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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 7 Il potere economico-finanziario 11 La faida di Scampia 37 Il caso: Patrizio Grandelli 69 Le periferie 73 Le vittime 99 Le origini 111 Vent'anni di camorra: da Raffaele Cutolo a Paolo di Lauro 131 La politica e la camorra 147 Conclusioni 153 La città grida Marianna Ferraro 155 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Il potere economico-fmanziarioLa camorra ha avuto negli ultimi vent'anni una crescita esponenziale, entrando a far parte delle cronache quotidiane non solo per i suoi delitti o per il suo folclore, ma anche per la sua iniziativa economico-finanziaria, i suoi rapporti con la politica e con l'ecologia (ecomafia). La sua attività criminosa fa notizia non solo localmente, ma crea particolare attenzione anche a livello nazionale. Questa proliferazione invasiva ha mobilitato nel corso degli anni gli studiosi: si sono sviluppati dibattiti, scritti libri, susseguiti articoli e saggi; l'impegno delle forze dello Stato ha portato all'arresto migliaia di camorristi, a celebrare centinaia di processi, all'invio dell'esercito nell'area napoletana e casertana. Ma la criminalità organizzata risorge sempre, più che mai marcia ed infettiva. Chiedersi cosa sia il fenomeno camorristico, cercare di localizzarlo, strutturarlo, indagare sulle sue radici, senza remore ideologiche e preconcetti sociologici, può aiutarci a costruire un percorso che fornisca dei validi strumenti, per confinare, almeno, l'elemento malavitoso in un recinto fisiologico comune a tutte le società umane. Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo tenere presente la società napoletana, la sua evoluzione, i costumi che hanno caratterizzato il nostro modo di vivere, preventivando che non può esserci metamorfosi senza il doloroso abbandono di consolidate certezze ed abitudini. C'è bisogno della metamorfosi di una mentalità radicata: e questa mutazione passa per un'intima riconversione dei modelli culturali consolidati che hanno nutrito quella napoletanità che nella maggior parte dei casi decade in prassi incivili e violente. Ed è ingannevole ed inconcludente il discorso di tanti che temono che una mutazione della società napoletana porti alla scomparsa della peculiare identità di questa città, come se i suoi tremila anni di storia, possano essere cancellati eliminando quelle incrostazioni che la degradano. Un dato imprescindibile è che a Napoli c'è chi vive e sopravvive nella illegalità. Così come c'è chi si mette in gioco ogni giorno con coraggio per combatterla. Poi c'è chi non vede o non vuole vedere, quello che accade sotto gli occhi di tutti. Dopo l'omicidio di Annalisa Durante, avvenuto a Forcella il 27 marzo 2004, i cittadini hanno sentito il bisogno di rivolgere un appello forte: sembrava che non fosse completamente acquisita la consapevolezza di come la camorra fosse elemento costitutivo della vita quotidiana a Napoli. Da allora molte cose sono cambiate. L'area di quelli che si oppongono alla camorra si è allargata. Si sono moltiplicate le forme di organizzazione del coraggio da parte della società civile. Le istituzioni locali hanno saputo tenere fronte a situazioni difficilissime come quella scatenata dalla guerra di Scampia. Siamo consapevoli che la battaglia in cui si è impegnati non può che essere di lungo periodo perché comunque si tratta di cambiare le coscienze. La discussione su Napoli deve riguardare l'intero Mezzogiorno d'Italia oggi aggredito dalle varie mafie, da quelle che sparano e da quelle che, nel silenzio, fanno affari e occupano il territorio. I cittadini spesso urlano la loro rabbia, ma tutto ciò non basta. La rabbia deve diventare un progetto di liberazione del territorio. All'arroganza quotidiana bisogna rispondere con energia e presa di coscienza; bisogna rivolgersi con forza ai tanti indifferenti, per fare scegliere loro il campo in cui giocare. Troppo spesso si attribuisce l'intera responsabilità a chi fa parte delle istituzioni, al legislatore e soprattutto al governo nazionale. Si pretende spesso un diritto elementare, una giustizia giusta, efficiente. La lotta alle mafie a Napoli e in Italia diventa spesso una questione nazionale, per quanto non sia ancora stata raggiunta una soluzione costruttiva. Napoli è una città ferita, ma proprio per questo ci viene talvolta richiesto di intraprendere un percorso comune di impegno, da seguire con passione, con intelligenza. Anche se i progetti di legalità nei quartieri a rischio, la nascita di associazioni antiracket e gli interventi di routine non sembrano aver ancora prodotti risultati soddisfacenti, c'è una società civile che, anche senza riflettori accesi, sta lavorando tra mille difficoltà, a cominciare dalle scuole. Ci sono imprenditori e commercianti che si ribellano quotidianamente al racket facendo arrestare i loro estorsori. Ma tutto questo da solo non basta, c'è bisogno di un intervento strutturale del territorio; basta tener presente le conseguenze, in termini di marginalità, degrado urbano, disagio socioeconomico, che sono sotto gli occhi di tutti, e in particolare di chi vive, o ha vissuto la realtà quotidiana del quartiere di Scampia. Qui la disoccupazione giovanile tocca livelli elevatissimi: c'è chi nelle proprie stime si spinge ad ipotizzarla attorno al 67%; frequenti abbandoni scolastici, scarsa acculturazione, forte incidenza della microcriminalità, carenza di una cultura del lavoro: questi sono i segni di un malessere sociale profondo e di lunga durata. Ma soprattutto il quartiere Scampia è uno dei principali mercati per l'imprenditorialità criminale, per quanto non manchino gli stimoli da parte delle organizzazioni e le associazioni del territorio, affinché si possa ristabilire un ripristino dell'economia, atteso da tempo dai cittadini. I residenti di Scampia considerano efficaci le iniziative che si stanno avviando nel quartiere, e molte associazioni si stanno muovendo per dare il proprio contributo; all'inizio del 1998, si è aperta inoltre nel quartiere una sezione della Confcommercio, a voler favorire un impulso economico che tardava a venire. La storia di Scampia è insomma un ennesimo capitolo di quella complessa vicenda che è stata l'urbanizzazione degli hinterland delle grandi città del Sud: vicenda che a Napoli ha portato al rinsaldarsi di un intreccio tra politici, camorristi e costruttori. I testimoni della realtà locale segnalano l'esistenza di un'ampia fascia di giovani in età compresa tra i 15 ed i 30 anni che non hanno mai fatto esperienza del lavoro. In questo gruppo rientrano situazioni estremamente differenziate, dal ragazzo che va in giro sul motorino a servizio del piccolo boss, allo scippatore, al giovane che rimane semplicemente a carico della famiglia senza entrare in circuiti illegali, al "disoccupato organizzato" più prossimo alla trentina che alla ventina, talvolta con famiglia a carico, a chi è passato per tutta una serie di lavori precari, più o meno in nero. Il tratto comune di questa gioventù è la mancanza di carte da giocare sul mercato dell'occupazione. Questi soggetti non godono di alcuna preparazione al lavoro ereditata dagli ambienti familiari spesso poco o per niente scolarizzati, ambienti in cui il lavoro non è riconosciuto come valore positivo. Ma per avere un quadro più ampio della situazione bisogna tener conto che la camorra è ben distribuita anche nel resto dei quartieri napoletani e nei comuni confinanti; sono 83 i comuni sottoposti ai raggi x per infiltrazioni camorristiche. | << | < | > | >> |Pagina 37La faida di ScampiaLa guerra di Secondigliano, una lotta tra clan che ha determinato morte e terrore, è stata una delle vicende più tristi della criminalità napoletana, per i residenti di quel quartiere, per le persone "perbene" che oggi vi abitano, per i cittadini napoletani. Nel quartiere di Secodigliano, lì dove vi sono palazzoni enormi, la miseria è più nera delle infrastrutture. L'insegna di un albergo accoglie chi arriva da queste parti: "Riservatezza e discrezione" a caratteri cubitali. Questo è l'hotel per chi va a trovare i parenti detenuti nel super carcere di Secondigliano. In una zona degradata ci si costruisce anche il carcere. Così i criminali vedono casa dalle proprie finestre. Eppure Secondigliano, Scampia e il Terzo Mondo è popolato da gente onesta, abbandonata dallo Stato che non ha soluzioni per un problema così atavico e difficile. A generare la "guerra di Secondigliano" sono stati clan rivali in lotta.
Dai giochi di potere ad una guerra che ha visto coinvolti camorristi,
affiliati, parenti dell'uno o dell'altro
clan, in una lotta con un'unica parola d'ordine: la
legge del più forte. Da una parte la cosca-madre, in
lotta per mantenere e difendere il predominio da anni
esercitato sul mercato della droga e più in generale
sulla periferia a nord di Napoli, dall'altra l'altro gruppo, intenzionato a
ribellarsi ad una gestione verticistica in cui si sentiva stretto ed entro la
quale qualcuno rischiava di essere messo fuori, allontanato dai giri
d'affari o spodestato del proprio 'feudo'. Un conflitto
che ha iniziato a calpestare le regole e codici d'onore, una volta manuale
indispensabile per i "boss".
Troppe vittime, numerosi innocenti, hanno alimentato l'odio. Al potere messo in
pericolo per alcuni, si aggiunge la sete di vendetta: la guerra di Secondigliano
è ufficialmente tra il clan Di Lauro e gli
Scissionisti, per quanto vi siano dubbi in merito al
fatto che qualcuno di quegli agguati abbia un suo perché non nelle logiche della
guerra ma in regolamenti di conti interni, legati comunque agli affari, alla
droga.
La faida di camorra da Secondigliano si estende velocemente alla vicina Scampia,
Melito e Casavatore, il così detto quadrilatero della morte. In questi luoghi si
ritrovano quotidianamente i corpi senza vita delle vittime: eseguono gli ordini
che vengono dall'alto, attuano piani e strategie di attacco. Strategie che
mirano ad un unico obiettivo: sterminare i rivali. Alla luce dei
fatti più recenti che hanno caratterizzato tristemente
questa guerra, le due fazioni in lotta adottano strategie diverse e differenti
modalità nell'attuare gli omicidi, come una sorta di orribile firma apposta
sotto ogni cadavere. Entrambe mirano a tagliare i rami, a colpire partendo dai
livelli bassi della piramide, i 'soldati'
arruolati nel gruppo degli scissionisti. Hanno fatto vittime tra coloro che
erano affiliati, o si supponeva lo fossero, al clan Di Lauro. Hanno colpito la
risorsa umana della cosca, sparato tra le prime fila del clan.
Obiettivo primario: indebolire il clan rivale. Obiettivo
secondario, ma non meno importante: imporre la propria forza. E a coloro che
sono ai vertici (i boss), hanno fatto arrivare il loro messaggio, affidato a
macabre tecniche: corpi martoriati, decapitati, 'impacchettati', ammanettati e
poi brutalmente uccisi, spesso
con una scarica di proiettili, molti più di quelli necessari ad uccidere. Una
linea d'azione che sembra ispirarsi alla criminalità etnica, specialmente quella
serbo-macedone o kossovara, che si distingue per crudeltà
e ferocia del modus operandi. Non meno cruenta è la
tecnica che sembra utilizzare il braccio di fuoco del
clan Di Lauro. Gli agguati attribuiti alla 'storica' cosca
di Secondigliano appaiono più violenti. Colpiscono
nel mucchio, i killer di
'o milionario,
Paolo Di Lauro. Si ispirano ad una strategia di sterminio che mira ad
eliminare gli avversari, e non solo. Nel triste elenco di
vittime un nome tra tutti, Carmela Attrice. Era la
madre di un giovane ritenuto scissionista. Fu uccisa
per questo. Prima, le ordinarono di lasciare la casa
(ispirandosi alla tecnica della "pulizia etnica") minacciandola, poi
l'attirarono in una trappola, quella che
le è costata la vita. Era il 15 gennaio 2005, al rione
delle "Case celesti". Un commando di sei giovanissimi, tra cui un minorenne,
entra in azione per uccidere Attrice. Ai tempi della faida, si arruolavano anche
i ragazzi, e si arrivava a pagare anche fino a 20mila
euro per un delitto portato a termine. La donna, dopo
le minacce subite per abbandonare la sua casa al
secondo piano di una palazzina, viene rassicurata.
Quel 15 gennaio 2005 era un sabato: uno dei sicari,
che Attrice conosceva, citofona alla donna, la invita a
scendere. Lei si fida: viene uccisa a sangue freddo nell'androne del palazzo. I
sicari fuggono, ma non tutti.
Qualcuno rimane a guardare la scena del dolore straziante dei parenti della
vittima e dei primi sopralluoghi delle forze dell'ordine. È stato un raid
feroce, come quello che è costato la vita all'anziano padre di
un giovane ritenuto scissionista. Salvatore De
Magistris, 64 anni, muore il 29 novembre del 2004 in
ospedale, dopo una lenta agonia. Come trasversale è
la vendetta che porta all'omicidio di Crescenzo Marino, il 2 gennaio, del 2005.
Il primo morto ammazzato di quell'anno. Il padre di
Genny McKay,
tra i leader degli scissionisti, viene crivellato di colpi mentre
viaggia a bordo della propria Smart in via Limitone di
Arzano a Scampia. Lo Stato non fa parte della partita.
Può solo stare a guardare. Chi crede che l'intervento
delle forze dell'ordine, della magistratura può porre
termine ad un eccidio quotidiano semplicemente non
ha il senso della realtà, ma una speranza che con il
quotidiano non ha nulla a che fare. Fino alla conclamata guerra, i morti erano
già centinaia, qualche decina concentrata in pochi giorni ha creato il
pandemonio mediatico. Il più delle volte senza una reale percezione del
problema; per capire le problematiche della camorra bisogna viverle nella sua
quotidianità.
Paolo Di Lauro, detto Ciruzz' 'o milionario, è stato il primo narcotrafficante ad applicare un "multilivello" allo spaccio di stupefacenti: geniale nei suoi affari, i suoi guadagni erano almeno pari al 500% dell'investimento iniziale. Il tutto, tradotto in numeri, significa intascare quasi un miliardo di vecchie lire al giorno. La vendita al dettaglio di un chilo di eroina (ventunomila euro è il costo all'ingrosso) a seguito del "taglio" operato con l'aggiunta di apposite sostanze, permette di mettere sulla piazza cinquemila dosi al prezzo, centesimo più centesimo meno, di 20 euro ciascuna. L'abilità organizzativa è un altro pregio di 'o milionario. A detta degli investigatori, "la struttura di cui si avvale l'organizzazione è certamente la più efficiente della città di Napoli". Il modello piramidale scelto da Di Lauro permetteva a quest'ultimo di limitarsi ad amministrare il denaro versato dai vari capizona, tanto in attività lecite quanto illecite, avvalendosi dell'appoggio di compiacenti riciclatori. L'organizzazione era composta da un primo livello formato da promotori e finanziatori, costituito da elementi di spicco del clan che provvedono a controllare l'attività di traffico e spaccio tramite i loro affiliati diretti, ricercati talvolta tra le persone di famiglia. Il secondo livello è formato da chi materialmente tratta lo stupefacente (acquisto e confezionamento) e gestisce i rapporti con gli spacciatori ai quali, in caso di necessità, viene procurato anche un difensore di fiducia. Il terzo livello è rappresentato dai "capi-piazza", costituito da membri del clan che, essendo a diretto contatto con gli spacciatori, controllano l'andamento della vendita, prelevano gli incassi, decidono chi deve essere impiegato per spacciare la droga. Il quarto livello è costituito da spacciatori, talvolta tossicodipendenti, che provvedono ad assolvere il compito più rischioso, quello di spacciare in strada. Una ramificazione capillare sul territorio che permetteva al vertice di controllare un territorio vastissimo: dal quartiere di Secondigliano alla zona di Capodichino, fino ai comuni di Arzano, Melito, Mugnano, Casavatore e Bacoli. | << | < | > | >> |Pagina 77Le prime associazioni antiracket nascono in periferia; imprenditori e commercianti si mettono in coda per denunciare i taglieggiatori. Comuni cittadini che appoggiano pubblicamente chi porta davanti alla giustizia gli estorsori. Istituzioni schierate in tribunale a fianco delle vittime. Non sono immagini di uno spot televisivo a favore della lotta al pizzo. È quanto sta accadendo negli ultimi mesi a Napoli, una città tradizionalmente sepolta da immagini stereotipate, a base di degrado e camorra. E qui la frontiera più avanzata della lotta al racket nel nostro Paese. In una metropoli in cui pagare il pizzo sembrava, fino a ieri, destino ineluttabile, l'esperienza dell'associazionismo, negli ultimi due anni ha attecchito in maniera insperata. La città partenopea è diventata una sorta di laboratorio, in cui si sperimentano nuove strade per offrire a chi è taglieggiato una via di fuga dall'oppressione camorristica che non pregiudichi la sicurezza personale e la qualità della vita. Ormai, in Italia, quando si parla di lotta al pizzo, il "modello Napoli" è un termine di confronto ineludibile. Una delle associazioni nata contro il racket è la "Imprese edili per la legalità", e la sua peculiarità consiste nell'appartenenza dei soci a una sola categoria produttiva, quella, appunto, degli imprenditori edili. Tutte le altre associazioni antiracket sorte in Italia fino ad oggi, invece, sono a base territoriale, cioè riuniscono commercianti e imprenditori operanti in ambiti commerciali diversi, ma accomunati dal fatto di esercitare la loro attività in una determinata via, quartiere o cittadina. "Le imprese edili, per la natura del proprio lavoro, non sono stanziali. Possono operare in cantieri situati in varie zone del territorio e subiscono minacce e intimidazioni diverse a seconda del clan che pretende di controllare l'area in cui sorge il cantiere di turno. Inoltre, l'imprenditore edile non è protetto dalla rete di conoscenze e solidarietà su cui può contare il commerciante che da sempre opera in un quartiere. Subendo intimidazioni in un territorio a lui sconosciuto, può soffrire anche di una sorta di 'solitudine geografica'. Lo scopo di tali associazioni è quello di non farli sentire più soli". In base all'esperienza che queste realtà associative hanno sviluppato, ci si è accorti che nel tempo si è dovuti stare attenti ad adesioni dettate dall'ondata di entusiasmo iniziale che circonda queste iniziative, non sostenute da adeguate motivazioni e dalla conoscenza precisa degli oneri che la scelta comporta. Chi aderisce deve sapere che un'associazione antiracket non è un club di intellettuali genericamente impegnato a favore della legalità, ma l'unione di persone determinate a mettersi in gioco concretamente per battere il pizzo, con ciò che questo può comportare in termini di esposizione personale. Molti di coloro che dichiarano di voler aderire si tirano indietro quando capiscono che la disponibilità alla denuncia è un requisito necessario per essere accettati. Il secondo motivo è che si vuole evitare l'infiltrazione di soggetti determinati a indebolire il fronte antiracket: il requisito fondamentale su cui si reggono queste associazioni è l'assoluta fiducia reciproca tra gli aderenti. La costruzione di tale fiducia è un processo lento e delicato. L'ingresso di male intenzionati, magari vicini ai clan da cui ci si vuole emancipare, romperebbe il vincolo interno che rende salda l'aggregazione e disincentiverebbe future adesioni. Gli imprenditori che vi aderiscono non si propongono di combattere il racket per il futuro, ma già hanno denunciato i loro estorsori e in molti casi ci sono procedimenti penali in corso. È un segnale molto forte il fatto che un'associazione antiracket sia nata per tutelare gli appartenenti a una delle categorie più soggette agli appetiti mafiosi. Il pizzo sulle imprese edili, oltre ad offrire una ingiusta rendita dal lavoro altrui, permette alla camorra di pilotare l'aggiudicazione di appalti e subappalti, facendo partecipare alle gare aziende vicine alle "famiglie" che, grazie ai fondi accumulati illecitamente, possono offrire ribassi che le aziende pulite non possono permettersi. Chi paga, quindi, rischia di essere penalizzato due volte, visto che il denaro sborsato oggi potrà favorire un concorrente sleale di domani. Ma il pizzo pagato da una categoria produttiva così importante comporta dei costi anche per il resto della comunità. Aldo Bisogni, presidente di una delle tante associazioni antiracket, propone un ragionamento interessante per quantificarli. "Un posto di lavoro ci costa 28 mila euro all'anno. È l'equivalente di cinque o sei tangenti, in media. Se calcoliamo le migliaia di tangenti che vengono pagate alla camorra ogni anno, si può calcolare quanto pesi in termini di crescita occupazionale la morsa del racket". Gli imprenditori che escono allo scoperto e denunciano compiono un atto di grande valore civile contro l'individualismo. Il mondo dell'imprenditoria a Napoli, nonostante i timori, comincia a sentire maggiore fiducia nelle istituzioni e nell'esperienza dell'associazionismo. E intatti sarebbero decine le imprese che hanno più volte manifestato la loro intenzione di denunciare e aderire a realtà associative. Sul fronte della lotta al pizzo, si sta vivendo dunque una sorta di rinascita, una primavera che induce all'ottimismo sulle possibilità di cambiare lentamente le cose anche in realtà drammaticamente complesse e contraddittorie come quella della città partenopea. Ma questo volto della città non è sufficientemente valorizzato dai mezzi di informazione, quasi del tutto schiacciati sulla maschera tragica di Scampia e sulla conta dei caduti nella faida sanguinosa che ha sconvolto l'intera città. C'è però un'altra Napoli, invece, fatta di imprenditori che non accettano di sottostare al giogo della camorra, che intendono operare nella legalità, che denunciano con coraggio i propri taglieggiatori. Quella degli imprenditori edili è la quarta associazione antiracket partenopea. Le altre tre sono sorte negli ultimi due anni a Pianura, San Giovanni a Teduccio e Bagnoli, quartieri periferici fortemente problematici, densamente popolati, deficitari dal punto di vista dei servizi pubblici e con pochi centri di aggregazione.| << | < | > | >> |Pagina 113A questo punto occorre precisare una differenza sostanziale tra mafia e camorra. La mafia concettualmente si forma in Sicilia, un'isola succube per tremila anni di dominazioni diverse e che, nonostante guerre, rivolte, ribellioni, splendori e grandezze, battaglie e rivoluzioni tutte tese a conquistare una dignità di nazione, non è mai praticamente riuscita a integrarsi allo Stato. Lo Stato erano gli altri. Lo Stato erano i conquistatori. Lo Stato che amministra, garantisce, impone, costruisce, preleva, insegna, percepisce, fa le leggi, esercita giustizia, questo Stato erano i nemici. Per tremila anni lo Stato in Sicilia è stato un nemico, un'entità quasi sempre assente e che compariva soltanto per infliggere danno: le tasse, le decime, gli arruolamenti, le confische. L'unità d'Italia non è servita a dare certezza dello Stato presente e amico, anzi, per successivi abbandoni e continue delusioni ha reso più amara questa condizione. Il fallimento della Cassa per il Mezzogiorno, il bluff delle grandi opere pubbliche mai realizzate, la collusione sempre più spavalda fra vertici di violenza e rappresentanti politici che hanno saccheggiato, diviso, lottizzato, devastato, spartito potere ed economia, e infine la crisi paurosa della giustizia, ha dato una certezza drammatica alla sensazione che lo Stato fosse assente, cioè alla solitudine del siciliano. Siamo dinnanzi a un dato storico e culturale terribile che tuttavia bisogna riconoscere e ammettere. Da questo dato storico bisogna partire per definire quale possa essere il rapporto sociale, cioè identità, semplice rassomiglianza, oppure diversità e quale tipo di diversità, tra mafia e camorra. In verità, mafia e camorra sembrano possedere la stessa facies criminale, cioè la medesima immoralità nel rapporto fra clan criminale e società, ed ancora l'identica maniera di delinquere, cioè l'anonimo potere di realizzare qualsiasi delitto e contemporaneamente trasformare il delitto in potere. Infine sembrano identici anche gli obiettivi: la conquista passiva di una percentuale sempre più vasta dell'economia di un territorio, soprattutto l'economia emergente, i mercati più ambiti, le attività più lucrose, siano esse legittime, intendendo grandi appalti o circuiti commerciali perfettamente in regola con le leggi, o anche beni economici fuori legge come il contrabbando e la prostituzione. Anche in questo l'identità tra mafia e camorra sembra dunque perfetta. Nella realtà, al di là di occasionali alleanze storiche o contingenti complicità, i due fenomeni criminali sono profondamente diversi. Una differenza che è culturale e politica e che bisogna dunque perfettamente valutare quando si vuole definire l'identità dell'una o dell'altra, e capire quali siano i mezzi più opportuni per lottare. Sconfiggere tale fenomeno potrebbe sembrare realmente impossibile, in quanto andrebbe rimosso il territorio umano delle due regioni, per lottare contro una spirale di violenza che è diventata la tragedia più profonda del Sud, conduce allo sperpero di milioni di euro, costa ogni anno la vita ad almeno duemila esseri umani, contagia tutto il resto dell'Italia e che, attraverso un'umiliazione quotidiana, spesso sprezzante, sempre sanguinosa, aggrava la debolezza di uno Stato i cui connotati sono caratterizzati dalla gracilità, dalla paura, dalla stupidità. In Sicilia vive dunque da migliaia di anni una nazione senza Stato, ed a Napoli invece uno Stato che da secoli ha sopraffatto e talora schiantato la nazione, prevaricandola, angariandola, cercando di appropriarsi di ogni attività, idea, concetto della collettività. Napoli è la città nella quale il potere clericale in passato ha cercato persino di appropriarsi del teatro popolare, negandogli spontaneità, imponendogli liturgie, temi, conclusioni e persino norme drammatiche. Negli ultimi secoli prima gli spagnoli, poi i francesi, infine i Borboni e per ultimi i piemontesi hanno imposto la presenza ossessiva di uno Stato che cercava di governare anche nelle abitudini e nell'animo della gente. La presenza dello Stato a Napoli non è mai stato caratterizzato dalle buone leggi, ma dalle alte mura, dai gendarmi, dalle prigioni. Non è un caso che l'anima napoletana abbia cercato da secoli la sua libertà di esistere nell'unica, altissima condizione umana che nessun potere ha mai potuto sopprimere nello spirito di un popolo: la musica. La musica napoletana, per questo, è un continuo grido di amore, di bellezza e di libertà. Il siciliano è vissuto in uno spazio di solitudine dentro il quale le città erano solo capisaldi di inimicizie. Il napoletano è vissuto dentro una sola immensa città che è stata la sua unica nazione, il suo fantastico ma angusto spazio e quindi anche la sua prigione. Anche nella letteratura, i grandi narratori siciliani, Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Brancati, Vittorini, lo stesso Sciascia, raccontano soprattutto storie e drammi di individui dentro la società: i napoletani invece, Marotta, Viviani, Eduardo, raccontano soprattutto Napoli, popolata da una infinità di individui. In Sicilia la mafia, l'immensa, tragica, oscura forza criminale nasce così per sostituire lo Stato assente, per determinare leggi proprie al posto di quelle leggi che lo Stato non riesce a imporre, a stabilire un ordine, una sia pur barbara regola di vita. A Napoli la forza criminale, che non è una determinazione della storia e non ne ha quindi la tragica esperienza, grandezza e crudeltà, ma è soprattutto un prodotto umano della miseria, una necessità drammatica di sopravvivere, cerca disperatamente di ribellarsi allo Stato sempre presente e prevaricatore, e non potendo scegliere la rivolta armata, cerca di insinuarsi dentro lo Stato che già esiste, di conquistarlo dall'interno con un'opera di erosione pressoché invisibile che comincia necessariamente dal basso e coinvolge quasi tutta la collettività.| << | < | |