schiera rimaneva piú fedele e vicina al solo "dialetto locale" scurrile e inelegante, respingendo infiltrazioni-usi-imitazioni toscaneggianti e realizzando opere decisamente popolari; pochissimi erano quelli che già si allineavano sulla raffinata tradizione letteraria toscana in iniziale ascesa (Masuccio Salernitano nelle "Novelle", il Sannazaro nel "Canzoniere" e nell'"Arcadia", laddove ricorse al dialetto nei "gliommeri", genere letterario da lui reputato secondario)... Il quadro dell'uso linguistico subí ritocchi nel Cinquecento, quando la dominazione spagnola preferí la stesura degli atti burocratici in un prevalente "castigliano", mentre l'importanza gradualmente maggiore del "fiorentino cólto" avvinse anche gl'intellettuali partenopei e costituí la primaria base espressiva delle opere scritte, anche se ben colorita e infarcita di napoletano; in altre parole, risultava e si corroborava un'artistica elaborazione del dialetto... Tuttavia – nel Seicento e Settecento – quest'aspetto letterario e rifinito (ma certo artificiale) del dialetto, che avrebbe dovuto cedere spazio sempre maggiore al luminoso trionfo del "fiorentino" (ormai prioritario ed esclusivo nell'arco letterario dalla fine del Cinquecento in poi), invece cedette a un piú netto e deciso uso del nostro dialetto, similmente con quanto avvenne a ciascun dialetto nella propria zona regionale..., sorretto da un rigoroso municipalismo linguistico promosso dall' Accademia dei Filopatridi, i cui principali membri furono Raffaele D'Ambra, Luigi Chiurazzi, Emanuele Rocco, Giacomo Bugni... Dall'unità d'Italia (1861) al primo ventennio circa del Novecento, l'atavica mancanza d'una "lingua unica parlata" indusse a dover continuare l'uso dei dialetti, e il nostro cominciò a raddolcirsi sotto le cure di acculturati, raffinandosi e impreziosendosi grazie ad Autori di grande personalità e di auree composizioni; anzi proprio dai dialetti si pensava e sperava di poter trarre quelle spontanee positività regional-popolari atte a creare la sospirata "lingua nazionale", per cui si comprende che a tal fine – nel 1923 – il Gentile prescriveva l'uso di dizionari bilingui "dialettali-italiani" nelle scuole ed esercizi di traduzione dagli idiomi locali in un italiano semplice e spigliato, di tipo popolare e parlato. Ben altra aria spirò nel periodo fascista, quando – a partire dal 1926 – il nuovo regime al potere assunse un indirizzo decisamente autoritario. Accanto a una drastica esterofobia perfino nel lessico, una legge pose al bando i dialetti, considerati mezzi disgregatori e antiaggreganti nel quadro d'un programma nazionalistico, inteso anche linguisticamente. Tuttavia è doveroso segnalare la contraddittorietà fra teoria e pratica: sebbene la percentuale degli analfabeti si riducesse al 38% (stando almeno alle statistiche del regime), rimase il fatto che tale norma antidialettale fu puntualmente disattesa nelle scuole; cosí nella realtà quotidiana mancarono quegli strumenti linguisticamente unitari quali (specie negli anni intorno al Cinquanta) sono risultati "mass media" della voce e della carta stampata in misura altamente determinante. Per ovvia conseguenza, oltre i quattro quinti degl'Italiani continuarono a esprimersi nel proprio dialetto, anche perché al Fascismo non convenne né rinnegare certe esaltazioni popolari e "rurali" (alle quali lo stesso Duce si vantava di appartenere), né inimicarsi le ampie basi sociali della borghesia media e bassa, dedite al dialetto nei giornalieri rapporti elocutivi. Cosí la gloriosa tradizione del nostro "dialetto" poté ben continuare (sull'onde dell'avvio post-unitario che aveva dato le prime piú fulgide manifestazioni di liriche auliche e di "canzoni d'Arte", grazie a grandi Poeti abbinati a illustri Musicisti) con altre-alte consacrazioni espressive in prosa e in versi, teatrali e canzonettistiche, spesso in rapida e fortunata diffusione anche al di là della stessa penisola; egualmente è stato possibile – soprattutto nell'ultimo periodo del XX secolo — l'avvio d'un mutuo influsso linguistico fra dialetto ed eloquio nazionale, segno di rapporti piú intensi e di distanze meno accentuate. Certo oggi non sarebbe piú verificabile il momento di scarsa intesa dialogica di qualche tempo fa, che un gustoso aneddoto ci rammenta. Primo giorno di scuola: il maestro — applicando il "test d'ingresso" a un alunno proveniente dalla campagna, per inquadrarne meglio l'ambiente sociale e culturale — a tu per tu gli chiede reiteratamente "Dove vivi?", ma senza riceverne risposta. Immaginando le probabili difficoltà create dall'uso del solo "italiano", il maestro ricorre a una miscela: "Addó vivi?"
Il piccolo allievo sembra sciogliersi e certo sulla base d'un
equivoco linguistico – risponde con un'aria a mezzo fra il sorpreso e il
derisorio:
"E addó pozzo vèvere? Int' ô bbicchiere!"
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