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| << | < | > | >> |IndicePrologo pag. 7 Sei anni dopo 95 Conclusione 403 Nemo propheta in patria 407 (Nota dell'autore) |
| << | < | > | >> |Pagina 7Tremava come una foglia scossa dall'uragano, quando andarono a prenderlo nella sua cella. Senza forze, si abbandonò fra le braccia dei soldati, che si segnarono prima di fargli indossare sopra il saio lo scapolare con la Croce di Sant'Andrea. Un frate domenicano accompagnava il drappello. I suoi occhi lampeggiavano sinistramente mentre lanciava spruzzi d'acqua benedetta: immergeva con mossa lenta e ieratica l'aspersorio in un secchiello tenuto da un bambino, e aspergeva tutti con un colpo secco, emettendo il breve, agghiacciante grido "Misericordia et Iustitia!" A ogni urlo il bimbo abbassava per un attimo le ciglia e respirava profondamente, poi piantava nuovamente lo sguardo insolente sul prigioniero; le sue labbra mormoravano senza tregua chissà quali preghiere. L'uomo fu trascinato sino al cortile, dove l'attendeva una carretta trainata da due muli; quando vi giunse sembrava già morto, aveva smesso di tremare e, pareva, anche di respirare; fu issato e rimase steso sulle assi del veicolo, immobile come un sacco di farina. Un colpo di frusta risuonò nell'aria, e le bestie iniziarono il loro antico e metodico lavoro di tiro. La carretta si mosse, usci dal portone del Palazzo dell'Inquisizione in Ripetta e si perse nella nebbiolina che saliva dal Tevere; attutiti, giunsero, lugubri, i rintocchi delle tre del mattino. Non fu il movimento scomposto del carro, né l'umidità che si condensava materializzandogli una maschera di grasse gocce sul viso, e neppure il rimbombo delle ruote bordate di ferro sui ciottoli della via, o il vociare della soldataglia che accompagnava il trasporto con oscenità e risa, che contribuirono a rianimare il prigioniero. Fu piuttosto il riaprirsi delle piaghe causate dal rigoroso esame, la tortura, a svegliarlo dolorosamente e a ricacciarlo nell'incubo dei ricordi e nell'orrore del presente. Dieci giorni prima l'avevano spogliato e appeso per mezz'ora con una corda per le braccia legate dietro la schiena; poi, visto che non abiurava, per un'ora intera gli avevano tormentato i talloni con la stanghetta e torte con le cannette le falangi di mani e piedi sino al limite della rottura. Erano seguiti la frusta e il ferro infuocato, poco in uso a Roma, ma resi necessari per dimostrare rigore e intransigenza al Grande Inquisitore di Spagna, in quei giorni in visita al Santo Pontefice. Il prigioniero dapprima aprì gli occhi ancora accecati dallo svenimento, poi mosse le dita delle mani come artigli in cerca di preda, e piano piano la vita ritornò nelle membra e nell'intero corpo. Si sollevò su un gomito contraendo il volto in una smorfia di dolore per la fitta che lo aggrediva, si guardò attorno e si accasciò nuovamente sul carro, sopraffatto dalla sofferenza fisica e corroso dall'angoscia che non lo abbandonava più dall'ultima convocazione di quello che tutti chiamavano Tribunale della Santa Inquisizione. "L'eresia è un errore dell'intelletto perché non è soltanto l'adesione del pensiero a una teoria contraria alla verità della fede, ma implica anche l'intenzione, la ferma intenzione, di favorire con volontà e senza reticenze tale falsa dottrina! Voi siete ostinato e incorreggibile, non avete abiurato neanche con il rigoroso esame, che pure poteva rimettervi sulla strada della verità!" gli aveva vomitato in faccia il cardinalis antiquior, cardinale decano che parlava in nome del pontefice. Il papa stava seduto sullo scranno con i piedi poggiati su un cuscino di velluto rosso, pensieroso, tormentato dalla gotta, il cuore impazzito che batteva irregolare nel petto, con la faccia grigia, erosa da una fitta ragnatela di rughe che lo facevano assomigliare a un albero incenerito dal fulmine. Era la seduta del giovedì della Congregazione del Sant'Uffizio, quella che si teneva nel Palazzo del Quirinale, con i cardinali seduti su sedili rivestiti dello stesso velluto rosso sul quale il papa poggiava i piedi, in segno di sottomissione. Dietro gli alti prelati erano i consultori, fra cui il commissario incaricato d'informare il pontefice degli affari che sarebbero stati trattati durante la seduta. "Continuate ad affermare che il mondo è infinito? Vuoto?" aveva tuonato il cardinale decano. "Che la Terra, sede dell'uomo – creatura prima del Creato – è tra altri corpi in cielo, e non al centro dell'universo?" Al silenzio del prigioniero, inginocchiato a capo chino, aveva continuato con il dito che indicava il prezioso crocefisso d'avorio e pietre rare posto su un piccolo tavolo ricoperto anch'esso da velluto rosso: "Volete ripetere le vostre idee al cospetto del Figlio di Dio, che ha donato la sua vita per mondarci dai peccati?" "Eminenza, converrete con me che un mondo infinito, infinitamente ricco, infinitamente esteso, perennemente mutevole, eterno, e senza i limiti in cui le sfere cristalline potrebbero mortificarlo, è il segno della sua perfezione, non della sua mancanza." "Infinito l'universo? Continuate ad affermarlo?" "Un universo immutabile, immobile e finito non può appartenere al grandioso progetto divino." "Se è senza limiti, vuol dire che il nostro Sole non può illuminare e riscaldare tutti i corpi celesti esistenti! Dunque, ci sarebbero più soli che si riflettono nei pianeti e nelle stelle che vediamo?" "Credo che sia così, sono innumerevoli gli astri che splendono. Ma il mondo, anche se è infinito, non è che un punto piccolissimo in confronto al Creatore." Il pontefice ebbe un sussulto quando il cardinale si alzò in piedi con uno scatto. "Il concetto di infinito si può applicare soltanto a Dio, cioè a un essere incorporeo e spirituale! Potreste almeno abbandonare presunzione e arroganza, conformarvi alla prudenza esibita due secoli fa dal cardinale Nicola da Cusa e spiegare l'universo come 'indeterminato' oppure 'indefinito'. Il tempo per apprendere e digerire questa cautela l'hanno avuto in molti. Ma sembra che voi preferiate ripetere in modo cieco e irragionevole gli insegnamenti del vostro maestro." Il prigioniero rimase muto, sentiva sorgere in sé una forza grandissima, sovrumana, inattaccabile, vincente: la forza della ragione; ma nel contempo cominciava a insinuarsi nel suo petto il gelo della paura. "Non parlate più?" lo esortò il cardinale. L'altro continuava a tacere. "Nulla da dire neanche sull'accusa di avere partecipato a riunioni segrete presso quel giovane patrizio, il principe Federico Cesi?" "L'ho detto altre volte, eminenza, non conosco il principe Cesi." "Peggio per voi, lui almeno ha uno zio cardinale!" ruggì l'inquisitore. "Si riunisce con altri che hanno perso la giusta strada e lo stanno traviando, lo irretiscono, lo plagiano: gli fanno leggere l'opera pubblicata cinque mesi fa col titolo di Sidereus Nuncius dal matematico Galilei. La conoscete?" "Per quanto ne so, non è vietata dalla Sacra Congregazione dell'Indice." Il cardinale alzò il tono. "Non ancora, ma lo sarà presto. Un libro che intende capovolgere l'evidenza delle Scritture e mettere in moto la Terra attorno al Sole non può restare impunito." Fece una lunga pausa, nella quale andò a prendere alcune carte dalla mano di un segretario, e riprese: "Visto che avete ritrovato la parola, vi esorto a confutare una buona volta le accuse di eresia che vi vengono mosse dai vostri nemici e soprattutto dai vostri amici francescani". Poi mostrò le carte sbattendole contro il palmo della mano. "È l'ultima possibilità che vi offre questo tribunale." "Eminenza, il De iusta hæreticorum punitione di fra Alfonso de Castro non menziona tra le proposizioni eretiche quella che io difendo. L'infinità dell'universo non è dottrina diabolica, e io non ho mai messo in discussione il fatto che la Santa Chiesa debba avere sempre l'ultima parola nell'interpretazione delle Scritture. I miei sono soltanto dei semplici ragionamenti." "Ragionamenti balordi e pericolosi che hanno già ridotto in un pugno di cenere chi ve li ha instillati." "Il fuoco elimina i corpi, ma non le idee, eminenza. Io sono disposto, come lo era il mio maestro, a riconoscere eretica la dottrina sull'infinità dell'universo soltanto se essa è dichiarata tale dal Sovrano Pontefice." Il prigioniero si meravigliò egli stesso del coraggio avuto per pronunciare queste parole. Decise allora che sarebbero state le ultime. Da allora, non parlò mai più. Il cardinale decano si rivolse al papa che con la testa fra le mani fissava un punto invisibile sul pavimento: "Vostra Santità ha sentito quale sfrontatezza si manifesta in quest'uomo? Ma è proprio un uomo o una creatura dell'Inferno a provocarci così?" Paolo V annuì senza parlare e senza smettere di fissare quel punto che lo aveva ipnotizzato. Da mesi la Repubblica di Venezia aveva proibito l'istituzione dei monasteri nel proprio territorio e i lasciti di beni immobiliari agli ecclesiastici senza il permesso del Senato, e si rifiutava di concedere l'estradizione per due sacerdoti che dovevano essere giudicati a Roma per reati comuni. L'interdetto contro la città lagunare non era riuscito a ristabilire l'autorità del papa, e l'affronto scottava come un ferro rovente. A questo si sommavano le preoccupazioni finanziarie per il Banco di Santo Spirito – una sua creatura per evitare le ingerenze dei banchieri privati nelle opere della Camera pontificia – e i pensieri che gli procuravano la fondazione della galleria di quadri e sculture antiche e moderne nella quale aveva investito quasi tutte le fortune del suo casato, quello dei Borghese, e le spese per la splendida villa sul Pincio. Fu dunque stanca e tremolante la voce che gli uscì dalla bocca talmente socchiusa che sembrò stesse parlando un ventriloquo: "Come il nostro predecessore Clemente VIII che ha segnato la strada con la sua santità, non possiamo che affermare che il carattere eretico della proposizione dell'accusato è talmente manifesto che non abbiamo bisogno di dichiarare alcunché in proposito". Dopo quel breve cenno di vitalità, l'erede di san Pietro fu nuovamente inghiottito da se stesso e chiuse gli occhi nella vana speranza di trovare la soluzione a tutti i problemi che gli si affastellavano nella mente. Con un semplice movimento dell'indice il cardinale decano ordinò a un uomo di avvicinarsi. Era questi il notaio del Tribunale della Santa Inquisizione, un ometto in nero, con un largo collare di organza bianca, il capo scoperto, l'aria grave e consapevole. Stringeva fra le mani un foglio lungo e spesso. Cominciò a leggere con affettazione: "Sanctissimus Dominus Noster Paulus V, auditis votis eorundem Illustrissimorum, decrevit ut procedatur in causa ad ulteriora servatis servandis, ac proferatur sententia, et dictus frater Fulgentius..." Al prigioniero ripresero a ronzare le orecchie, e temette di ricominciare a tremare o di svenire nuovamente. La sentenza definitiva gli giunse a brandelli ovattati: "Noi Domenico d'Ostia Pinello, fra Geronimo Bernerio vescovo di Ponto detto d'Ascoli, Pietro del titolo di ss. Giovanni e Paolo Aldobrandino... chiamati per la misericordia di Dio della Santa Romana Chiesa preti cardinali... Generali Inquisitori della Santa Sede Apostolica specialmente deputati... Invocato il nome di nostro Signore Gesù Cristo e della Gloriosissima sua madre sempre vergine Maria... Essendo che tu, frate Fulgenzio figlio di Loffredo... giudicato veementemente come eretico negativo e impenitente, che fra tutti i delitti non ve n'è alcuno che rechi maggiore infamia... Nel giorno 5 del mese di luglio dell'anno del Signore 1610, venga tu appeso per il collo in piazza del Campo de' Fiori sino a che la tua anima e il tuo corpo si separino, e indi il tuo cadavere venga, per complemento di giustizia, messo al rogo su una pira di legno appositamente lì costruita... La salvezza della tua anima sia affidata alla Confraternita di San Giovanni Decollato, che ti accompagnerà al supplizio..." L'ultima frase che il prigioniero ritenne fu la firma del notaio: "Andreas de Pettinis Sanctæ Romanæ et universalis Inquisitionis notarius". L'eco di queste parole, o quella del loro ricordo, si perse tra il rumore degli zoccoli dei muli che slittavano sui ciottoli e lo stridio del freno azionato dal cocchiere. La carretta si fermò. Erano arrivati sul luogo dell'esecuzione. Il prigioniero fu trascinato sino al piccolo palco di legno posto al centro della piazza; le sue gambe e i suoi piedi erano come morti, e le braccia dei soldati trasportavano un corpo inerte, nel quale neanche il rantolo affannoso che fungeva da respiro era più riconoscibile come un segno di vita umana. Quando fu issato sulle assi sconnesse, una voce acuta e penetrante gli traforò il cervello: era quella del frate incaricato di somministrare l'ultimo sacramento. "Il rosario è preghiera perfetta", blaterava isterico il domenicano, porgendo un cordone irto di grani di legno. "Recita il Pater, l' Ave Maria e il Gloria Patri! È l'ultima occasione che hai di contemplare il mistero di Cristo, di penetrare nell'intimità di Maria, di guarire la tua anima immonda annegandola nella grandezza di Dio!" Dalle mani, il sangue si era già ritirato per il terrore, ed esse pendevano diafane come due giganteschi fiocchi di neve in liquefazione. Mai, neppure volendo, il condannato avrebbe potuto afferrare quel rosario che il frate cercava di mettergli in un palmo. E anche gli occhi, annegati tra le lacrime e il fumo delle torce che dovevano incendiare la pira, avevano perso la capacità di mettere a fuoco, la consapevolezza della profondità, delle forme e degli spazi. "Il rosario è un dono di Maria!" urlava sempre più invasato il frate, nel vano tentativo di farsi ascoltare. "Lo ha dato la stessa Vergine a san Domenico, il suo prediletto! Prega! Prega come faceva il santo! Il rosario è un'arma potentissima contro l'Inferno! Cancella i vizi! Distrugge il peccato! Estirpa le eresie!" Soltanto quando il collo del prigioniero fu infilato nel nodo scorsoio, il frate smise di gridare. Stranamente, al suo repentino tacere, fece da contrappunto un altrettanto improvviso garrire in cielo: gli storni avevano iniziato i loro volteggi sulla città Santa.
Quelle degli uccelli furono le ultime voci a perforare la coscienza del
prigioniero, prima che il silenzio e il buio sostituissero i suoi sensi.
Un'ora dopo, le ceneri di Fulgenzio di Loffredo furono sparse in Campo de' Fiori dalla brezza mattutina. Di lui non restarono che poche ossa calcinate, sugli stessi lastroni di pietra dove dieci anni, quattro mesi e diciotto giorni prima era stato arso vivo il suo maestro, Giordano Bruno. | << | < | > | >> |Pagina 15Secondo il tedesco Johann Schreck detto Terrentius, la ragazza nuda distesa davanti a lui era di quelle che si sentono invincibili ed eterne anche in condizioni avverse. Innanzi tutto per la positura del tronco, teso come un bastone di quercia, e per le spalle squadrate in modo poco usuale per una donna. Poi, per i fianchi stretti e il ventre piatto che ruotava attorno all'ombelico perfettamente ovale; i glutei sodi e le gambe lunghe e lisce che si incontravano in un garbato e rado arruffo scuro; il seno piccolo, così fuori moda; e il volto... Come si poteva descrivere tanta bellezza? Schreck la ammirava annegandosi in quegli occhi dal taglio obliquo, neri come il carbone, che lo fissavano severi, in profondità, senza timore; il naso, leggermente schiacciato, si affacciava sulla bocca carnosa, socchiusa a mostrare denti bianchissimi. La ragazza sembrò avere colto il suo interesse, ma quel leggero fremito che le aveva animato lo zigomo era dovuto solo a una delle tante mosche che le passeggiavano sul corpo. I tratti somatici erano probabilmente quelli di una delle lontane razze orientali di cui si sentiva parlare sempre più spesso. Forse indiana, oppure siamese, o cinese. La carnagione ambrata e la pelle liscia contribuivano a renderla desiderabile. Non doveva avere più di sedici anni e di sicuro faceva parte del piccolo esercito di schiavi ancora presente a Roma. | << | < | > | >> |Pagina 43La galleria degli antenati del principe Cesi era un antro spettrale. Al guizzo delle candele brillavano occhi, palandrane, spadoni, tiare. Il vecchio servitore Anselmo precedeva i due tedeschi dopo averli liberati da mantello, cappello e bastone. Man mano che ci si avvicinava alla biblioteca, incombevano i volti dei più recenti avi o affini della famiglia Cesi. Ecco la faccia barbuta e rubizza del condottiero d'Alviano cui il pittore non era riuscito a correggere il lungo naso che gli cadeva sul mento. La stessa sgraziata appendice l'aveva sua figlia Isabella Liviana, pallida, con una grande spiga di grano in mano; accanto, su una tela un po' più grande, il suo sposo Gian Giacomo Cesi, proavo del principe, sembrava dormire a occhi aperti. Di fronte a questi, il di lui figliolo Angelo: riecco il naso sproporzionato, ben più in vista del pugnaletto infilato nella cintura. Severi negli abiti cardinalizi, il prozio omonimo del principe, sua eminenza Federico Cesi, in piedi intento nella lettura dei Vangeli, e lo zio Paolo Emilio Cesi, dallo sguardo truce, il crocefisso d'oro al collo e un anello che brillava sul guanto viola della mano destra. E tutti e due col nasone che sembrava dotato di vita propria, tanto spingeva per uscire fuori dalle tele. Ai lati opposti della galleria si specchiavano l'uno nell'altro i ritratti dei cugini Cesarini, due giovani nasuti in armi che prediligevano spada e cavallo ai libri sia sacri che profani. Al loro precettore, Ranuccio Farnese – forse scelto perché anch'egli con la faccia guastata da una spiacevole proboscide – era dedicata una pittura grottesca nella quale l'uomo era ritratto con le mani attaccate alle briglie di due cavalli imbizzarriti che sembravano sul punto di schiacciarlo; sullo sfondo la bella villa di Parma dove egli aveva vissuto fino a che un calcio sul viso sferratogli da un equino in carne e ossa lo aveva spedito al Creatore in una calda mattinata d'agosto di pochi anni prima. A questo punto del largo e lungo corridoio si cominciava a sentire un vocio poco distante; non si distinguevano nitidamente parole ma soltanto fonemi tronchi, qualche colpo di tosse, attutiti rumori di bicchieri. Faber e Schreck si stavano avvicinando alla biblioteca, quando un brivido li percorse. Anselmo, come se avesse sentito il fremito, si voltò, dedicò agli ospiti un cenno di riverenza e allargando il braccio che portava il candelabro indicò, quasi puntandovi le fiamme sopra, due gigantesche pitture che troneggiavano su un passaggio. "Il principe Federico padre e la sua bella moglie, donna Olimpia Orsini", disse inchinandosi. Schreck conosceva í due quadri; li aveva visti la prima volta che era entrato a Palazzo Cesi, alcuni anni prima. Era stato lo stesso principe a mostrargli i ritratti dei genitori: la madre, donna pietosa, sensibile e pia dalla quale aveva ereditato gentilezza, delicatezza d'animo, naturale nobiltà, fierezza di sentimenti e, soprattutto, acume e ingegno; e il severo padre suo omonimo, da cui avrebbe voluto ereditare ufficialmente il titolo di principe primo di Santangelo e San Polo, ma del quale poteva per ora esibire soltanto il naso di famiglia. Finalmente entrarono in biblioteca. Ben in mostra su un sostegno metallico, stava un lungo tubo dotato di lenti alle estremità. Schreck sentì il cuore battere all'impazzata. "L'occhiale del signor Galileo", mormorò con emozione nell'orecchio di Faber. Lo strumento era lungo e sottile, ricoperto di cuoio nero martellato; i suoi vetri brillavano come occhi curiosi. Inclinato verso l'alto, sembrava un dardo pronto a essere lanciato in cielo. "Principe, i signori Faber e Terrentius", dichiarò con solennità Anselmo. "Eccovi, finalmente, amici!" esclamò Federico Cesi staccandosi da un gruppo di persone e andando loro incontro a braccia aperte. Alto, con i lunghi capelli castani, indossava un vestito nero con ricami argentati, e il corto mantello gli dava l'aria di un viaggiatore, come se si fosse trovato lì per caso. "Perdonate il ritardo, principe", disse Faber ricambiando l'abbraccio. "Lungo la strada abbiamo avuto una piccola avventura che si è risolta bene grazie al nostro Terrentius." "Terrentius, Terrentius", saltò improvvisamente su un vecchio con un viso ordinario, ma con due orecchie del tutto straordinarie, non certo per la forma o per la taglia, bensì a causa dei folti cespugli di peli che fuoriuscivano dai padiglioni. Era questi Cesare Cremonini, professore di filosofia naturale all'università di Padova. Pareva furioso. "Perché vi fate chiamare così? Quando eravate mio studente vi si conosceva soltanto come Schreck!" Dopo tanta veemenza, il vecchio trasse un gran sospiro simile a un rantolo, tossì, strabuzzò gli occhi e si aggrappò al tavolo. Sembrava stesse per tirare le cuoia. "Sono passati molti anni da allora, professore", s'intromise Faber, "e molte cose sono cambiate." Poi, con tono più gentile e suadente del dovuto spiegò che in lingua tedesca Schreck significa fantasma, incubo, e Schrecken è il terrore. "Ebbene, dandosi il nome di Terrentius, il nostro amico Johann ha voluto latinizzare il suo cognome tedesco." "Chi pensate di stupire?" ribatté Cremonini, meravigliando tutti per l'improvviso rivitalizzarsi. "Credete di essere originale?" Quest'ultima domanda gli fu però fatale perché il volto passò repentinamente dal bianco al rosso e viceversa e il fiato rimase bloccato nei polmoni per almeno un minuto. Se Cesi non l'avesse sorretto, sarebbe caduto in terra. "Ma che avete stasera, Cesare?" disse il principe tenendolo sotto il braccio. "Prima avete litigato con il signor Galileo su com'è fatto il cielo; ora ve la pigliate con il signor Terrentius per non so quale ragione. Via, siate più disteso", e gli porse un bicchiere di cristallo in cui ondeggiava vino rosso. Come se niente fosse successo, si fece avanti un uomo basso dai capelli innevati, con un bel sorriso stampato in faccia. "Eccoli arrivati, principe. Ora, avrete la prova che ho ragione io." Schreck lo osservò ricambiandone l'atteggiamento cordiale; dapprima fu l'abito antiquato con la corta giacca dagli alamari dorati a colpirlo. Poi lo riconobbe: era lo sperimentalista napoletano Giambattista Della Porta. "Sono contento di rivedervi. Io non so su cosa vogliate la ragione, ma ve la cedo tutta." Cesi spiegò bonariamente: "Questo presuntuoso del signor Della Porta, dopo essersi attribuito la paternità dell'invenzione del telescopio, ora pretende di essere l'unico a sapere decifrare il vocabolario botanico del suo paese, avendo l'ardire di affermare che neanche voi lo conoscete". "Ma certo", s'inserì Della Porta, "non discuto la sapienza del signor Terrentius, però sono convinto che non conosca la lingua di Napoli. Volete vedere?" La provocazione di Cremonini era ormai alle spalle, e un'allegra disputa stava per scoppiare. "Per esempio, la pimpinella che cosa è per voi, signor Terrentius?" chiese a bruciapelo Della Porta. Schreck seriosamente rispose: "Quella che anche il signor Faber chiama Poterium sanguisorba: dà un buon odore all'insalata e per questo ne mangiamo tutti". Della Porta si tormentò le mani. "E i puparuole a cerasiello?" Tutti fissarono Schreck che, imperturbabile, rispose: "Be'. è facile! State parlando del Capsicum cerasiforme o, come direbbero i vostri ortolani, principe", e fece un cenno d'inchino a Cesi che rispose divertito con analogo movimento, "il peperoncino tondo, uno di quelli che infiammano le labbra e spesso le gonfiano, e il cui bruciante sapore è utilizzato per conquistare Venere. Da non confondere con il puparuole a carcioffole o papaccellé pe' l'acito, cioè il verde e odoroso Capsicum grossum di cui so per certo che il professore Cremonini è golosissimo." Gli ospiti risero tranne Cremonini la cui faccia era diventata così rossa che sembrava stesse per scoppiare in mille pezzi. Approfittando della pausa, il principe riprese la parola: "È tanto tempo che non ci vediamo tutti assieme, amici. Siamo ancora a Roma, forse per l'ultima volta, per partecipare a questa serata che si prefigura magica, e la sola attesa ci riempie di allegria. Dobbiamo ringraziare il signor Galileo se, nonostante la cupezza del momento, ha voluto confermare quest'appuntamento; perciò gli chiedo con tutto il cuore di non farci più attendere e di dare inizio alla sua dimostrazione". Schreck sentì posarsi su di sé lo sguardo grave e profondo di un uomo dalla severa barbetta arricciata, che era stato fino allora da parte. Era Galileo Galilei, avvolto da pantaloni e giubbone neri, talmente stretti da sottolineare la sproporzione tra le sottili gambe e il torace carenato; a quarantasette anni il suo viso, segnato da una stanchezza mortale, ospitava due occhi tondi, circondati da rughe grigie che lo invecchiavano enormemente. Soltanto il luccichio delle pupille e la loro mobilità, rivelavano lo spirito vitale e indomito ch'era in lui. "Buona sera, signor Terrentius", esordì. "Anch'io vi ricordo quando eravate mio uditore a Padova. Sono contento di rincontrarvi, anche se mi si racconta che avete ancora un po' di scetticismo circa le mie scoperte. Credetemi, la cosa anziché offendermi mi stuzzica." La possibilità di rivedere lo scienziato dopo anni a villa Cesi era stata una delle principali molle che avevano spinto Schreck, nonostante i tempi, a partecipare alla riunione. "Sono molto felice di essere ancora una volta vicino a voi, signor Galileo; permettetemi di congratularmi per la vostra nomina a primo matematico e filosofo del granduca di Toscana." L'altro lo ringraziò con un impercettibile cenno del capo. "Per quanto riguarda le vostre scoperte", continuò Schreck, "più che scettico, mi ritengo cauto. Sono d'accordo con voi che la lingua della matematica ci permetterà di leggere il grande libro della natura, ma prima di abbracciare la teoria di Copernico e abbandonare quella di Tycho Brahe che lascia la Terra tranquilla e immobile al centro dell'universo, e fa ruotare gli altri pianeti attorno al Sole e tutti assieme – Sole e pianeti in blocco – attorno alla Terra, vorrei discutere con voi la questione delle maree e vedere con i miei occhi le meraviglie che raccontate e che scrivete, servendomi del vostro strumento che il principe ha chiamato telescopio." Fu a questo punto che Cesi si avvicinò in modo solenne al lungo tubo con le lenti; lo afferrò saldamente e lo sollevò in aria. Non si sentiva neanche respirare quando, in una posa che lo faceva assomigliare a un sacerdote in un atto sacrificale, disse gravemente: "Stasera compiremo per la prima volta l'ardito gesto che il signor Galileo ha già compiuto in solitaria passione". Abbracciò con uno sguardo i convenuti. "Punteremo al cielo questo strumento." Seguì un inizio di applauso che però si spense in un attimo perché un "No!" urlato a pieni polmoni gelò il moto d'entusiasmo. Si voltarono tutti verso Cesare Cremonini che aveva lanciato il grido. Con il volto terreo, la bocca tremante, gli occhi che sembravano quasi schizzare fuori dalle orbite, il vecchio tentò di parlare ancora e bofonchiò: "Volete negare alla Terra il privilegio di essere il centro del mondo?" ma gli mancò il fiato per continuare. Galileo lo guardava con commiserazione. "Non credo che sia il centro del mondo, ma di sicuro è il regno della corruzione." Cremonini si accasciò su una poltrona. Cesi poggiò il telescopio e si mosse per andargli vicino, ma questi scosse la testa, si rialzò faticosamente, accennò con sofferenza un inchino e si avviò verso la porta. Di lui rimase solo il fruscio dei merletti che abbondanti gli decoravano l'abito. Il solo a seguirlo fu Anselmo. Galileo si accarezzò la barbetta e ruppe l'imbarazzato silenzio. "Neanche a Padova ha voluto vedere dal mio strumento... dice che s'imbalordirebbe, e non ne vuole sapere." Cesí fece un cenno affermativo col capo. "L'ho invitato per il suo peso nel mondo accademico e per il dibattito che ha scatenato la sua originale interpretazione di Aristotele: sostiene che l'anima è mortale, come il corpo. Se n'è andato. Forse è meglio così", concluse, "dobbiamo imparare a rivolgerci soltanto a chi sente la necessità di andare sempre più avanti." A questo punto, come spinto dalla folata di vento entrata dalla porta-finestra, si fece avanti un uomo con gli occhi piccoli simili a spilli e i denti neri e putridi. Aveva un bicchiere di vino in mano, mezzo vuoto, e non sembrava curarsi del proprio abito sdrucito e chiazzato. Era Johannes van Heeck, un medico olandese dal carattere iracondo, di cui si diceva avesse addirittura assassinato un uomo; assieme a Cesi e ad altri due giovani studiosi, aveva fondato l'Accademia dei Lincei nel 1603. Ormai, tra il pericolo dell'Inquisizione, l'inimicizia dei protestanti contro cui stava per pubblicare un grosso volume, la famiglia che lo voleva sposato e in patria piuttosto che ramingo per il mondo, lo spirito minato da un carattere instabile e il fisico da una salute cagionevole che gli procurava frequenti attacchi di asma e di ansia, Van Heeck aveva un unico punto di riferimento: Federico Cesi. A ventisei anni aveva conosciuto il principe che allora ne aveva diciotto, ed era rimasto soggiogato da quel rampollo patrizio che sapeva tutto. Così, aveva partecipato alla fondazione dell'Accademia, e nel tempo il vincolo di amicizia e di stima fra loro si era ancor più rinsaldato. Nel prendere la parola aveva l'aria minacciosa. "Per san Giovanni Battista! Se ci denuncia, io..." Lasciò cadere la frase nel silenzio e si guardò attorno per vedere l'effetto delle sue parole. Poi aggiunse quasi per giustificarsi: "Il selciato di Campo de' Fiori è ancora caldo, non dimentichiamolo!" Cesi fu pronto. "Non scomodate il vostro santo preferito al quale ci avete quasi costretti a dedicare la nostra Accademia, signor Van Heeck, non serve. Cremonini non è copernicano però non è una spia. È soltanto un uomo in grande travaglio, "come lo sono i nostri tempi." L'altro non sembrava convinto. "Principe, siamo tutti sotto la spada di Damocle dell'Inquisizione. Se Cremonini ci denuncia, io... " "Calmati, amico, il principe l'ha detto: non siamo ancora a questo punto", si intromise Stelluti. Era questi un giovane scapigliato dall'aria modesta, ma con una grande mente; anch'egli era stato tra i soci fondatori dell'Accademia. Si rivolse ai presenti con l'aria triste. "Siamo veramente dei sovversivi?" Schreck decise allora di intervenire. "Signori, non facciamoci rovinare la serata da questo incidente. Siamo stati invitati per osservare da vicino il cielo, tutti assieme, e il signor Galileo ci mostrerà i monti e le valli della Luna, i pianeti erranti attorno a Giove, le fasi di Venere, e ciò che porterebbe alla conclusione che la Terra si muove. Adesso, soltanto questo deve contare per noi." "Dite bene, Terrentius", approvò Cesi. Nel frattempo Anselmo era rientrato. Il principe gli fece un cenno ed egli prese con delicatezza il telescopio con il sostegno e uscì nel giardino. Tutti lo seguirono. Dal buio si materializzarono quattro valletti muniti di torce; in corteo si avviarono lungo i viali del grande parco bordato di palme e dopo alcuni minuti giunsero a un'erta che si arrampicava sul Gianicolo. "Coraggio, signori", fece il principe. "La salita non è ostile, l'ho fatta ripulire dagli sterpi e dalle ortiche. Lassù sul colle", e indicò in alto, "ci aspetta monsignor Malvasia che ci ha messo a disposizione il suo giardino per guardare il firmamento senza la tremolante cappa d'umido che invece abbiamo qui vicino al Tevere. Andiamo, è l'ora." Si rivolse ad Anselmo prendendogli lo strumento dalle mani: "Disponi gli uomini di guardia. Al minimo cenno di pericolo manda un valletto ad avvertirci. E prepara la messinscena". Lo congedò con un cenno. Con un colpo d'occhio abbracciò il drappello di amici che attendevano e mosse il primo passo.
In silenzio, tutti iniziarono la salita.
La voce era quasi un sibilo, appena udibile nel silenzio della notte, ma carica di sacralità, ieratica e coinvolgente come una preghiera a braccia levate: "Principe, oltrepassati i torbidi vapori dell'orizzonte, occupando il punto medio del cielo e illuminandone l'angolo orientale, ecco lo splendore e la magnificenza di Giove, subito dopo Dio fonte di tutti i beni!" Aveva lo sguardo ancora perso nell'infinito, Galilei, quando si scostò per cedere il posto agli altri, affinché vedessero la bellezza del pianeta che era riuscito a puntare e fissare con il telescopio. Cesi volle essere l'ultimo a guardare nel tubo ottico, e a turno tutti si avvicendarono allo strumento, mentre lo scienziato pisano continuava a parlare: "Quello che supera di gran lunga ogni immaginazione, e che principalmente mi ha spinto a pubblicare il Sidereus Nuncius per avvertire astronomi e filosofi della grande novità, oggi voi potete constatarlo. Guardate bene le quattro stelle erranti attorno a Giove! Nessun altro le conosceva prima d'ora". Il principe era preda di un impercettibile tremito, un'emozione violenta l'aveva invaso. "Questo sì ch'è un eccellente argomento per togliere scrupoli a coloro che accettano con animo tranquillo nel sistema copernicano la rivoluzione dei pianeti attorno al Sole, ma sono però turbati dalla rotazione della sola Luna attorno alla Terra. La cosa non è impossibile: se le quattro stelle che voi avete scoperto ruotano con evidenza attorno a Giove, anche la Luna può muoversi attorno alla Terra." Pose quindi l'occhio sull'oculare e, nei minuti in cui rimase allo strumento, più volte lo si sentì emettere un profondo e lungo sospiro. Più tardi, mentre stavano osservando la rubiconda faccia della Luna, così travagliata di monti e crateri, e dunque ben lontana dalla perfezione che secondo alcuni una creazione divina in cielo dovrebbe avere, si udì un tramestio nel giardino, che attirò l'attenzione di tutti e costrinse Galilei a interrompere le sue spiegazioni. Monsignor Malvasia, di cui erano ospiti, stava arrivando trafelato, tenendosi l'abito con le mani per correre senza impedimenti. Era questi un prete tondo e rubizzo, che a memoria d'uomo non si era mai levato dal capo il cappello nero a falde larghe. Arrivò, anzi rotolò fra gli astanti, agitato. "Principe", disse prima ancora di fermarsi, "un vostro valletto è montato sin quassù per avvertirvi che da voi è arrivata una carrozza, e che ora sosta fuori dal vostro palazzo. Ha lo stemma dei Colonna." Federico Cesi rimase perplesso. "Sicuramente è il principe, padre della bella Artemisia. Dobbiamo discutere di una cosa molto importante, ma non lo aspettavo per stasera... E così tardi..." Si rivolse agli altri. "Continuate, amici, non so se mi sbrigherò presto perché è una faccenda che mi sta molto a cuore." Si congedò con un cenno e si avviò, accompagnato da un cameriere con la torcia, scomparendo ben presto alla vista, assieme all'alone di luce. Mentre Van Heeck si metteva al telescopio per riprendere l'osservazione, Schreck ebbe tempo di sussurrare a Galilei: "Senza strumenti, la scienza non può essere fatta in modo compiuto. Sono essi che permettono ai nostri sensi di moltiplicarsi e di raggiungere traguardi al confine dell'incredibile. Complimenti, signor Galileo, avete ideato uno strumento magnifico". "No, per carità", si schermì l'altro. "L'idea non è mia. Tempo fa mi giunse alle orecchie che un certo fiammingo aveva fabbricato per i militari, per i marinai e per i cacciatori un occhiale mediante il quale gli oggetti visibili, per quanto molto distanti dall'occhio dell'osservatore, si distinguevano come se fossero vicini. Così, mi applicai a escogitare i mezzi per costruire un simile strumento, invenzione che conseguii poco dopo, fondandomi sulla dottrina delle rifrazioni. Prima di tutto mi preparai un tubo di piombo, alle cui estremità applicai due lenti, ambedue piane da una parte; dall'altra, invece, una concava e una convessa. Mettendo l'occhio su quella concava scorsi gli oggetti abbastanza grandi e vicini. In seguito, migliorando le lenti grazie all'abilità dei mastri vetrai dell'Arsenale di Venezia, costruii questo telescopio in legno, eccellente e pratico." "E lo puntaste in cielo..." concluse Schreck. "Proprio così: lasciando le cose terrene mi rivolsi alla speculazione di quelle celesti." "Anch'io mi sono servito degli abili operai veneziani per fabbricare i miei strumenti chirurgici. Peccato che non li abbia più." E Schreck raccontò per sommi capi la triste avventura del giorno prima. "Cosa borbottate voi due?" s'intromise Faber nel vederli confabulare al buio. "Ho appreso ora che il signor Terrentius non ha più con sé i suoi strumenti da medico." "Me li farò rifare, al più presto", replicò Schreck. "Conosco qualcuno qui a Roma che può aiutarmi." Non ebbe però il tempo di terminare quanto voleva dire, che Van Heeck, staccando l'occhio dal tubo del telescopio, esclamò: "Signor Galilei, perché non ci fate vedere le greggi di piccole stelle disseminate in modo mirabile, che definite nebulose?" "Senz'altro", si animò Galilei. "Ora puntiamo su quella chiamata Presepe, e vedrete che il telescopio vi consentirà di contare non meno di quaranta punti luminosi." Poi, prima di sedersi davanti allo strumento, si rivolse velocemente a Schreck. "Se avete difficoltà per i vostri strumenti, fatemelo sapere; conosco artigiani capaci che potranno aiutarvi." Si mise dunque in posizione, l'occhio posto sull'oculare, e cominciò a ruotare lentamente il telescopio sul treppiede, fino a esclamare: "Perbacco, non mi hanno tradito. Ecco, signori, le mie stelline!" | << | < | > | >> |Pagina 154"E un vero piacere, un onore incommensurabile, conoscervi, dottor Terrentius", disse rivolto a Schreck. "Non ci siamo mai incontrati, ma la vostra fama vi ha preceduto", e indicò delle carte davanti a sé. "I buoni cristiani di Roma che vegliano sul benessere delle anime di noi tutti hanno avuto la delicatezza di mandarmi un dispaccio, e così sappiamo chi siete: una colonna portante per la nuova missione dei fratelli gesuiti!" Poi, con la mano si diede un impercettibile colpetto sulla fronte. "Ma che imperdonabile sbadataggine, non mi sono presentato! Permettetemi di farlo subito. Il mio nome è Francisco Delgado De Matos e ricopro indegnamente la carica di Grande Inquisitore delle Indie." Da una manica estrasse un minuscolo fazzoletto di lino e cominciò a detergersi delle invisibili gocce di sudore sulla fronte.Una rabbia sorda si stava impadronendo di Schreck. Si sentiva in trappola. Aprì bocca per dire appena: "Sono stato chiamato qui per curare un malato, eccellenza". L'altro lo osservava come fa il gatto quando caccia un topo. "Curare è un verbo che va usato con cautela. Per curare ci vogliono strumenti, preparati, erbe, radici... Ma voi..." e fece un sorriso viscido "... siete venuto a mani vuote! Eppure mi avevano assicurato che eravate ben fornito, quando siete partito da Lisbona... Non avrete dimenticato il vostro bell'armamentario?" Schreck divorava l'inquisitore con lo sguardo, ma questi, imperturbabile, concluse: "O forse l'avete perso?" La battuta, detta fior di labbra, fece capire a Schreck, fuori d'ogni dubbio, che il domenicano era a conoscenza di tutto quello che il suo bagaglio aveva subito sia in viaggio sia a Goa. Amplificando la ferocia degli occhi, chiese: "Eccellenza, con o senza le mie erbe e i miei strumenti, rimango un medico. Sono al vostro servizio per visitare il malato che mi dicono essere in questa Santa Casa". L'inquisitore lanciò un'occhiata all'altro prete che sembrava dormire a occhi aperti e con un sorriso beato sulle labbra. Ma, evidentemente, era ben sveglio, perché passò a De Matos alcuni fogli che giacevano sul ripiano del tavolo. "Vediamo, cosa potete fare per questo..." s'interruppe per dare un'occhiata ai documenti "... Luis de Melo... sì, è il suo nome. Pensate, dottore, è affetto dal mordechi, conoscete questa malattia?" "Certamente", rispose Schreck guardingo. "Comincia con una febbre violenta cui seguono dei brividi orribili, poi il vomito e infine il delirio prima della morte. L'urina di colore rosso ne è un sintomo inconfutabile." "L'avete descritta perfettamente, nessun altro medico è riuscito a spiegarmela così bene. E ne conoscete anche le cause?" "Sicuro!" ribatté Schreck sempre più attento a soppesare quanto diceva. "Il mordechi è come un'indigestione, ma molto più perniciosa, e mortale quando colpisce uno stomaco indebolito e squilibrato dal caldo." De Matos assunse un'aria candida. "Il poveretto l'hanno curato applicandogli sul tallone un ferro rovente, sino a che non ha gridato con tutto il fiato che aveva in gola." Schreck era incredulo. "È un metodo che non uso. Preferisco rivolgermi alle erbe." L'inquisitore sorrise in modo grottesco. "Non vi sembri strano sentire che qui, in questa Casa, utilizziamo il ferro rovente, dottore. In fin dei conti, quel disgraziato di Luis de Melo c'era abituato, dopo tre sedute del rigoroso esame!" "Allora il malato è un prigioniero! E l'avete torturato?" "Non mi avevano ingannato sulla vostra perspicacia, sapete trarre le giuste conclusioni in modo impeccabile. Ma è bene che io aggiunga che il signor De Melo — il quale, pensate, aveva graziosamente confessato l'accusa di bigamia e di stregoneria – non è un prigioniero. Era", sottolineò con enfasi quest'ultimo verbo, "un prigioniero." Fece spallucce. "E sì, perché nel frattempo, mentre vi aspettavamo, è morto a causa di quella brutta malattia. Ma siccome il decesso non arresta l'azione dell'Inquisizione, sarà dunque disossato e le sue ossa saranno bruciate al primo atto di fede... Negli auto da fè c'è sempre tanto fuoco!" Se avesse potuto rovesciare la sedia, il tavolo e afferrare per la gola l'inquisitore, Schreck lo avrebbe fatto. Era la prima volta in vita sua che sentiva di perdere il controllo di se stesso, e ne era al contempo spaventato ed esaltato. Un'occhiata a Tolentino che si era rannicchiato, pallido e tremante, sulla sedia come se volesse scomparire, lo riportò a più miti consigli e, fatto uno sforzo sovrumano, si esibì in un sorriso grandissimo che mise in luce la candida dentatura. "È un peccato per la mia arte medica non avere potuto salvare quel peccatore, ma è un grande privilegio per la sua anima avere trovato qualcuno così pio come voi, che se ne occupa. E la mia venuta qui non è stata vana, perché ho avuto il più grande onore che si possa chiedere in questa colonia: conoscervi. E ora che vi conosco, mi sento arricchito e più pronto ad affrontare nel modo più efficace i pericoli a cui il servizio a Dio mi ha destinato, e non ho più dubbi su cosa fare."
Allora De Matos serrò gli occhi sino a farli divenire fessure e dilatò le
narici. "Abbiamo tanti casi da giudicare, dottore. Giudei, in massima parte.
Poi, mori adoratori di Maometto, bigami, nicolaiti che scambiano tra loro le
proprie spose, ofiti adoratori del serpente come primo essere intelligente a
entrare in Paradiso, acquaiti che celebrano Messa con l'acqua e non con il vino,
circoncellioni che predicano il suicidio come martirio, acefali che combattono
il Concilio di Calcedonia e non hanno un capo che li comandi, adamiti che
pregano nudi come Adamo, giovinianisti che non fanno distinzione tra una vergine
e una donna maritata, aloghi che non credono a Cristo come Verbo di Dio e negano
il valore del Vangelo di Giovanni e dell'Apocalisse, gerarchici che parlano del
Regno dei Cieli come di un luogo in cui i bambini non hanno alcun posto,
novatiani che si applicano a ribattezzare i battezzati, persone che adoperano
parole scandalose, rinnegati d'ogni genere, persino alcuni seguaci del mago
Menandro che affermano che il mondo è opera degli angeli e non di Nostro
Signore... E tanti altri. Tutta gente che si è condannata da sola alle pene
dell'Inferno e a quelle dell'uomo. Abbiamo molto lavoro per la gloria di Dio,
Misericordia et Iustitia
è il nostro motto per fare la sua volontà." Si alzò in piedi di scatto. "Vi
ringrazio immensamente per la cortesia che ci avete usato nel venire, e vi
saluto, dottor Terrentius. Tengo a sottolineare che anch'io ho avuto un grande
favore nell'incontrarvi di persona: non mi capita spesso di ricevere persone
intelligenti come voi, che sappiano comprendere senza indugi le azioni migliori
da intraprendere per glorificare Iddio, senza manifestare dubbi." Il tempo di
voltarsi e fare pochi passi, e scomparve in un attimo, dietro una porticina,
assieme all'altro.
Due minuti dopo, Schreck e Tolentino uscivano dalla Santa Casa, e attraversarono la piazza del Sabaio ch'era quasi deserta, come sempre. Voltandosi indietro per gettare uno sguardo d'astio al palazzo dell'Inquisizione, Schreck si accorse che qualcuno aveva sistemato sul portone d'ingresso uno stendardo, che non gli sembrava di avere mai visto prima: una croce di legno affiancata da una spada a destra e da un ramo d'olivo a sinistra, incoronata dalla scritta 'Exsurge Domine et Iudica Causam Tuam'. | << | < | > | >> |Pagina 169Uscirono dalla bella sala e si trovarono in uno dei cortili interni del collegio. Tutti erano alla funzione del vespero, dunque non si vide anima viva. Seguito dagli altri, Gaspar si diresse verso una porticina, estrasse una grande chiave da una tasca e aprì l'uscio; strette scale portavano verso il basso. Il farmacista accese un grosso cero poggiato sul primo gradino e fece strada fino ad arrivare a uno scantinato in cui faceva, finalmente, fresco. "Questo è il mio laboratorio", disse a bassa voce.Quando furono accese altre candele, lo spazio apparve nella sua completezza. A differenza della maestosa farmacia, qui tutto era di tono minore: la sala piccina, la volta non molto alta, e gli arredi si riducevano a tre grosse casse; alle pareti scaffali zeppi di libri, e su un tavolaccio alcune bacinelle contenevano attrezzature di vetro e ferri chirurgici. Schreck si attardò a guardare questi ultimi: bisturi dalla lama sottile, divaricatori a molla, arpioncelli a diverse curvature, forbici seghettate, punte di trapano, spatole, specole, specilli, pinze uncinate, cannule, cateteri, aspiratori e tanti altri strumenti che lo fecero andare in visibilio. Li prese a uno a uno, li soppesò e poi li rimise al loro posto. Nel frattempo, Gaspar aveva aperto uno stipo e stava cavando fuori piccole scatole e sacchetti che andava posando su un tavolo; Tolentino prese ad aiutarlo. In breve, il piano fu sommerso da questi oggetti. Con cautela il farmacista aprì alcune scatole e mostrò il contenuto: all'interno erano conservate erbe e fiori essiccati, rametti, radici, semi, insomma una collezione d'erborista. Schreck si precipitò su quel piccolo tesoro e cominciò con foga a controllare ciò che c'era dentro i contenitori. Molte specie non gli erano note; dunque su quelle si fermava maggiormente, le scrutava, le annusava, le rigirava, e poi le riponeva delicatamente dove le aveva prese. Ogni tanto Gaspar interveniva con qualche parola di spiegazione: "Questa è una radice acquatica, una specie di zizzania, il suo nome a Macao è jiaogu". Oppure: "Ecco il fiore essiccato della pianta che i cinesi chiamano longshe cao, erba della lingua di drago. E guardate che meraviglia queste altre foglie, sono della pianta detta delle unghie di Buddha, Fojia cao, avete visto la forma?" E ancora: "Questi grani sono di una specie che ha un nome veramente strano, huixiang, ossia profumo musulmano; evidentemente fu importata in Cina da qualche seguace di quella religione". A ogni spiegazione Schreck assentiva e, tutte le volte che poneva una domanda per saperne di più, Piccolo Zhang lo fissava con ammirazione, e i suoi occhi sembravano dire che era proprio fiero di essere al servizio di un missionario così gentile e tanto sapiente. A un certo punto della rassegna, Schreck si bloccò. Aveva aperto un'ennesima scatola, del tutto simile alle altre, ma invece di cavarne il contenuto per esaminarlo lo fissò immobile. "Ma questo è renshen!" esclamò. "Così lo chiamano", confermò Gaspar. "Lo conoscete già?" "L'ho usato. e mi ha anche aiutato a superare una brutta malattia diffusasi durante la navigazione." Schreck prese la radice e la sollevò tra le dita: con le sue due gambette e il tozzo tronco, il renshen sembrava un ometto peloso, un minuscolo e magico individuo. Gaspar comprese che la scoperta doveva essere importante per il tedesco. "Nella scatola ne ho alcune ma, se ne volete delle altre, vi posso fare accompagnare in una bottega della città cinese nella quale non manca nessuna erba, e di questa radice ve n'è di tutti i tipi: cinese, giapponese, coreana..." "Ci andrò... ho bisogno di rifornirmi di erbe medicinali. Ma, ditemi, voi conoscete l'uso del renshen?" "Intendete dire se l'adopero per curare?" "Esattamente." "No, io non l'ho mai sperimentato, e neanche gli altri vegetali. Ma", aggiunse Gaspar, "ho già molto lavoro come farmacista ordinario. Per il resto le mie mani sono legate: sapete anche voi che a noi sacerdoti, a meno di un'autorizzazione dei superiori, è ora proibito professare la medicina. Dovrei operare in segreto per provare erbe sconosciute. Dunque, sono un semplice curioso, un collezionista appassionato..." Fu interrotto da un tonfo improvviso e da un mugolio di dolore: nel sistemare alcune scatole sul tavolo, Piccolo Zhang era inciampato e, caduto malamente, si massaggiava un braccio. Gaspar e Schreck lo aiutarono ad alzarsi. Il farmacista gli prese l'arto. "Sembra tutto a posto", concluse dopo un breve esame, "una semplice, piccola contusione al muscolo palmare breve." Durante la visita estemporanea a Piccolo Zhang, Schreck non era intervenuto, ma dopo la deduzione del farmacista chiese: "Mi mostrate ancora una volta come avete effettuato la palpazione della mano?" Gaspar premette con i due pollici il palmo di Piccolo Zhang, e con un gioco di pressione mise in evidenza alcuni particolari degli strati muscolari sottostanti la pelle. Il tedesco esclamò allora soddisfatto: "Scommetto che questo l'avete appreso a Ferrara!" Gaspar si fece rosso. "Come fate a stabilirlo?" "E scommetto anche che siete stato allievo dell'anatomista Giovanni Battista Canani!" aggiunse Schreck. "Come lo sapete?" "Soltanto chi ha studiato a Ferrara con l'autore di Musculorum humani corporis picturata dissectio può effettuare con tanta disinvoltura una manovra del genere. Grazie per avermela mostrata. Io non ho avuto la fortuna di incontrare Canani: quando arrivai in Italia per i miei studi di medicina, lui era già morto." Rho, con la fronte corrugata, domandò: "Quel libro che hai citato non era nella lista delle opere proibite dalla Sacra Congregazione dell'Indice?" "Ti sbagli", replicò Schreck. "Nessuno l'ha mai messo in causa. "Strano", insisté Rho: "Pensavo che tutti i libri di anatomia umana fossero vietati." Tolentino, che fino allora era stato zitto, volle dire la sua: "Non è così. Soltanto i libri infettati dall'eresia lo sono". Socchiuse gli occhi per concentrarsi meglio, e citò: "Quia vero hæresis morbus animæ perniciosissimus ut cancer serpit, et filii tenebrarum arcem catolicæ veritatis omni machinationis genere oppugnant, libris præsertim hæresis veneno infectis promulgandis..." Approfittando della pausa che Tolentino aveva fatto per prendere fiato, Schreck lo interruppe bonariamente. "Giulio, ditemi un po', sapete a memoria tutte le bolle papali?" Infatti, quanto l'altro stava recitando era un brano della Immensa æterni Dei promulgata da Sisto V nel 1588 per precisare i compiti della Congregazione dell'Indice. Tolentino fece spallucce. "Volevo specificare che sono proibite soltanto le opere che si oppongono alla fede e che sono contrarie ai costumi cristiani. Canani descrisse l'anatomia degli arti, e mai fu accusato, come Vesalio, di sezionare uomini vivi." "Insomma. Giacomo", concluse Schreck rivolto a Rho. "non preoccuparti! Il nostro amico, padre Gaspar, non ha imparato la medicina alla scuola di un eretico. E neanche la chirurgia", ammiccò al farmacista, "perché siete anche un chirurgo, vero?" L'interrogato sussultò come se avesse messo i piedi sui carboni ardenti, e Schreck spiegò: "Non vi stupite, ho visto i vostri ferri", e indicò le bacinelle in cui aveva curiosato all'ingresso, "e quelli non sono certo attrezzi per giocare". "Vi state sbagliando..." "Avete un bell'armamentario chirurgico, me ne intendo!" "Via, padre Gaspar!" intervenne Tolentino con tono amichevole. "Siamo gesuiti e non dovremmo avere paura della chirurgia." Rho s'intromise. "Cosa intendi dire?" "Una semplice constatazione. Abbiamo indegnamente la grazia di essere votati a Gesù, e questo nome fu dato a Lui otto giorni dopo la nascita, nello storico giorno della sua circoncisione. Non fu il nostro fondatore, sant'Ignazio, a decretare che la principale solennità della nostra Compagnia è la festa della Circoncisione? E non è quasi sempre presente nelle nostre chiese un'opera artistica che rappresenta la circoncisione di Cristo? Dunque", concluse, "essendo in fin dei conti la circoncisione un'operazione chirurgica, noi gesuiti non dobbiamo temere la chirurgia." Gaspar si esibì in una gran risata. "Ah! ah! Se sant'Ignazio mi protegge, allora posso confessare che nel passato ho praticato un po' la chirurgia. Ah! Ah!..." Anche Schreck rise di cuore e volle aggiungere qualcos'altro. "Per quanto cerchiate di lavorare nell'ombra, non riuscite a passare inosservato. Sappiate che sulla nave sulla quale siamo giunti, quando visitavo qualche marinaio con la febbre alta, c'era sempre chi mi chiedeva se avevo il vinho de quina di padre Gaspar. E, se i malati soffrivano di quel tipo di dissenteria che nel 1543 Garcia dall'Horto definì colera, mi veniva richiesta la vostra mezinha trés paus. Ho sentito anche parlare delle vostre pillulas douradas che fanno scomparire emorroidi e vene varicose, così come vi è attribuito l'antinfiammatorio miracoloso che sulla nave chiamavano Pó de pedra cordial, di cui si diceva contenesse polvere di corno di rinoceronte". Allo sbalordito Gaspar, che non aveva mai supposto che qualcuno potesse veramente tenerlo in considerazione come erborista e medico, chiese poi di potere conservare per sé un paio di radici di renshen e questi volle regalargliele tutte precisando: "Se volete avere qualche informazione supplementare su questa radice, vi mostrerò un libro cinese che ne parla". "Esiste dunque un'opera sul renshen?" "Ben di più. I cinesi hanno pubblicato abbastanza recentemente un'enciclopedia su flora, fauna e minerali da impiegare in medicina; vi sono anche delle illustrazioni e sembra interessante." Schreck quasi non lo lasciò terminare. "E posso vederla, quest'enciclopedia?" "È conservata nella biblioteca del collegio che a quest'ora, purtroppo, è chiusa. Ma non disperate, domani mattina dopo la funzione l'avrete. E questa sera fatevi una bella dormita: l'enciclopedia è scritta in caratteri cinesi fittissimi e per decifrarli, oltre a conoscere bene la lingua, necessitano anche un paio d'occhi riposati."
Nel lasciare il locale, Schreck rimase indietro per qualche minuto a
parlottare con Gaspar. Di tutto quello di cui discussero, si riuscì soltanto a
cogliere la fine dell'ultima frase del farmacista: "... d'accordo!" E l'accordo
riguardava i ferri chirurgici. Gaspar si era impegnato a cederne una parte a
Schreck.
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